Sandor Weöres pare una specie di Lord Jim della letteratura ungherese, un uomo
animato da una curiosità oceanica – e da una equivalente inquietudine. Nei suoi
versi, Weöres è sempre spiazzante: a volte adotta i toni di un filosofo stoico
tardoantico – nel suggestivo Terra sigillata –, a volte arma di immagini un
concetto, altre volte sorprende con bucoliche tenerezze. Le sue invettive contro
l’ardore bellico che anima l’uomo prendono la via della profezia più che del
pragmatismo; in Ore difficili, ad esempio, la lotta ha il nitore della ricerca
ascetica, la predilezione per la vita spirituale.
Nato nel 1913 a Szombathely, in Ungheria – il padre era un ussaro – Weöres ha
studiato legge, poi geografia, infine filosofia; ha esordito con rapace
precocità, pubblicando le prime poesie a quattordici anni, segno di una stimmate
interiore. Ha viaggiato – e vissuto – nelle Filippine, in Vietnam, in India, in
Italia; poeta dal cuore apolide, apolitico per estro, ha ingaggiato un
versificare che stringe l’assoluto, che fa lo scalpo alla Storia. Durante la
Seconda guerra, fu obbligato ai lavori forzati; rifiutò i diktat del “realismo
socialista” rifugiandosi in una poesia totale, capace di risvegliare dal torpore
i miti, altrimenti assiderati dalla “Repubblica Popolare”. Tra il 1949 e il 1964
la sua poesia fu considerata sgradita, ostile al suo Paese. Gli fu utile la
pratica del tradurre: trascinò nella sua lingua l’opera di Dante, di Petrarca e
di Leopardi; ha consegnato una versione sgargiante del Daodejing, molto letta
ancora oggi, e dell’Epopea di Gilgamesh. Sentì una certa sintonia con Thomas S.
Eliot, di cui tradusse La terra desolata. Per un po’, fu libraio, a Budapest.
Morto nel gennaio del 1989, Sandor Weöres è riconosciuto tra i grandi poeti
ungheresi di ogni tempo: nel suo paese gli hanno dedicato statue. In Italia la
sua opera è pressoché sconosciuta: nel 1984, per Vallecchi, Paolo Santarcangeli
ha curato alcuni suoi testi nel complessivo Trilogia di poeti ungheresi (insieme
a poesie di György Somlyó e di Sándor Rákos). In Francia, Sandor Weöres è stato
tradotto da Bernard Noël; nel mondo anglofono ha avuto la ‘benedizione’ di Edwin
Morgan, grande poeta scozzese (è stato il primo ‘Poet Laureate’, o meglio,
‘Makar’ del suo Paese) e grande traduttore (tra l’altro, del Beowulf, di Eugenio
Montale e di Attila József). Così ne scrive nell’edizione dei Selected Poems di
Weöres uscita da Penguin nel 1970:
> “Sandor Weöres è poeta proteiforme, di straordinario virtuosismo, capace in
> ogni formula lirica, dai metri complessi al verso libero, profondamente
> consapevole dei poteri musicali e ritmici che la poesia condivide con la danza
> e il rito, a tal punto che la sua opera sa fondere il sofisticato nel
> primordiale. Non sorprende, dunque, la sua visione assoluta della poesia,
> assolutamente ‘aperta’ a ogni possibilità di canto; non sorprende che non
> nutra simpatie verso i precetti socio-politici del Paese in cui vive”.
Leggendo Sandor Weöres – in calce, alcuni versi tradotti dalla versione di Edwin
Morgan – si percepisce l’indole del poeta come creatore di mondi, come re delle
stelle. Una condizione lirica, al contempo, ferina e piena di grazia, grata al
creato.
***
Momento eterno
Non affidarti alla pietra:
si sbriciolerà. Plasma nell’aria
l’istante che perfora il tempo
dall’aldilà all’adesso
veglia su ciò che l’ora ammorba
tieni stretto nella morsa
il tesoro – l’eternità, bilanciata
tra futuro e passato.
Come il corpo del nuotatore
è sfiorato dal pesce che fluttua
così ci sono momenti in cui
Dio è in te e tu puoi divinarlo:
lo ricordi a tratti, a bocconi,
sempre troppo tardi, in sogno.
Mastichi l’eternità
da questo lato della tomba.
*
Morire
Occhi di madreperla, acido sentore
di mele, scampanio di urla e passi
che balbettano, si addensano, gemelli
dalle enormi corna sogghignano
e affondano e trabocca il freddo e tutto
è azzurro, vasti elettrificati azzurri campi
aratri che lampeggiano e spine
che sbocciano sulla nudità del cielo
la terra ha le rughe, la terra è lebbrosa
ma scalpita un dolce nido selvaggio:
dal piatto si apre una luce puntinata, costante.
*
Bisbiglii nell’oscurità
Ti issi dal pozzo, bimbo. La tua testa è una pira, il braccio un ruscello, aria
il tuo corpo, fango ai piedi. Devo legarti, ma non avere paura; ti amo e i miei
nodi sono la tua libertà.
Scrivi sul cranio: “Sono forte, devoto, impavido, amo la casa e piaccio alle
donne”.
Scrivi sul braccio: “Ho tutto il tempo che voglio, non ho fretta: l’eterno è
mio”.
Scrivi sulla schiena: “In ogni cosa mi riverso, ogni cosa in me si riversa; non
sono continente, nulla può contaminarmi”.
Scrivi sui piedi: “Conosco la misura dell’oscurità, le mie mani sondano i suoi
lemmi; sono il solo che conosca il senso della parola abisso”.
Ora sei oro, bimbo. Diventa pane per i ciechi, trasformati in spada per chi ti
vuole.
*
Terra sigillata
Epigrammi di un poeta antico
Inutile investigare: so nulla. Un vecchio uomo che dorme, al risveglio è un
bambino – puoi leggere ciò che sai nei miei grandi occhi azzurri. Intravedo gli
acidi acini del sapere.
*
Un bambino dalle dita rosate accarezza le trote in riva al fiume: ne chiedo una
e lui risponde no, non ti darò nemmeno una trota autentica.
Vecchi profeti, cosa volete ancora da me? I ventiquattro prismi celesti – un
tempo vagavo cieco nel cuore e sapevo leggerlo.
*
Se vuoi la tua fortuna, ti svelerò chi sei, cosa ti aspetti – ma sono sordo ai
proclami – non ho più segreti da saccheggiare.
*
Dici di essere figlio di Dio: perché allora ti comporti come un mendicante?
Zeus, quando scende sulla terra, chiede pane e acqua, ha fame, come un
vagabondo.
*
Lo Splendente scende sulla terra e mendica nel fango – quando è nel suo
castello, in cielo, tra colonne d’oro, sogna di tornare quaggiù.
*
Il messaggero mira in alto: ecco il centro della terra!
Sopra la sua testa, il cielo si impenna, con un buco nel viso.
*
Bello il pino solitario, bella la rosa aureolata di api, bello il bianco
funerale, il più bello di tutto – l’unione.
*
I tesori dell’albero: foglie, fiori, frutti.
Li dona con generosità, avvinghiato agli elementi.
*
La foresta è pudica, il lupo muore all’ombra, senza dare notizia di sé – una
prefica pagata come si deve urla senza vergogna durante la sepoltura di uno
sconosciuto.
*
Se il cuore è saldo, il malfattore non commette errori mentre presenta bilanci
corrotti – ma si sbilancia, sbriciola in pianto e prova pietà per l’innocente
punito.
*
Il crimine ha una sua nobiltà, la virtù è sacra; ma che valore ha un cuore
inquieto? In quel caso, il crimine è un ubriaco furioso, la virtù un
carceriere.
*
Taglio il destino nel bocciolo: il mio cranio è la cupola celeste, le stelle
gravide di fato corrono lungo le sue arcate.
**
Segni
I
Il mondo intero è sotto la mia palpebra.
Dio si insinua tra la testa e il cuore. Ecco perché mi sento pesante. Ecco
perché è infelice l’asino su cui sono assiso.
*
II
Folle dei cieli: tu che versi il tuo viso sulle acque, qual è la ragazza che ti
svestirà della follia?
Grande santo, dopo aver nuotato in questo mondo sei arrivato al silenzio,
all’infinito vuoto – sei asceso fino all’abito di cristallo della sposa: e,
dimmi, com’è?
*
III
Uomo: risveglia la donna segreta, segregata in te; donna, illumina la tua parte
maschile: quando l’Invisibile abbraccia, penetra ogni parte di te.
*
IV
Grande è l’amore che ci getta nel vortice!
Grande è l’amore che ci attende mentre ci trasformiamo in un vortice!
*
V
Più delle nebulose afflizioni del cuore, più del dubitoso lavorio della mente –
compiaciti del mal di denti, per le energie che ti leva…
Solo le parole possono risolvere una domanda – ma ogni cosa ha in sé la sua
risposta.
**
Ore difficili
Il tempo delle cupe profezie è al termine: la Storia bisbiglia il suo Inverno
intorno a noi.
Uomo: potenza suicida nelle membra, veleno nel sangue, follia di cane rabbioso
nel cranio – nessuno può divinare il suo destino.
Vuole squartare i propri simili con nuovi strumenti di devastazione, vuole
ispezionarne le ossa; le sue sole conquiste: la perdita della ruota e del fuoco,
l’oblio del verbo, la vita a quattro zampe.
Che si districhi, che si sleghi: che rinunci ai suoi innumerevoli gesti da
marionetta condotti con ostinazione brulicante di vermi, alle sue attività utili
ad approvvigionare termiti – si commisuri all’ordine del mondo interiore.
I monti interiori, familiari e ordinari, sovrastano l’avidità individuale. Si
integrano tra loro, trovano equilibrio con il mondo esterno.
Questa è l’antica pratica: finora i flussi insanguinati della storia si sono
mossi ispirati dalla bellezza e dalla grandezza – ma ora è soltanto morte
inferiore, incessante processo di disumanizzazione.
In qualche culla un bambino in fiamme reca dono divini; neppure nei nostri sogni
potevamo prevederlo.
Come nei tempi passati si è svelata l’arcana forza del mondo materiale così
sveleremo i poteri del mondo interiore, incorporeo.
Nelle mani del bambino la lampada della ragione non ha tirannia: serve a
risvegliare le forze spirituali, le illumina, le mette all’opera.
Una volta, l’uomo era un grande conquistatore – in futuro, conquisterà se stesso
– allineerà le stelle al suo destino.
*
Montagna, paesaggio
Il fiume fende la valle
gli uccelli spettegolano.
Quiete verticale
case-volto-di-Dio:
levitano.
Più in alto, il canto di Nemo
il mulino sulla cima:
il ghiaccio si rompe, è brutale.
Sandor Weöres
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