Sembra che l’esistenza dello scrittore sia legata a un mercimonio col
demone. Che gli scrittori siano indemoniati, pare cosa evidente: invischiati col
male, cercano di adescare le trombe del mondo basso. Farlo in poesia è più
semplice: la brevità del verso rende fuggevole l’incontro. Esclusi Omero,
Virgilio, Dante e Baudelaire, l’inferno è una sala d’attesa per epigoni. Quanto
al romanzo, il vertice luciferino lo ha toccato Thomas Mann: misurarsi con la
perfezione significa saggiare tutte le spigolature del caso. Basta leggere
il Doctor Faustus per accorgersi di quanto uno scrittore, prima ancora di
forgiare, deve essere forgiato dalla materia del libro.
Divagazioni a parte, rendere letterario il male è sempre stato il cesello
preferito di molti artisti: si disinnesca un morbo che scalpita a suon di
metafore e aggettivi. Wallace Stevens, quel presocratico della poesia che
talvolta s’improvvisava Eraclito, scriveva che “la realtà è un cliché da cui
fuggiamo con la metafora”.
Per lo più, la letteratura è una forma di adattamento al male subito, in attesa
che il miracolo dell’opera si compia.
Per una sorta di scherzo del diavolo, Il vescovo e il ciarlatano di Manganelli,
impressionante per intelligenza, uscito per Sellerio poco più di un anno fa, è
passato inosservato.
Letteratura e psicoanalisi, nonostante nobili tentativi di risanamento,
continuano a pungolarsi in un senso e nell’altro, con esiti più terapeutici che
letterari. Eppure, non capita spesso di trovare uno scrittore, perlopiù
umbratile e refrattario alla luce, che si reca spontaneamente da uno
psicoanalista, come a seguire l’ultimo dettato del labirinto.
Ma con Manganelli andò esattamente così: consigliato da Cristina Campo, che era
rimasta colpita da Bernhard perché iniziava le sue sedute chiedendo “a che punto
è della sua tradizione?”, Manganelli decise infine di recarsi da un analista. Ma
siccome era Manganelli, si recò, se non dal migliore, almeno dal più primitivo
degli psicoanalisti: Ernst Bernhard.
Nell’intervista che apre il libro, un incendio di arguzia, Manganelli spiega
sinteticamente cosa significa avere a che fare con un uomo come Bernhard.
Incalzato dall’intervistatrice, argomenta che «la letteratura trattata come
centrale diventa molesta, perché tutto ciò che è centrale è intollerabile. La
letteratura è centrale solo quando si capisce che è periferica». Poi, senza
soluzione di continuità, passa in rassegna la figura di Bernhard, l’uomo che gli
ha insegnato a mentire. Dice che Bernhard amava le cartografie, che iniziava le
sedute con la lettura delle linee delle mani e con lo studio del quadro
astrologico del paziente. Tutto quello che il mondo offriva era una chiave di
lettura della realtà, priva di gerarchia: «una completa psicologizzazione del
materiale che maneggiava». Non ultimo: la lettura e consultazione continua
dell’I Ching. Non è un caso che fin dai primi incontri Manganelli si rende conto
di «avere a che fare con una impostazione topograficamente anomala dello spazio
psicologico. Improvvisamente ci si accorgeva che non si viveva in due dimensioni
ma si viveva in una quantità di dimensioni impressionanti».
La soluzione di questa terapia, come non tardò a scoprire, era innovativa, e
spalancava scenari mentali – e quindi letterari – fino ad allora impensati. Se
prima Manganelli credeva di dover affrontare un problema per risolverlo, con
Bernhard si accorse che la mossa più astuta era «portare la convivenza mentale
in luoghi imprevedibili e imprevisti». Iniziò così un colloquio in cui era in
gioco la salvezza di tutto ciò per cui esiste un individuo: il suo retaggio
simbolico, il precipitato delle sue credenze. Infine – ed è forse la cosa più
interessante, considerando la cifra stilistica di Manganelli – il suo
linguaggio. Con Bernhard l’esistenza diventava una carta geografica in cui
l’inesattezza era il criterio di interpretazione. La malattia fungeva solamente
come coordinata della nostra salute:
> «il pericolo non è di essere malati, perché credo che, in un certo senso,
> esistere sia essere malati, ma di avere una malattia non pertinente,
> incongrua. Il problema è di sostituirla con una malattia pertinente. La
> malattia giusta è ciò che noi possiamo chiamare qualche volta in un momento di
> distrazione anche “salute”».
Quando gli chiedono cosa sia rimasto di quell’incontro con Bernhard, Manganelli
non ha dubbi: il gusto della casualità. E poi: «la capacità di sostituire
sistematicamente la fede con la superstizione». Per lo scrittore la letteratura
è una sorta di superstizione, perché sa rinunciare alla verità quando serve,
«cosa che la fede non sa mai fare». Da questo punto di vista, la letteratura è
un patto con la menzogna. Come scrittore, Manganelli, che aveva già
pubblicato La letteratura come menzogna, sceglie di essere estraneo alla verità:
«la verità non ci riguarda, questa è una mia personale convinzione. La
superstizione, invece, è fatta a nostra misura».
Il vescovo e il ciarlatano è proprio questo: una mescolanza tra sacro e profano,
tra psicoanalista e scrittore, una spudorata inclinazione alla menzogna che
trasforma la verità in racconto, perché «il mentitore è il proprietario di tutte
le favole possibili» e la Storia non nacque «dall’ira di Dio, ma dalla menzogna
di Caino».
Da qui, da questo incontro pericoloso nasce quell’incrocio di possibilità che è
la letteratura. Nonostante il libro raccolga materiali eterogenei – articoli,
recensioni, interviste – il punto focale è “Jung e la letteratura”. Siamo nel
centro di convergenza di tutti i mascheramenti possibili: nel 1973 Manganelli,
invitato come professore universitario ad un convegno su psicologia e
letteratura, lancia un guanto di sfida ai relatori e persino a sé stesso,
sostenendo che la cultura distrugge la letteratura, e che la psicologia,
esplorata nelle sue ramificazioni, è l’ultima ancora di salvezza per chi vuole
ancora fondare la propria opera sul mercimonio col demone.
> «Se io trovo nella letteratura qualche cosa di vitale, di inquieto, di
> violento, appunto di eversivo perché ha a che fare con delle forze inconsce
> estremamente forti, la cultura cerca di spiegarmi che tutto questo non è
> assolutamente vero».
Questa requisitoria, lunga appena ventisei pagine, è il vero capolavoro del
Manganelli libellista: tutti i generi danzano una sarabanda infernale, tutte le
parole indossano una maschera. Potrebbe essere la trascrizione di una semplice
conferenza o l’appunto preliminare, ma anche una versione teatrale della
reazione degli ascoltatori o una confessione schizofrenica di quello che si
vorrebbe sempre dire in pubblico. Ma fondamentalmente è questo: l’atto d’accusa
della letteratura verso chi vorrebbe addomesticarla.
Andrea Muratore
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Manganelli fa bene proviene da Pangea.