L’etichetta “pessimismo” è quella che maggiormente stritola tanto Leopardi
quanto Montale; e la loro presunta resa di fronte alla ricerca della felicità va
consolidandosi per generazioni di studenti, e (anche) di docenti. Questa gabbia
li conquide, e li riduce a teorici del “male di vivere”, del “brutto vero”,
definizioni sterili rispetto alla caratura della loro speculazione
filosofica. Tuttavia, bisogna ammettere che il recanatese e il genovese non
hanno dipinto la realtà come un felice girotondo, e l’hanno liricizzata con toni
aspri, duri, talvolta difficili da difendere e da accettare. Ma se si andasse
“più addentro”, come direbbe il Pirandello dell’Umorismo, si apprezzerebbero
sentieri carsici che conducono ad una anelata atarassia. Forse utopistica,
dunque inesistente; forse astratta, e per questo poco compresa; forse
misteriosa, ma per questo poetica.
Montale, pertanto, guarda a Leopardi come il marinaio guarda il faro nella
tempesta: non dico che ne diventi epigone, ma spesso, furtivamente, ricalca
alcuni passi e ne ripropone la veridicità con le dovute differenze. Tra tutte le
immagini, si pensi alla celebre “siepe” dell’Infinito, che si trasforma nella
“muraglia” in Meriggiare, pallido e assorto: Leopardi la valica, e con il verso
“io nel pensier mi fingo” celebra il potere dell’immaginazione, per poi
“naufragare” nella dimensione fittizia del “vago e indefinito” intrisa di
piacere eterno; Montale, invece, non vince il muro, e invoca la “divina
Indifferenza”, unico “prodigio” capace di stemperare la perenne condizione di
asfissìa e di prosciugamento, dilagante nel primo periodo ligure.
In ogni caso, “la vita è male”. Ma se nella fase giovanile degli Idilli,
l’invito leopardiano all’azione sospende il dolore, con il vagheggiare e la
perdita nell’indefinitezza, l’invito montaliano è l’inibizione, il non-agire.
Infatti, quando il poeta si muove e si volta, come nel caso di Forse un mattino
andando, si scontra con il “nulla”, con il “vuoto”, con “l’inganno consueto”:
essere indifferenti è la sola forma di “bene” saputa dal poeta degli Ossi di
seppia, pertugio che “schiude” la quiete. I limiti, dunque, non sono trampolini
per evadere dalla vita, concausa dell’infelicità umana, ma presentano “cocci
aguzzi di bottiglia” sulla loro sommità. E come se non bastasse, se il vento
leopardiano è uno “stormire” che si fonde con la “voce” dell’io poetico, il
fruscìo che subisce Montale è un’aria desertica, che inaridisce e rinsecchisce,
fino al midollo.
Da qui, la Natura “matrigna” si manifesta nelle sue espressioni più ostili:
nel Dialogo della Natura e di un islandese, l’elenco di calamità è
impressionante, in perfetta sintonia con gli effetti che il “meriggio” cocente
ha sugli “oggetti montaliani” di Spesso il male di vivere ho
incontrato. Dichiarazioni, ambedue, di una Natura totalmente indifferente, di
quel “perpetuo circuito” che si innesca senza poi curarsi della sorte umana. In
effetti, Miraggi di Montale ricalca le fasi di “produzione e distruzione”
denunciate da Leopardi: “[La Natura, NdA] che regge il mondo, lo crea e lo
distrugge/ per poi rifarlo sempre più spettrale/ e irriconoscibile”.
Ma per confermare la mia tesi – Leopardi e Montale come poeti della luce e non
del buio – vi sono affinità ottimistiche, che consentono di lenire i tormenti.
Nonostante il ricordo sia un’arma ambigua, parzialmente efficace, segna il
poetare dei due. Velleitario citare l’incipit di A Silvia, “Silvia, rimembri
ancora quel tempo”, dove il verbo “rimembrare” è colonna portante dell’intera
dissertazione; così la “vecchierella” del Sabato del villaggio, quando
“novellando vien del suo buon tempo”, e il poeta stesso quando “ricorre al
pensier” nella Sera del dì di festa (come in moltissimi altri passi dei testi
leopardiani); rimembranza che sussurra alla flebile speranza del Montale
delle Occasioni, come quando implora alla “forbice” del tempo di “non recidere
quel volto, / solo nella memoria che si sfolla”. Il tempo, dunque, non fa altro
che divorare tutto; e il contrasto tra la gioia e la sofferenza, tra la
giovinezza, quel “fior degli anni gentili”, e la vecchiaia, può essere vinto
dalla rievocazione. E bisogna fuggire la morte, quella stessa morte che pone
fine al tutto, anche al piacere. I versi finali di A Silvia risuonano:
> “e con la mano
> la fredda morte ed una tomba ignuda
> mostravi di lontano.”
Analogo è il profilo di Clizia, senhal di Irma Brandeis, nella Bufera, quando si
congeda dal poeta e scompare nel buio – l’“abisso orrido” del Canto
notturno leopardiano:
> “come quando
> ti rivolgesti e con la mano, sgombra
> la fronte dalla nube dei capelli,
> mi salutasti – per entrare nel buio.”
Ma il buio che si delinea al finire del sentiero, che Montale percorre con quel
“segreto” di disagio e incomprensione, in mezzo agli “uomini che non si
voltano”, è vinto dalla luce. E di nuovo in analogia con Leopardi, sempre
nella Bufera, si legge di una consueta Clizia salvifica, poiché lucifera,
portatrice di luce e di sole:
> “In alto, Clizia, è la tua sorte, tu
> che il mutato amor mutata serbi
> fino a che il cieco sole che in te porti
> si abbacini nell’altro e si distrugga in lui.”
Quegli “occhi” potenti come il sole, che si confondono e si mescolano per
potenza e per efficacia con la stella del giorno, primeggiano già nel primo
Leopardi. “Gli occhi ridenti e fuggitivi” di Teresa Fattorini in A Silvia, e gli
occhi efficaci del Sogno:
> “Ella negli occhi
> pur mi restava, e nell’incerto raggio
> del Sol vederla io mi credeva ancora.”
E Leopardi, non a caso, introduce la Ginestra con il passo del Vangelo di
Giovanni (III, 19), a conferma che la luce è accecante poiché rivela la Verità,
ed è spesso barattata per le tenebre, in quanto difficile da assimilare: “E gli
uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.”
Montale e Leopardi, dunque, non sono altro che due radiografi della realtà
sensibile, fonte di “affanno”. Il male non si può sconfiggere, poiché
connaturato nell’essere umano, e non bisogna fare altro che conviverci. Da qui,
il Leopardi della Ginestra e della dignità dell’uomo virtuoso, che deve emulare
il “fiore del deserto”: prima profuma le “campagne dispogliate” e poi, quando
giunge il suo momento, con estrema dignità e modestia, piegherà “il capo
innocente”, senza superbia; così, Montale e la ricerca “varco”, che in una forma
di “slancio vitalistico” ambisce titanicamente alla coesistenza con la
disperazione:
> “i silenzi in cui si vede
> in ogni ombra umana che si allontana
> qualche disturbata Divinità.”
E mentre imperano “le coincidenze, le prenotazioni,/ le trappole, gli scorni di
chi crede/ che la realtà sia quella che si vede”, si cerca ancora quel pertugio,
“dove s’accende/ rara la luce della petroliera”.
Davide Chindamo
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«Che sentieri avrebbe percorso un ipotetico compositore Umberto Eco se avesse
dovuto scrivere Il nome della rosa non negli anni Ottanta sotto forma di libro,
ma oggi sotto forma di opera?». Questa è la domanda che si pone il compositore
Francesco Filidei, al quale La Scala e l’Opera di Parigi commissionano un
progetto titanico: la trasposizione del romanzo in opera lirica.
«Eco stesso,» continua il musicista, «nelle Postille al Nome della rosa indica
la strada da seguire quando parla di “un libro che assumeva una struttura da
melodramma buffo, con lunghi recitativi, e ampie arie”».
Assodata la forma da adottare, il problema si ripercuote sulla sostanza: «Non
avrei potuto continuare senza un elemento fondamentale: un buon motivo per far
cantare i personaggi. Siamo in un’abbazia, luogo che si vuole di preghiera: chi
dice preghiera dice canto, e nello specifico canto gregoriano, un canto talmente
antico da risultare ormai atemporale, sul quale ho fatto scivolare elementi
barocchi, ottocenteschi, contemporanei, stemperando la presenza massiva di voci
maschili con ruoli en travesti di Adso, Gui e Ubertino.»
Dunque, un’opera buffa in due atti, imperniata su una contaminazione musicale
tra antico e moderno e una rivisitazione dei personaggi. Manca il libretto, che
viene affidato allo stesso Filidei, insieme a Stefano Busellato, Hannah Dübgen e
Carlo Pernigotti. «Abbiamo dovuto tagliare alcuni personaggi e semplificare dal
punto di vista narrativo numerose situazioni» ammettono gli autori – ciò
nonostante, si tratta di uno spettacolo che dura quasi tre ore.
Qui iniziano le criticità. Il primo atto è di una lunghezza disumana,
appesantito da un libretto troppo fedele al romanzo. Le citazioni in latino e in
greco – perdipiù in forma medievale – non migliorano una proposta musicale
stridente e spigolosa. Sebbene vi siano stati momenti di notevole qualità (la
tentazione di Adso e la supplica alla Vergine), la musica è orfana di melodie
solenni, di tensioni liriche potenti. Questo è dovuto alla latitanza delle arie,
che, laddove appaiono, sono prive di ogni coinvolgimento patetico, e alla
freddezza dei recitativi, che non si fondono mai con lo spartito. Ibridare
l’insegnamento sinfonico di Liszt e Mahler con il gusto contemporaneo sembra
privare la musica del suo mistero più profondo:emozionare, commuovere, fare
breccia nel cuore al punto che “la parola muore nel pianto”.
Di certo l’intenzione non è questa, ma non si può prescindere dal protagonismo
che la musica deve avere nell’opera. Così come non si può prescindere dalla
caratterizzazione di certi personaggi. Eco ha speso moltissime righe per il
profilo psicologico di Bernardo Gui – per non parlare dell’essenza di Adso. La
scelta di inserire dei ruoli en travesti per “stemperare la presenza di voci
maschili”, come chiarito da Filidei, è fallimentare. L’inquisitore, sebbene
Daniela Barcellona sia stata monumentale e tecnicamente impeccabile, è privo di
ogni veridicità storica e letteraria. Se si ricerca la fedeltà al romanzo, non
si può trascurare la descrizione che ne fa Eco:
> «Era un domenicano di circa settant’anni, esile ma diritto nella figura. Mi
> colpirono i suoi occhi grigi, freddi, capaci di fissare senza espressione, e
> che molte volte avrei visto invece balenare di lampi equivoci, abile sia nel
> celare pensieri e passioni che nell’esprimerli a bella posta».
Non penso vi siano dubbi sulla legittimità di una voce profonda e baritonale, in
perfetta sintonia con la cupezza e l’oscurità di quell’animo impietoso.
Se la musica tende ad essere metallica – in pieno stile Filidei – e il libretto
si rivela un deterrente per l’attenzione, il vero trionfo sta nella direzione di
Metzmacher, nella regia di Michieletto e nella scenografia di Fantin.
Quest’ultimo, però, è il vero protagonista al Piermarini. Sulla base del
romanzo, crea “un labirinto psicologico”, con dei teli trasparenti e una grande
croce luminosa che pende. Il coro è sopraelevato, posto dietro questa grande
“struttura della mente”: con la sua voce incarna l’esoterismo medievale e la
parola divina che incute timore, come nella recita tuonante dei versetti
dell’Apocalisse.
Strepitoso quanto accade, ad esempio, nella prima stanza: compare un portale
scolpito che mostra Cristo Re attorniato da animali terribili; ad un tratto,
contorsionisti abilissimi – personificazione del peccato – rompono il finto
marmo e avvinghiano Adso e lo sollevano, fino a dominarlo. Stesso stupore
nell’apparizione di una gigantesca miniatura animata, nel movimento di un muro
che stritola l’Abate e nell’incendio finale, che brucia la croce e “distrugge”
la biblioteca.
Scenografia e regia sublimi, direzione e coro eccellenti, meritevole di lode
tutto il cast. Filidei onesto e fedele a se stesso, ma non alla tradizione
operistica; nulla di male, ma difficile da annoverare tra i grandi
melodrammatici: come diceva Verdi a Puccini, dopo il fiasco delle Villi,
«l’opera è l’opera, la sinfonia è la sinfonia». È evidente che l’opera di
Filidei è cervellotica, straniante, ma il tentativo mentale di ricreare il mondo
dell’abbazia e il suo universo medievale prevale sulla creazione artistica;
l’idea è vibrante, ma si raffredda quando prende vita. Con Il nome della rosa è
venuto meno il motivo per cui si varca il foyer di un teatro come quello
scaligero: lasciarsi pervadere dalla musica che colpisce lo stomaco, che
accarezza l’anima e rimane incisa per sempre nella memoria.
Credo che nessuno si ricorderà la musica del Nome della rosa come si
ricorderanno le note verdiane della Donna è mobile o gli accordi pucciniani
del Nessun dorma e di E lucevan le stelle. No, noi non siamo ancora pronti a
“recidere quel volto”.
Davide Chindamo
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