Devo molto ad Aurelio Picca. Lui non lo sa. Quando lessi un suo racconto, negli
Anni Novanta, sulla rivista letteraria “Clandestino” (credo s’intitolasse La
mano), mi si aprì un mondo, che si rovesciò addosso a me. Non pensavo si potesse
scrivere così. Fui stupito dalla libertà, e dal modo diretto di entrare nella
materia, fui sorpreso dal livello di espressione. Le immagini erano quasi
scolpite, direi in avanzamento vitale, si poteva vedere lo spazio che circolava
intorno, e la pressione della lingua che risultava essenziale alla pagina.
L’ossessione della realtà è il centro, fa perno, la frase gira, permette di
scorgere una prospettiva via via diversa del soggetto, dinamica nel cuore del
racconto: visione incisa a lama di coltello, o a punta elicoidale.
È la grande tradizione della prosa italiana, dei Comisso, Savinio, Malaparte,
Parise, Domenico Rea, Gadda, Testori. Credo che Picca abbia a che fare col corpo
incandescente della parola, e ci lavora sopra come un fabbro col ferro. Vengono
fuori la sua Roma, la provincia laziale, il gesto dello sportivo segnato dalla
totalità della vocazione, di vigore che vuol dirsi in tutto, in movimento di
vita che prende finalmente significato, per cui siamo saliti su un ring a
combattere, o la storia estrema che avrebbe potuto portarci da un’altra parte,
fuori strada, e invece no, o ce l’ha fatta con altri, nostri compagni, a cui
dobbiamo tutto. La strada, in questo caso, insegna, arriva a dire, a far capire
persino la solitudine del poeta, perché è mito generoso, radioso e salva. Nel
popolo vi è la conoscenza, questo popolo italiano che vuole rimanere
nell’origine, per orgoglio, tradizione, e morirci dentro.
La parola soprattutto merita, in quanto teatro dell’abisso, del tragico, che
coglie nello sguardo l’irresistibile forza che ci pervade.
> “Ho sempre sognato di ficcarmi nei loro occhi larghi e languidi come pianeti
> sconosciuti”.
L’autore sta parlando dei cavalli, una delle passioni di Aurelio Picca, che è
nel libro sullo sport, ultimo uscito, intitolato La gloria (Baldini + Castoldi,
2024). E ci affacciamo testa e collo, e spalle protesi sul mito dell’Italia che
è il mito dell’io. L’Italia è morta, io sono l’Italia (Bompiani, 2011), il suo
poema civile, scavo e risorgenza dal suolo profondo del nostro animo. Tutto è
carnale, ma lo spirito è nel palmo della mano, chiuso a pugno, e in cui sono
segnate le linee dell’amore, della fortuna, della salute, insomma il destino che
si nasconde a noi, o si rivela quasi in archetipo. Spirito dunque impiantato
nella superficie e nell’intimo, che in quanto carne risulta mistero. Come fa a
vivere? Questo stare sul limite lo caratterizza. Il suo stile è tutto. Lo stile
della scrittura, che è una gabbia, e lo scrittore la abita, ne sonda la
capienza, ci entra come in un abitacolo calzante. Prosa è ritmo che trascende
ogni forma, quotidiana e soprannaturale. Cosa cerca? È l’impulso acrobatico
della scrittura che persegue il reale; stare sul limite, a spigolo, per lanciare
alla terra e al cielo, nonché agli uomini, il proprio significato di eternità.
Conoscenza che non si compie mai, sempre tradita. Ci vorrebbe una prova
maiuscola per noi e conseguentemente per il mondo, che sia capace di guardare
oltre. Una prova stellata di cielo, per ripeterci quello che abbiamo perduto, e
rinnovarlo in modo da dirci chi siamo. Diventare piccoli, umili, per solcare
quel mare abbagliante di memoria, doloroso, verticale, e scrivere come il primo
scrittore del mondo, che non ha pari.
È un’immersione. Pensiamo a Se la fortuna è nostra (Rizzoli, 2011). C’è un
dramma del ringraziamento in quel romanzo, romanzo di famiglia, corale,
cristiano, e proprio perché cristiano impossibile, solo a costo di ricevere, per
mano di un altro; vocazione che si realizza, che si somma in ricordi,
riflessioni, descrizioni precise, da bulino che incide sulla lastra, scrive al
momento esatto di una trama, densa di compimenti… “L’ho compreso da poco” si
legge a pagina 174. Ciò che accade si compie in attesa rivelatrice, non
puramente rievocativa, infatti tutto si traduce in atto. Questa la sua tensione
interna, il suo moto lineare.
Anche la violenza, negata e affermata insieme, si apre su un quaderno le cui
pagine sono il corpo del Cristo che subisce e annulla il male, lo conferma come
negazione. Le vicende raccontate da Picca hanno sempre questo doppio registro,
ma per attraversarepienamente il corpo redento. Intorno sono seduti i maestri,
quelli che ho già citato, che guardano la scena, perché si configura un’azione
nel leggere, e accade, una dinamica incessante di energia letteraria,
raffreddata dalla parola poetica, che non smette di sondare il campo, l’immagine
che si è presentata agli occhi dell’autore, fino a trovare una sponda esemplare,
non per effetto, per dimostrazione di bravura, bensì in scoperta del senso,
quello che si opera in noi, di cui siamo opera.
Letteratura + identità, e più identità nel dire. Scorporarsi, annullarsi nel
cuore degli altri, che è il corpo di Gesù ma che è entrato nelle lettere, perché
è fatto di verità, di smascheramento. Pazzesca è l’intuizione del Gesù
mutilato (De Piante Editore, 2017), l’stinto di verità che si viene a proclamare
in scrittura! Egli non è il Verbo?, non è venuto per dirci?, per stare con noi?,
per incontrarci attraverso la parola e incarnare la sua fine?, e la sua
risurrezione non si può riconoscere e toccare?… Allora perché? L’autore continua
a interrogarsi. Ci credo che poi i suoi libri s’intitolano Addio, La gloria,
Sacrocuore, I racconti dell’eternità, il già citato Gesù mutilato, eccetera,
perché la parola nasce nel sorgere, o risorgere, e se si cade nel buio, il tempo
provvederà, la tragedia è comunque dell’amore, sconfina.
Adesso, mi chiedo: chi meglio del Nostro potrebbe dire le notti dei droni, i
cieli feriti dai traccianti, i colpi infernali che cadono improvvisamente sui
bersagli, devastando; lo smarrimento disarmato, la pietà, le macerie, il dolore,
la speranza che ci assale? Oggi è il mito, qui da noi, in pace, inteso come ogni
cosa che si specchia e risplende su schermi al lattice, o altro, ogni episodio
che precipita nella sua temporalità contingente, ed effimera, di vita vissuta
assistendo, nel sentimento, che s’illude di escludere la morte. La sua radice
sembra essere lì. Perché, comunque, la sua radice è profonda. Contiene anche il
nostro bisogno di assenza, di fuga, escapismo, mi hanno suggerito che si dice,
adesso lo chiamano così, che è il mistero del dileguarsi, della vita che ci
chiede di fare a meno della vita, come morti, sepolti, sottratti allo stupore
della rivelazione, ancora in atto.
Picca combatte, fa cura di frase perfetta, rotonda, lirica e realistica insieme.
Il gesto che si sporge a scrivere è mosso dalla dinamica luminosa
dell’intuizione: tutti i personaggi sono il Cristo! Lo scandalo è questo. Gesù
che si fa imbuto, scolo, canale folgorante delle parole, dell’ispirazione, del
senso. Ognuno che si destina agli altri è Lui, il Salvatore. Un atleta, un
amico, un animale, un albero, un cielo, una spiaggia, una casa, una città, una
terra, un mare. Prosa rastremata di orgoglio e santità, incanto e punizione.
Spesso sono i bambini a tenere la strada, a indicarla agli adulti, che non
vedono. Allora la pagina fa un salto, tutt’assieme prende a raccontare del
destino, o parte da quell’inizio, dall’infanzia, e si delinea, poi, col tempo,
verso una nuova era. Si ha l’impressione di una dipendenza, invece si tratta di
talento, vocazione alla totalità del racconto. Totalità innervata nello spirito,
tanto da proclamare un parallelo (gliel’ho sentito dire all’autore in
un’intervista) fra il gesto mortale dell’assassino, e quello generativo
dell’artista, in funzione di assorbimento, unione, interpreto io. La nostra
duplicità fusa nell’assoluto e placata, abbracciata. Ma senza dubbio, e in
conseguenza, la lancia ha dovuto colpire, il chiodo è entrato, ha lacerato. È
un’immagine difficile da spiegare, estrema, riguarda il cosmo.
Dal suo ultimo libro La gloria, che racconta delle imprese di famosi talenti
dello sport, come pure degli anonimi, ma non meno nobili, cito a pagina 175:
> “Io ho iniziato a scrivere con la morte del nonno; Luigi e Pier Vittorio hanno
> incominciato a sollevare pesi dopo le morti della madre e del padre”.
Arricchiti da questo passo, da qui in poi si potrebbe scrivere un altro
articolo, più profondo del presente, azzurro e cupo, di luce screziata,
affezionata al mondo, ai suoi paesaggi, alla sua gente, denso di poesia, di
umanità massima. Invece mi limito a riportare il racconto intitolato Il pesce,
tratto dalla raccolta I racconti dell’eternità (Nuova Compagnia Editrice, 1995).
> “La rete non si poteva neanche più chiamare rete, tanti erano i buchi che
> l’avevano strappata. Io, pazientissimo, ne sciolsi un pezzo. Poi presi due
> sassi e ce li legai. Così, col brandello del pescatore, mi misi immobile coi
> piedi nel mare. A quell’età non avevo mai visto pesce vivo. Né morto. Né
> speravo di catturarne. Attesi ore, gustando la noia di un precipizio
> intraducibile. Ma ecco che un pesce grosso come una mia gamba, si intrufola
> tra le maglie. È catturato. Mi fulmina la potenza. Non faccio altro. Lui è
> fuggito”.
Lo scrittore è assorto, nella pietà!
Vincenzo Gambardella
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Caro Giovanni Testori,
ti vedevo inevitabilmente alla stessa ora, quando, studente, uscivo
dall’Accademia di Belle Arti, e tu entravi in un palazzo di via Brera. Allora
(fine anni Settanta) eri molto famoso, si può dire che eri all’apice. Una
mattina ebbi il dubbio, un attimo prima di svoltare, di infilarti nel palazzo e
scomparire, che tu mi abbia rivolto un sorriso. Vera o non vera che fosse la mia
impressione, decisi di non passare più di lì. Fatto sta che questo è il mistero,
mi dico oggi, se sei uno dei miei scrittori preferiti, avendo letto tutto di
te.
Tempo dopo m’iscrissi all’università, e il corso di storia dell’arte verteva sul
Sacro Monte di Varallo. Passa ancora tempo e conosco Luca Doninelli, Davide
Rondoni, Emanuele Banterle, Riccardo Bonacina, e quindi mi arresi! Tu diverso
dagli altri, figlio di industriali, ma con una voglia antica di essere povero, e
perciò radicalmente cristiano. Ci si sente malati a pensarla così. La vita
giudica, è disperata, come te. Ecco perché la malattia vera ti ha spalancato le
porte al perdono. La Grazia che hai sempre voluto è arrivata nella carne. Da
malato l’hai conosciuta, vera malattia, non malattia psicologica o sociale,
bensì organica, di sangue, corpo che si appesta, dolore che si stringe intorno
ai nostri pensieri, ferita a cui occorre porre rimedio, che sanguina. Qualche
senso ce lo deve avere tutto questo! Il male non può significare la fine! Il
Cristo lo spiega, la Croce lo spiega.
Nei tuoi confronti mi sento come il mulo che portò Gesù, slegato, libero di
reggere un simile peso, il peso della Grazia, che arriva fino a te. Tradizione
che ci hai lasciato, consentimi, fuori dagli schemi. Tutto, tutto dice della tua
condizione, mentre gli altri recitavano un non-dialogo, o recita continuamente
interrotta, vale a dire, senza vocazione, quella che viviamo ancora oggi,
sommersi come siamo da distrazioni, vincoli, controlli, chiacchiere a vuoto,
convulse, alterate, per giunta, mentre tu sei per una rivoluzione spirituale,
d’esilio. Perché se il presente è l’esilio (è stato sempre come sentirsi soli!),
ebbene tu nella malattia hai trovato Gesù, l’hai abbracciato, desiderandolo in
misura maggiore che da sano. Tremo mentre te lo scrivo. Ma il discorso adesso
tende ad ampliarsi, in assonanza con la tua opera infinita. Ti dico che
cancellarsi nell’Altro è rivelare il divino dell’amore; lasciarsi condurre per
perdersi, è potere d’amore, e, allo stesso tempo, potere d’invio. Perciò nascita
e morte sono i due poli della tua opera. Ma in funzione di un dolore che ripara.
Ecco che l’arte potenzia la vita.
Non credo né nella tua istituzionalizzazione, né nella filologia (sebbene
rispetti entrambe le cose). Paradossalmente con quanto detto, non credo in
niente. Mi aiuta vedere quelli che si lamentano dell’eccesso che rappresenti,
che storcono la bocca per via di tutte le croci che hai descritto, ti sei
innalzato per cadere, in tutte le variazioni sparse fra i tuoi libri e drammi,
in cui hai sviscerato il tema. Non come variazioni, scusa, mi sono espresso
male, ma come senso del vero e proprio, come evidenza del vero, come
testimonianza, cioè tema antico, di natura libera, dolorosa.
In fondo è accaduto questo (forse lo sai) in Italia, nella tua Milano, di fronte
alla fine del mito della rivoluzione, si ritiene, oggi, sia meglio vada tutto in
malora, anzi, meglio prima accordarsi con tutti, fingere di essere ecumenici,
quando invece si coltiva la negazione, perché c’è ancora da vivere, e conviene
prima della fine.
La realtà è complessa. Lo dice la forma d’arte che hai preferito. Altro che
scuola di scrittura! Con te si scopre cos’è scrivere: ch’e’ ditta dentro.
L’interiorità è secondaria al dettato, o è sorella del dire, del rivelare. Da
dove viene questo?, me lo chiedo sempre. Dal mistero, io credo, mistero che ci
abita, sono convinto, e dunque sono con te. Mistero incarnato, ritengo, nel tuo
cono di luce, che si sottrae all’essere maestro, ma fatto di relazione,
impastato di tempo che si libera, matura, fonda imperi e solitudini; tuttavia
non cancella l’impressione che fa un bambino appena nato, e quanto il suo
organismo preveda tutto in potenza, anche se in forma minuscola, destinata.
La scrittura è desiderio, la scena è il corpo, la poesia si rivolge a qualcuno,
in cerca di avvenimenti. La poesia stessa è avvenimento, giacché ha forato la
maschera del linguaggio ed è apparso un volto nudo. Il travaglio, o lavoro, che
il poeta ha dovuto fare per arrivare a dire, riscatta il non detto, che è
silenzio contro la babele che ci sovrasta, che s’insinua fin dentro il nostro
cuore, “e reclama quell’essenziale della Parola di te in me” per dirla con
Michel de Certeau. Del resto si sentiva nel tono della tua voce, usavi un tono
di canto per dire persino le cose minime, ma che non erano mai banali. Sono
ancora lì, nei video che ci sono rimasti delle tue preziose interviste.
Occasioni per capire quanto ti spendevi per chiunque.
Una volta mi hanno raccontato che entrasti in un taxi e chiedesti al conducente
di portarti a Parigi, da Milano a Parigi. Leggenda o verità che sia, la uso come
spunto. Avrei voluto trovarmi al posto del tassista. Sì! Chissà che cosa vi
siete detti?, che discorsi avete intrecciato, di te innamorato, che andavi a
Parigi per amore. Cito da pagina 227 de “I trionfi” (Feltrinelli, 1965):
> “[…] così come si fondono, qui, in me
> le gioie dei tuoi occhi
> e in te
> le adulte mestizie
> e dolorose
> dei miei anni
> e andando poi così
> e disfacendo sé,
> nube ed amante,
> e l’una e l’altro sempre,
> insieme nel dolore
> d’una vita che vivere
> bisogna
> nell’attesa d’una più grande
> ombra
> che in sé ridisferà
> l’amarsi della vita
> nella sera
> e della sera nella vita,
> immensa e sacra sera
> che ormai s’è fatta ombra
> e si farà, tra poco, anche per noi
> più lunga e sacra luce”.
Il sacro, certo, la sacralità della vita, di tutto, anche quello che ci opprime,
soprattutto quello, come ti ho detto fino ad ora, si può dire che non ho fatto
altro che dire questo, che l’intera lettera a te non vuole che ribadire.
> “Va la carcassa atavica;
> s’aggrappa sanguinante
> ai templi,
> alle rovine millenarie,
> la spinata testa
> cancerosa”.
La poesia va avanti, ed è tratta da un tuo libro del ‘94, riedito da Scheiwiller
nel 2002. È questa la gloria che cerchi? Non a caso il libro s’intitola “Segno
della gloria”. Che è anche culto di bellezza, ma si ottiene solo a prezzo di
dura nevrosi. Perché la gloria è mito, o trasfigurazione, o sacrificio in
segreto di disporsi a questo estremo sogno, estremo ideale carnale di teatro
immaginario, eppure luogo per ciò che si vive, che si vuol vivere, fino
all’ultimo. Riporto la postfazione al libro di Carlo Bo:
“Questa che suona come una farneticazione poetica è in realtà il testamento, uno
degli ultimi testamenti che Testori ha lasciato al suo amico Gabai e a tutti gli
uomini […] Non mi sembra che molti altri siano andati così lontano
nell’interpretazione della vita; di solito si procede per speculazioni limitate,
si accumulano delle piccole verità parziali e così facendo si tende a rimettere
nelle mani di un potere senza nome i nostri giorni, al contrario Testori non si
dà per vinto, preferendo la lotta che prelude alla sconfitta e una visione
catastrofica dell’esistenza, dove pure respira, se non l’idea, l’aspirazione
verso Dio: questo anelito che ha contraddistinto tutta la sua travolgente
ricerca”.
Ecco che cosa hai cercato, quella testa di re incoronata di spine. Tutta la
vita, questo, questo! E tu stesso testa di gloria, fatto di vita gloriosa, che
non si piega al “commercio dei dolori e delle pene e immagina di restare attore,
anche se attore perdente e incapace di trovare un rimedio” (sempre Carlo Bo).
Pensa se non ti dicessi che questa tua nevrosi ti ha salvato, e parimenti la tua
malattia, rendendoti moderno, vicino, fratello di tutti, di noi ansiosi di
comprendere che cosa ci fa uomini, ognuno col suo cruccio da vivere, di essere
per qualcosa. Non sarebbe gloria lo stesso?
Vincenzo Gambardella
*In copertina: Festa a Villa Il Tasso, casa di Roberto Longhi e Anna Banti, per
i primi 100 numeri di “Paragone”, 1958: a destra, Giovanni Testori, al centro,
Roberto Longhi (Archivio Giovanni Testori).
L'articolo “Più lunga e sacra luce”. Una lettera a Giovanni Testori proviene da
Pangea.