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Valérie Perrin, scrittrice del Vasto Pubblico (ovvero: quel bisogno irrefrenabile di mondanità)
> 2010. Samuel Paty, Simone Veil, Miloš Forman ed Elisabetta II erano ancora di > questo mondo, Barack Obama era presidente degli Stati Uniti e, quattro anni > prima, Vladimir Putin aveva fatto assassinare Anna Politkovskaja. Il 2010 è > stato dichiarato l’anno Francia-Russia. Non so cosa significhi.I talebani non > avevano ancora riconquistato il potere in Afghanistan. Kathryn Bigelow è > diventata la prima donna a vincere l’Oscar per la miglior regia con il > film The Hurt Locker. (…) Il presidente della Francia era Nicolas Sarkozy. > TikTok non esisteva. Adele non cantava ancora Someone Like You né Clara > Luciani cantava La grenade. Il 2010 è l’anno di J’accuse di Damien Saez. > > Il 2010 è l’anno in cui mia zia è morta per la seconda volta. > > (incipit di Tatà di Valérie Perrin, edizioni E/O, 2024) Tatà, questo lungo romanzo edito da E/O, l’abbiamo trovato nel cestino della carta da buttare un giorno in cui eravamo in visita qui alla redazione. Poiché non mastichiamo granché la letteraturina francese in voga oggi, un amico ci ha ragguagliati sull’autrice, spiegando che Valérie Perrin è la quarta moglie – di trent’anni più giovane – del quasi novantenne regista francese Claude Lelouch. È lei ad avergli scritto le sceneggiature degli ultimi sette film, e gli ha fatto anche da fotografa di scena; poi ha pubblicato alcuni romanzi di successo che qui in Italia sono stati propagandati in pompa magna, a suon di bla-bla-mila copie vendute in una settimana, in un mese, in un anno e via dicendo. Incuriositi, l’abbiamo esaminato per cercare il motivo di quella cestinatura: magari ci era finito per sbaglio. Innanzitutto, il riferimento puntiglioso all’anno 2010 nell’incipit riportato in epigrafe – per inciso, non abbiamo idea di cosa sia il J’accuse e nemmeno chi siano Damien Saez e Clara Luciani – serve a far partire la storia, in cui Colette, la zia della narratrice, “muore per la seconda volta” perché le avevano già fatto il funerale tre anni prima: > «Pronto?».«Buongiorno, qui è la gendarmeria di Gueugnon».«Buongiorno».«Parlo > con la nipote di Colette Septembre?».«Sì».«Sono il capitano Cyril Rampin. Devo > darle una brutta notizia, signora».«…».«Sua zia è deceduta».«Mia zia?».«Sì, > Colette Septembre. Sono qui con l’ambulanza. L’abbiamo trovata priva di vita > al numero 19 di rue des Fredins. A prima vista sembrerebbe che sia morta nel > sonno, ma stiamo portando le spoglie all’istituto medico legale per le > verifiche del caso».«Guardi che mia zia Colette è sepolta da tre anni nel > cimitero di Gueugnon. E abitava in rue Pasteur».«Ho la carta d’identità sotto > gli occhi: Colette Septembre, nata a Curdin il 7 febbraio 1946. Sulla foto è > più giovane, ma le somiglia».«Dev’esserci un errore. Probabilmente è un caso > di omonimia».«Nel suo portafoglio c’è un biglietto su cui è scritto: Persona > da contattare in caso di emergenza: mia nipote Agnès, 01 42 21 77 47».«…».«C’è > anche scritto che vuole essere cremata e riposare accanto a Jean > Septembre».«Jean?».«Sì. Lo conosce?».«Era mio padre». Già in questo primo scorcio, purtroppo, qualcosa non va. A parte la banalità di certe battute che si sarebbe potuta evitare («Buongiorno», «Buongiorno», «Sua zia», «Mia zia?»), a esser fuori luogo sono i tre puntini messi tra virgolette, tipici di un’ingenuità espressiva da andamento fumettistico del dialogo, dove si crede che il silenzio dello spiazzamento debba per forza essere rappresentato con un capoverso muto, per aiutare il lettore debole a immedesimarsi. Il guaio è che questa formula semplificante non è un incidente, ma viene riproposta in vari punti, come un vezzo stilistico: > «A cosa ti riferisci?».«A Charpie, te lo ricordi?».«No. Chi è Charpie?».«Un > dirigente, uno che non c’entrava niente con gli spogliatoi, ma ti giuro che ha > passato un bel po’ di tempo nelle docce dei ragazzi, si è rifatto gli occhi > con tre generazioni senza la minima discrezione. Per non parlare dei muscoli e > dei coglioni che palpeggiava i mercoledì pomeriggio».«…». Non vogliamo annoiarvi con citazioni inutili, ma vi assicuriamo che il silenzio espresso coi puntini fra le virgolette continua a comparire anche in seguito, come se fosse l’unico modo per esplicitare quel tipo di situazione. Questa dissonanza ci ha fatto insospettire un po’, spingendoci a cercare qualche notizia in più sull’autrice. In Wikipedia – la fonte principe dei nostri tempi – viene innanzitutto specificato che Valérie Perrin è “scrittrice, sceneggiatrice e fotografa”. Dunque, immaginiamo che lavori innanzitutto per il cinema: quali film ha sceneggiato? Oltre agli ultimi sette del marito, null’altro viene segnalato. Se non esistono altre collaborazioni al di fuori della cerchia familiare (qualora esistessero, qualcuno le menzioni) non sappiamo fino a che punto si possa parlare di sceneggiatrice come “professione”, nel senso di attività che si sia sviluppata e misurata col mondo professionale esterno. Inoltre, l’autrice viene definita fotografa. Bene, per chi ha lavorato? Quali riviste, quali eventuali campagne, o servizi su internet? Ha fatto qualche mostra, pubblicato qualche libro fotografico? Non si sa, perché l’unica cosa che risulta aver fatto è la “fotografa di scena” per i film del marito. Se non è così, suggeriamo di rimpolpare il curriculum con qualche notizia in più che possa chiarire le cose.  Rilevate queste criticità, asteniamoci da ogni illazione o elucubrazione sul personaggio e su come viene presentato al pubblico, e restiamo invece sull’argomento libro. Sempre Wikipedia dice che il primo romanzo della Perrin, Les Oubliés du dimanche (Il quaderno dell’amore perduto), ha ricevuto ben tredici premi, ma nell’elenco lì dedicato ne compaiono solo sette. E gli altri sei dove sarebbero? Si tratta forse di piccole manifestazioni di paese non degne di menzione? Poi leggiamo che il suo secondo romanzo Changer l’eau des fleurs (Cambiare l’acqua ai fiori), “ha ricevuto diversi premi tra cui il prix Maison de la Presse che premia un’opera scritta in francese per il vasto pubblico”: ecco dunque un indizio che ci aiuta a inquadrare questo genere di romanzi. Il Vasto Pubblico diventa la parola chiave, la formula magica del parco lettori da nutrire con ciò che chiede. Confermiamo comunque che questo romanzo procede in modo disinvolto e scorrevole, con quel genere di scrittura che piace tanto a chi usa dire “si legge d’un fiato!”, con la differenza che Tatà è un volume di seicento pagine, quindi di un fiato non si può certo leggere: al contrario è un macigno che fa penare parecchio chi si metta in testa – per principio o per cocciutaggine – di leggerlo fino in fondo. Secondo la vulgata di Wikipedia, i romanzi di Valérie Perrin “raccontano ‘storie di vita’, mettendo in scena dei personaggi accattivanti e dal percorso di vita atipico. Con uno stile semplice, vivace e a tutto tondo, l’autrice costruisce i suoi romanzi in corti capitoli al fine di dare un ritmo al suo racconto; Changer l’eau des fleurs, per esempio, comprende più di un centinaio di capitoli, riassunti ogni volta da un epitaffio poetico”. Ora qualcuno dovrebbe spiegarci cosa significa “uno stile a tutto tondo”. Essendo effettivamente semplice, lo stile in questo libro non decolla mai, resta rigorosamente sotto un’asticella definita, e rimane a galleggiare sulla superficie di un chiacchiericcio da consorteria che si riunisce in soggiorno o nella sala da tè: un chiacchiericcio che appartiene alla vita quotidiana di moltissimi, che sia declinato in seno alle classi medio-popolari oppure negli ambienti privilegiati della gauche intellectuelle a cui l’autrice sembra appartenere. Ma cerchiamo di essere più specifici. Il blocco narrativo che la Perrin cerca di dipanare per far stare in piedi la storia vorrebbe intrecciare “segreti familiari, memorie sepolte e il peso insondabile del passato, lasciando il lettore intrappolato in una ragnatela di emozioni e misteri” (citiamo formule elogiative raccolte in Rete). La protagonista Agnès è – ovviamente – una regista di successo che deve affrontare la (seconda) morte della zia Colette, detta affettuosamente Tatà, che furbescamente aveva finto di defungere tre anni prima. “Perché Colette ha fatto credere di essere morta? Questo enigma, oscuro e spiazzante, conduce Agnès in un viaggio a ritroso nel tempo, tra frammenti di memoria e segreti sepolti. Una valigia piena di audiocassette lasciata dalla zia si rivela il filo conduttore che lega voci dimenticate, vecchi amici e verità sommerse. Emergono storie che si intrecciano in un mosaico di destini e di personaggi”. E qui arrivano i dolori: purtroppo non c’è nessuna “esperienza emotiva che trascende le pagine”, nessuna “riflessione sulla memoria e sui legami familiari che invita il lettore a guardarsi dentro” (guardarsi dentro è un’espressione che andrebbe abolita); e i classici “fantasmi del passato” non portano nessun fardello che cerca redenzione, ma restano evanescenti e pretestuosi, senza nerbo come la girandola di personaggi che interagiscono come se si trovassero in un film commedia, ovviamente francese. Lo stile è quello lì, coi toni disinvolti e sbrigativi da sceneggiatura interpretata da Catherine Deneuve, con la spocchia velata della gauche intellectuelle che abbiamo citato, quella che finge spontaneità lasciando trasparire la consapevolezza di essere due gradini sopra, di poter trascurare quella che si chiama onestà artistica perché, comunque, il “vasto pubblico” ci cascherà e verserà i soldi in cassa. È l’espressione chiara di quella sorta di cripto-disprezzo che rimane tra le righe, che si omologa alla decadenza culturale del nostro tempo rinunciando a impegnarsi, cavalcando scorciatoie, gettando brioche al popolo per restare in sella. In Tatà la trama non esiste, ovvero si attorciglia in una sorta di labirinto che fa vagolare il lettore senza risolversi in una narrazione. I personaggi, così inconcludenti, fanno venire i nervi al pari di quei dannati tre puntini messi fra virgolette che ogni tanto spuntano senza motivo: > «Sono lì dentro?».«Sì» mormora.«Tutte?».«Sì».«Mi stai dicendo che zia Colette, > la persona più taciturna che abbia conosciuto in vita mia, ha registrato… > quanti minuti, Cornélia?».«Dodicimila».«…dodicimila minuti di nastro > magnetico?».«Sì, anche un po’ di più».«Un po’ di più?».«Sì».«Perché l’ha > fatto?».«Per te».«…». Le battute che ripetono, i famigerati tre puntini virgolettati, il chiacchiericcio sofisticato da Comédie Française, fino alla nemesi delle audiocassette registrate dalla zia con gli spezzoni di una storia incoerente, frammentata, che non riesce a formarsi in una narrazione logica. Una sarabanda di ricordi che sembra l’espediente per riempire le pagine senza una vera direzione, solo per inserire quegli elementi-chiave che simulano sostanza e vogliono dare il necessario appeal alla vicenda, per blandire il pubblico: la sopravvissuta di una famiglia ebrea deportata e sterminata dai nazisti, un celebre pianista, un assassino senza scrupoli, un insospettabile pedofilo, e il tifo sfegatato e pittoresco della zia per la squadra locale di calcio. Segnaliamo che Agnés è ossessionata dall’ex marito Pierre, che l’ha lasciata per una donna più giovane: va da sé che la donna in questione è – a seconda dei momenti – stronza, baldracca, troia, oppure pasticcino. Talvolta le elucubrazioni della protagonista sono enfaticamente spiattellate, a effetto, come se ci si trovasse in una scena comica di Louis De Funès: > “Sono Agnès”.Come avrebbe reagito? Non gli avrei dato il tempo di dire > “Agnès?” o “Agnès!” o “Perché mi chiami, è successo qualcosa?”.Gli avrei > detto: “Pensa, mi ha appena chiamato la gendarmeria di Gueugnon. È morta > Colette”.No, non avrei detto “pensa”, avrei detto: “Mi ha telefonato la > gendarmeria di Gueugnon. Hanno trovato il cadavere di una donna e sostengono > caparbiamente che si tratti di Colette”.No, caparbiamente non va bene, non > dico mai “caparbiamente”.Mi avrebbe risposto: “Ma è già morta… Hai bevuto? > Dimmi la verità, hai bevuto?”.Avrei replicato: “Ti piacerebbe, eh? Così tu e > la tua baldracca potreste avere la custodia esclusiva di Ana”. E avrei > riattaccato.Non ho mai detto la parola “baldracca”. Quando sono arrabbiata > grido “stronza” o “troia”. Chi dei due avrebbe riattaccato per primo? In quale > momento la conversazione si sarebbe inasprita? Che dubbi amletici, talmente drammatici da accorciare il respiro. Più si procede nella lettura più la protagonista Agnès diventa insopportabile, al punto da farci solidarizzare col marito fedifrago Pierre. E certe riflessioni sembrano rivelatrici dei problemi di questo libro: > “E io ero stanca. È il prezzo da pagare per la gloria: la paura, sempre più > presente e opprimente, di non avere più niente da dire, la sensazione di > rifilare sempre la stessa minestra. Cosa raccontare nel prossimo film? Tra le > altre donne che mio marito non guardava ce n’è stata una che ha fatto più che > guardarlo, gli è saltata addosso. Aveva un buon odore, era carina e > zuccherosa, aveva voglia e faceva venire voglia. E lui, senza opporsi, l’ha > lasciata fare, in un primo momento per sapere, per capire, per assaggiare > qualcosa di diverso”. In conclusione, possiamo dire che uno degli scopi occulti di questo libro pare essere quello di trasudare mondanità. Effettivamente, è una vocazione che viene da lontano, da quell’aristocrazia Ancien Régimeanteriore alla Rivoluzione del 1789, dove una piccola schiera di privilegiati, splendidamente condannati all’ozio, si creava una realtà circoscritta in cui autocelebrarsi. Era lì la Civiltà della conversazione, raccontata nel magnifico libro di Benedetta Craveri edito da Adelphi: fare della vita mondana un’arte e un fine in sé, come tratto distintivo di un’identità aristocratica che dal Sei-Settecento è riuscita a proiettare la sua eredità fino alla gauche intellectuelle francese novecentesca, l’estremo baluardo culturale che potesse arginare la deriva inevitabile, compiutasi nell’ultimo quarto di secolo per estinzione generazionale. L’autocelebrazione occulta, ben percepibile nella prosa pretestuosa della Perrin, discende proprio da quel bisogno irrefrenabile di mondanità, da quell’esprit de société che nel tempo si è sfilacciato fino ad annientarsi nel chiacchiericcio stolido che oggi macina tutto, che dice senza costrutto, che parte per tornare al punto di partenza, che celebra la propria inutilità in pagine che – siamo desolati – torneranno nel cestino.  Paolo Ferrucci *In copertina: un’opera di Roland Topor L'articolo Valérie Perrin, scrittrice del Vasto Pubblico (ovvero: quel bisogno irrefrenabile di mondanità) proviene da Pangea.
May 9, 2025 / Pangea