Caro Giovanni Testori,
ti vedevo inevitabilmente alla stessa ora, quando, studente, uscivo
dall’Accademia di Belle Arti, e tu entravi in un palazzo di via Brera. Allora
(fine anni Settanta) eri molto famoso, si può dire che eri all’apice. Una
mattina ebbi il dubbio, un attimo prima di svoltare, di infilarti nel palazzo e
scomparire, che tu mi abbia rivolto un sorriso. Vera o non vera che fosse la mia
impressione, decisi di non passare più di lì. Fatto sta che questo è il mistero,
mi dico oggi, se sei uno dei miei scrittori preferiti, avendo letto tutto di
te.
Tempo dopo m’iscrissi all’università, e il corso di storia dell’arte verteva sul
Sacro Monte di Varallo. Passa ancora tempo e conosco Luca Doninelli, Davide
Rondoni, Emanuele Banterle, Riccardo Bonacina, e quindi mi arresi! Tu diverso
dagli altri, figlio di industriali, ma con una voglia antica di essere povero, e
perciò radicalmente cristiano. Ci si sente malati a pensarla così. La vita
giudica, è disperata, come te. Ecco perché la malattia vera ti ha spalancato le
porte al perdono. La Grazia che hai sempre voluto è arrivata nella carne. Da
malato l’hai conosciuta, vera malattia, non malattia psicologica o sociale,
bensì organica, di sangue, corpo che si appesta, dolore che si stringe intorno
ai nostri pensieri, ferita a cui occorre porre rimedio, che sanguina. Qualche
senso ce lo deve avere tutto questo! Il male non può significare la fine! Il
Cristo lo spiega, la Croce lo spiega.
Nei tuoi confronti mi sento come il mulo che portò Gesù, slegato, libero di
reggere un simile peso, il peso della Grazia, che arriva fino a te. Tradizione
che ci hai lasciato, consentimi, fuori dagli schemi. Tutto, tutto dice della tua
condizione, mentre gli altri recitavano un non-dialogo, o recita continuamente
interrotta, vale a dire, senza vocazione, quella che viviamo ancora oggi,
sommersi come siamo da distrazioni, vincoli, controlli, chiacchiere a vuoto,
convulse, alterate, per giunta, mentre tu sei per una rivoluzione spirituale,
d’esilio. Perché se il presente è l’esilio (è stato sempre come sentirsi soli!),
ebbene tu nella malattia hai trovato Gesù, l’hai abbracciato, desiderandolo in
misura maggiore che da sano. Tremo mentre te lo scrivo. Ma il discorso adesso
tende ad ampliarsi, in assonanza con la tua opera infinita. Ti dico che
cancellarsi nell’Altro è rivelare il divino dell’amore; lasciarsi condurre per
perdersi, è potere d’amore, e, allo stesso tempo, potere d’invio. Perciò nascita
e morte sono i due poli della tua opera. Ma in funzione di un dolore che ripara.
Ecco che l’arte potenzia la vita.
Non credo né nella tua istituzionalizzazione, né nella filologia (sebbene
rispetti entrambe le cose). Paradossalmente con quanto detto, non credo in
niente. Mi aiuta vedere quelli che si lamentano dell’eccesso che rappresenti,
che storcono la bocca per via di tutte le croci che hai descritto, ti sei
innalzato per cadere, in tutte le variazioni sparse fra i tuoi libri e drammi,
in cui hai sviscerato il tema. Non come variazioni, scusa, mi sono espresso
male, ma come senso del vero e proprio, come evidenza del vero, come
testimonianza, cioè tema antico, di natura libera, dolorosa.
In fondo è accaduto questo (forse lo sai) in Italia, nella tua Milano, di fronte
alla fine del mito della rivoluzione, si ritiene, oggi, sia meglio vada tutto in
malora, anzi, meglio prima accordarsi con tutti, fingere di essere ecumenici,
quando invece si coltiva la negazione, perché c’è ancora da vivere, e conviene
prima della fine.
La realtà è complessa. Lo dice la forma d’arte che hai preferito. Altro che
scuola di scrittura! Con te si scopre cos’è scrivere: ch’e’ ditta dentro.
L’interiorità è secondaria al dettato, o è sorella del dire, del rivelare. Da
dove viene questo?, me lo chiedo sempre. Dal mistero, io credo, mistero che ci
abita, sono convinto, e dunque sono con te. Mistero incarnato, ritengo, nel tuo
cono di luce, che si sottrae all’essere maestro, ma fatto di relazione,
impastato di tempo che si libera, matura, fonda imperi e solitudini; tuttavia
non cancella l’impressione che fa un bambino appena nato, e quanto il suo
organismo preveda tutto in potenza, anche se in forma minuscola, destinata.
La scrittura è desiderio, la scena è il corpo, la poesia si rivolge a qualcuno,
in cerca di avvenimenti. La poesia stessa è avvenimento, giacché ha forato la
maschera del linguaggio ed è apparso un volto nudo. Il travaglio, o lavoro, che
il poeta ha dovuto fare per arrivare a dire, riscatta il non detto, che è
silenzio contro la babele che ci sovrasta, che s’insinua fin dentro il nostro
cuore, “e reclama quell’essenziale della Parola di te in me” per dirla con
Michel de Certeau. Del resto si sentiva nel tono della tua voce, usavi un tono
di canto per dire persino le cose minime, ma che non erano mai banali. Sono
ancora lì, nei video che ci sono rimasti delle tue preziose interviste.
Occasioni per capire quanto ti spendevi per chiunque.
Una volta mi hanno raccontato che entrasti in un taxi e chiedesti al conducente
di portarti a Parigi, da Milano a Parigi. Leggenda o verità che sia, la uso come
spunto. Avrei voluto trovarmi al posto del tassista. Sì! Chissà che cosa vi
siete detti?, che discorsi avete intrecciato, di te innamorato, che andavi a
Parigi per amore. Cito da pagina 227 de “I trionfi” (Feltrinelli, 1965):
> “[…] così come si fondono, qui, in me
> le gioie dei tuoi occhi
> e in te
> le adulte mestizie
> e dolorose
> dei miei anni
> e andando poi così
> e disfacendo sé,
> nube ed amante,
> e l’una e l’altro sempre,
> insieme nel dolore
> d’una vita che vivere
> bisogna
> nell’attesa d’una più grande
> ombra
> che in sé ridisferà
> l’amarsi della vita
> nella sera
> e della sera nella vita,
> immensa e sacra sera
> che ormai s’è fatta ombra
> e si farà, tra poco, anche per noi
> più lunga e sacra luce”.
Il sacro, certo, la sacralità della vita, di tutto, anche quello che ci opprime,
soprattutto quello, come ti ho detto fino ad ora, si può dire che non ho fatto
altro che dire questo, che l’intera lettera a te non vuole che ribadire.
> “Va la carcassa atavica;
> s’aggrappa sanguinante
> ai templi,
> alle rovine millenarie,
> la spinata testa
> cancerosa”.
La poesia va avanti, ed è tratta da un tuo libro del ‘94, riedito da Scheiwiller
nel 2002. È questa la gloria che cerchi? Non a caso il libro s’intitola “Segno
della gloria”. Che è anche culto di bellezza, ma si ottiene solo a prezzo di
dura nevrosi. Perché la gloria è mito, o trasfigurazione, o sacrificio in
segreto di disporsi a questo estremo sogno, estremo ideale carnale di teatro
immaginario, eppure luogo per ciò che si vive, che si vuol vivere, fino
all’ultimo. Riporto la postfazione al libro di Carlo Bo:
“Questa che suona come una farneticazione poetica è in realtà il testamento, uno
degli ultimi testamenti che Testori ha lasciato al suo amico Gabai e a tutti gli
uomini […] Non mi sembra che molti altri siano andati così lontano
nell’interpretazione della vita; di solito si procede per speculazioni limitate,
si accumulano delle piccole verità parziali e così facendo si tende a rimettere
nelle mani di un potere senza nome i nostri giorni, al contrario Testori non si
dà per vinto, preferendo la lotta che prelude alla sconfitta e una visione
catastrofica dell’esistenza, dove pure respira, se non l’idea, l’aspirazione
verso Dio: questo anelito che ha contraddistinto tutta la sua travolgente
ricerca”.
Ecco che cosa hai cercato, quella testa di re incoronata di spine. Tutta la
vita, questo, questo! E tu stesso testa di gloria, fatto di vita gloriosa, che
non si piega al “commercio dei dolori e delle pene e immagina di restare attore,
anche se attore perdente e incapace di trovare un rimedio” (sempre Carlo Bo).
Pensa se non ti dicessi che questa tua nevrosi ti ha salvato, e parimenti la tua
malattia, rendendoti moderno, vicino, fratello di tutti, di noi ansiosi di
comprendere che cosa ci fa uomini, ognuno col suo cruccio da vivere, di essere
per qualcosa. Non sarebbe gloria lo stesso?
Vincenzo Gambardella
*In copertina: Festa a Villa Il Tasso, casa di Roberto Longhi e Anna Banti, per
i primi 100 numeri di “Paragone”, 1958: a destra, Giovanni Testori, al centro,
Roberto Longhi (Archivio Giovanni Testori).
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