
“Qualche disturbata Divinità”. Montale & Leopardi, poeti della luce
Pangea - Thursday, October 23, 2025L’etichetta “pessimismo” è quella che maggiormente stritola tanto Leopardi quanto Montale; e la loro presunta resa di fronte alla ricerca della felicità va consolidandosi per generazioni di studenti, e (anche) di docenti. Questa gabbia li conquide, e li riduce a teorici del “male di vivere”, del “brutto vero”, definizioni sterili rispetto alla caratura della loro speculazione filosofica. Tuttavia, bisogna ammettere che il recanatese e il genovese non hanno dipinto la realtà come un felice girotondo, e l’hanno liricizzata con toni aspri, duri, talvolta difficili da difendere e da accettare. Ma se si andasse “più addentro”, come direbbe il Pirandello dell’Umorismo, si apprezzerebbero sentieri carsici che conducono ad una anelata atarassia. Forse utopistica, dunque inesistente; forse astratta, e per questo poco compresa; forse misteriosa, ma per questo poetica.
Montale, pertanto, guarda a Leopardi come il marinaio guarda il faro nella tempesta: non dico che ne diventi epigone, ma spesso, furtivamente, ricalca alcuni passi e ne ripropone la veridicità con le dovute differenze. Tra tutte le immagini, si pensi alla celebre “siepe” dell’Infinito, che si trasforma nella “muraglia” in Meriggiare, pallido e assorto: Leopardi la valica, e con il verso “io nel pensier mi fingo” celebra il potere dell’immaginazione, per poi “naufragare” nella dimensione fittizia del “vago e indefinito” intrisa di piacere eterno; Montale, invece, non vince il muro, e invoca la “divina Indifferenza”, unico “prodigio” capace di stemperare la perenne condizione di asfissìa e di prosciugamento, dilagante nel primo periodo ligure.
In ogni caso, “la vita è male”. Ma se nella fase giovanile degli Idilli, l’invito leopardiano all’azione sospende il dolore, con il vagheggiare e la perdita nell’indefinitezza, l’invito montaliano è l’inibizione, il non-agire. Infatti, quando il poeta si muove e si volta, come nel caso di Forse un mattino andando, si scontra con il “nulla”, con il “vuoto”, con “l’inganno consueto”: essere indifferenti è la sola forma di “bene” saputa dal poeta degli Ossi di seppia, pertugio che “schiude” la quiete. I limiti, dunque, non sono trampolini per evadere dalla vita, concausa dell’infelicità umana, ma presentano “cocci aguzzi di bottiglia” sulla loro sommità. E come se non bastasse, se il vento leopardiano è uno “stormire” che si fonde con la “voce” dell’io poetico, il fruscìo che subisce Montale è un’aria desertica, che inaridisce e rinsecchisce, fino al midollo.
Da qui, la Natura “matrigna” si manifesta nelle sue espressioni più ostili: nel Dialogo della Natura e di un islandese, l’elenco di calamità è impressionante, in perfetta sintonia con gli effetti che il “meriggio” cocente ha sugli “oggetti montaliani” di Spesso il male di vivere ho incontrato. Dichiarazioni, ambedue, di una Natura totalmente indifferente, di quel “perpetuo circuito” che si innesca senza poi curarsi della sorte umana. In effetti, Miraggi di Montale ricalca le fasi di “produzione e distruzione” denunciate da Leopardi: “[La Natura, NdA] che regge il mondo, lo crea e lo distrugge/ per poi rifarlo sempre più spettrale/ e irriconoscibile”.
Ma per confermare la mia tesi – Leopardi e Montale come poeti della luce e non del buio – vi sono affinità ottimistiche, che consentono di lenire i tormenti. Nonostante il ricordo sia un’arma ambigua, parzialmente efficace, segna il poetare dei due. Velleitario citare l’incipit di A Silvia, “Silvia, rimembri ancora quel tempo”, dove il verbo “rimembrare” è colonna portante dell’intera dissertazione; così la “vecchierella” del Sabato del villaggio, quando “novellando vien del suo buon tempo”, e il poeta stesso quando “ricorre al pensier” nella Sera del dì di festa (come in moltissimi altri passi dei testi leopardiani); rimembranza che sussurra alla flebile speranza del Montale delle Occasioni, come quando implora alla “forbice” del tempo di “non recidere quel volto, / solo nella memoria che si sfolla”. Il tempo, dunque, non fa altro che divorare tutto; e il contrasto tra la gioia e la sofferenza, tra la giovinezza, quel “fior degli anni gentili”, e la vecchiaia, può essere vinto dalla rievocazione. E bisogna fuggire la morte, quella stessa morte che pone fine al tutto, anche al piacere. I versi finali di A Silvia risuonano:
“e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.”
Analogo è il profilo di Clizia, senhal di Irma Brandeis, nella Bufera, quando si congeda dal poeta e scompare nel buio – l’“abisso orrido” del Canto notturno leopardiano:
“come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,
mi salutasti – per entrare nel buio.”
Ma il buio che si delinea al finire del sentiero, che Montale percorre con quel “segreto” di disagio e incomprensione, in mezzo agli “uomini che non si voltano”, è vinto dalla luce. E di nuovo in analogia con Leopardi, sempre nella Bufera, si legge di una consueta Clizia salvifica, poiché lucifera, portatrice di luce e di sole:
“In alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il mutato amor mutata serbi
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbacini nell’altro e si distrugga in lui.”
Quegli “occhi” potenti come il sole, che si confondono e si mescolano per potenza e per efficacia con la stella del giorno, primeggiano già nel primo Leopardi. “Gli occhi ridenti e fuggitivi” di Teresa Fattorini in A Silvia, e gli occhi efficaci del Sogno:
“Ella negli occhi
pur mi restava, e nell’incerto raggio
del Sol vederla io mi credeva ancora.”
E Leopardi, non a caso, introduce la Ginestra con il passo del Vangelo di Giovanni (III, 19), a conferma che la luce è accecante poiché rivela la Verità, ed è spesso barattata per le tenebre, in quanto difficile da assimilare: “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.”
Montale e Leopardi, dunque, non sono altro che due radiografi della realtà sensibile, fonte di “affanno”. Il male non si può sconfiggere, poiché connaturato nell’essere umano, e non bisogna fare altro che conviverci. Da qui, il Leopardi della Ginestra e della dignità dell’uomo virtuoso, che deve emulare il “fiore del deserto”: prima profuma le “campagne dispogliate” e poi, quando giunge il suo momento, con estrema dignità e modestia, piegherà “il capo innocente”, senza superbia; così, Montale e la ricerca “varco”, che in una forma di “slancio vitalistico” ambisce titanicamente alla coesistenza con la disperazione:
“i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.”
E mentre imperano “le coincidenze, le prenotazioni,/ le trappole, gli scorni di chi crede/ che la realtà sia quella che si vede”, si cerca ancora quel pertugio, “dove s’accende/ rara la luce della petroliera”.
Davide Chindamo
L'articolo “Qualche disturbata Divinità”. Montale & Leopardi, poeti della luce proviene da Pangea.