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“Custodisci il fiore dell’origine”. Lettera di Vincenzo Gambardella a Marco Maraldi
Caro Marco Maraldi,  le scrivo col cuore in mano per ringraziarla della parola di cui si è fatto carico, parola nuova che ha avuto animo di scrivere, quasi pronunciare, e che dilaga a fiotti, incessantemente, dalle pagine del suo libro Assalti (Fallone Editore, 2025). > “senza scendere non troverai nel temporale > delle ustioni un’impronta solo tua” > > Tutto è morto > qui – le galassie > hanno preso anche la neve. > Tutto è morto > e insepolto tutto è > morto perché non fa > silenzio, > qualcosa ancora tace. > Sulle reni scucite il vestito > batte piano > il calendario di un’ascesa infinita. > Non hanno trovato impronte > nell’inverno della cenere.  Parola escatologica, cercata lontano, dopo la fine. Prima della parola sfinita, appena un attimo prima della sua manifestazione ultima, insomma all’origine e prima… diciamo prima di Hopkins, prima di Ungaretti, prima di Péguy, prima di Rebora, prima di Eliot, prima di Turoldo, prima di Testori, prima di Luzi.  > “Baciami che io… ti segno dammi il pane… del collo, i milligrammi del respiro… > la sostanza… non sono vergine… sono grande e ho una potenza che gli altri… non > mi credono… ti voglio mostrare… baciami che io… ti segno che ti marchio a… > febbre… non lo nascondere così… ti riconosco ci sarà… tempo… ci sarà un segno > per ammazzarci nella polvere”. Più che una preghiera è una confessione, o quello che resta, imploso nel sentimento di verità raggiunto. Sentire come evento, come fulmine, o saetta che avverte l’effetto impareggiabile del mistero. Arrivo perfetto e imprevisto, temuto. Luce che sbianca nella luce altra e incandescente del dire. “[…] custodisci il fiore dell’origine […]” (pag. 48). Spirito di ferro fuso, o rosa pura scossa dal vento, sul ciglio di una voragine. L’impeto dell’essere, investiti da questo, del sentirsi destinati a questo. Ogni fulminazione sembra l’ultima e invece rappresenta un avvento, in quanto parola che si sta significando nell’attimo stesso del dire, dello stare sul limite e toccarlo: Dio è frantumato, invocato, attraversato, abbracciato, scandito, immaginato. Nella prospettiva del mondo attuale “che risponde al progressivo cancellarsi di Dio come Unico oggetto d’amore” (Michel de Certeau). Perciò esporsi significa testimoniare (malgrado tutto!), raggiungere uno sconfinamento, affinché il vissuto possa vivere negli altri, non gli ipocriti lettori (sebbene fratelli), ma voce rivolta a buone volontà incarnate nel sapere, o della visione alimentata dal sapere; spalancate, comunque, sul petto di Dio battente al suolo: voce offerta con slancio. > “Sei solo un’eco della divinazione. Non essere riconsegnato alla volgarità di > avere un nome. Nessuno in te all’infuori di me – i fiori della grazia sono > brace in bocca. Hanno cieli negli occhi e chiodo notturno. Tu rinasci > nel senzanome. Dormi adesso, dormi – le parole sono piene di punte”. Risuonano l’argento e l’azzurro dei Salmi (l’argento che riflette e l’azzurro che assorbe il lampo della luce perenne). Che forza! Riecheggia tutto in sillabe di sonagli che scoprono un canto scavato, scoperto laggiù, nel tempo (il prima che dicevo, il prima che indica una radice mistica), e ora raggiunto. Poesia che nasce per essere Lui, non come Lui. Insomma chiedere l’impossibile, perché è Lui che fa. > “C’è una lingua che non vuol parlare, > infatti vuole solo accadere”. Questi i due versi in esergo. Poi, a stringere i tempi, o l’intero spazio poetico, che ha ansia di anticipare, ecco che si annuncia il riconsegnato. All’elenco delle parole redatte dal profondo prefatore del libro, Lorenzo Chiuchiù, e cioè esilio, rivolta, sacrificio, verginità, aggiungo un’altra parola-chiave: riconsegna. Chi è il riconsegnato? Etimologicamente: ri è il prefisso che restituisce e ripete il segno che sigilla, e l’azione del donare. La riconsegna è all’amore, e la parola è un’offerta. Adesso c’è un nuovo pensiero da fermare sulla carta, che equivale a un’immersione. Non è poesia comune, sta piantata nel cuore, ed è strumento di ricerca e di strazio. Che sia desiderio?, che si voglia dar fibra, adoperandosi così a un desiderio d’infinito? Giacché c’è un grido dopo ogni segno d’interpunzione, come a dire: finché ho fiato io ti cerco, io ti nomino. Il suo bussare batte e ribatte alla porta senza tregua, per conoscere, ecco il perché, l’esigenza, della parola, del discorso poetico.  Discorso impervio, eppure proprio da qui viene la spinta a capire, a cercare d’interpretare una forma che pur nel suo espressionismo appare calibrata ad alzare arcate su arcate architettoniche di pietre e fango, capaci di stare contro il cielo, in rigoroso e innamorato disegno. Confesso: di fronte a questo, io avverto la mia povertà, la mia miseria, ho paura di violare tutta questa bellezza, tutta questa grazia! > “Stelle del digiuno latte > del firmamento, c’è > l’ignoto a penetrare l’universo > della fronte, quando anche il pane della terra riceve la sostanza > > sei solo e questa sete è già un miracolo. Sei nato riconsegnato, ed ecco: un > non-pensiero si annida lì, colpevole nel sangue ascetico. Sei nato > riconsegnato: con le sillabe in lotta e una lama che divora. Non hai chiuso > gli occhi, poi ti abbiamo medicato le mani, ferite d’inchiostro… non ci hai > avvertito (– bevi: questo è il destino; – bevi: è vino che ustiona; – benedici > il flagello: questa è la carezza”. P. S. Il nascere, ovvero: l’uomo e la parola si rinnovano. Ce n’è bisogno, ché senza la poesia ogni cosa è spenta, ogni cosa è inutile. Alla riconsegna si lega il tema dell’evento, va sottolineato. Sempre citando de Certeau, si può dire che “il libro preserva un segreto che non possiede”. Il che è il massimo della relazione. Splendido! Vincenzo Gambardella *In copertina: Giorgio Morandi, Vasi su un tavolo, 1931  L'articolo “Custodisci il fiore dell’origine”. Lettera di Vincenzo Gambardella a Marco Maraldi proviene da Pangea.
September 6, 2025 / Pangea
“Chi ha davvero il coraggio di essere sé stesso?” Lettera di Vincenzo Gambardella a Maria Borio
Gentilissima Maria Borio, mirabile è la sua poesia, ogni parola è un oltre. Distanza che avvicina, sapendo che è impossibile afferrarla. Quindi sono andato con questo animo alla casa editrice che ha pubblicato Prisma (Zacinto Edizioni, 2022), per acquistare il libro, nonostante nessuno si muova più in questo modo, e per tali ragioni. Attualmente non c’è bisogno, tutto è a portata di mano, tutto ti arriva a casa, anche se lontano da noi. I palazzi, le persone, si torna a distruggerli, ma qui si può dire che siamo nella comodità, nel digitale, nel servizio, dunque io che ci faccio in giro per Milano?, animato da buone intenzioni, sfidando pioggia, umidità della giornata, il quartiere che non conosco, il campanello dell’editore non funzionante, chissà poi per quale motivo. Ma non importa, mentre mi lamento del così poco, del gratuito che mi arriva, chiedendomi addirittura perché non è di più.  Invece la sua poesia lo è, e non creda che parli a seguito di emozione superficiale, ho solo entusiasmo per ciò che è complesso, e compiuto in anticipo. Complessità della forma e maturità di pensiero, di direzione, finanche, e aggiungerei di senso, di racconto. Mettiamola così! Infatti ho l’impressione che si voglia raccontare qualcosa qui, dentro questi versi, trattandosi di una traccia che inizia e s’interrompe, non scompare, sebbene resti fragile alle spalle, nel tempo, ma ancora profonda, se ne distingue il segno, ripeto, a tratti inafferrabile, solo a tratti, mi viene da ribadire, ma è per prendere tempo, io credo, prima di recuperare il fiato, stando in surplace come i ciclisti delle gare di velodromo… Ecco, ora è visibile, è sotto i nostri occhi, nel profilo del libro, o plaquette che si voglia chiamare. Volume sottile ma tanto più raffinato nella sua veste, nella sua forma agile, priva di peso, o peso di farfalla, molto piacevole da tenere in mano, per via della leggerezza e della facilità di sfogliarlo, di possederlo. Che sia questo? Voler essere ciò che non è possibile in vita, di rimando ad altro, paradosso della poesia, si potrebbe dire, eppure raggiunto nella forma editoriale, perfettamente identificato con le parole, coi versi, e, allo stesso tempo, sempre al limite di questo, per incommensurabile parola… >                               […] Fissa il blu mentre rotea > e i salti multi-dinamici, immagina le cellule e i pixel > come le strategie dei video giochi riproducono le paure […]  Diventare parole, parole di senso, del significato che si offre fuori, ai nostri occhi, nell’oggetto che abbiamo davanti a noi e corrisponde alle parole stampate, nelle parole che siamo e non siamo, nel trasceso, persino nella domanda, di essere pienamente in quella, sfidando la tradizione, la litania, la sequela, quell’intensa vertigine e ripetizione che si coglie, concrezioni di senso come stalattiti-stalagmiti che si ergono nelle grotte primordiali, tese a unire lo spazio, quasi a dirci chi siamo, che relazione siamo, per fermare il tempo. Sorpresa della forma che, per ciò che si configura, è il linguaggio, e deve ancora venire (se ha creato il futuro, cosa ci verrà in sorte?).  Mi fermo, sostituisco alla mia mancanza i suoi versi. Ad esempio all’inizio, il bell’inizio, l’attacco, radicale, monologante, imprevisto per la novità della voce, del ritmo, nel sentimento diretto, riconoscibile alla coppia occhio-esperienza, verità-mistero, amore-conoscenza, affermarsi-non essere. Il titolo è L’orecchio sulla mano. Sto per parlare:              la corrente che ci tiene in vita è identica alla cosa più semplice –               senza pensare riconosci sempre la luce che buca il ciliegio? –               anche se non lo hai mai visto, non serve. Stai per parlare:              per, la parola più facile, può trasformarsi in molto divertimento –              vorresti essere giovane o indefinibile? Digita LOL al posto di TVB              Lost of love per Ti voglio bene quando il mondo era più piccolo               e ora in sovradimensione… ma LOL vuol dire sempre luce che rompe le cose? […] Ecco, il suono sta per parlare. Cosa?              Sì, un prisma di voce, e tu sei sempre giovane, mentre il tratto della penna scioglie il sudore lentamente              in fiori liquidi – che cosa perfora la luce? […] È squillante il tono, riverbera, s’irradia, mi viene da dire, ma è l’immagine che si vuol veicolare (veicolare va bene?) in parola che accompagna, che fa risaltare il modello, che è come se si potesse ancora dire l’amore, quando questo non è più. Allora cos’è? Senz’altro non è il farceladi oggi, sentirsi condizionati da questa febbre che ci pervade, non ci fa mai stare nelle cose, nei sentimenti, nell’esperienza. E sfugge, sfugge!, corre avanti. Malattia del pensiero, dei nervi, dell’agitazione nel programmarsi compulsivo, nella paura del fallimento. L’amore continua ad essere nelle sigle del gergo digitale, la poesia non ne sa fare a meno, non può farne a meno, è una confessione di adesione alla realtà, al discontinuo. Eppure c’è ancora la realtà e l’amore per essa, mi pare di capire, sta sulla superficie ed è nel profondo, come il mare. È il paradosso del poeta! Il bello è che non è nemmeno quello che desideravamo, nemmeno quello che ci aspettavamo. Questa la sua forma, la sua apparizione, in sintesi, mirabile sintesi! Altrimenti come si fa a scriverne?, intendo scriverne meglio, toccando le corde del limite, del linguaggio estremo, simile a corde dure e spesse di un contrabasso, che vibrano fino a far male le dita quando non le contieni. Stupisce che alla morte non ci si pensa, almeno non molto, forse perché prima bisogna vivere, prima viene il dato di realtà, che sembra incredibile possa esistere ancora, visto gli assalti che ha ricevuto, e il tono visionario che mantiene. Frutto dei tanti film che ci hanno formato, hanno plasmato il nostro vissuto, il nostro inconscio. Ma attenzione, c’è in gioco la verità, e ci rivela. “Dove siamo autentici?”, si dice a pagina 27, nella poesia intitolata Nella quarta dimensione, di cui riporto l’incipit, che ha alla fine della prima strofa una domanda fondamentale. > Primo tipo di figura – spirale. Secondo tipo – cerchio. > Aumentando la frequenza – rombo. Quarto tipo – parallelepipedo > in bidimensione, tridimensione… chiudi gli occhi e sei nella quarta. >              Chi ha davvero il coraggio di essere sé stesso? […] Mai libro fu più compatto nel suo genere, nella sua materia. Libro materico e di pensiero, allora. Ne è valsa la pena comprarlo, leggerlo, penso io, soprattutto per la identità che manifesta fra autore e forma grafica, compresi carta, corpo della parola, immagine di copertina, e rimandi, rimandi: illustrazioni, note, citazioni… Bisognerebbe studiare i rapporti, le analogie, fra caratteristiche fisiche del poeta e sue poesie (di lui), oppure i luoghi frequentati dal poeta e i suoi versi, ci dev’essere senz’altro un legame. E insisto, mi pare di trovare un punto che adesso è chiaro. Qui è saldo. Riferendomi a quanto detto poc’anzi sul rapporto, in particolare il territorio nativo o acquisito che influenza il poeta, in qualche modo descrive un’appartenenza, giacché il tema di Prisma è la relazione, gli scarti che essa impone al viverla, e dove la preferenza sembra essere la staticità, o il tono contemplativo, nel vario mondo dinamico che ci attraversa e ci chiede nuovi adattamenti, spesso dolorosi, nonché risposte. A questo proposito le suggerisco (è pubblicata su internet: “Sinestesie” on line, n.45, gennaio ‘25) l’interessante lettura che lo studioso Epifanio Ajello fa del libro Isola di Alfonso Gatto, nella lontana edizione del 1932, comparando ispirazione a segno tipografico della stampa. Nel suo libro, Maria Borio, si trova una rilevanza, come le ho detto, ed è un abisso di energia verbale a cui assistiamo, in reazione al vuoto vissuto, in contrasto originario con paure, incoerenze, ostacoli, delusioni, limiti.  È una parola temprata la sua, ispirata, disposta a tutto pur di infiammarsi o incrinare la superficie di ghiaccio che ancora siamo. La risposta – il profilo intenso, drammatico – le sta accanto, è nella sua terra, nel suo cuore.  > […] Ogni carica opposta può essere letale: il vento in sé > trascinava la montagna, un ululato dal pozzo etrusco >             prolungato e nero… […]  Vincenzo Gambardella *In copertina: un disegno di Guido Reni (1575-1642), “Studio di putti in volo” L'articolo “Chi ha davvero il coraggio di essere sé stesso?” Lettera di Vincenzo Gambardella a Maria Borio proviene da Pangea.
August 11, 2025 / Pangea
Il libro come essere vivente. Su “Gli istrici”, un romanzo di Valentina Di Cesare
Cos’è che mi fa scrivere?, s’impone?, a me che non sono nessuno. Il mistero s’insinua e prevale. La trance, lucida, precisa, è generativa. Ma si potrebbe continuare all’infinito. Anche questa mia abitudine a ripetere la parola tutto. L’ho notato, c’infilo sempre la parola tutto da qualche parte, prima o poi, e devo negarla per evitare il condizionamento. Il tutto ha totalità di emergenza, richiama a dire l’abbraccio grande che mi circonda, perché dev’essere grande, in grado di comprendere l’uomo intero, di accoglierlo. Ma quale uomo? Quello che si affida alla parola, all’ascolto, che non tende a dire se stesso, lui e basta. Kafka, in un suo racconto intitolato Descrizione di una battaglia, scritto col suo amico Max Brod, fa dire a un pazzo: “Io vivo affinché gli altri mi guardino”. Credo che Kafka si opponesse a questo. Non giudica, è attratto dall’estremo, è sorpreso e ne ha pietà. Egli prefigura il mondo di oggi. Farsi notare a ogni costo. Ecco la stortura, il malanno, e senza sapere che malattia è. Godere di quel minuto di fama che è il niente, il mio niente. L’apoteosi che non sono. Se penso a come scriveva Ungaretti nelle trincee della Prima guerra mondiale, piantato dentro il fango, utilizzando quello che trovava, scarti di giornali, pezzi di cartone che racimolava. Quei frammenti stabilivano già il respiro della lirica, l’impaginazione era in quel formato esile. Possiamo dire ritagli di sangue, il corpo delle cose martoriate, mutilate, resistere con la poesia alla paura, alla morte vicina, al fatto che domani potrei non esserci più. Che lezione! Si scrive sul confine, nel tempo che c’incastra e decide chi siamo. A questo punto dico: chi è Valentina Di Cesare se non una scrittrice, e insieme una madre, una moglie, un’insegnante di Lettere nella scuola secondaria di primo grado, e lingua italiana per gli studenti stranieri. Non la stessa trincea di Ungaretti, certo, ma se ci penso mi vengono i brividi. L’amore per la Letteratura, per la scrittura sono quelli, si dichiarano nel cuore, si consumano e si esprimono lì, nascono come un figlio nel chiuso di un abisso, e più va scurendosi il desiderio, più aumenta l’assillo di vederlo nascere, di voler essere con lui… Più il seme si fa luce, sotterrato nella carne, più scoppia di vita, esplode la sua natura. Gli istrici (Caffèorchidea Edizioni, 2025) sono questo, l’ha scritto Valentina Di Cesare. Potrebbe continuare in avanti e oltre la fine per chissà quante pagine, in quanto trasborda e suggerisce ancora altra vita. La vitalità, l’energia che trasmette, risiede nel suo io, un cuore che a ogni pagina si apre, e verso cui corre come in faccia al vento, o nel solco di una strada che si rinvigorisce e si delinea sempre di nuovo, a mano a mano che prosegue, nelle sue vicende e nei suoi personaggi, che ne rappresentano la voce, l’io in cui abitano e s’intessono i discorsi, i pensieri, le parole. Quattro nature, quattro protagonisti, come le nostre stagioni, per dire quanto è grande il tempo, quanto è grande la vita, e densa, umile, impareggiabile, spettacolare, ricca. Gli istrici è un libro che vuole essere amato, per la sua quieta vitalità, ancora in essere quando il romanzo è compiuto, che non pare finito allo scoccare dell’ultima parola. Perché Gli istrici non tende a contrarsi, ad avvitarsi in iperbolici avvitamenti, tende bensì a fiorire, a immaginare. > “Più di una nuvola aveva confuso le stelle quella notte e i bagliori si > vedevano appena […] Quasi che si trattasse di un accordo con la luce […] > Iniziava di nuovo il mondo […] e gli sterrati storti […] qualche baracca > sbieca […] tutti gli usci erano serrati”. È l’inizio del romanzo, ma come l’ho letto io, con un’invenzione mia, arbitraria direi, si vede dalle parentesi quadre che ho innestato dove manca il testo, agendo in levare al fine di far procedere a salti la scrittura, che non si deforma, non si decompone, non si sgualcisce, nonostante il mio personale intervento, anzi, il miracolo è lì, resta unitario il dettato, per dare risalto al pensiero, la sua natura, la forma che procede per punti nodali, quasi inavvertiti dal lettore, per cui si può dire che il mio esperimento è riuscito: riportare la caratura del linguaggio (significativa, intatta, unitaria) alla luce, anche se sottratta di alcune parti. La luce, questo il sugo dell’incipit! Così ho deciso: dimostrare il sunto di una prosa fatta di contrasti, che rimanda alla sua complessità. L’autrice non me ne voglia. Più avanti, a pagina 53, il passo del racconto si fa elegante, pur restando descrittivo, ma ora nell’obiettivo di un chiaroscuro che lo distingua (stavolta la pagina è rimasta integra):  > “Certi giorni di novembre, alcuni vicoli deserti davano l’impressione di > essere più stretti, quando si sentiva scalpitare l’acqua dalle grondaie già di > prima mattina, e i tronchi degli alberi sulle montagne intorno si ergevano > come grigie lame di ferro incolonnate”. E le cose, a pagina 77, gli ambienti, sono il correlativo oggettivo del personaggio, particolarmente vissuti, esperienza che si compie, mistero, passato, memoria che non svanisce, nella scoperta che si presenta col suo carico umano di stupore.  > “Era scalza. Iniziò silenziosamente a gironzolare per la casa, andando prima > nel bagno a piano terra, quello con la piccola finestra che l’aveva sempre > incuriosita da fuori e poi in salotto, la stanza che Francesca teneva sempre > chiusa. Cercandone a tentoni l’interruttore, Carla sentì già infilando la > mano, che quella stanza era più fredda rispetto alle altre. Annusò l’aria e > subito intese che lì non v’era l’odore delle altre camere, nonostante > campeggiasse in mezzo al grande tavolo un contenitore di fiori secchi e foglie > colorate che emanavano un vecchio profumo. Con le labbra semiaperte e gli > occhi attenti, Carla visitò quella stanza dalle finestre sbarrate, mentre > lasciava correre la piccola mano sul ripiano del mobile a muro”. Ed ecco il tema principale del libro, che appare all’improvviso, a pagina 144. “Sapete che per paesi come il nostro vanno bene solo le lacrime di nostalgia?”. La solitudine. È il motivo per cui Valentina Di Cesare ha scritto il romanzo, per esorcizzarla, penso io, per conoscerla profondamente, e così combatterla.  Il valore de Gli istrici risiede in questo corpo a corpo. Ne è valsa la pena. Tutti i personaggi sono soli. Qui il libro resta nudo. La scrittura si avvolge intorno alle cose per vestirle di compassione, sebbene circospetta, perché occorre descrivere, la scrittura ha le sue regole. E poi la nudità ferisce, si pensi al Cristo in croce, e non si vuole. C’è orgoglio, distanza, le montagne dell’Abruzzo sono giganti impossibili. Da un lato assistiamo alla fuga, dall’altro si afferma la resistenza degli uomini, la fedeltà a quell’isolamento, in fondo così amato. Se c’è un destino è l’amore. L’amore cristiano, quando è nudo e celestiale di risurrezione, non chiede di soffrire, è consapevolezza di ciò che saremo. La dualità porta scontento. Il desiderio si abbassa fino a terra, è simile a qualche animale che scorrazza libero. Eppure, è proprio la natura che ricompensa, in quanto la natura predomina nel romanzo, fa impressione vedere com’è piccolo l’uomo in quegli scenari.  Mi sono appuntato una frase (o me la sono sognata?): “Le piccole salvezze gliele offrivano gli animali”. Piccole per pudore o per diffidenza?, mi chiedo. Il corpo s’impone e gli sbarriamo la strada, ci dice dove andare, ma noi preferiamo la sconfitta dei pensieri, il rimuginare sempre e ancora. Ma anche l’uomo è natura. Noi non lo capiamo. Pensiamo che la promessa sia stata negata, invece è ancora lì, nel fatto che siamo vivi. E se moriamo (quando moriamo!), resta un chiodo infisso nel cuore degli altri che grida non dimenticarmi, non dimenticare, a questo sono servito, per questo ho vissuto. Supremo atto d’amore, sacrificio, valore umano. Dai grattacieli di Manhattan alle altitudini del nostro Abruzzo. “Settembre, andiamo. È tempo di migrare”, recita il grande D’Annunzio, nel 1903. Possibile?, la vita non si muove? Che scandalo è questo? Allora la mia pena continuerà anche dopo? Mi pare che da queste domande, da questi tormenti si sviluppano le storie moderne dei personaggi de Gli istrici. Istrici proprio in quanto corazzati di aculei, contro chi ci vuole cambiare. Sbuca una mezza luna per contrasto, sulla bella copertina del libro, s’imbianca fra le punte ritorte e graffianti di una selva oscura, terribile e respingente. Nessuno impedirà la nostra salvezza, nonostante tutto. “Noi non possiamo mai nascere abbastanza”, dice la citazione di E.E. Cummings ad apertura del libro. Il che vuol dire che quando una voce viene dall’esterno, ed è vera, profonda, come il mite Doì (il giapponese protagonista di un capitolo, che decide di stabilirsi in quelle terre), allora qualcosa si realizza anche in noi. Il nostro libro è scritto, è umano come un essere vivente. Vincenzo Gambardella L'articolo Il libro come essere vivente. Su “Gli istrici”, un romanzo di Valentina Di Cesare proviene da Pangea.
July 9, 2025 / Pangea
“Su mezzogiorni allucinati”. Intorno a “Ore incerte”, il libro di Silvio Perrella
Che cosa sta accadendo? Niente, semplicemente niente. O meglio, è niente in quanto accade in me, solo in me. Non è che gli altri non se ne accorgano, anzi. Eppure è qualcosa di più grande che non riesco a dire. Proviamo! È un’idea della maschera, ma trasparente. Un diorama. Un vetro posto davanti a un paesaggio, per descriverlo, per tenerlo sotto lo sguardo. Appena lo spessore di un vetro, che non mente, non permette di mentire, posto di fronte alla profondità dello spazio, per dire il mio sentimento… Sentimento, sì, è questo! Quello che si scambiano Hatem e Suleika, un canto intenso per loro, misurato, come un universo corale, maturo a tal punto da essere in grado di raggiungere una sorta di fenomenologia interna, poetica dello stare in equilibrio, costretti dalla necessità di questo e del pensarsi in questo. Quasi una metafisica dell’essere e del rimandare all’indicazione montaliana di un più in là, sempre in cerca, per trovare pace nello spettacolo del mare, dove l’uomo non c’è, se non in superficie, o in contemplazione, distante/vicino, manifestandosi la necessità umana dell’abbandono. Come posso esistere ancora, se non per te. Oh, che cos’è tutta questa vita? Ore incerte, la risposta, che è il titolo dell’ultimo libro di Silvio Perrella (Il Saggiatore, 2024). È ricorrente, durante la lettura del volume, la parola diorama, vuole riflettere, è il paesaggio descritto che viene avanti, insieme alle immagini dei quadri di Redon, che percorrono il libro. E si potrebbe dire che paradossalmente non hanno la funzione di illustrare, giacché sono parte del testo, cercano l’identificazione perfetta che avvenga fra la parola e l’immagine. Non stanno lì solo per un fatto decorativo, vogliono suscitare un’identità fra parola e cosa. La parola deve essere quella, lirica, rotonda, incisiva, tronca su un finale, azzurra di cieli e di attesa ad incipit di racconto. Si apre un prodigio sotto i nostri occhi. La letteratura ancora dice, può dire, può aiutare a capire (ci meravigliamo, ma se è fatta per questo!). E pensare che si parlava di niente, all’inizio. Un bel salto!  Così come accade qualcosa nel nostro spirito, scorrendo le immagini da una pagina all’altra, le riproduzioni dei quadri di Odilon Redon (dipinte fra Ottocento e Novecento). Sono nello spazio alto e cerchiato di un oblò, spiccate sul bianco, oppure a pagina intera, o di fianco, o a marcare un angolo basso. Hanno il colore del gesso, e allo stesso tempo si approssimano alla cenere, in quanto evento avvenuto. Intendono quell’universo che si va sbriciolando in tardo neoclassicismo, estenuato, stremato, e perciò cupo, ma impregnato di sentimento, di bellezza. Rappresentano la follia del mondo dopo la fine, o all’inizio della creazione, che è quasi un ritorno all’essere, hanno inscritto sul proprio corpo la pietà. Sembrano questo, e aleggiano a un teatro antico, risalente al tempo delle maschere, maschere nude, ma indossate al momento che non servono più, in atto di dissolversi. E senza maschera che sono? Ecco l’incerto, ma cosa si vede? A volte una creatura redenta, aureolata, a volte statuaria, o arresa, inginocchiata sul paiolo di una barca, il mare sanguigno. A volte un particolare mostra in primissimo piano un effetto materico della pittura. Ma ancora ci sfugge tutto, il libro è profondo, non si riesce mai a dire completamente, anche se siamo attratti, allietati, la parola ci conferma, ci accompagna a un sicuro divenire, ci porta a stare dentro le cose, la loro natura. L’amore di Hatem e Suleika, i due personaggi in giro per la terra, che lo scrittore incontra nei pressi della Zisa di Palermo. Noi seguiamo, ci lasciamo guidare, perché sentiamo lo spessore dei maestri.  Il corpo della scrittura, che cerca e registra, assorbe e si fa reale. È un libro di spostamenti, di viaggi. E nell’andare dice il punto in cui cade il sipario, crolla letteralmente, e finisce l’epoca della rappresentazione. Prospero, nel finale de La tempesta di Shakespeare, spezza la sua bacchetta magica, non ha più poteri. Non si può più continuare. Che cosa resta? Tutto, niente, il mondo, la sua immagine, il dover morire, l’io, il non-io. Mi viene in mente un racconto di Daniele Del Giudice, di un naufrago che trova come unico sostegno in mare un quadro, egli ci si aggrappa con tutte le sue energie e si salva, prosegue la sua navigazione fantastica, da Venezia a Buenos Aires, per raggiungere il luogo dove avverrà la sua mostra. In realtà egli è un pittore, il quadro è suo, galleggia, ce la fa a sopravvivere. La soggettività ci soccorre. Piccola cosa, incerta, appunto, ma nell’esperienza dell’eterno si compie. Natura che si compie in un frammento, stiamo su quello, guardiamo da lì. Ripeto, insisto: cosa si vede? Viaggi e viaggi per il mondo, irrequietezza, si cerca dov’è morto il poeta, dov’è vissuto, dove ha sperato, e si va all’origine della propria nascita, della vita. Un quadro che improvvisamente si svela (ancora quadri, quadri), ma è sempre un particolare. Non ce la facciamo a dire l’interezza che comunque ci riguarda. Eppure, nel dire questo, si apre il mondo, si spalanca la conoscenza. Il diorama senza anima, senza Dio, è un mistero assoluto. Come si fa a vivere?, si chiede Silvio Perrella, in giro per il mondo, come si fa ad amare? Il quadro davanti a cui sostiamo ce lo dice, perché anche il pittore si è posto le stesse domande, e una domanda dietro l’altra fa un infinito. Attualmente, dove c’è il vuoto si sovrappone il mito, e il mito permane ad avvalorare la sua inconsistenza. Che mito è?, insensatezza di spirito, moda, gestualità che si sostituisce alla parola, blablabla. Si potrebbe interpretare come teatro dell’assurdo, ma non lo è. Qui la nascita non avviene. Ci troviamo a fare i conti con questo. Estremismo dell’inutilità, ma forse è sempre esistito. Oggi è più grave? La radice del libro consiste nel fatto che si può dire ancora l’umanità. Dunque cercare in lungo e in largo il senso. È ricerca di bellezza, di vocazione, è, in una parola, la fiamma, il nucleo abbagliante della fiamma, lisergico ed esegetico. Quel farsi luce nella luce che è il libro, la parola. Fare della parola ricerca. Colpisce la forza del movimento; la motivazione a dire chiede forma. Si potrebbe pensare che non basta, occorre trovare il punto di verità della parola, che è un vissuto, il mistero e il tragico che si compiono, ma senza strepiti, solo uno svanire, che è lo sguardo incerto sull’orizzonte, la pupilla tremante. Chiedere: se non siamo lì dove siamo? Tutto sta in questa riflessione, in questo inizio, che allo stesso tempo stabilisce una rotta, un’attitudine. Chiunque verrà a distrarci non otterrà quello che vuole. La parola infatti è strumento, modella il nostro pensiero. Siamo una relazione. Al chiudersi del libro se ne apre un altro, e un altro ancora. Libro che è personaggio e lettore. Stai sognando?, mi correggono: ma se la morte è lì, e ci sorprende.  Mi ricordo un filmato-intervista su Calvino, un giornalista e lo scrittore insieme a Parigi, visitano una zona nuova, un cantiere. A un certo punto, fra gli scavi, uno strano uomo con la pipa, chinato, ha trovato dei resti umani, risalenti a chissà quando, e li spolvera servendosi di un pennello. Stupisce la sorpresa di quell’evento, e poi in diretta! Tutto fa contrasto, una nuova Pompei si apre… Ma come?, a Parigi? Sui visi di quei tre uomini (perché del cameraman non sappiamo niente) un’umanità rinnovata si rivela, quasi una gratitudine, la vita conferma la sua forza, non siamo venuti qui per niente, siamo vivi, che è persino un andare oltre la pietà, per via di quello che abbiamo di fronte, ed è capitato a loro, che sono uomini qualunque nel mezzo di un evento inatteso. Incredibile! A questo serve la letteratura, io penso. Ma cosa c’è all’origine di questo libro? Vedrete che alla fine lo capiremo. Ricominciamo, leggiamo l’inizio: > “Entra pure, lettore; attraversa la soglia: dai una prima occhiata; posiziona > gli occhi; metti il corpo in condizione di essere veicolo; preparati al > viaggio”.  L’autore vive attraverso noi che lo leggiamo, è una scelta consapevole, realistica e percettiva, forse più che percettiva, di verità, oltre Calvino, a cui sembra riferirsi come modello. La lingua è invitante fin dalle prime righe, si accosta all’antico, s’incarica di dire l’ampiezza che ossigena il respiro. Di seguito si legge:  > “Non si tratta di un viaggio consequenziale; un andare rettilineo; un portare > il passo da un luogo all’altro seguendo la disposizione giudiziosa di una > mappa”.  Ed entriamo subito nel cuore della scrittura:  > “Si tratta piuttosto di un’altalena tra Oriente e Occidente, tra albe e > tramonti, con soste su mezzogiorni allucinati scarni meridiani”. Ci appaiono Hatem e Suleika, qui è quando l’autore li vede per la prima volta, e così pure il lettore:  > “Nel Divano occidentale-orientale di Goethe ho incontrato Hatem e Suleika. Ed > ero a Palermo, nelle vicinanze della Zisa, maniero arabo-normanno; e lì, > rifacendo nuovo lo sguardo, m’è parso rivederli vivere come clandestini > dell’esistenza, amanti per i quali Baghdad non è mai lontana, intenti a > svernare i giorni tra diorami meridiane caleidoscopi jukebox in disuso e > capelli così arricciolati da spezzare i denti dei pettini. M’è sembrato che > dalla loro posizione ambigua seguissero i miei movimenti; e mi veniva voglia e > desiderio di ricambiare per sottrarre attimi di meraviglia amorosa dai loro > corpi avvinti”. Il nostro universo, la nostra memoria, sono un affastellarsi di tavole sovrapposte, ma non per formare barricate, bensì per costruire il nostro vissuto inestricabile, che si struttura inizialmente come un accumulo e poi distingue, allinea, va a rintracciare un solco che dai nostri piedi corre lontano. Lingua immersa nella lingua-mondo, lingua geometrica per dire il mondo-prisma. Che gesto è?… pur dicendo il frammento, aspira a collocarsi nel tutto. Siamo nell’Ora denominata occidentale orientale:  > “Epoche, quasi ere: prima Bisanzio, poi Costantinopoli; sempre crogiolo e > arzigogolo, necessità di contatti, Occidente di qua, Oriente di là. Sempre > ponti da costruire, visibili invisibili fragili spezzati ricostruiti slanciati > nella notte illuminati ad arcobaleno con campate sempre più ardite e > slanciate. Il ponte di Galata sta rintanato nel Corno d’oro; le sue ambizioni > si restringono a un contatto stretto tra due parti della città”.  Passando per l’Ora baltica (“Arcipelago bosco soprattutto acqua. Lieve è lo sciabordio del mare, fa suono come un’eco lontana. Ma c’è, basta avvicinarsi ai contorni terracquei e agisce. Ninnananna ipnotica”), in grande arco di tempo e di spazio, arriviamo all’Ora americana (“New York, la baia lampo nell’oblò-diorama, la sua disarmante acquaticità. Il taxi lo lascia sul margine di un marciapiede; l’albergo non è lontano; il trolley lo segue. Su su fino al piano della camera; dalla finestra i passanti nella lontananza verticale sembrano disegnati da Saul Steinberg; il fuso orario fa girare i pensieri all’incontrario”). Tuttavia è a metà del libro che avviene una ricomposizione con il mondo che siamo, è venuto il momento di un ricongiungimento, il Mediterraneo, nostos, non a caso il capitolo s’intitola Ora di battesimo:  > “Essenzialità di Punta Licosa, terraferma a forma di isola che si accompagna a > un’isolina. Vasta pineta sul mare, punteggiata di carrubi e soprattutto di > fichi. Tempo frammisto a pietre scanalate, arenarie in scivolo obliquo su > materie intermedie. Se la raggiungi quando è il suo turno nella scansione > delle ore ti dà misura di te”. Il discorso si fa universale, non è nostalgico, aspira a divenire tutto, perciò anche nostalgia. Oriente e Occidente segnano il cammino, il flusso della parola che è in andirivieni, avamposto al sentimento dell’unire. Non è Silvio Perrella che ha scritto Da qui a lì (Italo Svevo, 2018)?, una riflessione sul ponte. L’abbiamo detto, adesso però si accenna all’infinito, insieme a percorsi che uniscono, aspirazione ad andare di là, e sposarla quell’altra riva, attraversando le strade sospese, carreggiate aeree che ci stanno sulla testa.  > “Ogni ponte ne richiama un altro e tutti i ponti, mentre Hatem cammina su > quello di Cordova, si danno a convegno di pietre, fanno che si guardi > dall’altra parte senza chiedersi cosa davvero ci aspetti, quale nuovo > quartiere, quale pezzo ancorato di città si disegni nell’aria. Hatem si > avvicina al ponte vecchio e osserva la sua curvatura che per un attimo lancia > gli occhi nell’infinito. Non si vede altro che cielo andaluso, quasi al > tramonto, le luci dei lampioni ancora spenti ma in procinto d’infiammarsi per > dare chiarore alla notte”.  Ma la luce, che per tutto il tempo della narrazione ha prevalso, ora si spegne. “La luce declina”, “facendoci ciechi di noi stessi”, in Ora oceanica si legge:  > “A Porto si arriva per desiderio di finisterre, all’indomani di molte cume > senz’oracolo, di ore abbandonate, di minuti spersi nel buio, di brilli e > capoversi”.  Alla fine dello spettacolo luminoso che è la vita, non corrisponde un indebolirsi della parola, anzi, aumenta la suggestione: “Sono morto senza saperlo”. Ci affidiamo all’enigma che siamo. Vincenzo Gambardella *In copertina e nell’articolo: opere di Odilon Redon (1840-1916) L'articolo “Su mezzogiorni allucinati”. Intorno a “Ore incerte”, il libro di Silvio Perrella proviene da Pangea.
May 26, 2025 / Pangea
Assorto nella pietà. Su Aurelio Picca, uno scrittore in lotta
Devo molto ad Aurelio Picca. Lui non lo sa. Quando lessi un suo racconto, negli Anni Novanta, sulla rivista letteraria “Clandestino” (credo s’intitolasse La mano), mi si aprì un mondo, che si rovesciò addosso a me. Non pensavo si potesse scrivere così. Fui stupito dalla libertà, e dal modo diretto di entrare nella materia, fui sorpreso dal livello di espressione. Le immagini erano quasi scolpite, direi in avanzamento vitale, si poteva vedere lo spazio che circolava intorno, e la pressione della lingua che risultava essenziale alla pagina. L’ossessione della realtà è il centro, fa perno, la frase gira, permette di scorgere una prospettiva via via diversa del soggetto, dinamica nel cuore del racconto: visione incisa a lama di coltello, o a punta elicoidale. È la grande tradizione della prosa italiana, dei Comisso, Savinio, Malaparte, Parise, Domenico Rea, Gadda, Testori. Credo che Picca abbia a che fare col corpo incandescente della parola, e ci lavora sopra come un fabbro col ferro. Vengono fuori la sua Roma, la provincia laziale, il gesto dello sportivo segnato dalla totalità della vocazione, di vigore che vuol dirsi in tutto, in movimento di vita che prende finalmente significato, per cui siamo saliti su un ring a combattere, o la storia estrema che avrebbe potuto portarci da un’altra parte, fuori strada, e invece no, o ce l’ha fatta con altri, nostri compagni, a cui dobbiamo tutto. La strada, in questo caso, insegna, arriva a dire, a far capire persino la solitudine del poeta, perché è mito generoso, radioso e salva. Nel popolo vi è la conoscenza, questo popolo italiano che vuole rimanere nell’origine, per orgoglio, tradizione, e morirci dentro.  La parola soprattutto merita, in quanto teatro dell’abisso, del tragico, che coglie nello sguardo l’irresistibile forza che ci pervade.  > “Ho sempre sognato di ficcarmi nei loro occhi larghi e languidi come pianeti > sconosciuti”.  L’autore sta parlando dei cavalli, una delle passioni di Aurelio Picca, che è nel libro sullo sport, ultimo uscito, intitolato La gloria (Baldini + Castoldi, 2024). E ci affacciamo testa e collo, e spalle protesi sul mito dell’Italia che è il mito dell’io. L’Italia è morta, io sono l’Italia (Bompiani, 2011), il suo poema civile, scavo e risorgenza dal suolo profondo del nostro animo. Tutto è carnale, ma lo spirito è nel palmo della mano, chiuso a pugno, e in cui sono segnate le linee dell’amore, della fortuna, della salute, insomma il destino che si nasconde a noi, o si rivela quasi in archetipo. Spirito dunque impiantato nella superficie e nell’intimo, che in quanto carne risulta mistero. Come fa a vivere? Questo stare sul limite lo caratterizza. Il suo stile è tutto. Lo stile della scrittura, che è una gabbia, e lo scrittore la abita, ne sonda la capienza, ci entra come in un abitacolo calzante. Prosa è ritmo che trascende ogni forma, quotidiana e soprannaturale. Cosa cerca? È l’impulso acrobatico della scrittura che persegue il reale; stare sul limite, a spigolo, per lanciare alla terra e al cielo, nonché agli uomini, il proprio significato di eternità. Conoscenza che non si compie mai, sempre tradita. Ci vorrebbe una prova maiuscola per noi e conseguentemente per il mondo, che sia capace di guardare oltre. Una prova stellata di cielo, per ripeterci quello che abbiamo perduto, e rinnovarlo in modo da dirci chi siamo. Diventare piccoli, umili, per solcare quel mare abbagliante di memoria, doloroso, verticale, e scrivere come il primo scrittore del mondo, che non ha pari. È un’immersione. Pensiamo a Se la fortuna è nostra (Rizzoli, 2011). C’è un dramma del ringraziamento in quel romanzo, romanzo di famiglia, corale, cristiano, e proprio perché cristiano impossibile, solo a costo di ricevere, per mano di un altro; vocazione che si realizza, che si somma in ricordi, riflessioni, descrizioni precise, da bulino che incide sulla lastra, scrive al momento esatto di una trama, densa di compimenti… “L’ho compreso da poco” si legge a pagina 174. Ciò che accade si compie in attesa rivelatrice, non puramente rievocativa, infatti tutto si traduce in atto. Questa la sua tensione interna, il suo moto lineare. Anche la violenza, negata e affermata insieme, si apre su un quaderno le cui pagine sono il corpo del Cristo che subisce e annulla il male, lo conferma come negazione. Le vicende raccontate da Picca hanno sempre questo doppio registro, ma per attraversarepienamente il corpo redento. Intorno sono seduti i maestri, quelli che ho già citato, che guardano la scena, perché si configura un’azione nel leggere, e accade, una dinamica incessante di energia letteraria, raffreddata dalla parola poetica, che non smette di sondare il campo, l’immagine che si è presentata agli occhi dell’autore, fino a trovare una sponda esemplare, non per effetto, per dimostrazione di bravura, bensì in scoperta del senso, quello che si opera in noi, di cui siamo opera.  Letteratura + identità, e più identità nel dire. Scorporarsi, annullarsi nel cuore degli altri, che è il corpo di Gesù ma che è entrato nelle lettere, perché è fatto di verità, di smascheramento. Pazzesca è l’intuizione del Gesù mutilato (De Piante Editore, 2017), l’stinto di verità che si viene a proclamare in scrittura! Egli non è il Verbo?, non è venuto per dirci?, per stare con noi?, per incontrarci attraverso la parola e incarnare la sua fine?, e la sua risurrezione non si può riconoscere e toccare?… Allora perché? L’autore continua a interrogarsi. Ci credo che poi i suoi libri s’intitolano Addio, La gloria, Sacrocuore, I racconti dell’eternità, il già citato Gesù mutilato, eccetera, perché la parola nasce nel sorgere, o risorgere, e se si cade nel buio, il tempo provvederà, la tragedia è comunque dell’amore, sconfina.  Adesso, mi chiedo: chi meglio del Nostro potrebbe dire le notti dei droni, i cieli feriti dai traccianti, i colpi infernali che cadono improvvisamente sui bersagli, devastando; lo smarrimento disarmato, la pietà, le macerie, il dolore, la speranza che ci assale? Oggi è il mito, qui da noi, in pace, inteso come ogni cosa che si specchia e risplende su schermi al lattice, o altro, ogni episodio che precipita nella sua temporalità contingente, ed effimera, di vita vissuta assistendo, nel sentimento, che s’illude di escludere la morte. La sua radice sembra essere lì. Perché, comunque, la sua radice è profonda. Contiene anche il nostro bisogno di assenza, di fuga, escapismo, mi hanno suggerito che si dice, adesso lo chiamano così, che è il mistero del dileguarsi, della vita che ci chiede di fare a meno della vita, come morti, sepolti, sottratti allo stupore della rivelazione, ancora in atto.  Picca combatte, fa cura di frase perfetta, rotonda, lirica e realistica insieme. Il gesto che si sporge a scrivere è mosso dalla dinamica luminosa dell’intuizione: tutti i personaggi sono il Cristo! Lo scandalo è questo. Gesù che si fa imbuto, scolo, canale folgorante delle parole, dell’ispirazione, del senso. Ognuno che si destina agli altri è Lui, il Salvatore. Un atleta, un amico, un animale, un albero, un cielo, una spiaggia, una casa, una città, una terra, un mare. Prosa rastremata di orgoglio e santità, incanto e punizione. Spesso sono i bambini a tenere la strada, a indicarla agli adulti, che non vedono. Allora la pagina fa un salto, tutt’assieme prende a raccontare del destino, o parte da quell’inizio, dall’infanzia, e si delinea, poi, col tempo, verso una nuova era. Si ha l’impressione di una dipendenza, invece si tratta di talento, vocazione alla totalità del racconto. Totalità innervata nello spirito, tanto da proclamare un parallelo (gliel’ho sentito dire all’autore in un’intervista) fra il gesto mortale dell’assassino, e quello generativo dell’artista, in funzione di assorbimento, unione, interpreto io. La nostra duplicità fusa nell’assoluto e placata, abbracciata. Ma senza dubbio, e in conseguenza, la lancia ha dovuto colpire, il chiodo è entrato, ha lacerato. È un’immagine difficile da spiegare, estrema, riguarda il cosmo. Dal suo ultimo libro La gloria, che racconta delle imprese di famosi talenti dello sport, come pure degli anonimi, ma non meno nobili, cito a pagina 175:  > “Io ho iniziato a scrivere con la morte del nonno; Luigi e Pier Vittorio hanno > incominciato a sollevare pesi dopo le morti della madre e del padre”.  Arricchiti da questo passo, da qui in poi si potrebbe scrivere un altro articolo, più profondo del presente, azzurro e cupo, di luce screziata, affezionata al mondo, ai suoi paesaggi, alla sua gente, denso di poesia, di umanità massima. Invece mi limito a riportare il racconto intitolato Il pesce, tratto dalla raccolta I racconti dell’eternità (Nuova Compagnia Editrice, 1995). > “La rete non si poteva neanche più chiamare rete, tanti erano i buchi che > l’avevano strappata. Io, pazientissimo, ne sciolsi un pezzo. Poi presi due > sassi e ce li legai. Così, col brandello del pescatore, mi misi immobile coi > piedi nel mare. A quell’età non avevo mai visto pesce vivo. Né morto. Né > speravo di catturarne. Attesi ore, gustando la noia di un precipizio > intraducibile. Ma ecco che un pesce grosso come una mia gamba, si intrufola > tra le maglie. È catturato. Mi fulmina la potenza. Non faccio altro. Lui è > fuggito”. Lo scrittore è assorto, nella pietà!  Vincenzo Gambardella L'articolo Assorto nella pietà. Su Aurelio Picca, uno scrittore in lotta proviene da Pangea.
April 21, 2025 / Pangea
“Più lunga e sacra luce”. Una lettera a Giovanni Testori
Caro Giovanni Testori, ti vedevo inevitabilmente alla stessa ora, quando, studente, uscivo dall’Accademia di Belle Arti, e tu entravi in un palazzo di via Brera. Allora (fine anni Settanta) eri molto famoso, si può dire che eri all’apice. Una mattina ebbi il dubbio, un attimo prima di svoltare, di infilarti nel palazzo e scomparire, che tu mi abbia rivolto un sorriso. Vera o non vera che fosse la mia impressione, decisi di non passare più di lì. Fatto sta che questo è il mistero, mi dico oggi, se sei uno dei miei scrittori preferiti, avendo letto tutto di te.  Tempo dopo m’iscrissi all’università, e il corso di storia dell’arte verteva sul Sacro Monte di Varallo. Passa ancora tempo e conosco Luca Doninelli, Davide Rondoni, Emanuele Banterle, Riccardo Bonacina, e quindi mi arresi! Tu diverso dagli altri, figlio di industriali, ma con una voglia antica di essere povero, e perciò radicalmente cristiano. Ci si sente malati a pensarla così. La vita giudica, è disperata, come te. Ecco perché la malattia vera ti ha spalancato le porte al perdono. La Grazia che hai sempre voluto è arrivata nella carne. Da malato l’hai conosciuta, vera malattia, non malattia psicologica o sociale, bensì organica, di sangue, corpo che si appesta, dolore che si stringe intorno ai nostri pensieri, ferita a cui occorre porre rimedio, che sanguina. Qualche senso ce lo deve avere tutto questo! Il male non può significare la fine! Il Cristo lo spiega, la Croce lo spiega.  Nei tuoi confronti mi sento come il mulo che portò Gesù, slegato, libero di reggere un simile peso, il peso della Grazia, che arriva fino a te. Tradizione che ci hai lasciato, consentimi, fuori dagli schemi. Tutto, tutto dice della tua condizione, mentre gli altri recitavano un non-dialogo, o recita continuamente interrotta, vale a dire, senza vocazione, quella che viviamo ancora oggi, sommersi come siamo da distrazioni, vincoli, controlli, chiacchiere a vuoto, convulse, alterate, per giunta, mentre tu sei per una rivoluzione spirituale, d’esilio. Perché se il presente è l’esilio (è stato sempre come sentirsi soli!), ebbene tu nella malattia hai trovato Gesù, l’hai abbracciato, desiderandolo in misura maggiore che da sano. Tremo mentre te lo scrivo. Ma il discorso adesso tende ad ampliarsi, in assonanza con la tua opera infinita. Ti dico che cancellarsi nell’Altro è rivelare il divino dell’amore; lasciarsi condurre per perdersi, è potere d’amore, e, allo stesso tempo, potere d’invio. Perciò nascita e morte sono i due poli della tua opera. Ma in funzione di un dolore che ripara. Ecco che l’arte potenzia la vita. Non credo né nella tua istituzionalizzazione, né nella filologia (sebbene rispetti entrambe le cose). Paradossalmente con quanto detto, non credo in niente. Mi aiuta vedere quelli che si lamentano dell’eccesso che rappresenti, che storcono la bocca per via di tutte le croci che hai descritto, ti sei innalzato per cadere, in tutte le variazioni sparse fra i tuoi libri e drammi, in cui hai sviscerato il tema. Non come variazioni, scusa, mi sono espresso male, ma come senso del vero e proprio, come evidenza del vero, come testimonianza, cioè tema antico, di natura libera, dolorosa. In fondo è accaduto questo (forse lo sai) in Italia, nella tua Milano, di fronte alla fine del mito della rivoluzione, si ritiene, oggi, sia meglio vada tutto in malora, anzi, meglio prima accordarsi con tutti, fingere di essere ecumenici, quando invece si coltiva la negazione, perché c’è ancora da vivere, e conviene prima della fine. La realtà è complessa. Lo dice la forma d’arte che hai preferito. Altro che scuola di scrittura! Con te si scopre cos’è scrivere: ch’e’ ditta dentro. L’interiorità è secondaria al dettato, o è sorella del dire, del rivelare. Da dove viene questo?, me lo chiedo sempre. Dal mistero, io credo, mistero che ci abita, sono convinto, e dunque sono con te. Mistero incarnato, ritengo, nel tuo cono di luce, che si sottrae all’essere maestro, ma fatto di relazione, impastato di tempo che si libera, matura, fonda imperi e solitudini; tuttavia non cancella l’impressione che fa un bambino appena nato, e quanto il suo organismo preveda tutto in potenza, anche se in forma minuscola, destinata. La scrittura è desiderio, la scena è il corpo, la poesia si rivolge a qualcuno, in cerca di avvenimenti. La poesia stessa è avvenimento, giacché ha forato la maschera del linguaggio ed è apparso un volto nudo. Il travaglio, o lavoro, che il poeta ha dovuto fare per arrivare a dire, riscatta il non detto, che è silenzio contro la babele che ci sovrasta, che s’insinua fin dentro il nostro cuore, “e reclama quell’essenziale della Parola di te in me” per dirla con Michel de Certeau. Del resto si sentiva nel tono della tua voce, usavi un tono di canto per dire persino le cose minime, ma che non erano mai banali. Sono ancora lì, nei video che ci sono rimasti delle tue preziose interviste. Occasioni per capire quanto ti spendevi per chiunque.  Una volta mi hanno raccontato che entrasti in un taxi e chiedesti al conducente di portarti a Parigi, da Milano a Parigi. Leggenda o verità che sia, la uso come spunto. Avrei voluto trovarmi al posto del tassista. Sì! Chissà che cosa vi siete detti?, che discorsi avete intrecciato, di te innamorato, che andavi a Parigi per amore. Cito da pagina 227 de “I trionfi” (Feltrinelli, 1965):  > “[…] così come si fondono, qui, in me  > le gioie dei tuoi occhi  > e in te  > le adulte mestizie  > e dolorose  > dei miei anni  > e andando poi così  > e disfacendo sé,  > nube ed amante,  > e l’una e l’altro sempre,  > insieme nel dolore  > d’una vita che vivere  > bisogna  > nell’attesa d’una più grande  > ombra  > che in sé ridisferà  > l’amarsi della vita  > nella sera  > e della sera nella vita,  > immensa e sacra sera  > che ormai s’è fatta ombra  > e si farà, tra poco, anche per noi  > più lunga e sacra luce”.  Il sacro, certo, la sacralità della vita, di tutto, anche quello che ci opprime, soprattutto quello, come ti ho detto fino ad ora, si può dire che non ho fatto altro che dire questo, che l’intera lettera a te non vuole che ribadire. > “Va la carcassa atavica;  > s’aggrappa sanguinante  > ai templi,  > alle rovine millenarie,  > la spinata testa  > cancerosa”.  La poesia va avanti, ed è tratta da un tuo libro del ‘94, riedito da Scheiwiller nel 2002. È questa la gloria che cerchi? Non a caso il libro s’intitola “Segno della gloria”. Che è anche culto di bellezza, ma si ottiene solo a prezzo di dura nevrosi. Perché la gloria è mito, o trasfigurazione, o sacrificio in segreto di disporsi a questo estremo sogno, estremo ideale carnale di teatro immaginario, eppure luogo per ciò che si vive, che si vuol vivere, fino all’ultimo. Riporto la postfazione al libro di Carlo Bo:  “Questa che suona come una farneticazione poetica è in realtà il testamento, uno degli ultimi testamenti che Testori ha lasciato al suo amico Gabai e a tutti gli uomini […] Non mi sembra che molti altri siano andati così lontano nell’interpretazione della vita; di solito si procede per speculazioni limitate, si accumulano delle piccole verità parziali e così facendo si tende a rimettere nelle mani di un potere senza nome i nostri giorni, al contrario Testori non si dà per vinto, preferendo la lotta che prelude alla sconfitta e una visione catastrofica dell’esistenza, dove pure respira, se non l’idea, l’aspirazione verso Dio: questo anelito che ha contraddistinto tutta la sua travolgente ricerca”. Ecco che cosa hai cercato, quella testa di re incoronata di spine. Tutta la vita, questo, questo! E tu stesso testa di gloria, fatto di vita gloriosa, che non si piega al “commercio dei dolori e delle pene e immagina di restare attore, anche se attore perdente e incapace di trovare un rimedio” (sempre Carlo Bo). Pensa se non ti dicessi che questa tua nevrosi ti ha salvato, e parimenti la tua malattia, rendendoti moderno, vicino, fratello di tutti, di noi ansiosi di comprendere che cosa ci fa uomini, ognuno col suo cruccio da vivere, di essere per qualcosa. Non sarebbe gloria lo stesso? Vincenzo Gambardella *In copertina: Festa a Villa Il Tasso, casa di Roberto Longhi e Anna Banti, per i primi 100 numeri di “Paragone”, 1958: a destra, Giovanni Testori, al centro, Roberto Longhi (Archivio Giovanni Testori). L'articolo “Più lunga e sacra luce”. Una lettera a Giovanni Testori  proviene da Pangea.
March 22, 2025 / Pangea