C’è una pena nell’essere, una spina che accompagna ogni passo, che tormenta ogni
riposo. «Respiro. Questo è già desiderare».[i] E dal desiderio l’azione,
dall’azione ingiustizia, dall’ingiustizia la morte.
A ogni slancio verso la vita, risponde il ghigno corrosivo della morte.
Cerchiamo la vita e troviamo la morte.
Ogni mattino che cade sulla terra, l’uomo che soffre, l’uomo che pensa e che
soffre, fin dal suo primo respiro è condannato: agire e ferire; non farlo e
morire.
*
Il popolo del Nilo che pesa le anime al trapasso, Arjuna fermo in mezzo al campo
di battaglia, sono figli di questa pena.
C’è una pena nell’essere ed è una pena che non ha riscatto.
*
Respirare e desiderare, vivere e uccidere. Questo è proprio dell’uomo. Ma la
pena non è dell’uomo soltanto: «tutta la creazione geme»,[ii] come sapendo che
tutto muore di una pena sconosciuta, che nel nascere delle cose è inscritto il
loro morire, «secondo il dovuto, perché pagano l’una all’altra, giusta pena e
ammenda della loro ingiustizia».[iii]
*
C’è una pena nell’essere e c’è una pena nell’uomo. Ed è la stessa pena, il
sentire qualcosa che manca – al fondo di ogni gioia sentire il brivido del
terrore, al fondo di ogni dolore saperne l’insensatezza.
C’è una pena che è dell’essere, ma di cui in tutto l’essere, nell’intero novero
di quello che abbiamo intorno e che chiamiamo cosmo, l’uomo soltanto ha
coscienza.
L’uomo è coscienza del cosmo, il punto del cosmo in cui il cosmo diventa capace
di sentire se stesso, di pensare a se stesso, di patire se stesso.
È vertiginoso e tremendo. Il cosmo che geme e l’uomo che paga.
Per questo – per questa tremenda vertigine – l’uomo dimentica, sceglie di
dimenticare.
*
«Dalla natura sorge la paura della morte».[iv] E se il nemico è oscuro, se non
si può fuggirlo né affrontarlo a viso aperto perché non ha forma, perché non è
fuori ma dentro – e la sua forma è una forma di verme che si aggrappa al ventre
e sale per lo stomaco, se questo nemico oscuro non si può fuggirlo né
affrontarlo, quale altra salvezza se non dimenticare?
*
«Facciamoci un nome per non perderci sulla terra».[v] È il contrappasso
spaventoso di Babele: la tecnica in cambio del dono, il potere in cambio
dell’amore.
Attraversiamo i giorni e le notti dormendo in «cessi con porte
numerate»,[vi] accaniti a «progettare il frigorifero perfetto»,[vii] a «sognare
sistemi così perfetti che nessuno debba essere buono».[viii]
«Facciamoci un nome per non perderci sulla terra». Questo si dicevano i
carpentieri di Babele, questo ci ripetiamo senza dircelo ogni mattina – il
desiderio pervertito in brama, l’amore in possesso.
*
«Dalla natura sorge la paura della morte». Dalla paura, la dismemoria. Il mondo,
che «per i desti è uno e comune», in chi resta a dormire si frantuma, a ciascuno
dando la sua parvenza, «un proprio mondo particolare»;[ix] ciascuno, dimentichi
noi dell’essere e della sua pena, vivendo «secondo una sapienza sua propria».[x]
*
«Chi ci farà vedere il bene?».[xi]
Una domanda che è un miracolo. Accaniti a progettare il frigorifero perfetto,
vivendo ciascuno secondo una sapienza sua propria, abituati alla smemoratezza e
a confondere il desiderio con la brama, come ci può venire in mente la domanda
del salmista, come può venirci in mente che da altri e non da noi vada appresa
la forma del bene?
*
C’è una pena dell’essere, una pena che è la nostra e che è senza riscatto.
*
«L’uomo nella prosperità non comprende».[xii] La nostra vita finirà, le nostre
battaglie, le nostre conquiste, gli amori: tutto finirà e non saranno i nostri
sforzi a poterne salvare un solo granello.
Facciamoci un nome sulla terra, progettiamo il frigorifero perfetto.
E quando tutto sarà morto, quando tutto sarà polvere, soltanto allora, solo
allora – santa grazia – la sferza della vita ci risvegli alla vita.
*
«Che cos’è l’uomo»,[xiii] allora, e chi sono io – che vaneggio per questa via
bassa cercando la strada più alta?
Che cos’è l’uomo, questo grumo di polvere e di vanagloria – e perché, come mai
questo niente respira e desidera?
*
E «fino a quando», fino a quando questa morsa sulla bocca dello stomaco, questo
alternarsi di memoria e dismemoria, di ottusità e di patimento?
C’è una pena nell’essere – ma prima di tutto c’è un essere;
e se l’essere c’è – mai può non-essere,[xiv]
mai può essere non-stato. Se c’è un cosmo c’è un principio,
e il principio è un uomo, un Dio, un Dio che sa l’uomo e il suo dramma, perché è
tutto nell’uomo e nel suo dramma.
«Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?».[xv]
*
La via che scende, la via che sale.
«Scendi in più in basso, scendi soltanto
nel mondo di perpetua solitudine».[xvi]
*
La via che scende.
«Dall’abisso a te grido».
*
La via che sale.
«Che cos’è l’uomo?».
*
«E in te il perdono e in noi il timore – in te il perdono, in noi il timore».
*
Il perdono.
C’è una pena nell’essere che è nostra e non nostra.
C’è una pena e una mancanza.
C’è uno strappo, uno strappo nell’ordine.
*
Dall’abisso a te grido – a te, a chi?
Daniele Gigli
**
> Salmo 130
>
> Dall’abisso a te grido, Signore – Signore ascolta la mia voce
> alle mie suppliche, alle mie, presta l’orecchio.
> Se consideri lo strappo della legge non resisto – mio Signore, chi resiste?
> E in te è il perdono e in noi il timore – in te il perdono, in noi il timore;
> e ho sperato, mio Signore, la mia anima ha sperato che parlassi, ti ho
> aspettato
> simile a una scolta con l’aurora,
> a una scolta con l’aurora!
> Dalla veglia del mattino fino a notte,
> dalla veglia del mattino aspettalo, Israele:
> spera nel Signore: col Signore c’è lealtà – e redenzione molta, in lui.
> Salva l’ordine strappato di Israele, salva la sua legge.[xvii]
(Tutte le traduzioni sono a cura dell’autore)
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[i] W.H. Auden, Prima, in Horae Canonicae.
[ii] San Paolo, Lettera ai Romani, 8, 22.
[iii] Anassimandro, Frammento 1.
[iv] San Tommaso D’Aquino, Sopra la Seconda lettera ai Corinzi, 5, 2.
[v] Genesi, 11, 4.
[vi] T.S. Eliot, Cori da «La Rocca», III, 229.
[vii] Ivi, III, 244.
[viii] Ivi, VI, 307.
[ix] Eraclito, Frammento 89.
[x] Id, Frammento 1.
[xi] Salmi, 4, 7.
[xii] Salmi, 48 (49), 8-10.
[xiii] Salmi, 8, 5.
[xiv] Parmenide, Frammento 2.
[xv] Salmi, 12 (13), 3.
[xvi] T.S. Eliot, Burnt Norton, III, 114-115.
[xvii] Salmi, 129 (130).
*La traduzione di Daniele Gigli è parte del progetto “Salterio dei Poeti”. Il 9
maggio, a Rovigo (Pescheria Nuova, Corso del Popolo, 140) e l’11 maggio a
Chioggia, nell’ambito del Festival Biblico, terrà una meditazione dal titolo “La
via alta e la via bassa, una sono. Desiderio e salvezza”
In copertina: Antonello da Messina, Salvator Mundi, 1465
L'articolo “Dall’abisso a te grido”. La via alta e la via bassa, una sono. Una
meditazione proviene da Pangea.