
La malattia giusta. Ovvero: ecco perché leggere continuamente Manganelli fa bene
Pangea - Friday, October 17, 2025Sembra che l’esistenza dello scrittore sia legata a un mercimonio col demone. Che gli scrittori siano indemoniati, pare cosa evidente: invischiati col male, cercano di adescare le trombe del mondo basso. Farlo in poesia è più semplice: la brevità del verso rende fuggevole l’incontro. Esclusi Omero, Virgilio, Dante e Baudelaire, l’inferno è una sala d’attesa per epigoni. Quanto al romanzo, il vertice luciferino lo ha toccato Thomas Mann: misurarsi con la perfezione significa saggiare tutte le spigolature del caso. Basta leggere il Doctor Faustus per accorgersi di quanto uno scrittore, prima ancora di forgiare, deve essere forgiato dalla materia del libro.
Divagazioni a parte, rendere letterario il male è sempre stato il cesello preferito di molti artisti: si disinnesca un morbo che scalpita a suon di metafore e aggettivi. Wallace Stevens, quel presocratico della poesia che talvolta s’improvvisava Eraclito, scriveva che “la realtà è un cliché da cui fuggiamo con la metafora”.
Per lo più, la letteratura è una forma di adattamento al male subito, in attesa che il miracolo dell’opera si compia.
Per una sorta di scherzo del diavolo, Il vescovo e il ciarlatano di Manganelli, impressionante per intelligenza, uscito per Sellerio poco più di un anno fa, è passato inosservato.
Letteratura e psicoanalisi, nonostante nobili tentativi di risanamento, continuano a pungolarsi in un senso e nell’altro, con esiti più terapeutici che letterari. Eppure, non capita spesso di trovare uno scrittore, perlopiù umbratile e refrattario alla luce, che si reca spontaneamente da uno psicoanalista, come a seguire l’ultimo dettato del labirinto.
Ma con Manganelli andò esattamente così: consigliato da Cristina Campo, che era rimasta colpita da Bernhard perché iniziava le sue sedute chiedendo “a che punto è della sua tradizione?”, Manganelli decise infine di recarsi da un analista. Ma siccome era Manganelli, si recò, se non dal migliore, almeno dal più primitivo degli psicoanalisti: Ernst Bernhard.

Nell’intervista che apre il libro, un incendio di arguzia, Manganelli spiega sinteticamente cosa significa avere a che fare con un uomo come Bernhard. Incalzato dall’intervistatrice, argomenta che «la letteratura trattata come centrale diventa molesta, perché tutto ciò che è centrale è intollerabile. La letteratura è centrale solo quando si capisce che è periferica». Poi, senza soluzione di continuità, passa in rassegna la figura di Bernhard, l’uomo che gli ha insegnato a mentire. Dice che Bernhard amava le cartografie, che iniziava le sedute con la lettura delle linee delle mani e con lo studio del quadro astrologico del paziente. Tutto quello che il mondo offriva era una chiave di lettura della realtà, priva di gerarchia: «una completa psicologizzazione del materiale che maneggiava». Non ultimo: la lettura e consultazione continua dell’I Ching. Non è un caso che fin dai primi incontri Manganelli si rende conto di «avere a che fare con una impostazione topograficamente anomala dello spazio psicologico. Improvvisamente ci si accorgeva che non si viveva in due dimensioni ma si viveva in una quantità di dimensioni impressionanti».
La soluzione di questa terapia, come non tardò a scoprire, era innovativa, e spalancava scenari mentali – e quindi letterari – fino ad allora impensati. Se prima Manganelli credeva di dover affrontare un problema per risolverlo, con Bernhard si accorse che la mossa più astuta era «portare la convivenza mentale in luoghi imprevedibili e imprevisti». Iniziò così un colloquio in cui era in gioco la salvezza di tutto ciò per cui esiste un individuo: il suo retaggio simbolico, il precipitato delle sue credenze. Infine – ed è forse la cosa più interessante, considerando la cifra stilistica di Manganelli – il suo linguaggio. Con Bernhard l’esistenza diventava una carta geografica in cui l’inesattezza era il criterio di interpretazione. La malattia fungeva solamente come coordinata della nostra salute:
«il pericolo non è di essere malati, perché credo che, in un certo senso, esistere sia essere malati, ma di avere una malattia non pertinente, incongrua. Il problema è di sostituirla con una malattia pertinente. La malattia giusta è ciò che noi possiamo chiamare qualche volta in un momento di distrazione anche “salute”».
Quando gli chiedono cosa sia rimasto di quell’incontro con Bernhard, Manganelli non ha dubbi: il gusto della casualità. E poi: «la capacità di sostituire sistematicamente la fede con la superstizione». Per lo scrittore la letteratura è una sorta di superstizione, perché sa rinunciare alla verità quando serve, «cosa che la fede non sa mai fare». Da questo punto di vista, la letteratura è un patto con la menzogna. Come scrittore, Manganelli, che aveva già pubblicato La letteratura come menzogna, sceglie di essere estraneo alla verità: «la verità non ci riguarda, questa è una mia personale convinzione. La superstizione, invece, è fatta a nostra misura».

Il vescovo e il ciarlatano è proprio questo: una mescolanza tra sacro e profano, tra psicoanalista e scrittore, una spudorata inclinazione alla menzogna che trasforma la verità in racconto, perché «il mentitore è il proprietario di tutte le favole possibili» e la Storia non nacque «dall’ira di Dio, ma dalla menzogna di Caino».
Da qui, da questo incontro pericoloso nasce quell’incrocio di possibilità che è la letteratura. Nonostante il libro raccolga materiali eterogenei – articoli, recensioni, interviste – il punto focale è “Jung e la letteratura”. Siamo nel centro di convergenza di tutti i mascheramenti possibili: nel 1973 Manganelli, invitato come professore universitario ad un convegno su psicologia e letteratura, lancia un guanto di sfida ai relatori e persino a sé stesso, sostenendo che la cultura distrugge la letteratura, e che la psicologia, esplorata nelle sue ramificazioni, è l’ultima ancora di salvezza per chi vuole ancora fondare la propria opera sul mercimonio col demone.
«Se io trovo nella letteratura qualche cosa di vitale, di inquieto, di violento, appunto di eversivo perché ha a che fare con delle forze inconsce estremamente forti, la cultura cerca di spiegarmi che tutto questo non è assolutamente vero».
Questa requisitoria, lunga appena ventisei pagine, è il vero capolavoro del Manganelli libellista: tutti i generi danzano una sarabanda infernale, tutte le parole indossano una maschera. Potrebbe essere la trascrizione di una semplice conferenza o l’appunto preliminare, ma anche una versione teatrale della reazione degli ascoltatori o una confessione schizofrenica di quello che si vorrebbe sempre dire in pubblico. Ma fondamentalmente è questo: l’atto d’accusa della letteratura verso chi vorrebbe addomesticarla.
Andrea Muratore
L'articolo La malattia giusta. Ovvero: ecco perché leggere continuamente Manganelli fa bene proviene da Pangea.