Caro Antonio Trucillo,
questa lettera è un esperimento, e un’attestazione di verità, insieme a una
confessione, nell’attimo in cui s’è fatta luce dentro di me, direi spazio
vitale, nel chiedersi cos’è un libro se non andare all’origine della conoscenza,
della scoperta, e cos’è la nostra vita, in particolare la vita di uno scrittore,
di un poeta, se non interrogarsi su questo, e ingrandirlo, lasciare che prenda
il campo intero, fino a escludere il resto, assorbito da quell’unico soggetto…
Un dettaglio, ma è tutto, ingigantito in quanto forma del Novecento, dove ci
siamo compiuti, e perciò secolo delle relazioni, delle espressioni, dei
tentativi, dell’inesprimibile che si rivela, del rinnovamento, dell’uomo che è
“fedeltà a questa poesia/ misteriosa e leale/ che aspira al pane/ e
all’elettricità… […]” (p. 49 del volume che sto per citare), dunque, anelante a
vivere in pienezza, disintegrando l’io in modo da renderlo strumento dell’opera,
suo compimento. Umanità (Interno Libri Edizioni, 2025) è proprio andare alla
radice, per un dettato che è il mondo, e dentro questo ecco il suo dono.
D’accordo, il frammento, ma qui il discorso è trovare la parola migliore del
Novecento, che ha saputo dire il confine dell’uomo, il suo limite mentre dice
“Italia, la nostra lingua è splendente” (pag. 25), che è la voce intera a
scandire il legame con una tale potenza di pienezza da sfidare il mistero.
Quando è avvenuto un simile destino?, sempre, viene da rispondere, e noi non
siamo esclusi, nessuno ci ha alienato, tant’è vero che per tutta la vita abbiamo
cercato dentro quella parola del Secolo, il valore che si afferma avanti a
tutto, che esalta solo la pronuncia: umanità!… Già di per sé esclamativa, ma che
sulla pagina appare in controluce.
> Ah quei convogli dell’Adriatico
> treni neri
> spenti treni neri
> come noi stessi sperduti
> in umana cadenza
> in umana disarmonica pena
> dov’è grano e granaglia
> dov’è olivo e olivastro
> dov’è umanità.
Ce lo chiediamo ancora: dov’è?, e, anche se può sembrare patetico, aggiungerei:
chi ci ha amati veramente, umanamente? Comunque meglio l’ingenuità di certe
richieste, che il farcela a tutti i costi di oggi, pena il fallimento, ché, nel
concreto, si riduce ad attuale propaganda: stare sempre a pensare di riuscire,
di potercela fare, competizione, quindi, soprattutto se si ritiene essere
necessità primaria, mentre appartiene alla regola in cui viviamo, o talmente
assunta in noi stessi da diventare volontà nostra specchiata.
> Cade,
> viene a poggiarsi,
> sciacqua i cotti dei tetti
> ma tu sai per certo
> che tra poco poco resterà:
> pure, che festa sarà
> dove finiscono gli orti
> e ricomincia la piccola
> città.
Quel poco è il tanto della poesia, quella piccolezza è in realtà immensa, perché
è affidata all’eterno, e se siamo stati ignorati, o riteniamo sia stato
insufficiente il bene, basti pensare a come l’abbiamo ricevuto. Che punta è
l’amore!, che sottolineatura!, la parola sta lì per questo, ripete per ribadire,
serve a ristorare il nostro rapporto con gli affetti, con ciò che ci manca. La
parola sta sul corpo degli affetti, si potrebbe parlare di nuovo di una parola
innamorata che trova nell’intimo dell’immagine il solco, o la traccia di una
vicenda che rimanda all’infinito delle cose, poesia ferita, la poesia stessa,
che non si sa da cosa è diretta, per cui anche il conoscere arrossisce, si
schermisce di fronte al mistero della nostalgia, del dire il punto dove è
accaduta l’ispirazione, lo stesso che ha mosso (per inquietudine) o ha fatto
dire a Rilke o a Celan o a Luzi o a Caproni: io questa cosa l’ho vissuta,
anch’io l’ho provata ma in modo irripetibile.
I nomi sono là, sono quelli che ho citato, insieme a molti altri, calibrati dal
lavoro espressivo, eppure se allunghi un braccio ecco che scompaiono,
appartengono al passato, mentre la tua poesia, amico mio, ha bisogno di un tempo
ancora da venire, ancora da scoprire nella sua portata e nel suo valore poetico,
secondo cui un discorso su Umanità apre a una questione profonda che è la
predestinazione, o predisposizione al bene, al linguaggio poetico, il bene di
tutti, senza saperlo, senza nemmeno immaginarlo, inteso come sentire del poeta
universale, vocazione al trascendente. Viene da chiedersi quando arrivano le
parole, quando si configurano in versi in ritmo, immagini, forma, stile. Quando?
Accade qualcosa e ci mettiamo in ascolto. Dunque all’inizio è fantasma, poi si
presenta nell’accadimento della parola, distinta, precisa, netta all’attenzione
umana… Umanità, di nuovo, roba da non poter sfuggire (diciamo roba), che
comunque si affronta per poter conoscere il peso di quel determinato verso, la
sua forma. Dove porta? Chiamiamo tutto questo ispirazione, ma è il lavoro che si
fa dopo che è fondante. Nel tuo libro si intuisce. Lì si scrive la poesia, che è
già scritta, eppure deve essere messa sulla carta, aggiustata fino al divenire.
È questo il mistero che c’interroga: come fa a esserci già se non è stata ancora
composta? Se esiste già, chi l’ha scritta?, chi è il poeta?, dove vive? Possiamo
richiamarci a un paradosso, quello che sosteneva Diderot per quanto riguarda
l’attore. Ne Il paradosso sull’attore, la cui prima stesura risale al 1768, e
che fu pubblicato postumo nel 1830, l’enciclopedista francese sostiene, in
ultima analisi, che non è l’attore il vero protagonista ma le sue parole, il
testo a cui le sue parole rimandano, ecco allora l’annullamento della
sensibilità recitativa in funzione di un maggior controllo delle emozioni, e
dunque il raggiungimento dell’effetto voluto. Questo a costo di uno
sdoppiamento, dovuto allo sforzo d’interpretare. Ma nel poeta?… Se vogliamo
svolgere un parallelo si può dire che il maggior paradosso del poeta è il fatto
che egli si fa piccolo fino a scomparire, per poter dare forma e forza alla
pagina. Così pure il lettore, quante volte ci sentiamo immersi nelle parole del
vero poeta, tanto da dimenticarci di noi stessi, perché è quello che accadrà un
giorno, ne sono sicuro, un giorno io credo che si ascolterà soltanto, e
l’ascolto ci renderà liberi, felici, infatti la realtà vera del poeta allude a
questo e consiste nelle sue parole.
Tutto richiama all’infinito, non l’emozione, o meglio, l’emozione arriva in
seconda battuta, prima si presenta la conoscenza, e l’emozione è una conseguenza
della verità. La realtà del fenomeno emozione rimane, resta sigillata
eternamente, forse addirittura nel sangue. Il sangue è il primo segno, eppure
qui non è l’espressione di un sintomo, con buona pace dei dottori, qui parliamo
di altro, ma nemmeno questo basta a dire il nostro stato. La verità è la
speranza, e Umanità, il tuo ultimo libro, amico mio, lo dice, fin da subito
incomincia a macinare il suo seme, che darà frutto, è promessa, non importa
quello che pensiamo a livello di opinioni, è importante ciò che si rafforza in
noi senza che ce ne accorgiamo, nonostante non sia un caso il corso della nostra
vita. Umanità ripete questo processo in versi, arriva e tocca, è sintomo e
forma, è cura ma non in quanto l’uomo è malato, bensì perché ha un compito e lo
deve assolvere, anche se ha deciso basta. C’è uno struggimento in questo, che va
oltre, la fine non è il termine ultimo, l’umanità è più forte delle nostre
teorie. Un solo momento di verità assolve tutto. Leggiamo:
> E solo a pronunciarlo in un soffio quella parola,
> u-m-a-n-i-t-à stelle velocissime solcano,
> attraversano il vuoto del firmamento,
> non più nascosto dietro il silenzio
> del corpo, mi sono avvicinato
> più che potevo al suo respiro,
> mi sono afferrato ai filanti,
> alla scia del racconto
> per esserne parte, sentirne anch’io
> l’odore.
“La domanda ‘Che cosa domandiamo, umanità, alla poesia?’ è proprio il manuale
d’uso con cui leggere questo libro. Possiamo domandare? E se sì, cos’è che ci fa
essere umani più umani? E cosa, invece, ci fa assomigliare al tutto dal quale
veniamo?”. Sono parole esemplari, perfette, profonde, di Anna Ruotolo, magnifica
poetessa che ha scritto la prefazione al libro. Io dico che ci fa umani il
desiderio di perdono, invece ci facciamo problemi su tutto tranne chiederci a
che punto è l’amore nel mondo, e nel nostro cuore, che percentuale ha di non
morire. Dovrebbe essere la domanda principale sul livello della nostra civiltà,
in grado di verificare, misurare in che stato è il nostro sentire. Parlo da
cristiano, dunque mi sento di sviluppare il mio pensiero all’intero creato.
Creature, non gente, non popolo, non massa, non pubblico, non no.
Cito Turoldo, grande poeta e ancora attuale nel fondere i contrasti in argento
vivo, scintillante, utile alla riflessione. L’autore si riferisce a Leopardi,
che chiama anima mia:
> “[…] Oltre agli accenni interni al discorso, come il suo idillio sul colle da
> dove sentiva la contemplazione quale dolce naufragare (e quindi poesia come
> salvezza), io mi chiedevo: per noi che resta? e che infinito ci salva? o
> almeno, quale la nostra possibilità di canto e di ascolto? E oltre il ricordo
> della sera del dì di festa, quale sera per noi e quale festa? e cioè, in cosa
> crediamo ancora?”
>
> (David Maria Turoldo, pag. 427, da O sensi miei…, Rizzoli, 2002)
Il finale, qui sotto, appartiene alla poesia intitolata Scolio XVI (omaggio a
Emilio Vedova), ed è a pag. 50.
> […] È papiro indecifrabile? È l’umano,
> non astrazione e neppure
> vertigine. È l’umano che si fa
> narrativa connessa ai ventricoli pulsanti,
>
> minuzioso strazio, non geologia
> e neppure cieco desolato
> avvenire.
Ed ecco la confessione che ho preannunciato all’inizio. Sono stato io a gettare
“Il cortile”, il dattiloscritto che mi mandasti tanti anni fa per posta,
confidando nell’esistenza di un’altra copia, e che non trovi più. L’ho fatto io,
di certo, durante qualche pulizia di casa, o trasloco o che so, negandolo al
tempo. Eppure mi piace immaginare che da qualche parte deve trovarsi, ma non so,
e il non sapere avvalora maggiormente l’incognita, rende più vero, più luminoso
il margine buio delle cose inespresse, che pure continuano a vivere, per
miracolo. Lo rivelo adesso perché una ragione c’è, e ha a che fare con la tua
poesia, Antonio. Voglio dire che è rimasto incancellabile il suo senso, il quale
si è fermato in me, custodito fra me e te. Là dicevi che la poesia è l’ostia, lo
ricordo bene, e incarna, si offre (“l’ostia totale”, scrive in una sua poesia
Padre Turoldo, per tornare a lui). Ora posso dire di questo libro fantasma, mai
nato, oppure, scritto e perduto, che si fa vivo nella presente citazione, alla
luce del nuovo Umanità, e vuole riemergere dai pensieri, determinare umanità
nostra, tradita dal baratro delle cattive abitudini, dalla superficialità,
addirittura dai fatti della grande Storia, andando in parallelo con essa, come
ritengo di dimostrare: gli ebrei non sono più le vittime, e il comunismo non è
morto, dobbiamo fare i conti con la nostra menzogna; dobbiamo, io per primo. È
questo il succo, e sono pronto a rifarmi. Il male ci divide, aspettiamo un
ricongiungimento. Imperituro, si spera. Dal fondo di questo piccolo abisso che
sono, e in cui mi trovo, concludo qui la mia lettera.
Vincenzo Gambardella
*In copertina: un disegno del Guercino
L'articolo “Fedeltà a questa poesia misteriosa e leale”. Vincenzo Gambardella
scrive ad Antonio Trucillo proviene da Pangea.