“Non ho più segreti da saccheggiare”. Vita & versi di Sandor Weöres

Pangea - Tuesday, December 9, 2025

Sandor Weöres pare una specie di Lord Jim della letteratura ungherese, un uomo animato da una curiosità oceanica – e da una equivalente inquietudine. Nei suoi versi, Weöres è sempre spiazzante: a volte adotta i toni di un filosofo stoico tardoantico – nel suggestivo Terra sigillata –, a volte arma di immagini un concetto, altre volte sorprende con bucoliche tenerezze. Le sue invettive contro l’ardore bellico che anima l’uomo prendono la via della profezia più che del pragmatismo; in Ore difficili, ad esempio, la lotta ha il nitore della ricerca ascetica, la predilezione per la vita spirituale. 

Nato nel 1913 a Szombathely, in Ungheria – il padre era un ussaro – Weöres ha studiato legge, poi geografia, infine filosofia; ha esordito con rapace precocità, pubblicando le prime poesie a quattordici anni, segno di una stimmate interiore. Ha viaggiato – e vissuto – nelle Filippine, in Vietnam, in India, in Italia; poeta dal cuore apolide, apolitico per estro, ha ingaggiato un versificare che stringe l’assoluto, che fa lo scalpo alla Storia. Durante la Seconda guerra, fu obbligato ai lavori forzati; rifiutò i diktat del “realismo socialista” rifugiandosi in una poesia totale, capace di risvegliare dal torpore i miti, altrimenti assiderati dalla “Repubblica Popolare”. Tra il 1949 e il 1964 la sua poesia fu considerata sgradita, ostile al suo Paese. Gli fu utile la pratica del tradurre: trascinò nella sua lingua l’opera di Dante, di Petrarca e di Leopardi; ha consegnato una versione sgargiante del Daodejing, molto letta ancora oggi, e dell’Epopea di Gilgamesh. Sentì una certa sintonia con Thomas S. Eliot, di cui tradusse La terra desolata. Per un po’, fu libraio, a Budapest. 

Morto nel gennaio del 1989, Sandor Weöres è riconosciuto tra i grandi poeti ungheresi di ogni tempo: nel suo paese gli hanno dedicato statue. In Italia la sua opera è pressoché sconosciuta: nel 1984, per Vallecchi, Paolo Santarcangeli ha curato alcuni suoi testi nel complessivo Trilogia di poeti ungheresi (insieme a poesie di György Somlyó e di Sándor Rákos). In Francia, Sandor Weöres è stato tradotto da Bernard Noël; nel mondo anglofono ha avuto la ‘benedizione’ di Edwin Morgan, grande poeta scozzese (è stato il primo ‘Poet Laureate’, o meglio, ‘Makar’ del suo Paese) e grande traduttore (tra l’altro, del Beowulf, di Eugenio Montale e di Attila József). Così ne scrive nell’edizione dei Selected Poems di Weöres uscita da Penguin nel 1970:

“Sandor Weöres è poeta proteiforme, di straordinario virtuosismo, capace in ogni formula lirica, dai metri complessi al verso libero, profondamente consapevole dei poteri musicali e ritmici che la poesia condivide con la danza e il rito, a tal punto che la sua opera sa fondere il sofisticato nel primordiale. Non sorprende, dunque, la sua visione assoluta della poesia, assolutamente ‘aperta’ a ogni possibilità di canto; non sorprende che non nutra simpatie verso i precetti socio-politici del Paese in cui vive”. 

Leggendo Sandor Weöres – in calce, alcuni versi tradotti dalla versione di Edwin Morgan – si percepisce l’indole del poeta come creatore di mondi, come re delle stelle. Una condizione lirica, al contempo, ferina e piena di grazia, grata al creato. 

***

Momento eterno

Non affidarti alla pietra:
si sbriciolerà. Plasma nell’aria
l’istante che perfora il tempo
dall’aldilà all’adesso

veglia su ciò che l’ora ammorba
tieni stretto nella morsa 
il tesoro – l’eternità, bilanciata
tra futuro e passato.

Come il corpo del nuotatore
è sfiorato dal pesce che fluttua
così ci sono momenti in cui 
Dio è in te e tu puoi divinarlo:

lo ricordi a tratti, a bocconi,
sempre troppo tardi, in sogno.
Mastichi l’eternità
da questo lato della tomba. 

*

Morire

Occhi di madreperla, acido sentore 
di mele, scampanio di urla e passi
che balbettano, si addensano, gemelli
dalle enormi corna sogghignano
e affondano e trabocca il freddo e tutto
è azzurro, vasti elettrificati azzurri campi
aratri che lampeggiano e spine 
che sbocciano sulla nudità del cielo
la terra ha le rughe, la terra è lebbrosa
ma scalpita un dolce nido selvaggio:
dal piatto si apre una luce puntinata, costante. 

*

Bisbiglii nell’oscurità

Ti issi dal pozzo, bimbo. La tua testa è una pira, il braccio un ruscello, aria il tuo corpo, fango ai piedi. Devo legarti, ma non avere paura; ti amo e i miei nodi sono la tua libertà.

Scrivi sul cranio: “Sono forte, devoto, impavido, amo la casa e piaccio alle donne”.

Scrivi sul braccio: “Ho tutto il tempo che voglio, non ho fretta: l’eterno è mio”.

Scrivi sulla schiena: “In ogni cosa mi riverso, ogni cosa in me si riversa; non sono continente, nulla può contaminarmi”.

Scrivi sui piedi: “Conosco la misura dell’oscurità, le mie mani sondano i suoi lemmi; sono il solo che conosca il senso della parola abisso”.

Ora sei oro, bimbo. Diventa pane per i ciechi, trasformati in spada per chi ti vuole. 

*

Terra sigillata

Epigrammi di un poeta antico

Inutile investigare: so nulla. Un vecchio uomo che dorme, al risveglio è un bambino – puoi leggere ciò che sai nei miei grandi occhi azzurri. Intravedo gli acidi acini del sapere. 

*

Un bambino dalle dita rosate accarezza le trote in riva al fiume: ne chiedo una e lui risponde no, non ti darò nemmeno una trota autentica. 

Vecchi profeti, cosa volete ancora da me? I ventiquattro prismi celesti – un tempo vagavo cieco nel cuore e sapevo leggerlo. 

*

Se vuoi la tua fortuna, ti svelerò chi sei, cosa ti aspetti – ma sono sordo ai proclami – non ho più segreti da saccheggiare. 

*

Dici di essere figlio di Dio: perché allora ti comporti come un mendicante?

Zeus, quando scende sulla terra, chiede pane e acqua, ha fame, come un vagabondo. 

*

Lo Splendente scende sulla terra e mendica nel fango – quando è nel suo castello, in cielo, tra colonne d’oro, sogna di tornare quaggiù.

*

Il messaggero mira in alto: ecco il centro della terra!

Sopra la sua testa, il cielo si impenna, con un buco nel viso. 

*

Bello il pino solitario, bella la rosa aureolata di api, bello il bianco funerale, il più bello di tutto – l’unione. 

*

I tesori dell’albero: foglie, fiori, frutti. 

Li dona con generosità, avvinghiato agli elementi. 

*

La foresta è pudica, il lupo muore all’ombra, senza dare notizia di sé – una prefica pagata come si deve urla senza vergogna durante la sepoltura di uno sconosciuto. 

*

Se il cuore è saldo, il malfattore non commette errori mentre presenta bilanci corrotti – ma si sbilancia, sbriciola in pianto e prova pietà per l’innocente punito. 

*

Il crimine ha una sua nobiltà, la virtù è sacra; ma che valore ha un cuore inquieto? In quel caso, il crimine è un ubriaco furioso, la virtù un carceriere. 

*

Taglio il destino nel bocciolo: il mio cranio è la cupola celeste, le stelle gravide di fato corrono lungo le sue arcate. 

**

Segni 

I

Il mondo intero è sotto la mia palpebra. 

Dio si insinua tra la testa e il cuore. Ecco perché mi sento pesante. Ecco perché è infelice l’asino su cui sono assiso.

*

II

Folle dei cieli: tu che versi il tuo viso sulle acque, qual è la ragazza che ti svestirà della follia?

Grande santo, dopo aver nuotato in questo mondo sei arrivato al silenzio, all’infinito vuoto – sei asceso fino all’abito di cristallo della sposa: e, dimmi, com’è?

*

III

Uomo: risveglia la donna segreta, segregata in te; donna, illumina la tua parte maschile: quando l’Invisibile abbraccia, penetra ogni parte di te.  

*

IV

Grande è l’amore che ci getta nel vortice!

Grande è l’amore che ci attende mentre ci trasformiamo in un vortice!

*

V

Più delle nebulose afflizioni del cuore, più del dubitoso lavorio della mente – compiaciti del mal di denti, per le energie che ti leva…

Solo le parole possono risolvere una domanda – ma ogni cosa ha in sé la sua risposta. 

**

Ore difficili

Il tempo delle cupe profezie è al termine: la Storia bisbiglia il suo Inverno intorno a noi. 

Uomo: potenza suicida nelle membra, veleno nel sangue, follia di cane rabbioso nel cranio – nessuno può divinare il suo destino. 

Vuole squartare i propri simili con nuovi strumenti di devastazione, vuole ispezionarne le ossa; le sue sole conquiste: la perdita della ruota e del fuoco, l’oblio del verbo, la vita a quattro zampe. 

Che si districhi, che si sleghi: che rinunci ai suoi innumerevoli gesti da marionetta condotti con ostinazione brulicante di vermi, alle sue attività utili ad approvvigionare termiti – si commisuri all’ordine del mondo interiore. 

I monti interiori, familiari e ordinari, sovrastano l’avidità individuale. Si integrano tra loro, trovano equilibrio con il mondo esterno. 

Questa è l’antica pratica: finora i flussi insanguinati della storia si sono mossi ispirati dalla bellezza e dalla grandezza – ma ora è soltanto morte inferiore, incessante processo di disumanizzazione. 

In qualche culla un bambino in fiamme reca dono divini; neppure nei nostri sogni potevamo prevederlo. 

Come nei tempi passati si è svelata l’arcana forza del mondo materiale così sveleremo i poteri del mondo interiore, incorporeo. 

Nelle mani del bambino la lampada della ragione non ha tirannia: serve a risvegliare le forze spirituali, le illumina, le mette all’opera. 

Una volta, l’uomo era un grande conquistatore – in futuro, conquisterà se stesso – allineerà le stelle al suo destino. 

*

Montagna, paesaggio

Il fiume fende la valle
gli uccelli spettegolano. 

Quiete verticale
case-volto-di-Dio:
levitano.

Più in alto, il canto di Nemo
il mulino sulla cima: 
il ghiaccio si rompe, è brutale.

Sandor Weöres

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