Giù la testa è un film del 1971, il penultimo di Sergio Leone e il più ambiguo
di tutta la sua filmografia. È un western atipico, incentrato sulla Rivoluzione
Messicana, che ha per protagonisti due personaggi che apparentemente hanno ben
poco a che fare con quello specifico contesto rivoluzionario: un bandito
maldestro e straccione di nome Juan Miranda, e John H. “Sean” Mallory, un
dinamitardo irlandese colto e istruito, con un passato tra le file dell’IRA. È
un film sulla rivoluzione, girato in un periodo contraddistinto dal crollo degli
ideali rivoluzionari, quindi figlio del proprio tempo. Non è un caso, infatti,
che questo film sia stato pensato e girato da un regista italiano che, seppur
contraddistinto da un apparente distacco nei confronti della realtà
socio-politica in cui viveva, deve avere senz’altro colto l’aria che si
respirava in un Paese in cui, il 12 dicembre 1969, i movimenti studenteschi e
operai avevano visto drammaticamente crollare le proprie rivendicazioni in
seguito agli attacchi terroristici di piazza Fontana.
Con questo film Sergio Leone inserisce un tassello fondamentale nel processo di
crescita creativa che ha caratterizzato tutta la sua produzione, realizzando un
collegamento tra il Mito (il Far West) e la Storia (la Rivoluzione), e donando
al pubblico il suo film più smaccatamente politico. Questo scarto è
riscontrabile anche dal punto di vista prettamente tecnico. Pur rimanendo fedele
ai suoi famosi primi piani, rispetto ai film precedenti Leone utilizza molti
più campi lunghi, dando l’impressione di voler creare un film corale e, dunque,
restituire un affresco storico carico di implicazioni sociali e politiche. Da
questo punto di vista, l’ultima scena del film è emblematica. Purtroppo, è
necessario rivelare il finale per chiarire il concetto, quindi, si suggerisce a
chi non ha visto il film e non ha intenzione di rovinarsi la sorpresa di non
leggere i paragrafi successivi.
Dopo aver tentato di rapinare la banca di Mesa Verde, e aver sottratto non soldi
ma prigionieri politici, Juan e Sean si lasciano coinvolgere più profondamente
nella rivoluzione e si ritrovano a combattere contro le truppe del colonnello
Günther Reza, un brutale ufficiale governativo. Durante la battaglia finale,
Sean viene ferito dal capo delle truppe governative e decide di sacrificarsi per
salvare Juan. Nell’ultimo fotogramma prima dei titoli di coda, mentre viene
inquadrato mediante un primo piano di grande intensità, la voce fuori campo di
Juan pronuncia le parole chiave del film: “e adesso io?”
Benché ermetiche, le ultime battute del bandito messicano nascondono la chiave
interpretativa di tutto il film. L’epilogo di Sean sembra infatti essere la
scintilla che accende la coscienza politica del rozzo brigante messicano
interpretato da Rod Steiger. Gli eventi a cui ha preso parte e il rapporto
instaurato con l’intellettuale irlandese gli hanno permesso di maturare e di
passare dallo stato di bandito individualista e opportunista a quello di
rivoluzionario che ha sposato una causa collettiva di alto valore morale. In
questo senso, Leone sembra comunicare allo spettatore un messaggio di stampo
prettamente marxista: la Rivoluzione è il motore della storia e, con la sua
forza trasformativa, può cambiare le società. Tale chiave di lettura è
confermata dalla citazione di Mao Tse Tung in apertura del film:
> “la Rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un
> disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e
> delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La Rivoluzione è un atto di
> violenza.”
Ad avvalorare tale interpretazione, però, è anche il rapporto che si instaura
tra i due protagonisti del film. Sean, interpretato da un azzeccatissimo James
Coburn, è un rivoluzionario deluso, un intellettuale che ha dedicato la propria
vita alla lotta collettiva e che non ne può più di quelli che “leggono i libri
[che] vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono: qui ci
vuole un cambiamento! e la povera gente fa il cambiamento.” Sean ha sperimentato
sulla sua pelle la violenza che la rivoluzione inevitabilmente comporta e che
investe principalmente i “poveracci”, quelli che, fomentati dagli intellettuali,
pagano col sangue la lotta armata. La sua, quindi, è una visione della
rivoluzione decisamente pessimista. Così come lo è, evidentemente, quella di
Sergio Leone, il quale, probabilmente, dopo aver assistito con grande
disillusione alla fine degli ideali che avevano animato i primi settant’anni del
Novecento, ha deciso di mettere in scena un dramma crepuscolare carico di
riflessioni politiche.
Tuttavia, le dinamiche relazionali che Juan e Sean instaurano, ad un’analisi più
approfondita, lasciano trasparire un velato ottimismo da parte del regista:
Leone, infatti, sembra dire che gli intellettuali (rappresentati da Sean)
possono svolgere un ruolo cruciale nella formazione della coscienza di classe
del popolo (rappresentato da Juan), ma per farlo devono mantenere un rapporto
diretto con le masse, devono avventurarsi con e in esse, onde evitare di
diventare una classe privilegiata distante dalla realtà concreta. Ed è
esattamente ciò che fa Sean, immergendosi nel mondo straccione e degradato di
Juan Miranda, e accompagnandolo, però, tramite un percorso di emancipazione sia
fisico che morale, verso la rivoluzione.
L’epilogo del film sottolinea con grande enfasi questo messaggio: il sacrificio
di Sean, per quanto inutile ai fini della battaglia contro le truppe
governative, permette a Juan, e di conseguenza al popolo, di prendere coscienza
della propria condizione e di sviluppare una coscienza rivoluzionaria. La
domanda retorica di Juan con cui il film si chiude ha, quindi, una duplice
valenza: da un lato lascia trasparire lo spaesamento del popolo di fronte alla
perdita della guida intellettuale, dall’altro, invece, sottintende la volontà di
proseguire la lotta con maggiore consapevolezza, seppur con quella paura di
affrontare il mondo che tipicamente contraddistingue gli orfani.
In questo senso, il messaggio di Leone sembrerebbe ancora più esplicito:
l’emancipazione delle masse può essere possibile solo mediante il sacrificio, in
senso sociale, degli intellettuali, e la rivoluzione potrà realizzarsi solo se
le classi dominanti saranno disposte a sacrificarsi in nome dell’indottrinamento
del popolo. Da questo punto di vista, Giù la testa può essere interpretato come
il testamento politico di Leone. Il regista romano sembra dirci che il marxismo
ha fallito perché le classi dirigenti, decidendo di non rinunciare ai propri
privilegi, non sono state in grado di comprendere la complessità della realtà
delle masse. Viene inevitabilmente in mente il pensiero di Antonio Gramsci, il
quale aveva individuato negli intellettuali “l’anello mancante del materialismo
storico”, perché è la loro attività a determinare i rapporti tra le classi e i
gruppi sociali.
Di certo, fa un certo effetto sapere che un messaggio di questo tipo provenga da
un regista che ha fatto dell’individualismo il tema centrale della propria
produzione cinematografica. I suoi eroi sono fondamentalmente dei solitari, dei
pistoleri malinconici che riescono a trovare un rifugio dalla durezza del mondo
solamente nell’amicizia virile e nel denaro. E, da questo punto di vista, lo
sono anche i due protagonisti di Giù la testa. Ciononostante, con questo film
Leone sembra aver voluto lanciare un messaggio a quelli che, secondo lui, sono i
veri responsabili del fallimento di ogni sogno rivoluzionario: i membri delle
classi dirigenti e, più nello specifico, gli intellettuali. D’altronde, fu lui
stesso a dire
> “quando ero giovane credevo in tre cose: il Marxismo, il potere redentore del
> cinema e la dinamite. Oggi credo solo nella dinamite”.
Un epilogo, questo, che spiega perfettamente la cupezza del suo ultimo
capolavoro, C’era una volta in America, in cui, invece, l’unico strumento di
emancipazione delle masse sembra essere l’acquisizione, con ogni mezzo
possibile, di denaro, anche a costo di sacrificare l’unico rapporto capace di
dare senso alle vite dei suoi personaggi, vale a dire l’amore, in senso sia
romantico che amicale.
In definitiva, Giù la testa si configura come un’opera complessa e stratificata,
ben lontana dalla semplice etichetta di “western atipico” che nel tempo gli è
stata affibbiata. Attraverso la lente della Rivoluzione Messicana e la dinamica
tra un rozzo bandito e un intellettuale disilluso, Sergio Leone offre una
riflessione amara e disincantata sul fallimento degli ideali rivoluzionari, pur
lasciando intravedere una flebile speranza nel potenziale trasformativo della
coscienza popolare, innescata dal sacrificio delle élite intellettuali. Il film
si erge così a testamento politico di un regista che, pur provenendo da un
universo cinematografico apparentemente distante da tali tematiche, dimostra una
lucida consapevolezza delle dinamiche socio-politiche del proprio tempo,
consegnando al pubblico un’opera potente e ancora oggi attuale, capace di
stimolare una profonda riflessione sul significato di rivoluzione, sul ruolo
degli intellettuali e sul destino delle masse. Un film estremamente attuale che,
oggi più che mai, potrebbe essere utile trasmettere nelle sezioni di più
partiti.
Alessandro Lugli
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