> “Stranamente ho conosciuto Glenn sul Mönchsberg, il monte della mia infanzia.
> Veramente lo avevo già visto al Mozarteum, ma con lui non ho scambiato una
> sola parola prima di quell’incontro sul Mönchsberg, chiamato altresì monte del
> suicidio perché si presta al suicidio come null’altro al mondo, e infatti
> tutte le settimane si scagliano da quel monte nell’abisso almeno tre o quattro
> persone. I suicidi salgono fino in cima con l’ascensore scavato nel cuore
> della montagna, fanno un paio di passi e poi si scagliano giù nella città”.
>
> (Thomas Berhard, Il soccombente, Adelphi 1985, pag. 15)
La mattina del 10 giugno, martedì, dieci persone sono state ammazzate e una
trentina ferite a colpi d’arma da fuoco all’interno dell’istituto scolastico
Borg di Graz, in Austria. A sparare, un ex studente di 21 anni che dopo la
mattanza è andato a uccidersi in uno dei bagni. Il motivo di questa furia
omicida è stato ascritto a una vendetta definitiva contro gli atti di bullismo
subiti in quella scuola, che non gli avrebbero permesso di concludere gli studi:
il giovane si sarebbe trasformato in una sorta di «collettore di ingiustizie»,
che assolutizza le angherie subite e le pone come termine finale di un’esistenza
completamente sfigurata.
In questi giorni, dunque, si è tornati a parlare di Austria, un universo poco
frequentato dalle nostre cronache, che raramente offre spunti per osservazioni e
discussioni di qualche spessore, tendendo a relegarsi in un grigio identitarismo
di stampo turistico; in genere, chi anela a suggestioni cultural-sentimentali da
cercare nel corpo del nostro continente guarda ad altre capitali: dire “vado a
Parigi”, “vado a Berlino” o “vado a Praga” non può suonare come “vado a
Vienna”. Vienna può rappresentare soprattutto il crogiolo di nostalgie
letterarie riferite a più di un secolo fa, in tempi che non torneranno, quando
la Felix Austria viveva l’epoca incantata di movimenti artistici e letterari che
guidavano l’evoluzione culturale europea – il bellissimo Il mondo di ieri di
Stefan Zweig ne è testimonianza commossa –, prima che la grande carneficina
moderna annientasse il sogno mitteleuropeo facendone palinsesto.
Quindi oggi, andando al brano riportato in epigrafe – pianamente foriero di
suicidi –, facciamo conoscenza con il Mönchsberg, uno dei cinque monti di
Salisburgo, la città che, prima di significare Wolfgang Amadeus Mozart,
significa Austria, della quale il grande Thomas Bernhard ha dato ritratti così
politicamente scorretti da rasentare il sublime. Come ha fatto ne Il
soccombente – di cui Pangea si è già occupata –, quel romanzo stupefacente e
feroce che, dopo i primi tre capoversi, si lancia per centottantasei pagine
senza più andare a capo, senza guardarsi indietro se non per riagganciare i fili
portanti, senza discriminare la storia in sezioni o digressioni, mantenendo quel
blocco granitico di dura eloquenza martellante senza fare sconti, in un
susseguirsi pressoché ininterrotto di “pensai”:
> “Anche Glenn Gould, il nostro amico e il più importante virtuoso del
> pianoforte di questo secolo, è arrivato soltanto a cinquantun anni, pensai
> mentre entravo nella locanda. Solo che non si è tolto la vita come Wertheimer,
> ma è morto, come si suol dire, di morte naturale.
>
> Quattro mesi e mezzo a New York suonando e risuonando le Variazioni
> Goldberg e L’arte della fuga, quattro mesi e mezzo di Klavierexerzitien, come
> Glenn Gould ripeteva di continuo e solo in tedesco, pensai”.
Tutto comincia quando il narratore e il suo amico Wertheimer si iscrivono al
corso tenuto a Salisburgo dal gigante Vladimir Horowitz, dal quale imparano “più
che negli otto anni precedenti al Mozarteum e alla Wiener Akademie”. Lì
stringono amicizia con il canadese Glenn Gould: l’incontro fatale che devierà
definitivamente le loro vite. Mentre loro due sono pianisti brillanti e
promettenti, Glenn Gould è la musica, è il pianoforte, èl’invasamento per
l’arte. L’improvvisa e brutale consapevolezza di non essere capaci, né ora né
mai, di suonare come Glenn Gould spinge entrambi ad abbandonare il loro
strumento: “Wertheimer mise all’asta al Dorotheum il suo pianoforte a
coda Bösendorfer, mentre io un giorno, per evitare che il mio Steinwayseguitasse
a tormentarmi, lo regalai alla figlia di nove anni di un maestro originario di
Neukirchen presso Altmünster”. Il modo in cui il narratore si libera del suo
prezioso pianoforte è perfidamente perverso:
> “Nemmeno per un attimo avevo creduto al talento di sua figlia; di tutti i
> bambini che vivono in campagna i maestri dicono che hanno del talento, talento
> per la musica soprattutto, e in realtà invece non hanno il minimo talento,
> sono tutti bambini assolutamente privi di qualsiasi talento, e il fatto che
> uno di loro soffi in un flauto o pizzichi una chitarra o strimpelli su un
> pianoforte non dimostra ancora che abbia del talento. Sapevo di consegnare il
> mio prezioso strumento a una persona totalmente inetta, proprio a questo scopo
> lo avevo fatto portare nella casa di quel maestro. In brevissimo tempo la
> figlia del maestro ha mandato in rovina e reso inservibile il mio prezioso
> strumento, uno dei migliori strumenti in assoluto, uno dei più rari e dunque
> dei più ricercati e dunque anche dei più costosi strumenti che ci siano”.
Ma volevamo dire dell’Austria. In una narrazione fluida e incontenibile,
Bernhard ci racconta che esporsi al clima prealpino di Salisburgo rende
semplicemente psicopatici, e se non ci se ne allontana per tempo si finisce per
diventare ottusi come gli indigeni, che con la loro bruta ottusità annientano
tutto ciò che è diverso da loro. Il flusso di ragionamenti del protagonista
s’incardina nel suo fare ingresso nella locanda dove intende fermarsi per
partecipare al funerale dell’amico che si è suicidato, Wertheimer: mentre entra
nel locale inanella una ridda di considerazioni concatenanti che durano pagine e
pagine, lungo i momenti in cui oltrepassa la soglia e si ferma a guardarsi
intorno. “In Austria le locande sono tutte sporche, luride e davvero disgustose,
pensai, è raro che in una di queste locande si riesca ad avere sul tavolo una
tovaglia pulita, per non parlare di un tovagliolo di stoffa, che in Svizzera è
dovunque assolutamente usuale”. Perfino gli alberghi austriaci sono sozzi e
disgustosi, dove spesso si limitano a stirare lenzuola già usate, e nemmeno
tolgono i ciuffi di capelli lasciati nel lavandino; neppure le stoviglie e le
posate sono pulite. La padrona della locanda, ovviamente, è sciatta, lurida e
trasandata; quando il narratore, nell’attesa, si avvicina alla finestra della
cucina sa già che non vedrà un bel niente, perché la finestra è incrostata da
cima a fondo. “Tutte le finestre delle cucine austriache sono sporchissime e
attraverso di esse non si vede niente, e questo, pensai, è naturalmente un
grandissimo vantaggio, perché in caso contrario si guarderebbe direttamente
dentro la catastrofe, nel lurido caos delle cucine austriache”. E pare che
Wertheimer abbia dormito più di una volta con la padrona della locanda,
“naturalmente, a quanto si racconta, nella locanda di lei e non nel casino di
caccia di lui”.
Wertheimer, il suicida, viene letteralmente travolto dalla dinamica feroce
dell’emulazione verso l’inarrivabilità di Glenn Gould, il genio compagno di
studi che un giorno, con noncurante plasticità, lo ha definito “il soccombente”
– ovvero un uomo “da vicolo cieco”, come preferisce qualificarlo il narratore,
perché ogni volta che Wertheimer usciva da un vicolo cieco entrava in un altro
vicolo cieco, dalla casa di Traich a Vienna, da Vienna a Salisburgo, e anche il
Mozarteum era stato un vicolo cieco, e così pure la Wiener Akademie, e infine
tutti gli anni di studio del pianoforte. “Il nostro soccombente è un esaltato”,
aveva detto Glenn una volta, “quasi ininterrottamente è lì che muore di
autocommiserazione”. Glenn, praticamente, ha capito Wertheimer dal primo
istante, così come ha capito a fondo fin dalla prima volta tutte le persone che
ha conosciuto.
> “Non c’è niente di più tremendo che vedere un essere umano il quale è talmente
> grandioso che la sua grandiosità ci annienta, e mentre noi questo processo lo
> osserviamo e lo sopportiamo e alla fin fine non possiamo far altro che
> accettarlo, in realtà non crediamo affatto a questo processo, e rimaniamo
> increduli ancora per molto tempo, fino a quando, pensai, esso si trasforma ai
> nostri occhi in un fatto incontrovertibile, ma allora non c’è più niente da
> fare, per noi è finita”.
Come recita la quarta di copertina, il soccombere di Wertheimer “è un processo
sotterraneo, sottile, che lo distrugge, ma tende a distruggere anche gli altri.
Nella sua debolezza, ha il fascino pernicioso di chi attira gli altri nella
propria rovina”. Alla fine il soccombente ha fabbricato “una sorta di doppio
beffardo, un’ombra sfigurata della perfezione di Gould, quale ultima vendetta
della debolezza contro la grazia”. Tutto questo fluisce nella prosa di Bernhard
senza pause, in un monologo interiore vivace e iterativo, da flusso di coscienza
frenetico, chiarissimo e dettagliato, con le espressioni impeccabilmente
scolpite in modo quasi ossessivo, in una costruzione scenica sapiente che non
conosce pause, piena di rievocazioni considerazioni ricostruzioni dei fatti per
andare a ricercarne la genesi e le cause. Vediamo Wertheimer che recrimina
contro i genitori per averlo gettato nell’orribile ingranaggio dell’esistenza
che lo stritola, e spietatamente tiene la quarantaseienne sorella legata a sé
impedendole di crearsi una vita, proibendole ogni uscita dal guscio, e maledice
la fuga definitiva di lei che va sposare un magnate svizzero ricco sfondato –
che significa molto più ricco di un austriaco ricco: “mai avrei dovuto lasciarla
andare da quell’orrido internista Horch”, recrimina, perché era lì, dal medico,
che aveva conosciuto quell’abietto parvenu dello svizzero. In Svizzera, poi, c’è
dissoluzione dappertutto, rincara Wertheimer, fra i paesi d’Europa è il più
privo di carattere, e quando ci si trova lì sembra di essere in un bordello. Va
da sé che a Vienna Wertheimer non può che restare soffocato, divorato a poco a
poco da quei mostri dei viennesi, e l’Austria non può che annientarlo
definitivamente: da qui i vagabondaggi nelle proprietà di famiglia, la dimora di
campagna, nell’inutile ricerca di sé nelle scienze dello spirito, di frammenti
esistenziali, di implicazioni familiari, di stanze piene di solitudine e di
lontananza che rafforzano la sua convinzione dell’infelicità come condizione
esistenziale dell’uomo che non si può eludere.
Rievocazioni, testimonianze, visite, colloqui, scampoli di vita, ipotesi ed
elucubrazioni: un flusso di coscienza che dà impeto al racconto e si fa
ossessione da basso continuo su molti fronti. Vogliamo parlare dei cosiddetti
tribunali distrettuali austriaci? Ogni anno sfornano sentenze basate su errori
giudiziari, in modo da avere sulla coscienza una moltitudine di uomini innocenti
che scontano dure pene detentive, senza alcuna speranza di essere riabilitati, e
questo perché l’Austria è piena di giudici senza scrupoli e di giurati che
odiano l’umanità e che, per la propria infelicità e abiezione, si vendicano
sulle persone che cadono in loro balìa per qualche circostanza sciagurata.
Un’attività diabolica, quella dei tribunali austriaci, che quasi sempre resta
impunita.
Bene dice Clery Celeste quando definisce Il soccombente “un capolavoro
vertiginoso che vi spiega passo per passo come si scende nella scalinata della
mediocrità, dove sta la rinuncia, dove abita il tutto e il niente di un
musicista”. Con le esitazioni di Wertheimer e del narratore verso tutto e tutti,
abbiamo Glenn Gould che affronta ogni cosa con la semplicità della
sfacciataggine innata e diretta di chi semplicemente è, senza dover dimostrare
nulla. “Wertheimer aveva sempre paura che le forze non gli bastassero, Glenn non
immaginava neppure che qualcosa potesse essere superiore alle sue forze”. Quando
Wertheimer vede Glenn al primo piano del Mozarteum e lo sente suonare, rimane
bloccato davanti alla porta, e quella è la sua fine come pianista, anche se lo
capirà dopo anni. Una meta che viene scardinata appena Glenn siede al pianoforte
a suonare le prime note delle Variazioni Goldberg. Il genio Glenn che
vuole essere pianoforte, che per tutta la vita “aveva avuto il desiderio di
essere lo Steinway in sé, gli era odiosa l’idea di porsi solamente come
intermediario musicale tra Bach e lo Steinway e di essere un giorno stritolato
fra Bach e lo Steinway”. Riuscire a essere il pianoforte lo avrebbe esentato
dall’essere Glenn Gould, lo avrebbe reso felicemente superfluo, in un rapporto
finalmente assoluto con Bach.
> “Perfino Horowitz in mancanza di Glenn non sarebbe stato lo stesso Horowitz,
> quei due si condizionavano a vicenda. Fu un corso che Horowitz fece apposta
> per Glenn, pensai in piedi nella locanda, nient’altro che questo. Fu Glenn che
> fece di Horowitz il proprio maestro, non Horowitz che fece di Glenn il genio,
> pensai”.
La corrente narrativa di Bernhard, il suo stile, mantiene la linea diritta del
discorso fluviale che procede senza fermarsi e allo stesso tempo la rete
complessa del rizoma, quella formazione multidimensionale che può estendersi per
aggiunta e accrescimento oltre misura, con una struttura dinamica che spesso
itera le espressioni per ribadirne il peso, con connessioni continue e continue
correzioni di queste connessioni, che portano a conoscere gli aspetti parziali
di un tutto che va costruendosi in modo clamorosamente naturale. Una prosa che
tiene lontano quel senso di straniamento che, in altre condizioni, si potrebbe
innescare, lasciando libera e chiarissima la corsa naturale del racconto.
La prima edizione Adelphi de Il soccombente, del 1985, porta in copertina Donne
con teste floreali che trovano la pelle d’un piano a coda sulla spiaggia,
dipinto da Salvador Dalí nel 1936. Un pianoforte semi-liquefatto viene innalzato
a trofeo da enigmatiche muse che sembrano portatrici di annientamento, in un
fondale che richiama la celebre Monument Valley in Arizona. Ma l’immagine più
inquietante la troviamo nella successiva edizione economica, dove campeggia lo
sguardo allucinato di uno degli autoritratti spettrali di Léon Spilliaert, del
1907, conservato ai Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique. L’atmosfera cupa,
che va dall’opprimente all’onirico, con la sua abbondanza di nero, ben
rappresenta la parabola autodistruttiva dell’antieroe Wertheimer, votato da
sempre all’infelicità e per questo affascinato dagli esseri umani nella loro
infelicità, avido di persone perché sapeva cogliere l’infelicità ovunque ci
fossero persone.
> “Nessuno sa più che sono stato un fanatico allievo del conservatorio, un
> fanatico virtuoso del pianoforte che si è misurato da pari a pari con Glenn
> Gould su Brahms e Bach e Schönberg. Ma se l’occultamento di questi fatti,
> pensai, è sempre stato per me soltanto un vantaggio in quanto si è sempre
> rivelato della massima utilità, questo medesimo occultamento ha danneggiato
> assai profondamente il mio amico Wertheimer (…). Tutto sommato, il fatto di
> aver studiato il pianoforte per me è sempre stato utile, e anzi direi
> decisivo, proprio perché nessuno ne è più al corrente, perché è un fatto
> dimenticato e perché io stesso lo tengo nascosto. Per Wertheimer, invece,
> questo stesso fatto è sempre stato motivo di infelicità, ininterrotto pretesto
> per la sua depressione esistenziale, pensai. Io suonavo molto meglio di quasi
> tutti gli altri allievi del conservatorio di musica, pensai, e il fatto di
> aver smesso da un momento all’altro mi ha reso forte, più forte di quelli,
> pensai, che non hanno smesso e che non suonavano meglio di me e che, da
> dilettanti quali erano, hanno trovato una via di scampo per tutta la vita nel
> farsi chiamare professori e lasciarsi insignire di decorazioni e onorificenze,
> pensai. Il mondo è pieno di imbecilli musicali che finiti gli studi accademici
> hanno per così dire intrapreso l’attività concertistica, pensai”.
Paolo Ferrucci
L'articolo Felix Austria, ovvero: sul talento cannibale di Thomas Bernhard (e di
Glenn Gould) proviene da Pangea.
Tag - Paolo Ferrucci
> 2010. Samuel Paty, Simone Veil, Miloš Forman ed Elisabetta II erano ancora di
> questo mondo, Barack Obama era presidente degli Stati Uniti e, quattro anni
> prima, Vladimir Putin aveva fatto assassinare Anna Politkovskaja. Il 2010 è
> stato dichiarato l’anno Francia-Russia. Non so cosa significhi.I talebani non
> avevano ancora riconquistato il potere in Afghanistan. Kathryn Bigelow è
> diventata la prima donna a vincere l’Oscar per la miglior regia con il
> film The Hurt Locker. (…) Il presidente della Francia era Nicolas Sarkozy.
> TikTok non esisteva. Adele non cantava ancora Someone Like You né Clara
> Luciani cantava La grenade. Il 2010 è l’anno di J’accuse di Damien Saez.
>
> Il 2010 è l’anno in cui mia zia è morta per la seconda volta.
>
> (incipit di Tatà di Valérie Perrin, edizioni E/O, 2024)
Tatà, questo lungo romanzo edito da E/O, l’abbiamo trovato nel cestino della
carta da buttare un giorno in cui eravamo in visita qui alla redazione. Poiché
non mastichiamo granché la letteraturina francese in voga oggi, un amico ci ha
ragguagliati sull’autrice, spiegando che Valérie Perrin è la quarta moglie – di
trent’anni più giovane – del quasi novantenne regista francese Claude Lelouch. È
lei ad avergli scritto le sceneggiature degli ultimi sette film, e gli ha fatto
anche da fotografa di scena; poi ha pubblicato alcuni romanzi di successo che
qui in Italia sono stati propagandati in pompa magna, a suon di bla-bla-mila
copie vendute in una settimana, in un mese, in un anno e via dicendo.
Incuriositi, l’abbiamo esaminato per cercare il motivo di quella cestinatura:
magari ci era finito per sbaglio.
Innanzitutto, il riferimento puntiglioso all’anno 2010 nell’incipit riportato in
epigrafe – per inciso, non abbiamo idea di cosa sia il J’accuse e nemmeno chi
siano Damien Saez e Clara Luciani – serve a far partire la storia, in cui
Colette, la zia della narratrice, “muore per la seconda volta” perché le avevano
già fatto il funerale tre anni prima:
> «Pronto?».«Buongiorno, qui è la gendarmeria di Gueugnon».«Buongiorno».«Parlo
> con la nipote di Colette Septembre?».«Sì».«Sono il capitano Cyril Rampin. Devo
> darle una brutta notizia, signora».«…».«Sua zia è deceduta».«Mia zia?».«Sì,
> Colette Septembre. Sono qui con l’ambulanza. L’abbiamo trovata priva di vita
> al numero 19 di rue des Fredins. A prima vista sembrerebbe che sia morta nel
> sonno, ma stiamo portando le spoglie all’istituto medico legale per le
> verifiche del caso».«Guardi che mia zia Colette è sepolta da tre anni nel
> cimitero di Gueugnon. E abitava in rue Pasteur».«Ho la carta d’identità sotto
> gli occhi: Colette Septembre, nata a Curdin il 7 febbraio 1946. Sulla foto è
> più giovane, ma le somiglia».«Dev’esserci un errore. Probabilmente è un caso
> di omonimia».«Nel suo portafoglio c’è un biglietto su cui è scritto: Persona
> da contattare in caso di emergenza: mia nipote Agnès, 01 42 21 77 47».«…».«C’è
> anche scritto che vuole essere cremata e riposare accanto a Jean
> Septembre».«Jean?».«Sì. Lo conosce?».«Era mio padre».
Già in questo primo scorcio, purtroppo, qualcosa non va. A parte la banalità di
certe battute che si sarebbe potuta evitare («Buongiorno», «Buongiorno», «Sua
zia», «Mia zia?»), a esser fuori luogo sono i tre puntini messi tra virgolette,
tipici di un’ingenuità espressiva da andamento fumettistico del dialogo, dove si
crede che il silenzio dello spiazzamento debba per forza essere rappresentato
con un capoverso muto, per aiutare il lettore debole a immedesimarsi. Il guaio è
che questa formula semplificante non è un incidente, ma viene riproposta in vari
punti, come un vezzo stilistico:
> «A cosa ti riferisci?».«A Charpie, te lo ricordi?».«No. Chi è Charpie?».«Un
> dirigente, uno che non c’entrava niente con gli spogliatoi, ma ti giuro che ha
> passato un bel po’ di tempo nelle docce dei ragazzi, si è rifatto gli occhi
> con tre generazioni senza la minima discrezione. Per non parlare dei muscoli e
> dei coglioni che palpeggiava i mercoledì pomeriggio».«…».
Non vogliamo annoiarvi con citazioni inutili, ma vi assicuriamo che il silenzio
espresso coi puntini fra le virgolette continua a comparire anche in seguito,
come se fosse l’unico modo per esplicitare quel tipo di situazione. Questa
dissonanza ci ha fatto insospettire un po’, spingendoci a cercare qualche
notizia in più sull’autrice. In Wikipedia – la fonte principe dei nostri tempi –
viene innanzitutto specificato che Valérie Perrin è “scrittrice, sceneggiatrice
e fotografa”. Dunque, immaginiamo che lavori innanzitutto per il cinema: quali
film ha sceneggiato? Oltre agli ultimi sette del marito, null’altro viene
segnalato. Se non esistono altre collaborazioni al di fuori della cerchia
familiare (qualora esistessero, qualcuno le menzioni) non sappiamo fino a che
punto si possa parlare di sceneggiatrice come “professione”, nel senso di
attività che si sia sviluppata e misurata col mondo professionale esterno.
Inoltre, l’autrice viene definita fotografa. Bene, per chi ha lavorato? Quali
riviste, quali eventuali campagne, o servizi su internet? Ha fatto qualche
mostra, pubblicato qualche libro fotografico? Non si sa, perché l’unica cosa che
risulta aver fatto è la “fotografa di scena” per i film del marito. Se non è
così, suggeriamo di rimpolpare il curriculum con qualche notizia in più che
possa chiarire le cose.
Rilevate queste criticità, asteniamoci da ogni illazione o elucubrazione sul
personaggio e su come viene presentato al pubblico, e restiamo invece
sull’argomento libro. Sempre Wikipedia dice che il primo romanzo della
Perrin, Les Oubliés du dimanche (Il quaderno dell’amore perduto), ha ricevuto
ben tredici premi, ma nell’elenco lì dedicato ne compaiono solo sette. E gli
altri sei dove sarebbero? Si tratta forse di piccole manifestazioni di paese non
degne di menzione? Poi leggiamo che il suo secondo romanzo Changer l’eau des
fleurs (Cambiare l’acqua ai fiori), “ha ricevuto diversi premi tra cui il prix
Maison de la Presse che premia un’opera scritta in francese per il vasto
pubblico”: ecco dunque un indizio che ci aiuta a inquadrare questo genere di
romanzi. Il Vasto Pubblico diventa la parola chiave, la formula magica del parco
lettori da nutrire con ciò che chiede.
Confermiamo comunque che questo romanzo procede in modo disinvolto e scorrevole,
con quel genere di scrittura che piace tanto a chi usa dire “si legge d’un
fiato!”, con la differenza che Tatà è un volume di seicento pagine, quindi di un
fiato non si può certo leggere: al contrario è un macigno che fa penare
parecchio chi si metta in testa – per principio o per cocciutaggine – di
leggerlo fino in fondo. Secondo la vulgata di Wikipedia, i romanzi di Valérie
Perrin “raccontano ‘storie di vita’, mettendo in scena dei personaggi
accattivanti e dal percorso di vita atipico. Con uno stile semplice, vivace e a
tutto tondo, l’autrice costruisce i suoi romanzi in corti capitoli al fine di
dare un ritmo al suo racconto; Changer l’eau des fleurs, per esempio, comprende
più di un centinaio di capitoli, riassunti ogni volta da un epitaffio poetico”.
Ora qualcuno dovrebbe spiegarci cosa significa “uno stile a tutto tondo”.
Essendo effettivamente semplice, lo stile in questo libro non decolla mai, resta
rigorosamente sotto un’asticella definita, e rimane a galleggiare sulla
superficie di un chiacchiericcio da consorteria che si riunisce in soggiorno o
nella sala da tè: un chiacchiericcio che appartiene alla vita quotidiana di
moltissimi, che sia declinato in seno alle classi medio-popolari oppure negli
ambienti privilegiati della gauche intellectuelle a cui l’autrice sembra
appartenere. Ma cerchiamo di essere più specifici. Il blocco narrativo che la
Perrin cerca di dipanare per far stare in piedi la storia vorrebbe intrecciare
“segreti familiari, memorie sepolte e il peso insondabile del passato, lasciando
il lettore intrappolato in una ragnatela di emozioni e misteri” (citiamo formule
elogiative raccolte in Rete). La protagonista Agnès è – ovviamente – una regista
di successo che deve affrontare la (seconda) morte della zia Colette, detta
affettuosamente Tatà, che furbescamente aveva finto di defungere tre anni prima.
“Perché Colette ha fatto credere di essere morta? Questo enigma, oscuro e
spiazzante, conduce Agnès in un viaggio a ritroso nel tempo, tra frammenti di
memoria e segreti sepolti. Una valigia piena di audiocassette lasciata dalla zia
si rivela il filo conduttore che lega voci dimenticate, vecchi amici e verità
sommerse. Emergono storie che si intrecciano in un mosaico di destini e di
personaggi”.
E qui arrivano i dolori: purtroppo non c’è nessuna “esperienza emotiva che
trascende le pagine”, nessuna “riflessione sulla memoria e sui legami familiari
che invita il lettore a guardarsi dentro” (guardarsi dentro è un’espressione che
andrebbe abolita); e i classici “fantasmi del passato” non portano nessun
fardello che cerca redenzione, ma restano evanescenti e pretestuosi, senza nerbo
come la girandola di personaggi che interagiscono come se si trovassero in un
film commedia, ovviamente francese. Lo stile è quello lì, coi toni disinvolti e
sbrigativi da sceneggiatura interpretata da Catherine Deneuve, con la spocchia
velata della gauche intellectuelle che abbiamo citato, quella che finge
spontaneità lasciando trasparire la consapevolezza di essere due gradini sopra,
di poter trascurare quella che si chiama onestà artistica perché, comunque, il
“vasto pubblico” ci cascherà e verserà i soldi in cassa. È l’espressione chiara
di quella sorta di cripto-disprezzo che rimane tra le righe, che si omologa alla
decadenza culturale del nostro tempo rinunciando a impegnarsi, cavalcando
scorciatoie, gettando brioche al popolo per restare in sella. In Tatà la trama
non esiste, ovvero si attorciglia in una sorta di labirinto che fa vagolare il
lettore senza risolversi in una narrazione. I personaggi, così inconcludenti,
fanno venire i nervi al pari di quei dannati tre puntini messi fra virgolette
che ogni tanto spuntano senza motivo:
> «Sono lì dentro?».«Sì» mormora.«Tutte?».«Sì».«Mi stai dicendo che zia Colette,
> la persona più taciturna che abbia conosciuto in vita mia, ha registrato…
> quanti minuti, Cornélia?».«Dodicimila».«…dodicimila minuti di nastro
> magnetico?».«Sì, anche un po’ di più».«Un po’ di più?».«Sì».«Perché l’ha
> fatto?».«Per te».«…».
Le battute che ripetono, i famigerati tre puntini virgolettati, il
chiacchiericcio sofisticato da Comédie Française, fino alla nemesi delle
audiocassette registrate dalla zia con gli spezzoni di una storia incoerente,
frammentata, che non riesce a formarsi in una narrazione logica. Una sarabanda
di ricordi che sembra l’espediente per riempire le pagine senza una vera
direzione, solo per inserire quegli elementi-chiave che simulano sostanza e
vogliono dare il necessario appeal alla vicenda, per blandire il pubblico: la
sopravvissuta di una famiglia ebrea deportata e sterminata dai nazisti, un
celebre pianista, un assassino senza scrupoli, un insospettabile pedofilo, e il
tifo sfegatato e pittoresco della zia per la squadra locale di calcio.
Segnaliamo che Agnés è ossessionata dall’ex marito Pierre, che l’ha lasciata per
una donna più giovane: va da sé che la donna in questione è – a seconda dei
momenti – stronza, baldracca, troia, oppure pasticcino. Talvolta le
elucubrazioni della protagonista sono enfaticamente spiattellate, a effetto,
come se ci si trovasse in una scena comica di Louis De Funès:
> “Sono Agnès”.Come avrebbe reagito? Non gli avrei dato il tempo di dire
> “Agnès?” o “Agnès!” o “Perché mi chiami, è successo qualcosa?”.Gli avrei
> detto: “Pensa, mi ha appena chiamato la gendarmeria di Gueugnon. È morta
> Colette”.No, non avrei detto “pensa”, avrei detto: “Mi ha telefonato la
> gendarmeria di Gueugnon. Hanno trovato il cadavere di una donna e sostengono
> caparbiamente che si tratti di Colette”.No, caparbiamente non va bene, non
> dico mai “caparbiamente”.Mi avrebbe risposto: “Ma è già morta… Hai bevuto?
> Dimmi la verità, hai bevuto?”.Avrei replicato: “Ti piacerebbe, eh? Così tu e
> la tua baldracca potreste avere la custodia esclusiva di Ana”. E avrei
> riattaccato.Non ho mai detto la parola “baldracca”. Quando sono arrabbiata
> grido “stronza” o “troia”. Chi dei due avrebbe riattaccato per primo? In quale
> momento la conversazione si sarebbe inasprita?
Che dubbi amletici, talmente drammatici da accorciare il respiro. Più si procede
nella lettura più la protagonista Agnès diventa insopportabile, al punto da
farci solidarizzare col marito fedifrago Pierre. E certe riflessioni sembrano
rivelatrici dei problemi di questo libro:
> “E io ero stanca. È il prezzo da pagare per la gloria: la paura, sempre più
> presente e opprimente, di non avere più niente da dire, la sensazione di
> rifilare sempre la stessa minestra. Cosa raccontare nel prossimo film? Tra le
> altre donne che mio marito non guardava ce n’è stata una che ha fatto più che
> guardarlo, gli è saltata addosso. Aveva un buon odore, era carina e
> zuccherosa, aveva voglia e faceva venire voglia. E lui, senza opporsi, l’ha
> lasciata fare, in un primo momento per sapere, per capire, per assaggiare
> qualcosa di diverso”.
In conclusione, possiamo dire che uno degli scopi occulti di questo libro pare
essere quello di trasudare mondanità. Effettivamente, è una vocazione che viene
da lontano, da quell’aristocrazia Ancien Régimeanteriore alla Rivoluzione del
1789, dove una piccola schiera di privilegiati, splendidamente condannati
all’ozio, si creava una realtà circoscritta in cui autocelebrarsi. Era lì la
Civiltà della conversazione, raccontata nel magnifico libro di Benedetta Craveri
edito da Adelphi: fare della vita mondana un’arte e un fine in sé, come tratto
distintivo di un’identità aristocratica che dal Sei-Settecento è riuscita a
proiettare la sua eredità fino alla gauche intellectuelle francese novecentesca,
l’estremo baluardo culturale che potesse arginare la deriva inevitabile,
compiutasi nell’ultimo quarto di secolo per estinzione generazionale.
L’autocelebrazione occulta, ben percepibile nella prosa pretestuosa della
Perrin, discende proprio da quel bisogno irrefrenabile di mondanità, da
quell’esprit de société che nel tempo si è sfilacciato fino ad annientarsi nel
chiacchiericcio stolido che oggi macina tutto, che dice senza costrutto, che
parte per tornare al punto di partenza, che celebra la propria inutilità in
pagine che – siamo desolati – torneranno nel cestino.
Paolo Ferrucci
*In copertina: un’opera di Roland Topor
L'articolo Valérie Perrin, scrittrice del Vasto Pubblico (ovvero: quel bisogno
irrefrenabile di mondanità) proviene da Pangea.
> “In quella regione non ancora riconosciuta come Stato dell’Unione, era uno
> degli anni in cui i segnali di fumo apache si alzavano dalle cime delle
> montagne rocciose, e più di un ranch era ridotto ormai a un quadrato di cenere
> annerita che si stendeva sul terreno. La partenza della diligenza da Tonto
> segnava l’inizio di un’avventura dall’incerto lieto fine…”
>
> (incipit di La diligenza per Lordsburg di Ernest Haycox, Sellerio editore,
> 1992)
Cronista giudiziario di Portland, Oregon, Ernest Haycox (1899-1950) è stato
autore di una ventina di romanzi e qualche centinaio di racconti di
ambientazione western, storie cominciate ad apparire nei pulp
magazines americani negli anni Venti, in cui si celebrano i grandi temi della
Frontiera, dalla vastità delle praterie al mistero minaccioso dell’altro,
dall’asprezza del deserto al silenzio che pervade anche l’animo dei personaggi,
solidamente sagomati su stereotipi ben collaudati. Le sue strutture narrative
essenziali, rese con una lingua asciutta e meccanismi elementari che
sfruttano topoi e figure retoriche ricorrenti, si rendevano buoni canovacci
adatti a ulteriori sviluppi, alcuni dei quali sono stati trasposti al cinema
hollywoodiano. Fra i suoi estimatori c’erano Gertrude Stein e Ernest Hemingway,
il quale – secondo la vulgata – ebbe a scrivere “I read The Saturday Evening
Post whenever it has a serial by Ernest Haycox”.
Il racconto Stagecoach to Lordsburg, uscito sul Collier’s Magazine di
Springfield, Ohio, nel 1937, è il più famoso perché vanta un’ascendenza e una
discendenza illustri. Il suo “prima” è la celebre novella di Guy de
Maupassant Boule de suif, mentre il suo “dopo” viene dal cineasta John Ford e
dal suo sceneggiatore Dudley Nichols, che lo giudicò un’ottima trama: «Cercammo
subito di tirarne fuori un film creando i personaggi, visto che quelli che
offriva non erano che abbozzi. Quindi li mettemmo da parte cercandone dei nuovi
che ci apparissero più interessanti». Fu così che Stagecoach to
Lordsburg divenne il celeberrimo film Stagecoach – reso in italiano come Ombre
rosse –, che nel 1939 (anno dell’epocale Via col vento) segnò il punto cardine
della filmografia western, definito come il momento in cui il genere “diventa
maggiorenne” e s’impone come “il cinema americano per eccellenza”.
In Boule de suif di Maupassant una prostituta francese estroversa e
grassottella, passeggera della carrozza in fuga da Rouen durante la guerra
franco-prussiana del 1870, è decisa a rifiutare per senso patriottico
le avances di un ufficiale prussiano che ha fermato la comitiva, ma alla fine si
vede costretta a cedergli per le pressioni dei suoi compagni di viaggio, persone
per bene e rispettabili – commercianti, nobili, due suore, un pericoloso
democratico – che non vogliono ritrovarsi bloccate dalla sfrontata prepotenza
dell’ufficiale e dalla caparbietà della ragazza. L’esito lo conosciamo, con la
cinica ipocrisia della buona società francese che apre e chiude la partita nel
modo più classico. In Stagecoach to Lordsburg, rifacendosi a quel racconto,
Haycox prende il riscontro storico della fuga nel 1885 del capo apache Geronimo
dalla riserva di San Carlos in cui era stato confinato, nell’ultimo sanguinoso
tentativo di ribellione attraverso scorrerie e devastazioni degli insediamenti
dei Bianchi. Come per Boule de suif, i passeggeri della diligenza per Lordsburg
compongono un microcosmo sociale, e qui sono proiettati verso una Frontiera in
progressivo e inarrestabile movimento verso ovest: sono quelli che
colonizzeranno le terre sottratte agli indiani, quelli che vivono di espedienti
professionali, e anche gli emarginati come la prostituta Henriette, schiva e
gentile, e il bel pistolero “smilzo e biondo” Malpais Bill, diretto verso la sua
vendetta contro chi gli ha ucciso il padre e il fratello. Come osserva Attilio
Brilli nell’introduzione, i personaggi hanno un carattere bozzettistico
efficace, con un gusto fra l’arcaico e l’ingenuo che risponde alla mitologia
popolare in cui si muovono; ognuno porta i segni del suo status sociale, dai
dettagli del vestire ai tratti somatici rappresentativi, fino ai gesti e agli
atteggiamenti che tradiscono i loro umori e le loro storie. Malpais Bill – che
nel film di John Ford diventa Ringo interpretato da John Wayne – ha “negli
angoli degli occhi e nella lunga piega della bocca” il segno di una natura
selvaggia, quella del mezzosangue inevitabilmente reietto.
Nel racconto abbiamo una ragazza – Miss Robertson – che va a sposarsi con un
ufficiale di fanteria, un piazzista di whisky di Kansas City, un inglese alto e
ossuto con un enorme fucile da caccia, un elegante giocatore d’azzardo, un
robusto mercante di bestiame con una grossa pepita d’oro appesa alla catena
dell’orologio, lo smilzo Malpais Bill con le pistole che gli pendono ai fianchi
e la prostituta Henriette – queste ultime le due figure centrali. Con questo
materiale, John Ford e Dudley Nichols plasmarono e “riformarono” la tipologia
dei personaggi di Haycox per caricarla dei significati simbolici più adatti alla
narrativa hollywoodiana. La evanescente “ragazza dell’ufficiale” si trasforma
nella volitiva Lucy Mallory, moglie incinta di un ufficiale dell’esercito che
vuole raggiungere il marito; l’inglese col fucile e il mercante di bestiame
vengono rimpiazzati da un banchiere avido che è fuggito con la cassa e dal
medico ubriacone Doc Boone, figura divenuta classica nella mitologia
cinematografica western; Malpais Bill diventa Ringo Kind, che è ricercato e per
questo scortato nella diligenza dalla nuova figura dello sceriffo, e Henriette
diventa Dallas Douglas, la reietta che viene fatta salire sulla carrozza da un
drappello di signore arcigne e avvizzite della Lega per la moralità. Nel film lo
sgangherato Doc Boone, costretto a fuggire da un luogo all’altro, è il
contrappeso speculare del giocatore d’azzardo Hartfield, virginiano dai modi
fini e l’aspetto nobile, entrambi figure che si redimono nel corso del viaggio.
L’opposizione più netta nel microcosmo della diligenza è fra la donna pubblica
Henriette/Dallas e Miss Mallory, ovvero la prostituta e la rispettabile dama che
deve raggiungere il marito, e si esplica in un percorso di sguardi, di
espressioni e di inquadrature soggettive – è la donna civilizzata a osservare la
prostituta, avvertendo una curiosità partecipativa – che nel film prepara la
riconciliazione solidale che avverrà in uno degli eventi centrali, la nascita
della bambina nella stazione lungo il deserto. Qui abbiamo lo svelamento dei
ruoli e la redenzione dei reietti, uno dei grandi marchi del cinema “etico” di
John Ford.
Uno sguardo analitico e complessivo sul suo cinema lo troviamo nel bel saggio di
Andrea Laquidara John Ford e il cinema americano, ovvero la rimozione di
Dioniso (Mimesis, 2019), che passa in esame la filmografia fordiana
concentrandosi sulle pietre miliari della sua sterminata produzione e traendone
quelle implicazioni storico-filosofiche che ci riportano anche all’America di
oggi. Vediamo innanzitutto che tutti i film di John Martin Feeney, figlio di un
irlandese giunto in America nel 1872, sono girati – anche quelli non
squisitamente western – sulla Frontiera, cioè sul limite, sulla soglia, quella
linea che difende la civiltà dalla wilderness: un cinema che rappresenta nel
modo più compiuto il mito di fondazione degli Stati Uniti d’America. Prendiamo
le sequenze che aprono Stagecoach: in una piccola cittadina dell’Arizona giunge
la notizia che gli Apache sono sul piede di guerra. Dopo qualche inquadratura in
esterni, che riprende due figure a cavallo che corrono negli spazi del deserto,
finiamo all’interno di una caserma, dove una delle due figure spiega a un
ufficiale seduto alla scrivania che gli Apache infestano le colline circostanti.
L’ufficiale chiede al telegrafista di predisporre la linea di comunicazione con
Lordsburg, più a ovest nel New Mexico, ma proprio da quella città sta arrivando
un messaggio urgente. L’inquadratura si stringe, l’attesa si fa preoccupata, ma
la comunicazione non arriva: «The line went dead, sir» dice il telegrafista, la
linea è interrotta. Da Lordsburg arriva solo la prima ferale parola: “Geronimo”.
Come osserva Laquidara:
> “Tutti i presenti restano in un lugubre silenzio, e la frattura che Geronimo
> ha provocato nella linea del telegrafo è riempita solo dalla colonna sonora,
> improvvisa, grave, piena di semitoni e sinistre dissonanze: un chiaro invito
> lanciato allo spettatore di preoccuparsi seriamente. (…) La linea di
> comunicazione si è improvvisamente trasformata in un binario morto. Si è
> fratturata. L’unione si è fatta divisione. E in questa frattura si è inserito
> il nome di Geronimo, il selvaggio, l’irrazionale, accompagnato da un accordo
> musicale disarmonico. Ecco dunque cosa determina il carattere tragico,
> agonistico del percorso della storia, la possibile frattura del binario
> provocata dall’imboscata tesa dal selvaggio. La dinamica e ottimistica
> mobilità del progresso muta improvvisamente in stasi. Nel Caos della stasi”.
A metà della storia la diligenza attraversa il tratto in cui Geronimo avrebbe
tagliato il filo del telegrafo, nel territorio denso di ostili premonizioni
rappresentato dalla Monument Valley, divenuta il più mitico dei paesaggi
americani: qui è evidente che il gruppo racchiuso nella carrozza – la piccola
comunità – è esposto al passaggio nel mondo spaventevole dell’irrazionale. E
l’irrazionale arriva:
> “Tutta la celebre sequenza della fuga della diligenza, inseguita dagli Apache,
> e della battaglia realizzata in frenetica corsa, è tra le più studiate nei
> corsi di Storia del cinema. Una delle ragioni sta nel fatto che John Ford
> compone insieme magistralmente un materiale molto eterogeneo. Nella pazza
> corsa di carrozza e uomini a cavallo si susseguono: velocissimi carrelli
> girati in esterni; inquadrature più ravvicinate dei passeggeri che si
> difendono (girate evidentemente in studio); riprese dall’alto che mostrano la
> diligenza fendere un territorio bianco come un lago asciutto, inseguite dalle
> ombre minacciose dei selvaggi; citazioni da Griffith (raccordi in asse e sullo
> sguardo); citazioni dal cinema sovietico (la spettacolarità di angolazioni
> inusuali, con prospettiva dal basso); passaggi di azione pura che si alternano
> a primi piani fortemente espressivi, che definiscono la psicologia dei
> passeggeri”.
L’attacco degli Apache dura ben sei minuti, con una dinamica forsennata in cui
non v’è un minimo cedimento o dispersione della tensione narrativa, fino al
momento in cui gli squilli di tromba annunciano il soccorso salvifico del
battaglione di cavalleria al galoppo e lo scioglimento del dramma. I selvaggi
sono rappresentati come figure omogenee, anonime, accomunate dall’impersonare il
pericolo, il caos e la violenza, sia quando sono invisibili sia quando irrompono
sulla scena come incubi. E in effetti gli Apache Chiricahua, a cui apparteneva
Geronimo, rientravano nel gruppo di popoli aggressivi e di mentalità guerriera
per i quali le scorrerie erano l’impresa tribale più importante e legittima, e
la guerra di vendetta era l’inevitabile conseguenza della dinamica delle
scorrerie. I giovani maschi venivano allevati per essere corridori forti, rapidi
e rapaci, per diventare ladri di bestiame e razziatori di carovane, abili nel
nascondersi e nello schivare, e implacabili odiatori dei vicini di altre
tribù. È lo stesso Geronimo a narrare il mito chiricahua della creazione, in cui
uno dei due eroi tradizionali è chiamato “uccisore di nemici”. Poiché vivono
razziando, devono affinare le arti dell’inseguimento, dell’imboscata, della
morte, in quanto la morte dei nemici è la loro vita.
Per la mente indiana l’attaccamento al paese nativo era una necessità vitale, e
non potere farvi ritorno equivaleva alla separazione dalla sorgente di vita
della terra. Gli Apache Chiricahua fondevano questo attaccamento alla propria
terra con la pratica tradizionale della guerra di razzia, e ciò rese possibile a
Geronimo di evitare la resa definitiva per più di un decennio, periodo fatto di
menzogne e promesse non mantenute da entrambe parti in conflitto. Per i Bianchi
Geronimo era il peggiore fra tutti, perché era il migliore sotto l’aspetto della
civiltà chiricahua: il più diffidente, intransigente, selvaggio, crudele.Quando
lo stile di vita dei Chiricahua fu minacciato come mai prima, egli divenne una
sorta di capo supremo, e nulla lo convinceva che il suo predecessore Cochise
avesse fatto bene a portare le sue bande nella riserva loro assegnata. I
Chiricahua non erano mai stati agricoltori, perché si spostavano di continuo, ed
era impensabile che si convertissero in contadini all’interno di una riserva;
senza contare che non avrebbero più avuto la libertà di picchiare la moglie per
le sue malefatte e nemmeno di tagliarle la punta del naso quando la scoprivano
infedele, oltre a non potersi più fare il tiswin, la birra tradizionale a base
di granturco. In breve, sarebbero dovuti somigliare agli uomini bianchi che
erano devoti alla terra solo nella misura in cui potevano impossessarsene per
sfruttarla a scapito di tutto il resto, mentre per i Bianchi il fatto che gli
Apache non riuscissero a concepire la nozione della mobilità verso l’alto
mediante l’accumulo di ricchezze era la dimostrazione della loro natura
sub-umana.
Tornando a Stagecoach e al saggio di Andrea Laquidara, abbiamo Ringo e Dallas,
lui ricercato – prigioniero dello sceriffo che viaggia in cassetta – e lei
prostituta: due figure emblematicamente collocate ai margini del sistema
sociale, che in una delle pause del viaggio vengono a trovarsi all’aperto, in un
esterno notte. Dallas cammina lungo uno steccato di tronchi, in un paesaggio
spettrale “alla Murnau” che però è stemperato dalla colonna sonora delicata e
sentimentale.
> “Lo steccato è il vero protagonista del quadro: il legno robusto e livido
> taglia l’immagine in diagonale e ne attraversa il centro. Dallas, prima in
> ombra, poi investita da una luce dolorosa, si ferma sul bordo destro dello
> schermo. Ringo, una nera silhouette, le si avvicina, ma, senza evidente
> motivo, decide di orientarsi verso la parte ovest dell’inquadratura, e dunque
> restare al di là del recinto di legno cui Dallas sta appoggiata. L’intero
> dialogo si svolgerà con la presenza triste e ingombrante dello steccato che
> separa i due interlocutori”.
Pur divisi, i due sono accomunati dallo stato di marginalità:
> “entrambi sono esclusi da una società ipocrita e formale; entrambi hanno
> vissuto un trauma che li ha privati della famiglia; entrambi sono soli, alla
> ricerca di qualcosa, un ricordo o un’attesa che custodiscono sotto la scorza
> dura che li corazza. L’identificazione, man mano che il dialogo procede, si fa
> più viva ed evidente: le inquadrature si stringono e si intensificano nei bei
> primi piani con cui John Ford rende palese la predilezione e l’affetto che ha
> per simili personaggi. Il gioco di campo e controcampo, che alterna il volto
> fiero e intenerito di Wayne a quello di Claire Trevor, pieno di dolcezza
> dimenticata, grazie all’ambivalenza naturale del montaggio, congiunge e
> contemporaneamente mantiene separati i due amanti virtuali”.
Dal West, Ringo si decide a dirle che al di là della frontiera possiede una casa
dove un uomo e una donna potrebbero vivere felici. Dallas, dall’East, è sorpresa
e intimidita, perché la crudeltà del mondo l’ha disabituata all’idea della
felicità. A questo punto avanza nell’oscurità lo sceriffo, che accarezzando lo
steccato ricorda a Ringo che non può allontanarsi, essendo un ricercato sotto la
sua custodia, mentre sullo sfondo la figura di Dallas si allontana profondamente
turbata. Come un rasoio, la legge della Frontiera è intervenuta a dividere il
corpo unico della felicità. Perché sappiamo come “il lavoro di costruzione
narrativa si esprima proprio nella selezione che distingue il necessario dal
superfluo, l’utile dall’inutile, il civile dal selvaggio, il buono dal cattivo.
È in quella linea di demarcazione che risiede il senso profondo del narrare; ed
è nella capacità di operare col rasoio, distinguendo l’identità dall’alterità,
che affonda le radici il montaggio, e dunque la costruzione di una particolare
visione della realtà”.
Mentre in Boule de suif la visione negativa di Maupassant si estende all’intera
fisionomia della società in viaggio, nella micro-società di Stagecoach il medico
ubriacone, lo sceriffo, Ringo e anche Mrs. Mallory (nella sua solidarietà finale
verso Dallas, che nel pericolo le ha protetto la neonata) rappresentano
l’aspetto migliore della civiltà, quello che giustifica il procedere verso la
via del progresso; l’unica figura negativa resta il banchiere Gatewood,
esponente di un capitalismo cinico, vorace ed esasperato. E la valorizzazione
della prostituta Dallas viene proprio dalla “sterilizzazione” della sua
femminilità e del suo eros, che viene normalizzato e ricondotto nel sistema,
promosso alla funzione procreativa, di costruzione della famiglia e della
società. È la cinepresa di Ford e lo sguardo tenero di Ringo che la sollevano
dalla sua condizione misera, incorniciandola nell’icona familiare della
donna-madre – della Madonna, secondo l’interpretazione di Laquidara – che tiene
in braccio la bambina appena partorita da Mrs. Mallory. Un lavoro strategico che
“risulta efficacissimo, giacché riesce a esorcizzare l’aspetto più spaventevole
della donna, la sua carica erotica e sensuale”. Ma non solo: il viaggio che Mrs.
Mallory e Dallas hanno fatto attraverso l’inferno le ha condotte insieme a una
maturazione, la prima al superamento dei propri atteggiamenti misurati e rigidi
di signora dell’Est, con la presa di coscienza che restituisce dignità alla
reietta, la seconda alla consapevolezza del proprio valore – riconosciuto dalla
comunità che torna ad accettarla – e della reale possibilità di amare ed essere
ricambiata.
Paolo Ferrucci
*In copertina: Adolph F. Muhr, Ritratto di Geronimo, 1898
L'articolo Go West! L’epopea della frontiera, da Geronimo a John Ford proviene
da Pangea.