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“La mia anima è ormai un oceano in tempesta”. In ricordo di Ernesto De Martino
> Quando arrivò a casa l’ambulanza chiedeva disperatamente di me. Mi voleva come > sempre accanto a lui. Gli ho preso la mano e lui continuamente sussurrava: > “Vittoria, Vittoria…”. Arrivati al San Camillo c’era mio fratello e dopo è > arrivata la figlia Lia. Lui era in coma, eppure mi ha detto: “Perché non va > qualcuno a comprarmi Paese Sera?”. Allora è andato mio fratello. Ernesto mi ha > detto: “Ma la rivista Aut-Aut è arrivata?”. “Sì, è arrivata”, gli ho risposto. > “Me la vai a prendere?”. Gli ho dato questa rivista sempre con la mano nella > mano e mi fa: “Ma come mai non c’è luce?”. > Allora facendomi estrema forza gli ho detto: “Ma guarda tu se in un ospedale > può mancare la luce’”. > Detto questo lui è spirato[i]. 6 maggio 1965. così si compie il cammino di questo mondo di Ernesto De Martino. la mano che lo tiene è quella di Vittoria De Palma, sua compagna di vita e di ricerca per quasi vent’anni. l’ultima apocalissi della sua vita, la stanza di un ospedale romano, una vita iniziata a ridosso di un’altra apocalissi, il terremoto di Messina e Reggio Calabria del 1908. dai ricordi di sua madre, Ernesto sarebbe nato il giorno dopo il terremoto, mentre per le strade di Napoli stavano passando dei camion per la raccolta di vestiti e beni di prima necessità per gli sfollati. la madre vide dalla finestra una donna sfinita con un bambino in braccio, e il travaglio iniziò, disse. era il 1 dicembre[ii].  l’apocalissi è stata la condizione intrinseca della vita di De Martino, e non è forse un caso che diede il nome anche all’ultima opera, incompiuta, cui lo storico e antropologo napoletano lavorò, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali(postumo, 1977)[iii]. ampio spazio è stato dato nella letteratura accademica all’analisi del concetto di apocalissi demartiniano in una prospettiva sociale e politica, anche grazie agli ottimi curatori delle ultime due edizioni, francese (2016) e italiana (2019), Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio. De Martino distingue tra apocalissi e catastrofe. nel primo caso la fine è “portatrice di senso e diventa nucleo di produzione culturale: l’apocalisse è sempre, per etiologia, una rivelazione” (Quarta 2021, 77). nel secondo caso, la catastrofe non ha apertura sulla storia, è una caduta senza riscatto, una “catabasi senza anabasi” (Idem), anche se la prima racchiude potenzialmente la possibilità di esaurirsi nella seconda. De Martino contempla tre fenomenologie apocalittiche: quella con escaton, quella senza escaton e le apocalissi psicopatologiche, simili alle catastrofi. le prime due si svolgono sul piano culturale collettivo; prevedono una “salvezza” che si esplica nel reintegro dell’individuo in un codice sociale condiviso in cui c’è la gestione possibile del negativo. le terze non prevedono nessuna possibilità di condivisione pubblica; sono l’esperienza di un mondo “oscuro e privato”. quest’ordine porta De Martino ad avvicinare le apocalissi senza escaton alla catastrofe. “Proprio perché fra tutte le apocalissi culturali essa appare più di tutte le altre prossima alla crisi radicale dell’umano, la apocalisse senza escaton dell’occidente si presta in modo elettivo a illustrare il valore euristico del documento psicopatologico” (De Martino 2019, 356). una tensione tra salvezza e caduta definitiva che caratterizzerà anche l’uomo De Martino. poco è stato scritto sui risvolti personali di Ernesto De Martino rispetto alla dimensione apocalittica che lo rivestiva, presenza immanente a tutta la sua ricerca antropologica come un continuo lamento tellurico a bassa frequenza. apocalissi in cui cercò sempre un escaton attraverso una volontà incrollabile quanto la speranza. > Io credo tuttavia che tra la mia psicastenia, il mio ittero, la mia > turbercolosi, la mia epilessia vi sia un rapporto intimo (mi guarderei > dall’affermare tale rapporto fra queste malattie come tali), e che non si > possa fare la storia della mia persona senza includervi anche le mie malattie. > > (De Martino 2004, 28) la malattia, la cronica dimensione di carenza, è stata una condizione fondante di De Martino. un travaglio che se in giovinezza fu esplicito, come le crisi di epilessia, dopo i trentacinque anni rimase latente, anche grazie alla sua grande forza d’animo, lui che non faceva parola della sofferenza, che non malediva quello stremo che accompagnava le sue ricerche sul campo, il suo studio alacre, ma che fu corpo di tutta la sua ricerca empirica e teorica. come ha scritto Luigi Chiriatti, De Martino cercò di esorcizzare il dolore, la malattia, la morte, quella paura di “cadere nel nulla o nelle mani di un dio irato” (De Martino 2004, 26) studiando le manifestazioni di dolore, malattia, morte attraverso quel caravanserraglio materiale e simbolico della “magia” che accompagnava la resistenza al male in quegli umani più esposti alla catastrofe e alla perdita improvvisa, a quella che chiamava “sapienza del pianto” (De Martino 2021, 14). erano i contadini del Sud Italia del secondo dopoguerra, quelli che morivano, parafrasando un canto funebre lucano, “con la fatica alle mani” (Ibidem, 90). questo attraverso un’analisi comparativa e un innovativo, per la ricerca etnografica italiana, approccio interdisciplinare[iv] che unirono le culture euromediterranee attraverso il filo rosso di sopravvivenze arcaiche, come il lamento funebre rumeno, il bocet, evocato attraverso la descrizione dei funerali di Lazzaro Boia, pastore di Ceriscior, morto a 50 anni nell’ospedale di Ghelar. riportato a Ceriscior, il corpo fu vestito a festa e ricoperto di lino in una bara di legno nero. tre candele di cera ardono al capezzale, altre tre tra le mani del morto. come nella maggior parte dei rituali funebri riportati da De Martino, sono le donne che intonano la litania del lutto. in questo caso ognuna canta il proprio scomparso, ognuna rievoca il proprio lutto, in una lamentazione collettiva che è anche consolazione reciproca per i lutti passati. una donna canta il dolore per un figlio morto in terra straniera, “senza i riti della sua gente, e perciò vagante nel mondo al pari di una larva inquieta”: “…Se incontrerai Giorgio, Nicola mio,/ o caro, e se lo vedrai/ triste e afflitto,/ è perché se ne andò senza i riti.” (Ibidem, 160). e al mondo agreste si rifanno i pianti di Clitennestra e di Dario nell’Agamennone e nei Persiani di Eschilo: “Fin troppa ne abbiamo mietuta di messe del dolore”, “L’ΰβρις giunta alla fioritura, ha dato come frutto la spiga della colpa e della punizione, donde ne venne messe infinita di pianti” (Ibidem, 242-243). il pianto umano come specchio del pianto divino, di cui De Martino vede l’apice nelle Lamentazioni di Iside e di Nephtys. così recita Iside: “Fin tanto che posso vederti, ti chiamo piangendo, anche nelle altezze del cielo, ma tu non senti la mia voce, sebbene io sia tua sorella che tu amasti sulla terra e sebbene tu non amasti che me, o fratello, o fratello” (Ibidem, 279).  il filo rosso tra passato remoto e presente si materializza nell’ “Atlante figurato del pianto”, ultima sezione di quello che è considerata forse l’opera più compiuta della ricerca demartiniana, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria (1958). qui, il materiale fotografico raccolto in Lucania e in Sardegna viene comparato alla mimica gestuale della lamentazione antica cristiana, greca ed egizia, come, ad esempio, le braccia piegate ad angolo, considerate da De Martino un paradigma della lamentatiofunebre, o il “kopetòs”: “le braccia sollevate in alto del modello precedente si abbattono sulla testa e sono spinte verso il viso, con tendenza a iterare indefinitamente l’atto e a dargli un ritmo di esecuzione collettiva” (Ibidem, 653)[v]. questo passaggio dal dolore individuale a quello collettivo è una condizione costante dell’opera demartiniana e della sua visione dell’apocalissi, che nel suo andamento concentrico, dall’individuo, alla società contadina del Sud Italia, ai popoli colonizzati[vi], sembra riprendere le parole di Gesù: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatto a me… In verità vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno di questi piccoli, non l’avete fatto a me” (Mt, 25, 40; 45). il male, come il bene, ha un effetto domino che dal singolo si dilata alla comunità, al cosmo, per questo ogni individuo, ogni gesto, è portatore di un destino condiviso. De Martino, laico in dolore. bellissime, le sue parole, tutte le sue parole a Vittoria De Palma:  > Ma non credere che io faccia propaganda di ateismo, e che con leggerezza > voglia distruggere ciò che nella società presente con le sue ingiustizie e i > suoi dolori è inevitabile, cioè la consolazione, della preghiera fatta al > padre, e anche io, in dati momenti, come figlio di questa società, come figlio > del dolore e dell’oppressione dico a dio la mia preghiera”.  > > (De Martino 2004, 27) la terza apocalissi della sua vita De Martino la visse durante la Resistenza, cui partecipò attivamente da intellettuale[vii] anche redigendo, nel novembre 1944, dopo che le forze alleate erano entrate in Romagna, il Proclama della Liberazione, all’epoca temporaneamente nascosto dal socialista Alvaro Badiali[viii] nel granaio di Palazzo Maltoni, a Cotignola (Ravenna). nel dicembre dello stesso anno De Martino soggiornò a Palazzo Annaratone, nella frazione di Masiera (Bagnacavallo), a ridosso del fiume Serio, che per quattro mesi divenne il fronte di guerra tra da una parte i Tedeschi e i repubblichini fascisti e dall’altra le forze alleate. il racconto “I Trenta di Masiera” rappresenta l’unico testo autobiografico pubblicato disponibile ad oggi di De Martino, in cui parlando in terza persona quest’ultimo prende le spoglie di un ingegnere meridionale stanco e pavido senza nome, “lo sfollato”, che insieme a un gruppo di otto famiglie di classi sociali diverse è costretto a lasciare Masiera, presso Fusignano, per andare a rifugiarsi in una villa vicina, in attesa della liberazione. l’ingegnere “porta panni non suoi, laceri e unti, le scarpe fanno acqua, e se ne sta avvolto in una capparella nera romagnola, dono di un contadino di Masiera”. rimane in disparte, pensando alla famiglia lasciata a Solarolo. proverà a incamminarsi su quei 28 Km che lo dividono dalla moglie e dalle due bambine ma l’artiglieria lo farà tornare indietro. “il capitano Adler”, delle forze alleate, dice loro che l’indomani all’alba dovranno incamminarsi per 3 km verso Bagnacavallo con una bandiera bianca. ognuno dispera, si insinua il dubbio che si tratti di un tranello. all’alba c’è concitazione; nel mentre delle informazioni che si contraddicono una con l’altra, entra un soldato tedesco, “lacero, infangato, senza elmetto, con la barba lunga di giorni”. come non pensare al Ferito in fuga di Otto Dix, gli occhi spalancati e ritorti, la benda sulla testa che non riesce a trattenere il sangue che cola dalla fronte, la mano con una ferita come stimmate. dice all’ingegnere che quello è il sesto Natale di guerra per lui. viene da una cittadina della Bassa Sassonia. quando l’ingegnere gli chiede se ha una famiglia risponde “Non so”, e poi si mette a ridere. De Martino dice che rideva come se trovasse la domanda spiritosa. forse rideva dalla disperazione. morirà poco dopo in un fosso, “l’oscuro fante”, accanto all’ingegnere, sporco del suo sangue[ix]. non ci sono più né nemici né alleati, né nobili né contadini ma una sola umanità sofferente.  nei frangenti della Resistenza De Martino unisce la fragilità delle sue condizioni di salute allo sperdimento della guerra, iniziando a forgiare nel buio dell’anima quel concetto di “perdita della presenza” che caratterizzerà tutta la sua riflessione scientifica, da Il mondo magico (1948)[x] a La fine del mondo (1977). la “presenza” è presenza al mondo, alle ancore di riferimento culturali della propria società: quello che fa rimanere in equilibrio, sebbene precario. e la magia, “restauratrice di orizzonti in crisi” (De Martino 2022, 125) serve a riempire le voragini del crollo della presenza e la caduta dell’individuo nel caos, la perdita della propria anima e di conseguenza del proprio mondo, soprattutto in quei contesti dove gli àuguri si accaniscono contro i più esposti, i contadini italiani e i popoli non industrializzati di ogni parte del mondo. a domare i venti del fato contrario è lo sciamano, il mago, “Cristo magico” “colui che sa andare oltre di sé, non già in senso ideale ma proprio in senso esistenziale” (Ibidem, 99) per riscattare tutta la comunità e portare “salvezza”. “Solo coloro che, nel loro dramma esistenziale, sono diventati i signori del limite, gli esploratori dell’oltre, gli eroi della presenza” (Ibidem, 105). il dramma magico esistenziale, scrive De Martino, si dilata se ci riferiamo “a un grande tema culturale del magismo: la fattura o malia”. prendendo l’esempio degli Arunta (Australia centrale), De Martino descrive come il solo fatto di ritenersi affatturati dall’“apparecchio magico” dell’arungquilta, o in caso di violazione di un tabù, può diventare causa di morte laddove ci sia tale convinzione. da storico delle religioni, oltre che antropologo, De Martino considera dramma nel dramma l’incapacità delle culture occidentali industrializzate di capire la “funzione storica” della fattura e della controfattura, che permette di cogliere il quadro esistenziale in cui queste ultime si producono. negando la dimensione storica di questi fenomeni in quanto eventi culturali si nega, tout court, la presenza storica degli individui che ci credono e che in essi vivono. [xi] è da ricordare che Il mondo magico viene pubblicato nel 1948, l’anno precedente il primo soggiorno di De Martino in Lucania, a Tricarico, “l’immagine del caos” (De Martino 2013, 121)[xii], e un anno dopo le Lettere dal carcere di Gramsci. da quei primi soggiorni nel “Meridione” nascono le Note Lucane, pubblicate per la prima volta nel 1950[xiii]. esse rappresentano il primo manifesto di pensiero politico di De Martino applicato a una ricerca di campo etnografica nel Sud Italia, e uno dei suoi documenti più vibranti. vengono da un humus storico e politico che aveva già attirato l’attenzione su quelli che allora erano i servi della gleba della nazione, i contadini del “Meridione”, rovina tra le rovine della guerra. nel 1945 Carlo Levi aveva pubblicato Cristo si è fermato ad Eboli, libro di testimonianza scaturito dal suo confino negli anni ‘30 per attività antifasciste prima a Grassano, poi ad Aliano, in Basilicata. in quello stesso anno Rossellini gira Roma città aperta; si inaugura la stagione neorealista ma qui il regista, come lo scrittore, è una figura molto presente: le inquadrature mostrano la sua mano, il suo angolo di lettura del mondo mentre nel libro-testimone di Levi l’autore resta in disparte per far rimbombare l’umanità dolente delle popolazioni lucane. De Martino, pur stimando Levi, non condividerà la visione dei contadini lucani presi in un destino immobile; al contrario dirà che proprio in quei sistemi di rappresentazione così lontani dal panorama identitario della borghesia cittadina, tra cui il ricorso alla magia, sta la dignità culturale, e quindi storica perché situata, delle popolazioni contadine. in questo senso, De Martino si distacca dagli studi sul “folklore” che avevano caratterizzato la demologia italiana fino ai primi decenni del ’900 per costruire, anche a seguito dell’influenza gramsciana, una teoria sul confronto tra classi egemoni e classi subalterne, che aprirà la strada al volume dell’antropologo Alberto Maria Cirese Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale (1971)[xiv].  De Martino, che per primo si batte per rimanere presente alla sua storia, si riconosce nello specchio delle lotte per rimanere al mondo dei contadini lucani, siciliani, calabresi, la cui dignità di coscienza è insita proprio in quegli oggetti di uso e di culto quotidiani ritenuti retrogradi e selvaggi dalle classi politiche di un Paese che si apprestava ad entrare nel boom economico del decennio successivo. nel 1948 Palmiro Togliatti andò a Matera per verificare le condizioni di vita descritte da Levi, dichiarando le condizioni in cui vertevano gli abitanti dei Sassi “vergogna nazionale”[xv]. tuttavia Togliatti si dimostrò freddo rispetto alle ricerche di De Martino e al fatto che quest’ultimo considerasse anche i contadini lucani protagonisti della storia in un momento in cui il governo italiano era orientato verso l’industrializzazione del Paese e il PCI guardava più al mondo operaio cittadino che ai contadini del “Meridione”, i più poveri tra i poveri[xvi]. De Martino spiega il lamento lucano come parte di un regime esistenziale, un sistema di rappresentazione del mondo imbevuto delle tremende condizioni di vita dei contadini.  La Lucania, scrive De Martino, è caratterizzata da un’economia rurale “relativamente arretrata”: i campi, caratterizzati da una grande parcellizzazione della proprietà, distano decine di chilometri dai borghi di residenza, i terreni sono avari, le frane frequenti. a livello famigliare vige un profondo regime di dipendenza: gli uomini dipendono dai loro padroni, le mogli dai mariti, l’anziana madre dai suoi figli, gli orfani restano in balίa di chi li prende in carico. questo causa una grande “indeterminazione sociale”, accentuata dall’enorme fatica delle attività agricole e dalle “lunghe segregazioni” richieste dalla pastorizia, e porta a uno stato di “miseria psicologica”. questa precarietà appare in tutto il suo fragore nel documentario di Luigi Di Gianni Magia lucana (1958) di cui Ernesto De Martino fu consulente scientifico. il paesaggio, simile a una cava di marmo, è scandito solo dagli zoccoli dell’asino e dai passi dei contadini; i campi sono lontani dal paese, ogni giorno è un viaggio per la vita in uno spazio ostile e muto, al tempo stesso spazio vitale. e al paese si attende il ritorno “senza emozione”, quasi che si sia incorporata già la possibilità di un lutto:  > E se non tornano? Se l’uomo cade colpito dalla natura muore con lui l’unica > ricchezza, quella del suo vigore… Gioacchino mio, bene della tua donna, che > morte improvvisa, bene della tua donna. Oh, le mani pregiate che avevi, quanta > fatica hai fatto con queste mani, bene della tua donna. Mi debbo rimboccare la > gonna e devo uscire fuori casa per lavorare alla giornata, bene della tua > donna, e debbo scendere e salire le rampe del paese per guadagnare un pezzo di > pane per i figli tuoi. Debbo mettermi la zappa sulle spalle per guadagnare una > giornatella per i figli tuoi, bene della tua donna. > > Dove sarà il fidanzato lontano? Dimmelo Santa Monica, dimmelo, angelo della > Notte. in questo contesto, “la morte di una persona di famiglia risolleva di colpo, nella sua imponente carica emozionale, tutto l’arco di una vicenda esistenziale deficitaria”. le lacrime di una persona sono le lacrime di tutti, e non si piange per una sola ragione ma per tutte le ragioni in un pianto solo. in questo senso il lamento, ma anche l’ascesso erotico, la bulimia, l’autolesionismo, rispondono a questo panorama esistenziale. in particolare, il lamento funebre come “istituto culturale” serve a non scivolare nella “scarica incontrollata di impulsi o in una sorta di stupore immemore della situazione luttuosa” (De Martino 2013, 157), un ricorso questo in cui anche l’autolesionismo, come ad esempio lo strapparsi i capelli o battersi il capo, viene ritualizzato con il supporto di moduli recitativi ridondanti attraverso il lamento funebre. nelle Note Lucane De Martino identifica un relativo riscatto dei contadini lucani della Rabata di Tricarico attraverso forme di resistenza alle autorità e ai politici locali che instillano un “fermento di civiltà e storia che restituisce al tempo prospettiva e contenuto umani”. è emblematico il caso del berretto del maresciallo Gallo, strappatogli durante l’occupazione della caserma dei Carabinieri dai paesani di Tricarico e passato di mano in mano sino a finire nell’orinatoio del paese, in un burrone e poi sotto le radici di un melo. sotto la pressione popolare il maresciallo Gallo fu allontanato dal paese e questo rappresentò per De Martino un momento di riappropriazione della storia da parte dei Rabatani.   > Essi vogliono che quel loro cercarsi in questo mondo di tenebre tendendosi le > mani e chiamandosi ‘frate, frate’ si costituisca in immagine altrettanto > storica come gli affreschi della cappella Sistina o la cupola di Michelangelo. > Ma essi vogliono anche che giunga al mondo l’eco dei loro sforzi per > emanciparsi, e dal fondo delle loro spelonche, deformi nei corpi logorati > dall’umido, essi gettano sul viso di coloro che iniquamente li tengono in > catene il verso di sfida: ‘Nuie simme a’ mamma d’a’ bellezza’, noi siamo la > giovinezza del mondo.  > > (Ibidem, 132-133) De Martino sente senso di colpa e collera per le condizioni dei Rabatani, “una collera tutta storica perché storica è la mia colpa come anche la colpa del gruppo sociale al quale appartengo” (Ibidem, 140). da borghese intellettuale, vede la sua libertà come il sacrificio delle popolazioni lucane, un compiacimento per “civettare con la ‘dignità della persona umana’ al modo che la intendono coloro che ‘fanno gli intelligenti’”[xvii]. “Rendo grazie al quartiere rabatano e ai suoi uomini per avermi aiutato a capire meglio me stesso e il mio compito” (Idem). è in questo solco che quasi dieci anni dopo Ernesto De Martino prepara la sua missione di ricerca nel Salento sul tarantismo, anche qui per dimostrare che la ‘follia’ e la sua canalizzazione terapeutica non sono peculiari a popolazioni ignoranti e incoscienti ma sono il grido di dolore di cuori castrati, della “noia” della solitudine e dell’amore. colui che ama, sa. ne La Terra del rimorso, egli incontra di nuovo un’umanità di sangue e carne che guarda al cielo per scorgere i messaggi di fortuna e sfortuna dell’acre giornata, alla terra per piangere i suoi morti. rispetto a questa condizione, scrive De Martino, il tarantismo assicurava qualche giorno da eroi, l’attesa “dell’epoca del sogno”: > ognuno poteva così rialzare la propria sorte tanto quanto la vita l’aveva > abbassata, e viveva episodi che si configuravano come il rovescio della > propria oscura esistenza. Al verde paradiso si contrapponeva un paradiso in > rosso, un agonismo che si sforzava di mimare pose eroiche, il sognare di > essere un grande della terra, un atleta, un abile, un capitano, un tribuno, un > artista a corte, un Re dei Re. > > (De Martino 2023, 175) c’è un’immagine, quasi un’immagine spiritica, evanescente, tra quelle presenti ne La terra del rimorso, quella di una tarantata, Rosaria di Nardò, che, di schiena, picchia con i pugni chiusi la porta che cela la statua di San Paolo, patrono delle tarantate e dei tarantati. siamo a Galatina, alla festa annuale dei SS. Pietro e Paolo. che differenza con quella sequenza de La taranta di Gian Franco Mingozzi (1962), quando la tarantata Lea batte sul vetro del ritratto di San Paolo, tenuto da un bambino. lì lei è a casa sua, regina. il viso è teso, nodoso come un tronco d’olivo. è in collera con San Paolo, che non si decide ancora a darle la grazia per far cessare la sua danza; è in collera com’è in collera un’amante verso l’amato, con la rabbia dell’amore degli esseri umani. intorno ha i musicanti che la accompagnano, la seguono e la “scazzicano” formando un corpo solo con lei e allo stesso tempo un dialogo armonico[xviii]. San Paolo non concede la grazia, e Lea continua a danzare rabbiosa. è vita, lei, secondo un codice che tutti conoscono. invece a Galatina i rituali domestici che rendevano la tarantata protagonista della sua possessione sbiadiscono davanti a una folla che sembra non fare altro che aumentare la solitudine del morso d’assenza. non si può non notare anche la differenza di genere. una foto ritrae un tarantato a terra all’interno della cappella di San Paolo. si chiama Donato di Matino; ha gli occhi chiusi, le braccia e la bocca aperte. vicino a lui quattro donne sono chine; stanno sistemando un cuscino sotto la testa di una tarantata. attorno, un gruppo di persone guarda senza guardare, quasi a disagio. altre due foto ritraggono la piazza antistante la chiesa dei SS. Pietro e Paolo. la folla si accalca attorno a due tarantate; una è sdraiata a terra, l’altra, nella seconda foto, è carponi. nelle due immagini sono presenti soprattutto uomini. la donna che era carponi si alza e intima alla folla di dividersi in due ali, lei al centro. sembra dare un ordine ma in realtà è schiacciata dall’indifferenza, dalla non-partecipazione di chi le si accalca intorno. tra quelle persone, oltre ai famigliari, c’è anche una massa di curiosi attratti da una morbosità improferibile. il corpo unico del rituale domestico non c’è più, c’è solo il corpo randomico della tarantata, urla sole senza rito. e non c’è più la lotta d’amore con San Paolo, cancellata dalla sfilata della statua del patrono con la banda del paese: suoni omogeneizzati in onore dei Santi patroni, la modernità. fedeli anonimi, non amanti che si chiamano per nome. “un sistema di inerzie, di intolleranze, di contraddizioni inavvertite, di incompatibilità sopportate: ma in questo caos cui si dà il nome romantico di ‘folklore’” (Ibidem, 393)[xix]. queste parole, che chiudono La Terra del rimorso, De Martino le scrive insieme a Vittoria De Palma. sul campo, Vittoria prepara l’incontro, con il suo sorriso solare smussa la diffidenza, soprattutto nell’approccio dell’équipe con le donne, quelle contadine che in un piccolo paese videro per la prima volta le proprie fattezze attraverso le foto mostrate da Vittoria, scattate durante un soggiorno precedente, credendo alle compaesane presenti che dicevano che in effetti erano proprio loro. una ricerca di campo, le antropologhe e gli antropologi lo sanno bene, è un travaglio di compromesso, soprattutto con la propria coscienza. un continuo pericolo di oggettivazione delle persone, i momenti in cui l’ambizione di raccogliere “dati” prevalica sulla percezione che si è realmente davanti a esseri umani che hanno priorità profondamente diverse dalle nostre. l’esperienza di campo è una continua decentratura, un continuo riconoscimento dei propri limiti, un continuo rammendo di poli a volte inconciliabili. anche De Martino si è trovato davanti a questo compromesso. alcuni suoi metodi per ottenere le informazioni possono sollevare interrogativi, come nel caso della giovane Rosa di Ferrandina, “l’immagine di un torbido ingorgo di potente sensualità” (De Martino 1953, 75). De Martino voleva registrare il pianto di Rosa per un lamento funebre ma la ragazza era restìa. trovarono un compromesso. la ragazza proferì il suo lamento da uno sgabuzzino dando a Vittoria la mano per allontanare il malaugurio di intonare il lamento fuori dal rituale, e all’esterno il tecnico della RAI registrò la voce di Rosa facendo passare il microfono attraverso l’angusta fessura della porta socchiusa. in molti casi De Martino chiese espressamente alle persone di riprodurre canti e gesti rituali funebri, come accadde a Pisticci. nelle Note lucane e nell’ultima appendice de La Terra del rimorso si evince che De Martino era consapevole di questi scarti dell’incontro, che riconobbe con anima intera, quella con cui abbracciò tutti gli eventi della sua vita.  è difficile parlare di un essere umano smisurato. è difficile parlare di Ernesto De Martino. cerco un appiglio nella vastità della sua opera, della sua persona, di cui probabilmente ancora non ci si rende esattamente conto, per concludere questo brevissimo omaggio. in un’intervista di molti anni fa chiesero a Norberto Bobbio cosa considerasse la cosa più importante, arrivato alla sua età; credo che all’epoca avesse circa 90 anni. durante la vita, disse, si considerano prioritari il proprio lavoro, i propri testi; poi, arrivati in fondo, l’unica cosa preziosa che resta è l’amore delle persone care. se devo pensare a una sola cosa che resta di Ernesto De Martino dico l’amore. amore per quel creato che era il teatro di apocalissi e catastrofi che egli restituì in una scrittura così caparbiamente non-attuale, a tratti ostica. e così semplice quando parlava a Vittoria nella lingua del sogno, nella loro lingua, nel loro sogno, alleggerita di tutto tranne dell’essenziale: > La mia anima è ormai un oceano in tempesta, e ogni ondata porta il tuo nome, > il mio sguardo è ormai allucinato e l’unica immagine che esso vede è la tua. > Il mio cuore batte solo le ore dei nostri incontri e i miei pensieri per te e > anche il mondo che si tocca, il mondo delle cose, va gradatamente scomparendo > al mio sguardo per lasciare posto ad un unico corpo reale, a un corpo che non > è materia, che ha perso per me tutte le macchie del peccato, è un corpo che è > puro, che è anima e che è solo la via per conoscere l’anima… > > (De Martino 2004, 30) Cristiana Panella ** Riferimenti bibliografici Charuty, G. Les vies antérieures d’un anthropologue. Marseille: Éditions Parenthèses, MMSH, 2009. Dei, F. e A. Fanelli 2015. “Magia, ragione e storia: lo scandalo etnografico di Ernesto de Martino”. Introduzione a E. De Martino, “Sud e magia”. Roma: Donzelli [1959] 2015, IX-XLV. De Martino, E. “Note di viaggio”, Nuovi Argomenti, 1 (2), 47-79, 1953. De Martino, E. Vita di Gennaro Esposito napoletano. Appunti per una biografia di Ernesto De Martino. Calimera: Kurumuny-edizioni, 2004. De Martino, E. Furore Simbolo Valore. Milano: il Saggiatore [1962] 2013.   De Martino, E. La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali. Torino: Einaudi [1977] 2019. De Martino, E. Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria. Torino: Einaudi [1958] 2021. De Martino, E. La Terra del rimorso. A cura di M. Massenzio. Torino: Einaudi [1959] 2023. Fanelli, A. 2019. “ ‘La verità sta di casa tra Palazzo Filomarino e il Sasso di Matera’. Un carteggio tra Alberto Maria Cirese ed Ernesto de Martino”, Studi Storici, 1, 5-44. Faranda, L. Le lacrime degli eroi. Pianto e identità nella Grecia antica. Roma: Edizioni Universitarie Romane [1992] 2022. Panella, C. 2022. “L’incantevole vertigine dell’anima sbigottita. Magia, etnografia e movimento nella taranta di Suzanne Doppelt”, Pangea, 25 Marzo 2022. Quarta, L. “Apocalisse e storia. Fondazione trascendentale dell’umano”, ANUAC, 10 (2), 75-83, 2021. -------------------------------------------------------------------------------- [i] Intervista di Luigi Chiriatti a Vittoria De Palma in De Martino 2004, 29. [ii] Il sisma di magnitudo XI della scala Mercalli con il successivo maremoto che uccise, tra le province di Messina e Reggio, circa 90.000 persone avvenne all’alba del 28 dicembre 1908 ma le scosse erano iniziate dai primi di novembre di quell’anno; pertanto è probabilmente agli eventi di fine novembre che il ricordo della madre di De Martino si riferisce (Panella 2025, in pubblicazione). Ringrazio Maria Grazia Insinga per avermi dato questa informazione temporale sulla scosse del novembre/dicembre 1908. [iii] La prima edizione de La fine del mondo è stata curata per Einaudi da un’assistente di ricerca di De Martino, e successivamente fine antropologa, Clara Gallini. Dopo l’edizione del 2002, quella del 2019, sempre per Einaudi, a cura di Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio, è stata in alcune parti tradotta e redatta, con un’organizzazione più sistematica e accessibile rispetto all’edizione a cura di Gallini, a partire dalla versione francese pubblicata nel 2016 dall’École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS), curata da Charuty. [iv] Le ricerche di campo vedranno la partecipazione di diverse competenze tra cui Vittoria De Palma come assistente sociale e ponte con il mondo femminile, lo psichiatra Giovanni Jervis, l’antropologa Amalia Signorelli, lo psicanalista Emilio Servadio, l’etnomusicologo Diego Carpitella e il fotografo Franco Pinna. [v] In Le lacrime degli eroi. Pianto e identità nella Grecia antica l’antropologa Laura Faranda recupera la prospettiva di Morte e pianto rituale per indicare il principio di “soglia” tra il polo della vita e quello della morte, insito nel pianto rituale demartiniano, per sondare la valenza del pianto anche nel polo di vita, tornando alla funzione sociale del pianto teorizzata da Marcel Mauss, che vedeva l’obbligatorietà delle lacrime in un assetto istituzionalizzato, come le formule di saluto o i rituali iniziatici, poi riscontrate in successivi contesti etnografici (Faranda 2022). Allo stesso tempo De Martino scrive che la pratica del kopetòs era combattuta dalla Chiesa cristiana stessa, riportando diverse omelie e testimonianze già del primo Cristianesimo, da San Paolo a Giovanni Crisostomo a Gregorio Nazanzieno, fino alle punizioni contro le “donnette” che si danno ai “barbarici clamori” operate nel ‘500 e nel ‘600, in cui si nobilita il dolore composto e si redarguisce il lamento ostentato (De Martino 2013, 147-152). A questo proposito non si può non pensare alla compostezza del dolore di Maria come leit-motiv di molte rappresentazioni pittoriche. [vi] Rispetto a Gramsci, De Martino estende la riflessione sul confronto tra culture egemoni e culture subalterne ai Paesi extra-europei colonizzati dalle potenze europee, anche avvicinandosi allo studio dei culti millenaristici. “In tal modo si è venuta raccorciando la distanza che separava le forme culturali subalterne interne alla civiltà occidentale e le culture indigene dell’epoca coloniale: la differenza tra le une e le altre appare sempre più esser di misura e non di qualità, e sempre meno appare giustificabile una distinzione rigorosa dell’oggetto della etnologia da quello delle tradizioni popolari, poiché in entrambi i casi stanno davanti a noi sincretismi interculturali, rapporti tra livelli diversi di cultura, dinamiche messe in movimento da questi rapporti” (De Martino 2019, 322). [vii] Dal 1945 De Martino operò come segretario di federazione del Partito socialista a Bari, Molfetta e Lecce; l’anno dopo si iscrive al Partito comunista italiano, in cui viene ufficialmente ammesso nel 1953. [viii] Alvaro Badiali fu attivo nella 28° Brigata Gordini Garibaldi a Cotignola (Ravenna). Rappresentò il PSI nel CLN locale (fonte: storiaememoriadibologna.it). [ix] Il racconto “I Trenta di Masiera” è disponibile sul blog dell’antropologo Riccardo Ciavolella “Alterpolitica” (hypotheses.org). [x] Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo inaugurò la celebre “Collana viola”, Collezione di studi etnologici, religiosi e psicologici di Einaudi, creata da De Martino stesso e Cesare Pavese, importante contributo per l’apertura della cultura italiana a temi e lavori internazionali di antropologia, sociologia e psicanalisi. Nella stessa Collana furono pubblicati, tra altri, Jung, Lévi-Bruhl, Kérény, Propp, Malinowski, Frobenius, Frazer, Durkheim, Eliade. [xi] Il confronto tra Ernesto De Martino e i suoi maestri, Adolfo Omodeo e Benedetto Croce, fu travagliato e non privo di ambiguità rispetto a quelle posizioni etnocentriche da cui il primo voleva distaccarsi. Semplificando estremamente potremmo dire che De Martino, per una parte della sua ricerca, si distingue dal pensiero di Croce nella misura in cui quest’ultimo considera la magia una superstizione fuori dalla storia, ossia dal libero arbitrio e dalle scelte individuali che fanno la storia, e la follia come un spazio senza storia né prospettiva storica. Per un’analisi sfumata delle posizioni di Croce e De Martino si veda Dei e Fanelli 2015. [xii] Tra il 1949 e il 1950, Ernesto De Martino effettua tre soggiorni à Tricarico, ospite, insieme a Vittoria De Palma, del sindaco e poeta Rocco Scotellaro. Ci tornerà nel giugno 1952 per una missione di preparazione del soggiorno di ricerca dell’autunno dello stesso anno, insieme, oltre che a Vittoria De Palma, a Benedetto Benedetti e Arturo Zavattini. [xiii] Prima pubblicazione: De Martino 1950. “Note Lucane”, Società, VI (4), 650-667. La rivista Società era stata creata nel 1945 dall’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli e dal filosofo Cesare Luporini come voce del PCI. Nel 1953 verrà avviata da Alberto Moravia e Alberto Carocci la rivista Nuovi Argomenti, che nel primo numero accoglierà diversi testi di Francesca Armento, madre di Rocco Scotellaro. Queste iniziative editoriali daranno un forte impulso al dibattito sul folklore che, nutrito dall’opera di Gramsci e dalla pubblicazione di Cristo si è fermato ad Eboli, non avrà pari in Europa in quel periodo (Charuty 2009, 22). [xiv] Sul carteggio tra Ernesto De Martino e Alberto Cirese, si veda Fanelli 2019. [xv] I Sassi vennero sgomberati su iniziativa di Alcide De Gasperi con la legge 619 del 17 maggio 1952. [xvi] Tra gli anni ’50 e ’60 per la prima volta in Italia il  numero degli operai superò quello degli agricoltori. [xvii] Qui De Martino riprende una famosa rima rabatana contro gli intellettuali, identificati soprattutto con i politici e il clero: “Voi che fate l’intelligente/non capite proprio niente./Se nun fusse pe’ li cafoni/ve mangiassive li cuglioni”. [xviii] Per la sintesi di alcuni elementi che caratterizzano il tarantismo “agito” analizzato da De Martino, si veda Panella 2022. [xix] Il passo è tratto dall’appendice V, l’ultimo contributo del volume. L'articolo “La mia anima è ormai un oceano in tempesta”. In ricordo di Ernesto De Martino proviene da Pangea.
May 14, 2025 / Pangea