È notoriamente impossibile fare lo spoglio della mole di studi sfornata ogni
anno dalle università e dalle case editrici sui classici della letteratura e del
pensiero. Tuttavia ogni tanto, un po’ per caso, un po’ perché ce la andiamo a
cercare, è necessario buttare un occhio in strada per constatarne la situazione
e, se si intercetti qualche soggetto disturbante, prendersi la soddisfazione e
ottemperare al diritto/dovere di critica, di scagliare qualche freccia o,
almeno, qualche voce di allarme.
Ed è ciò che faremo ora presentando due lavori su Martin Heidegger, esciti
entrambi per Mimesis: Heidegger e Michelstaedter. Un’inchiesta filosofica di
Thomas Vašek, e Heidegger e la Gnosi di Lucrezia Fava.
Inizieremo col primo, il più problematico e urticante.
* * *
Partiamo dal titolo originale: Schein und Zeit – Heidegger und Michelstaedter.
Auf den Spuren einere Enteignung, o sia: «Apparenza e tempo – Heidegger e
Michelstaedter. Sulle tracce d’una espropriazione». La versione italiana quindi
corrompe radicalmente l’intenzione dell’autore: Heidegger e Michelstaedter.
Un’inchiesta filosofica sarà commercialmente più appetibile, ma non si può
sempre sacrificare tutto al dio mercato.
Nel titolo originale, dietro l’espressione palese, ci sono due allusioni. La più
facile: «Schein» in luogo di «Sein», che sta a indicare una sorta di maschera,
indossata naturalmente da Heidegger. La seconda è meno perspicua e riguarda la
parola centrale del titolo: Enteignung, che rimanda evidentemente allo spettro
dello «Er-eignis» uno dei concetti centrali heideggeriani e quello che sorregge
i Beiträge zur Philosophie.
Mi auguro solo di non aver sopravvalutato un autore a dir poco sospetto.
Il titolo originale, si capisce, accenna a un possibile e forse, secondo
l’autore, probabile plagio ai danni di Carlo Michelstaedter da parte di Martin
Heidegger. Una tesi invero sorprendente e di quelle che per solito ingenerano
due ordini di reazioni: o grande interesse, oppure totale negligenza. I
contenuti di simili “inchieste” sono infatti davvero squassanti oppure un fuoco
fatuo, molto spesso presente solo nella testa dell’autore.
Io opto per una terza posizione: pregiudizio che porta alla contraffazione.
Evidenzio súbito una “stranezza” di Vašek, già alle pagine 11 e 12, o sia la
precisazione d’aver tenuto fuori dal suo studio ogni discussione circa i così
detti “Quaderni neri” e quindi circa le (del tutto) presunte responsabilità di
Heidegger durante il governo nazionalsocialista. È un segno sia di malafede, sia
dell’inquinamento del clima che si respira ogniqualvolta si tratti di Martin
Heidegger. Sentirsi obbligati a precisare di non voler trattare il tema è come
ammettere che, parlando di Heidegger, si dovrebbe comunque ricordare sempre
ch’egli fu (si dice, man sagt) nazionalsocialista. E infatti poco dopo (pp.
25-26) Vašek non manca di affermare che «non vi sono dubbi sulla vicinanza di
Heidegger al Nazionalsocialismo, tantomeno sul suo antisemitismo».
Purtroppo esula dal cómpito del mio contributo d’inoltrarsi nella faccenda (di
cui tuttavia dirò in un successivo articolo). Ma è mio dovere dichiarare qui con
grande forza che quei dubbi per Vašek, e per parecchie altre persone,
inesistenti lo sono davvero, ma in senso affatto opposto a quello inteso da
questo autore. Lo dimostra la schiera di ricercatori italiani tedeschi e
francesi che ha smontato pezzo a pezzo ogni ricostruzione e costruzione
infamante ai danni di Martin Heidegger. Mi riferisco, cito a solo titolo
d’esempio, a François Fédier e a Francesco Alfieri. Ritenere, oggi, Heidegger
nazista e antisemita dimostra o grave “distrazione” oppure disonestà.
E dico di più: la frase di Vašek è sbagliata perché, se proprio vogliamo
concedere qualcosa alla tesi colpevolista, Heidegger fu bensì iscritto al
Partito nazionalsocialista ma non manifestò mai sentimenti o idee antiebraici.
Peraltro sarebbe uno strano antisemitismo quello di Heidegger: allievo
dell’ebreo Husserl; circondatosi di ebrei; plagiatore dell’ebreo Michelstaedter
(e anche di un secondo, vedremo).
Scopo del lavoro è dimostrare le coincidenze, nel senso stretto della parola,
tra il pensiero di Michelstaedter espresso ne La persuasione e la rettorica e
quello di Essere e tempo. Invero la dichiarazione preliminare dell’autore di
limitarsi a Essere e tempo non trova corrispondenza nel testo, in cui è presente
un nubifragio di citazioni da svariate altre opere di Heidegger, precedenti e
successive al capolavoro del 1927.Avanti tuttavia di immergerci nel raffronto
testuale e tematico, onde dimostrare la tesi dell’Enteignung, Vašek ci informa
che l’opus magnum del goriziano fu tradotto in tedesco solo nel 1999, ciò che,
non conoscendo Heidegger l’italiano, rende impossibile un contatto diretto tra
questi e il testo michelstaedteriano, testo che fu pubblicato la prima volta in
Italia tre anni dopo il suicidio del goriziano, nel 1913, da Vallecchi di
Firenze (che Vašek invece colloca, chissà perché, a Genova).
Tuttuavia Vašek fa ciò che mi pare di poter definire una scoperta non dappoco, o
sia una traduzione in tedesco della parte dedicata alla Persuasione della
celebre tesi di laurea, per mano niente di meno che di Argia Cassini, la così
detta fidanzata di Michelstaedter (scrivo «così detta» per buone ragioni
biografiche che qui non importa di esporre). Sorgono però adesso due problemi
molto pesanti, che Vašek non solleva. Anzitutto si ignora lo scopo di questa
traduzione, fatta in forma dattiloscritta e, in apparenza, privata, cioè a dire
non espressamente destinata ad alcuno. Essa inoltre è priva di data ed essendo
Argia Cassini morta nel 1944, avrebbe avuti come minimo trent’anni di tempo per
tradurre quel mazzetto di pagine. Vašek invero accenna all’assenza della data,
ma in maniera anodina, senza porre in evidenza il dato cruciale, e men che meno
interrogandosi sulle sue implicazioni all’interno dell’indagine in corso.
Partendo da questa traduzione parziale, Vašek si slancia nella ricostruzione di
rapporti tra Italia Svizzera e Germania insino a questo momento, per quanto mi è
dato di sapere, ignoti. Essa è esposta alle pagine dalla 19 alla 22 e io non
toglierò la soddisfazione al lettore di scoprirsela da sé, tanto essa è invero
sorprendente. Inoltre mi astengo dal parlarne per non spingere il giudizio del
lettore in una direzione anziché in un’altra. Idem valga per l’indagine tematica
e testuale di Vašek, anche perché riferirne anche solo succintamente renderebbe
questo articolo da rivista specialistica e quindi “illeggibile”.
Qui voglio solo far emergere il puro tentativo di Vašek e discutere alle corte
il suo metodo.
Il libro è efficace e va preso in considerazione, ché in effetto
le coincidenze tra i due pensatori ci sono.
Vašek apre un problema, che per lui tuttavia è una specie di vaso di Pandora, il
cui contenuto si scatenerebbe non già sulla storia della filosofia ma su
Heidegger e sugli heideggeriani, heideggeriani ch’egli fa passare a un dipresso
come una sètta. Postoché ciò sia vero, gli antiheideggeriani in moltissimi casi
a me paiono somigliare invece a una cosca, con tanto di picciotti pronti alle
mani e alle armi contro chi osi contestare la loro lettura – politica morale
e anche filosofica – di Heidegger. Esemplare è il caso d’una accanita arcinemica
e diffamatrice di Heidegger e degli heideggeriani (che la ignoravano fino a
quando ella non si mise a strepitare sui giornali, portando quindi la
discussione dal parrucchiere). Smentita più e più volte, la studiosa non si è
ancòra data per vinta, seguitando a collezionare magrissime figure.
Altro difetto del lavoro di Vašek è la tendenza alla ripetizione. Se tuttavia
talora essa riesce molesta, altre è invece utile poiché certi concetti e
osservazioni meritano di essere ripigliati. Nondimeno, stupisco constatando che
aver più volte ribadito, oltre alle simiglianze, anche le differenze tra i due
pensatori, non porta Vašek a essere conseguente, sicché il libro è
composto solo delle prime. Ma Vašek si spinge ben oltre, ché, ringalluzzito
dalle sue “scoperte” sciorinate nelle duecento e cinquanta pagine precedenti, a
metà della quinta e ultima parte del lavoro si inoltra nel tentativo di
dimostrare un altro esproprio heideggeriano, questa volta ai danni di Franz
Rosenzweig e in ispecie della sua opera principale, Die Stern der Erlösung («La
stella della redenzione»). Un altro ebreo al quale rubare, quindi.
In apparenza (forse la parola chiave del libro…) Thomas Vašek dà l’impressione
di sapere adoperare la vanga come pochi altri, tanto scava scava scava nei testi
heideggeriani e in Michelstaedter. Ma giunto su certi terreni si limita a
passare oltre, al massimo sollevando un po’ di polvere, per ritornare su d’uno
più congeniale (in apparenza…).
Egli infatti solo indirettamente dice che a unire Heidegger e Michelstaedter
oltre all’aria che si respirava in Europa nei primi decenni del XX secolo, vi
sono anche profonde conoscenze storico-filosofiche, in ispecie la Greciantica
dei Presocratici, di Platone e Artistotile, tre momenti del pensiero occidentale
conosciuti e da Heidegger, e da Michelstaedter come pochissimi altri. E questo
trait d’union è il primo dato che, volendoci inoltrare in un raffronto tra i due
pensatori, balza immediatamente allo sguardo di occhi sani e onesti, anche
solo letteralmentescorrendo l’elenco delle loro opere o, al
massimo, letteralmente sfogliando le pagine di queste.
Vašek però non dà il benché minimo peso a questa giuntura.
Indubbio merito, quantunque indiretto, da riconoscere a Vašek è d’aver accennato
in modo da incuriosire parecchio al nome di Oskar Ewald, filosofo viennese,
«fervente ammiratore di Michelstaedter» e «in contatto con Edmund Husserl» (p.
10). Ma Vašek lo brandisce come un’arma impropria ma difettosa. Infatti fa
cilecca. Purtroppo di Ewald non c’è nemmeno mezza pagina tradotta in italiano e,
per soprammercato, le sue opere, pubblicate oltre un secolo fa, non sono mai
state ristampate, né in Germania né in Austria. Questo buco è davvero irritante,
giacché dai pochi cenni di Vašek, Ewald dev’essere un di quei pensatori
irregolari e anomali di notevole fecondità e forza.
Ewald tuttavia ci pone un problema piuttosto pesante, su cui Vašek tace del
tutto, ignoro se per gravissima distrazione ovvero con intenzione. Su quali basi
Vasheck definisce Ewald «fervente ammiratore» del goriziano? Se – anche questo
vedemmo – La persuasione e la rettorica fu vòlta in tedesco solo nel 1999 e
storia e destino della versione d’Argia Cassini sono ignoti, come fu possibile a
Ewald, ignaro della lingua italiana, leggere Michelstaedter? Si può ipotizzare,
sulla scorta della ricostruzione di legami alle pagine 17 e seguenti, che Ewald
abbia appreso di Michelstaedter da Husserl e da altri: ma può bastare qualche
scambio di battute su chicchessia a farne di qualcuno «fervente ammiratore»?
Possiamo a esempio noi dopo pochi cenni su Ewald dichiararcene tali? Direi di
no.
Se invece Ewald, per ipotesi, lesse la traduzione d’Argia, data la suddetta
catena di sant’Antonio ricostruita da Vašek, è probabile che anche Heidegger
l’abbia letta. Ma di questa traduzione noi non si sa null’altro fuorché la sua
esistenza, ciò che è insufficiente a determinare alcunché. Inoltre – ed è un
dettaglio a mio giudizio cruciale – la traduzione di Argia Cassini si trova
attualmente nel Fondo Carlo Michelstaedter di Gorizia. Un dato che ci obbliga a
domandarci: se è ben possibile che essa traduzione abbia a un certo momento
intrapreso in viaggio tra Austria e Germania, è probabile che poi sia ritornata
a Gorizia, sia sopravvissuta allo sfacelo della Seconda guerra mondiale e sia di
poi stata messa al sicuro tra le carte del filosofo goriziano ancòra
semisconosciuto? (Il vero “lancio” avverrà soprattutto nel 1958, quando l’amico
– si fa per dire – Gaetano Chiavacci pubblicherà una scelta delle opere e delle
lettere, censurate, del Goriziano per Sansoni).
La risposta più ovvia mi pare questa: quella traduzione non è mai escita da
Gorizia e attualmente non resulta che alcun attore di questa storia abbia
intrapreso un viaggio a Gorizia, nemmeno Ewald che, essendo cittadino
austroungarico, bazzicava non molto distante dalla città friulana.
Resto tuttavia aperto a proficue e documentate smentite.
C’è ancòra un altro dato cruciale di che tener conto. Lo abbiamo anche questo
accennato: Argia tradusse solo «La persuasione», o sia pochissime pagine. Ora,
ipotizziamo che codesta traduzione abbia fatto il giro delle sette chiese
d’Austria e Germania (lo ritengo improbabile, ma transeat) e che quindi sia
giunta nella mani di Heidegger, com’è possibile trovare, come pretende Vašek,
delle cogenti simiglianze e identità tra il pensiero heideggeriano del «Si»
(man) e la rettorica michelstaedteriana? È realistico pensare che
l’espropriazione sia dovuta solo ai racconti orali della catena di sant’Antonio?
A me non pare sostenibile alcunché di siffatto.
Chiediamoci inoltre: se uno dei tramiti tra Michelstaedter e Heidegger, giusta
il tentativo di ricostruzione della catena di sant’Antonio di Vašek, fu Husserl,
è realistico che questi non abbia giammai evocato il pensatore goriziano
allorché si lamenta pubblicamente della deviazione, addirittura del tradimento
perpetrato da Heidegger, a petto dell’impostazione fenomenologica originaria,
in Essere e tempo?
Inoltre: è credibile che, come allude Vašek per tutto il libro, e sin dal titolo
originale, la mole enorme degli scritti heideggeriani derivi da Michelstaedter?
Amo e leggo Michelstaedter da trent’anni esatti, ma nemmeno da briaco riuscirei
a sostenere che l’opera di Heidegger, dalle prime lezioni della fine degli anni
Venti, insino – come minino – ai lavori postbellici, sia un’espropriazione da
«La persuasione», né da altri scritti michelstaedteriani.
Vašek commette anche un errore filosofico madornale ed è anche questo – oltre al
patente pregiudizio “razziale” politico e ideologico – a condurlo sulla via
sbagliata della sua lettura di Heidegger. Egli infatti scrive che Essere e
tempo non tratta «principalmente della questione dell’essere, bensì dell’idea di
rinascita o di trasformazione dell’uomo, che è stata influenzata da una certa
“letteratura del risveglio” dopo la Prima guerra mondiale» (p. 10). Insomma, la
solita tesi dello Heidegger esistenzialista. Oltre a essere una tesi vecchia
come il cucco è anche imprecisa, soprattutto se detta così. Ritenere che la
questione dell’essere non abbia strettamente a che fare con la trasformazione
individuale, e viceversa, significa maneggiare poco e male non solo Heidegger ma
in generale la filosofia.
Inoltre questa lettura contraddice in maniera brusca la tesi principale di
Vašek, o sia l’espropriazione da parte di Heidegger ai danni di Michelstaedter.
Il pensatore goriziano, infatti, è sempre stato collocato, per usare una
bellissima espressione di Camillo Pellizzi, tra gli «spiriti della vigilia»,
cioè a dire tra coloro i quali chiedevano, ciascuno more suo, un cambio di
passo, una metánoia, una palingenesi – individuale ovvero collettiva, qui non
conta trattarne – per lumeggiare e fronteggiare i rivolgimenti politici sociali
e culturali avviati a cavaliere tra XIX e XX secolo, e che avrebbero avuto il
loro primo banco di prova nella grande massacro della primo conflitto mondiale.
Michelstaedter è, secondo molti, tra quanti intercettarono i movimenti tellurici
ctonii preludenti la guerra e si posero in gioco. Inoltre Michelstaedter – ciò
che viene assai poco ricordato – era cittadino di quell’Impero che già agli
inizi del secolo scorso iniziava a dare vistosi segnali di cedimento.
Anche Heidegger, coetaneo di Michelstaedter (1889), sentiva l’aria, pur da
diversa prospettiva, anzitutto geograficamente diversa. Ma era anch’egli un
cittadino d’Europa e mosse i suoi primi passi filosofici consapevole della
necessità di una trasformazione, di una epistrofé.
Heidegger e Michelstaedter, per essere sbrigativi, respirarono lo stesso clima,
come ho già detto.
È inaccettabile quindi attribuire al pensiero heideggeriano (parziale,
parzialissimo!) un’aura non dissimile a quella del pensiero michelstaedteriano
ma al contempo tacciare il pensatore tedesco di Enteignung. Amenoché Vašek non
ignori del tutto la biografia di Carlo Michelstaedter.
Insomma, come lo giri lo studio di Thomas Vašek non sta in piedi.
Voglio riservare un ulteriore appunto ancòra al traduttore, che per i passi
da Sein und Zeit, si avvale esclusivamente della versione Chiodi-Volpi e ignora
quella di Alfredo Marini, non esente da difetti ma senz’altro più fondata e
corretta dell’altra, anche sotto il riguardo della semplice comprensione
grammaticale del tedesco. Per replicare si può ipotizzare che la versione
classica di Pietro Chiodi sia ancòra la più accreditata e quindi utilizzata,
anche se è un’affermazione discutibile. Nondimeno essa coinvolgerebbe la sola
versione di Chiodi e non quella di Chiodi e Volpi.
Si tratta certo di legittime scelte soggettive: forse un po’ troppo soggettive.
* * *
Il libro di Lucrezia Fava su Heidegger e la Gnosi, graziaddio, presenta molti
meno problemi e quelli che ci sono, vanno imputati a personali scelte
ermeneutiche e non a qualche basso sentimento o alla volontà di attirare
l’attenzione.
La vera magagna dell’opera, che forse può guastarla del tutto, è l’assenza del
cruciale riferimento ai concetti di Nichts e di Nichtigkeit, senza i quali ogni
comprensione di Heidegger è preclusa. Essi sono condensati per lo più nella
celebre conferenza Che cos’è metafisica? Ritengo che Lucrezia Fava non abbia
aggirato il problema volontariamente, o almeno spero, ma sia stata, per quanto
assai grave, solo una svista. Certo gli è che introducendo il nulla/niente nella
sua tesi sulla gnosi heideggeriana, l’impianto avrebbe fortemente traballato
minacciando di crollare sul suo pur abile e originale architetto. Ma sarebbe
stato il caso di osare, anche a costo di revocare in dubbio o addirittura in un…
niente tutti i fondamenti dell’indagine.
Un esito assai preferibile per non indurre qualcuno a giudicare Heidegger e la
Gnosiun ennesimo tassello di quello strano mosaico cui siamo avvezzi ormai da
tempo immemorabile. Quando si ha difficoltà a definire un pensatore o un’idea,
ma lo si vuole fare a tutti i costi, oppure quando si vogliano tentare altre vie
dalle già battute e cieche, spesso si finisce per definirlo gnostico.
Del tutto assente dall’indagine di Lucrezia Fava è la storia, quindi la
biografia. C’è un fuggevole cenno a probabili conoscenze da parte di Heidegger
di testi gnostici e alla vicinanza con Rudolf Bultmann (un altro gnostico?), ma
niente di più. Ora, che Heidegger, quale persona colta come lo erano a
quell’epoca tutti in certi ambienti, abbia conosciuti i principii dell’antica
Gnosi, nessuno può metterlo in dubbio. Ma non ci sono riferimenti né impliciti
né espliciti nelle sue opere al pensiero della Gnosi storica (a meno che non mi
sia sfuggito qualcosa). E non essendoci alcun riferimento testuale, fosse pure
epistolare, anziché procedere tout court a un accostamento, già di per sé
problematico, bisognerebbe avanti a tutto pensare alle ragioni –storiche
filosofiche psicologiche – di questa eventuale corrispondenza. Postoché Lucrezia
Fava abbia visto un aspetto del pensiero heideggeriano con lucidità e verità
(per quanto con l’aiuto esplicito di Hans Jonas), ella non si domanda mai donde
derivi tale corrispondenza. E questa indagine, si capisce, è rigorosamente
obbligatoria.
C’è un ulteriore inciampo in Heidegger e la Gnosi, e non dappoco, ed è indurre a
credere qualche lettore impaziente – e Dio sa quanti ce ne sono – che il
pensiero di Martin Heidegger cada in un calderone sbrigativamente definito
«irrazionalista», che costella la storia dell’uomo sotto diversi abiti da tempo
immemorabile. Ma mentre in epoca antica e financo in svolti più recenti e in
individui considerati “perdonabili” (si pensi, per esempio, al Romanticismo o a
Hölderlin), l’irrazionalismo è accettato, esso – si dice – non può più avere
diritto di cittadinanza nell’èra della scienza e della tecnica, questa nuova èra
metafisica che stiamo vivendo, e delle superstiti istanze politiche.
Heidegger dové già scontare l’accusa di misticismo e di irrazionalismo dopo la
così detta Kehre, la svolta, come si sa e come ben riassume Hans Georg Gadamer
nei Sentieri di Heidegger (Marietti 1987, pp. XV-XVI). L’accusa era
evidentemente pregiudiziale, spinta sia dall’«ondata di nuovo illuminismo» (io
avrei detto più tosto neopositivismo), sia dall’«ossessione
social-rivoluzionaria», come lì scrive Gadamer, e ben pochi, ancòra oggi, si
sono levàti dalla zucca una simile rappresentazione farlocca. A meno che
Lucrezia Fava non creda, anche lei in senso squalificante, a uno Heidegger
davvero irrazionalista, allora mettere in circolazione simili raffronti, senza
opportune premesse, può costituire un errore sia di metodo, sia strettamente
filosofico.
Ricordiamo a margine l’intelligente osservazione di Medard Boss:
> «Sono numerosi i derisori, che ritengono il “tardo” Heidegger soltanto un
> poeta o un mistico, che avrebbe da lungo tempo abbandonato il terreno di una
> “filosofia scientifica”. Tuttavia, in primo luogo, tali spiriti della
> superficialità non vedono che quello “più tardo” non si è affatto separato dal
> “primo” Heidegger (…). Il pensiero di Heidegger pensa sempre il medesimo del
> medesimo (…). In secondo luogo, i Suoi critici tralasciano di confrontare la
> rigorosa adeguatezza del Suo primo e tardo pensiero a quanto detto, dunque la
> sua “obiettività”, nel senso supremo di questo termine, con la rigogliosa e
> oscura magia, che domina completamente tante rappresentazioni della scienza
> moderna».
>
> (Lettera di Medard Boss ad Heidegger, in M. Heidegger, Seminari di Zollikon,
> Guida 1991, p. 411; traduzione lievemente modificata e corsivi miei)
La tesi di Lucrezia Fava è dunque parecchio spericolata. E aggiungo ch’essa,
almeno così come la declina l’autrice, non conduce in alcundove e, anzi,
allontana dall’obbiettivo heideggeriano principe. In questa analisi dov’è
infatti l’Essere? In altri termini: che cosa se ne fa il lettore di
un’analisi in opposizione alla filosofia come la intende Heidegger sin dai
primordi del suo pensiero?
Lucrezia Fava (ma anche Thomas Vašek con sgradevoli aggravanti) ci ripiomba in
quelle metodologie che lo stesso Heidegger voleva superare, in quella forma
mentis di ostacolo al “progetto” heideggeriano non solo di dire e di pensare
altrimenti a petto della tradizione e delle consuetudini, ma anche di essere
altrimenti. Ma questo è forse impossibile a recepirsi da parte di chi legge i
filosofi e certi filosofi in particolare come oggetti di indagine, eventualmente
di carriera. Heidegger spende gran parte della sua vita a mettere in guardia da
questo genere di mentalità esiziale ed ecco sopraggiungere ancòra dopo plurimi
decenni imperturbati studiosi, i quali, credendo di fargli i complimeti, gli
intonano l’ennesimo Requiem.
Heidegger diventa l’ennesimo oggetto di studio, e non resta quale,
giustissimamente, lo hanno definito Safranski e decine di suoi allievi e lettori
postumi: «ein Meister aus Deutschland», un maestro tedesco, o sia un maestro
tout court, del pensiero ateoretico e rigorosamente pratico, filosofia incarnata
o sia filosofia, per dirla con Hadot, quale esercizio spirituale,
e quindi pratico.
Heidegger trattato alla stregua d’un Popper o d’un Kant, che neppure se lo
meritano, cioè alla stregua d’un “qualsiasi” filosofo. Ciò significa
anestetizzare, neutralizzare Heidegger, il quale, saviamente, mise in guardia
dal commentare i suoi lavori. Parlò, ahimè come al solito, a vuoto, ai vuoti.
Luca Bistolfi
L'articolo Neutralizzare Heidegger. Sui tentativi (più o meno goffi) di fare di
un maestro un mero “oggetto di studio” proviene da Pangea.
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> Quando arrivò a casa l’ambulanza chiedeva disperatamente di me. Mi voleva come
> sempre accanto a lui. Gli ho preso la mano e lui continuamente sussurrava:
> “Vittoria, Vittoria…”. Arrivati al San Camillo c’era mio fratello e dopo è
> arrivata la figlia Lia. Lui era in coma, eppure mi ha detto: “Perché non va
> qualcuno a comprarmi Paese Sera?”. Allora è andato mio fratello. Ernesto mi ha
> detto: “Ma la rivista Aut-Aut è arrivata?”. “Sì, è arrivata”, gli ho risposto.
> “Me la vai a prendere?”. Gli ho dato questa rivista sempre con la mano nella
> mano e mi fa: “Ma come mai non c’è luce?”.
> Allora facendomi estrema forza gli ho detto: “Ma guarda tu se in un ospedale
> può mancare la luce’”.
> Detto questo lui è spirato[i].
6 maggio 1965. così si compie il cammino di questo mondo di Ernesto De Martino.
la mano che lo tiene è quella di Vittoria De Palma, sua compagna di vita e di
ricerca per quasi vent’anni. l’ultima apocalissi della sua vita, la stanza di un
ospedale romano, una vita iniziata a ridosso di un’altra apocalissi, il
terremoto di Messina e Reggio Calabria del 1908. dai ricordi di sua madre,
Ernesto sarebbe nato il giorno dopo il terremoto, mentre per le strade di Napoli
stavano passando dei camion per la raccolta di vestiti e beni di prima necessità
per gli sfollati. la madre vide dalla finestra una donna sfinita con un bambino
in braccio, e il travaglio iniziò, disse. era il 1 dicembre[ii].
l’apocalissi è stata la condizione intrinseca della vita di De Martino, e non è
forse un caso che diede il nome anche all’ultima opera, incompiuta, cui lo
storico e antropologo napoletano lavorò, La fine del mondo. Contributo
all’analisi delle apocalissi culturali(postumo, 1977)[iii]. ampio spazio è stato
dato nella letteratura accademica all’analisi del concetto di apocalissi
demartiniano in una prospettiva sociale e politica, anche grazie agli ottimi
curatori delle ultime due edizioni, francese (2016) e italiana (2019), Giordana
Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio. De Martino distingue tra apocalissi
e catastrofe. nel primo caso la fine è “portatrice di senso e diventa nucleo di
produzione culturale: l’apocalisse è sempre, per etiologia, una
rivelazione” (Quarta 2021, 77). nel secondo caso, la catastrofe non ha apertura
sulla storia, è una caduta senza riscatto, una “catabasi senza anabasi” (Idem),
anche se la prima racchiude potenzialmente la possibilità di esaurirsi nella
seconda. De Martino contempla tre fenomenologie apocalittiche: quella
con escaton, quella senza escaton e le apocalissi psicopatologiche, simili alle
catastrofi. le prime due si svolgono sul piano culturale collettivo; prevedono
una “salvezza” che si esplica nel reintegro dell’individuo in un codice sociale
condiviso in cui c’è la gestione possibile del negativo. le terze non prevedono
nessuna possibilità di condivisione pubblica; sono l’esperienza di un mondo
“oscuro e privato”. quest’ordine porta De Martino ad avvicinare le apocalissi
senza escaton alla catastrofe. “Proprio perché fra tutte le apocalissi culturali
essa appare più di tutte le altre prossima alla crisi radicale dell’umano, la
apocalisse senza escaton dell’occidente si presta in modo elettivo a illustrare
il valore euristico del documento psicopatologico” (De Martino 2019, 356). una
tensione tra salvezza e caduta definitiva che caratterizzerà anche l’uomo De
Martino.
poco è stato scritto sui risvolti personali di Ernesto De Martino rispetto alla
dimensione apocalittica che lo rivestiva, presenza immanente a tutta la sua
ricerca antropologica come un continuo lamento tellurico a bassa frequenza.
apocalissi in cui cercò sempre un escaton attraverso una volontà incrollabile
quanto la speranza.
> Io credo tuttavia che tra la mia psicastenia, il mio ittero, la mia
> turbercolosi, la mia epilessia vi sia un rapporto intimo (mi guarderei
> dall’affermare tale rapporto fra queste malattie come tali), e che non si
> possa fare la storia della mia persona senza includervi anche le mie malattie.
>
> (De Martino 2004, 28)
la malattia, la cronica dimensione di carenza, è stata una condizione fondante
di De Martino. un travaglio che se in giovinezza fu esplicito, come le crisi di
epilessia, dopo i trentacinque anni rimase latente, anche grazie alla sua grande
forza d’animo, lui che non faceva parola della sofferenza, che non malediva
quello stremo che accompagnava le sue ricerche sul campo, il suo studio alacre,
ma che fu corpo di tutta la sua ricerca empirica e teorica. come ha scritto
Luigi Chiriatti, De Martino cercò di esorcizzare il dolore, la malattia, la
morte, quella paura di “cadere nel nulla o nelle mani di un dio irato” (De
Martino 2004, 26) studiando le manifestazioni di dolore, malattia, morte
attraverso quel caravanserraglio materiale e simbolico della “magia” che
accompagnava la resistenza al male in quegli umani più esposti alla catastrofe e
alla perdita improvvisa, a quella che chiamava “sapienza del pianto” (De Martino
2021, 14). erano i contadini del Sud Italia del secondo dopoguerra, quelli che
morivano, parafrasando un canto funebre lucano, “con la fatica alle mani”
(Ibidem, 90). questo attraverso un’analisi comparativa e un innovativo, per la
ricerca etnografica italiana, approccio interdisciplinare[iv] che unirono le
culture euromediterranee attraverso il filo rosso di sopravvivenze arcaiche,
come il lamento funebre rumeno, il bocet, evocato attraverso la descrizione dei
funerali di Lazzaro Boia, pastore di Ceriscior, morto a 50 anni nell’ospedale di
Ghelar. riportato a Ceriscior, il corpo fu vestito a festa e ricoperto di lino
in una bara di legno nero. tre candele di cera ardono al capezzale, altre tre
tra le mani del morto. come nella maggior parte dei rituali funebri riportati da
De Martino, sono le donne che intonano la litania del lutto. in questo caso
ognuna canta il proprio scomparso, ognuna rievoca il proprio lutto, in una
lamentazione collettiva che è anche consolazione reciproca per i lutti
passati. una donna canta il dolore per un figlio morto in terra straniera,
“senza i riti della sua gente, e perciò vagante nel mondo al pari di una larva
inquieta”: “…Se incontrerai Giorgio, Nicola mio,/ o caro, e se lo vedrai/ triste
e afflitto,/ è perché se ne andò senza i riti.” (Ibidem, 160). e al mondo
agreste si rifanno i pianti di Clitennestra e di Dario nell’Agamennone e
nei Persiani di Eschilo: “Fin troppa ne abbiamo mietuta di messe del dolore”,
“L’ΰβρις giunta alla fioritura, ha dato come frutto la spiga della colpa e della
punizione, donde ne venne messe infinita di pianti” (Ibidem, 242-243). il pianto
umano come specchio del pianto divino, di cui De Martino vede l’apice
nelle Lamentazioni di Iside e di Nephtys. così recita Iside: “Fin tanto che
posso vederti, ti chiamo piangendo, anche nelle altezze del cielo, ma tu non
senti la mia voce, sebbene io sia tua sorella che tu amasti sulla terra e
sebbene tu non amasti che me, o fratello, o fratello” (Ibidem, 279).
il filo rosso tra passato remoto e presente si materializza nell’ “Atlante
figurato del pianto”, ultima sezione di quello che è considerata forse l’opera
più compiuta della ricerca demartiniana, Morte e pianto rituale. Dal lamento
funebre antico al pianto di Maria (1958). qui, il materiale fotografico raccolto
in Lucania e in Sardegna viene comparato alla mimica gestuale della lamentazione
antica cristiana, greca ed egizia, come, ad esempio, le braccia piegate ad
angolo, considerate da De Martino un paradigma della lamentatiofunebre, o il
“kopetòs”: “le braccia sollevate in alto del modello precedente si abbattono
sulla testa e sono spinte verso il viso, con tendenza a iterare indefinitamente
l’atto e a dargli un ritmo di esecuzione collettiva” (Ibidem, 653)[v]. questo
passaggio dal dolore individuale a quello collettivo è una condizione costante
dell’opera demartiniana e della sua visione dell’apocalissi, che nel suo
andamento concentrico, dall’individuo, alla società contadina del Sud Italia, ai
popoli colonizzati[vi], sembra riprendere le parole di Gesù: “In verità vi dico:
ogni volta che avete fatto queste cose a uno dei più piccoli di questi miei
fratelli, l’avete fatto a me… In verità vi dico: tutto quello che non avete
fatto a uno di questi piccoli, non l’avete fatto a me” (Mt, 25, 40; 45). il
male, come il bene, ha un effetto domino che dal singolo si dilata alla
comunità, al cosmo, per questo ogni individuo, ogni gesto, è portatore di un
destino condiviso. De Martino, laico in dolore. bellissime, le sue parole, tutte
le sue parole a Vittoria De Palma:
> Ma non credere che io faccia propaganda di ateismo, e che con leggerezza
> voglia distruggere ciò che nella società presente con le sue ingiustizie e i
> suoi dolori è inevitabile, cioè la consolazione, della preghiera fatta al
> padre, e anche io, in dati momenti, come figlio di questa società, come figlio
> del dolore e dell’oppressione dico a dio la mia preghiera”.
>
> (De Martino 2004, 27)
la terza apocalissi della sua vita De Martino la visse durante la Resistenza,
cui partecipò attivamente da intellettuale[vii] anche redigendo, nel novembre
1944, dopo che le forze alleate erano entrate in Romagna, il Proclama della
Liberazione, all’epoca temporaneamente nascosto dal socialista Alvaro
Badiali[viii] nel granaio di Palazzo Maltoni, a Cotignola (Ravenna). nel
dicembre dello stesso anno De Martino soggiornò a Palazzo Annaratone, nella
frazione di Masiera (Bagnacavallo), a ridosso del fiume Serio, che per quattro
mesi divenne il fronte di guerra tra da una parte i Tedeschi e i repubblichini
fascisti e dall’altra le forze alleate. il racconto “I Trenta di Masiera”
rappresenta l’unico testo autobiografico pubblicato disponibile ad oggi di De
Martino, in cui parlando in terza persona quest’ultimo prende le spoglie di un
ingegnere meridionale stanco e pavido senza nome, “lo sfollato”, che insieme a
un gruppo di otto famiglie di classi sociali diverse è costretto a lasciare
Masiera, presso Fusignano, per andare a rifugiarsi in una villa vicina, in
attesa della liberazione. l’ingegnere “porta panni non suoi, laceri e unti, le
scarpe fanno acqua, e se ne sta avvolto in una capparella nera romagnola, dono
di un contadino di Masiera”. rimane in disparte, pensando alla famiglia lasciata
a Solarolo. proverà a incamminarsi su quei 28 Km che lo dividono dalla moglie e
dalle due bambine ma l’artiglieria lo farà tornare indietro. “il capitano
Adler”, delle forze alleate, dice loro che l’indomani all’alba dovranno
incamminarsi per 3 km verso Bagnacavallo con una bandiera bianca. ognuno
dispera, si insinua il dubbio che si tratti di un tranello. all’alba c’è
concitazione; nel mentre delle informazioni che si contraddicono una con
l’altra, entra un soldato tedesco, “lacero, infangato, senza elmetto, con la
barba lunga di giorni”. come non pensare al Ferito in fuga di Otto Dix, gli
occhi spalancati e ritorti, la benda sulla testa che non riesce a trattenere il
sangue che cola dalla fronte, la mano con una ferita come stimmate. dice
all’ingegnere che quello è il sesto Natale di guerra per lui. viene da una
cittadina della Bassa Sassonia. quando l’ingegnere gli chiede se ha una famiglia
risponde “Non so”, e poi si mette a ridere. De Martino dice che rideva come se
trovasse la domanda spiritosa. forse rideva dalla disperazione. morirà poco dopo
in un fosso, “l’oscuro fante”, accanto all’ingegnere, sporco del suo sangue[ix].
non ci sono più né nemici né alleati, né nobili né contadini ma una sola umanità
sofferente.
nei frangenti della Resistenza De Martino unisce la fragilità delle sue
condizioni di salute allo sperdimento della guerra, iniziando a forgiare nel
buio dell’anima quel concetto di “perdita della presenza” che caratterizzerà
tutta la sua riflessione scientifica, da Il mondo magico (1948)[x] a La fine del
mondo (1977). la “presenza” è presenza al mondo, alle ancore di riferimento
culturali della propria società: quello che fa rimanere in equilibrio, sebbene
precario. e la magia, “restauratrice di orizzonti in crisi” (De Martino 2022,
125) serve a riempire le voragini del crollo della presenza e la caduta
dell’individuo nel caos, la perdita della propria anima e di conseguenza del
proprio mondo, soprattutto in quei contesti dove gli àuguri si accaniscono
contro i più esposti, i contadini italiani e i popoli non industrializzati di
ogni parte del mondo. a domare i venti del fato contrario è lo sciamano, il
mago, “Cristo magico” “colui che sa andare oltre di sé, non già in senso ideale
ma proprio in senso esistenziale” (Ibidem, 99) per riscattare tutta la comunità
e portare “salvezza”. “Solo coloro che, nel loro dramma esistenziale, sono
diventati i signori del limite, gli esploratori dell’oltre, gli eroi della
presenza” (Ibidem, 105). il dramma magico esistenziale, scrive De Martino, si
dilata se ci riferiamo “a un grande tema culturale del magismo: la fattura o
malia”. prendendo l’esempio degli Arunta (Australia centrale), De Martino
descrive come il solo fatto di ritenersi affatturati dall’“apparecchio magico”
dell’arungquilta, o in caso di violazione di un tabù, può diventare causa di
morte laddove ci sia tale convinzione. da storico delle religioni, oltre che
antropologo, De Martino considera dramma nel dramma l’incapacità delle culture
occidentali industrializzate di capire la “funzione storica” della fattura e
della controfattura, che permette di cogliere il quadro esistenziale in cui
queste ultime si producono. negando la dimensione storica di questi fenomeni in
quanto eventi culturali si nega, tout court, la presenza storica degli individui
che ci credono e che in essi vivono. [xi]
è da ricordare che Il mondo magico viene pubblicato nel 1948, l’anno precedente
il primo soggiorno di De Martino in Lucania, a Tricarico, “l’immagine del caos”
(De Martino 2013, 121)[xii], e un anno dopo le Lettere dal carcere di Gramsci.
da quei primi soggiorni nel “Meridione” nascono le Note Lucane, pubblicate per
la prima volta nel 1950[xiii]. esse rappresentano il primo manifesto di pensiero
politico di De Martino applicato a una ricerca di campo etnografica nel Sud
Italia, e uno dei suoi documenti più vibranti. vengono da un humus storico e
politico che aveva già attirato l’attenzione su quelli che allora erano i servi
della gleba della nazione, i contadini del “Meridione”, rovina tra le rovine
della guerra. nel 1945 Carlo Levi aveva pubblicato Cristo si è fermato ad Eboli,
libro di testimonianza scaturito dal suo confino negli anni ‘30 per attività
antifasciste prima a Grassano, poi ad Aliano, in Basilicata. in quello stesso
anno Rossellini gira Roma città aperta; si inaugura la stagione neorealista ma
qui il regista, come lo scrittore, è una figura molto presente: le inquadrature
mostrano la sua mano, il suo angolo di lettura del mondo mentre nel
libro-testimone di Levi l’autore resta in disparte per far rimbombare l’umanità
dolente delle popolazioni lucane. De Martino, pur stimando Levi, non condividerà
la visione dei contadini lucani presi in un destino immobile; al contrario dirà
che proprio in quei sistemi di rappresentazione così lontani dal panorama
identitario della borghesia cittadina, tra cui il ricorso alla magia, sta la
dignità culturale, e quindi storica perché situata, delle popolazioni contadine.
in questo senso, De Martino si distacca dagli studi sul “folklore” che avevano
caratterizzato la demologia italiana fino ai primi decenni del ’900 per
costruire, anche a seguito dell’influenza gramsciana, una teoria sul confronto
tra classi egemoni e classi subalterne, che aprirà la strada al volume
dell’antropologo Alberto Maria Cirese Cultura egemonica e culture
subalterne. Rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale (1971)[xiv].
De Martino, che per primo si batte per rimanere presente alla sua storia, si
riconosce nello specchio delle lotte per rimanere al mondo dei contadini lucani,
siciliani, calabresi, la cui dignità di coscienza è insita proprio in quegli
oggetti di uso e di culto quotidiani ritenuti retrogradi e selvaggi dalle classi
politiche di un Paese che si apprestava ad entrare nel boom economico del
decennio successivo. nel 1948 Palmiro Togliatti andò a Matera per verificare le
condizioni di vita descritte da Levi, dichiarando le condizioni in cui vertevano
gli abitanti dei Sassi “vergogna nazionale”[xv]. tuttavia Togliatti si dimostrò
freddo rispetto alle ricerche di De Martino e al fatto che quest’ultimo
considerasse anche i contadini lucani protagonisti della storia in un momento in
cui il governo italiano era orientato verso l’industrializzazione del Paese e il
PCI guardava più al mondo operaio cittadino che ai contadini del “Meridione”, i
più poveri tra i poveri[xvi]. De Martino spiega il lamento lucano come parte di
un regime esistenziale, un sistema di rappresentazione del mondo imbevuto delle
tremende condizioni di vita dei contadini.
La Lucania, scrive De Martino, è caratterizzata da un’economia rurale
“relativamente arretrata”: i campi, caratterizzati da una grande
parcellizzazione della proprietà, distano decine di chilometri dai borghi di
residenza, i terreni sono avari, le frane frequenti. a livello famigliare vige
un profondo regime di dipendenza: gli uomini dipendono dai loro padroni, le
mogli dai mariti, l’anziana madre dai suoi figli, gli orfani restano in balίa di
chi li prende in carico. questo causa una grande “indeterminazione sociale”,
accentuata dall’enorme fatica delle attività agricole e dalle “lunghe
segregazioni” richieste dalla pastorizia, e porta a uno stato di “miseria
psicologica”. questa precarietà appare in tutto il suo fragore nel documentario
di Luigi Di Gianni Magia lucana (1958) di cui Ernesto De Martino fu consulente
scientifico. il paesaggio, simile a una cava di marmo, è scandito solo dagli
zoccoli dell’asino e dai passi dei contadini; i campi sono lontani dal paese,
ogni giorno è un viaggio per la vita in uno spazio ostile e muto, al tempo
stesso spazio vitale. e al paese si attende il ritorno “senza emozione”, quasi
che si sia incorporata già la possibilità di un lutto:
> E se non tornano? Se l’uomo cade colpito dalla natura muore con lui l’unica
> ricchezza, quella del suo vigore… Gioacchino mio, bene della tua donna, che
> morte improvvisa, bene della tua donna. Oh, le mani pregiate che avevi, quanta
> fatica hai fatto con queste mani, bene della tua donna. Mi debbo rimboccare la
> gonna e devo uscire fuori casa per lavorare alla giornata, bene della tua
> donna, e debbo scendere e salire le rampe del paese per guadagnare un pezzo di
> pane per i figli tuoi. Debbo mettermi la zappa sulle spalle per guadagnare una
> giornatella per i figli tuoi, bene della tua donna.
>
> Dove sarà il fidanzato lontano? Dimmelo Santa Monica, dimmelo, angelo della
> Notte.
in questo contesto, “la morte di una persona di famiglia risolleva di colpo,
nella sua imponente carica emozionale, tutto l’arco di una vicenda esistenziale
deficitaria”. le lacrime di una persona sono le lacrime di tutti, e non si
piange per una sola ragione ma per tutte le ragioni in un pianto solo. in questo
senso il lamento, ma anche l’ascesso erotico, la bulimia, l’autolesionismo,
rispondono a questo panorama esistenziale. in particolare, il lamento funebre
come “istituto culturale” serve a non scivolare nella “scarica incontrollata di
impulsi o in una sorta di stupore immemore della situazione luttuosa” (De
Martino 2013, 157), un ricorso questo in cui anche l’autolesionismo, come ad
esempio lo strapparsi i capelli o battersi il capo, viene ritualizzato con il
supporto di moduli recitativi ridondanti attraverso il lamento funebre.
nelle Note Lucane De Martino identifica un relativo riscatto dei contadini
lucani della Rabata di Tricarico attraverso forme di resistenza alle autorità e
ai politici locali che instillano un “fermento di civiltà e storia che
restituisce al tempo prospettiva e contenuto umani”. è emblematico il caso del
berretto del maresciallo Gallo, strappatogli durante l’occupazione della caserma
dei Carabinieri dai paesani di Tricarico e passato di mano in mano sino a finire
nell’orinatoio del paese, in un burrone e poi sotto le radici di un melo. sotto
la pressione popolare il maresciallo Gallo fu allontanato dal paese e questo
rappresentò per De Martino un momento di riappropriazione della storia da parte
dei Rabatani.
> Essi vogliono che quel loro cercarsi in questo mondo di tenebre tendendosi le
> mani e chiamandosi ‘frate, frate’ si costituisca in immagine altrettanto
> storica come gli affreschi della cappella Sistina o la cupola di Michelangelo.
> Ma essi vogliono anche che giunga al mondo l’eco dei loro sforzi per
> emanciparsi, e dal fondo delle loro spelonche, deformi nei corpi logorati
> dall’umido, essi gettano sul viso di coloro che iniquamente li tengono in
> catene il verso di sfida: ‘Nuie simme a’ mamma d’a’ bellezza’, noi siamo la
> giovinezza del mondo.
>
> (Ibidem, 132-133)
De Martino sente senso di colpa e collera per le condizioni dei Rabatani, “una
collera tutta storica perché storica è la mia colpa come anche la colpa del
gruppo sociale al quale appartengo” (Ibidem, 140). da borghese intellettuale,
vede la sua libertà come il sacrificio delle popolazioni lucane, un
compiacimento per “civettare con la ‘dignità della persona umana’ al modo che la
intendono coloro che ‘fanno gli intelligenti’”[xvii]. “Rendo grazie al quartiere
rabatano e ai suoi uomini per avermi aiutato a capire meglio me stesso e il mio
compito” (Idem).
è in questo solco che quasi dieci anni dopo Ernesto De Martino prepara la sua
missione di ricerca nel Salento sul tarantismo, anche qui per dimostrare che la
‘follia’ e la sua canalizzazione terapeutica non sono peculiari a popolazioni
ignoranti e incoscienti ma sono il grido di dolore di cuori castrati, della
“noia” della solitudine e dell’amore. colui che ama, sa. ne La Terra del
rimorso, egli incontra di nuovo un’umanità di sangue e carne che guarda al cielo
per scorgere i messaggi di fortuna e sfortuna dell’acre giornata, alla terra per
piangere i suoi morti. rispetto a questa condizione, scrive De Martino, il
tarantismo assicurava qualche giorno da eroi, l’attesa “dell’epoca del sogno”:
> ognuno poteva così rialzare la propria sorte tanto quanto la vita l’aveva
> abbassata, e viveva episodi che si configuravano come il rovescio della
> propria oscura esistenza. Al verde paradiso si contrapponeva un paradiso in
> rosso, un agonismo che si sforzava di mimare pose eroiche, il sognare di
> essere un grande della terra, un atleta, un abile, un capitano, un tribuno, un
> artista a corte, un Re dei Re.
>
> (De Martino 2023, 175)
c’è un’immagine, quasi un’immagine spiritica, evanescente, tra quelle presenti
ne La terra del rimorso, quella di una tarantata, Rosaria di Nardò, che, di
schiena, picchia con i pugni chiusi la porta che cela la statua di San Paolo,
patrono delle tarantate e dei tarantati. siamo a Galatina, alla festa annuale
dei SS. Pietro e Paolo. che differenza con quella sequenza de La taranta di Gian
Franco Mingozzi (1962), quando la tarantata Lea batte sul vetro del ritratto di
San Paolo, tenuto da un bambino. lì lei è a casa sua, regina. il viso è teso,
nodoso come un tronco d’olivo. è in collera con San Paolo, che non si decide
ancora a darle la grazia per far cessare la sua danza; è in collera com’è in
collera un’amante verso l’amato, con la rabbia dell’amore degli esseri umani.
intorno ha i musicanti che la accompagnano, la seguono e la “scazzicano”
formando un corpo solo con lei e allo stesso tempo un dialogo armonico[xviii].
San Paolo non concede la grazia, e Lea continua a danzare rabbiosa. è vita, lei,
secondo un codice che tutti conoscono. invece a Galatina i rituali domestici che
rendevano la tarantata protagonista della sua possessione sbiadiscono davanti a
una folla che sembra non fare altro che aumentare la solitudine del morso
d’assenza. non si può non notare anche la differenza di genere. una foto ritrae
un tarantato a terra all’interno della cappella di San Paolo. si chiama Donato
di Matino; ha gli occhi chiusi, le braccia e la bocca aperte. vicino a lui
quattro donne sono chine; stanno sistemando un cuscino sotto la testa di una
tarantata. attorno, un gruppo di persone guarda senza guardare, quasi a disagio.
altre due foto ritraggono la piazza antistante la chiesa dei SS. Pietro e Paolo.
la folla si accalca attorno a due tarantate; una è sdraiata a terra, l’altra,
nella seconda foto, è carponi. nelle due immagini sono presenti soprattutto
uomini. la donna che era carponi si alza e intima alla folla di dividersi in due
ali, lei al centro. sembra dare un ordine ma in realtà è schiacciata
dall’indifferenza, dalla non-partecipazione di chi le si accalca intorno. tra
quelle persone, oltre ai famigliari, c’è anche una massa di curiosi attratti da
una morbosità improferibile. il corpo unico del rituale domestico non c’è più,
c’è solo il corpo randomico della tarantata, urla sole senza rito. e non c’è più
la lotta d’amore con San Paolo, cancellata dalla sfilata della statua del
patrono con la banda del paese: suoni omogeneizzati in onore dei Santi patroni,
la modernità. fedeli anonimi, non amanti che si chiamano per nome.
“un sistema di inerzie, di intolleranze, di contraddizioni inavvertite, di
incompatibilità sopportate: ma in questo caos cui si dà il nome romantico di
‘folklore’” (Ibidem, 393)[xix]. queste parole, che chiudono La Terra del
rimorso, De Martino le scrive insieme a Vittoria De Palma. sul campo, Vittoria
prepara l’incontro, con il suo sorriso solare smussa la diffidenza, soprattutto
nell’approccio dell’équipe con le donne, quelle contadine che in un piccolo
paese videro per la prima volta le proprie fattezze attraverso le foto mostrate
da Vittoria, scattate durante un soggiorno precedente, credendo alle compaesane
presenti che dicevano che in effetti erano proprio loro. una ricerca di campo,
le antropologhe e gli antropologi lo sanno bene, è un travaglio di compromesso,
soprattutto con la propria coscienza. un continuo pericolo di oggettivazione
delle persone, i momenti in cui l’ambizione di raccogliere “dati” prevalica
sulla percezione che si è realmente davanti a esseri umani che hanno priorità
profondamente diverse dalle nostre. l’esperienza di campo è una continua
decentratura, un continuo riconoscimento dei propri limiti, un continuo rammendo
di poli a volte inconciliabili. anche De Martino si è trovato davanti a questo
compromesso. alcuni suoi metodi per ottenere le informazioni possono sollevare
interrogativi, come nel caso della giovane Rosa di Ferrandina, “l’immagine di un
torbido ingorgo di potente sensualità” (De Martino 1953, 75). De Martino voleva
registrare il pianto di Rosa per un lamento funebre ma la ragazza era restìa.
trovarono un compromesso. la ragazza proferì il suo lamento da uno sgabuzzino
dando a Vittoria la mano per allontanare il malaugurio di intonare il lamento
fuori dal rituale, e all’esterno il tecnico della RAI registrò la voce di Rosa
facendo passare il microfono attraverso l’angusta fessura della porta socchiusa.
in molti casi De Martino chiese espressamente alle persone di riprodurre canti e
gesti rituali funebri, come accadde a Pisticci. nelle Note lucane e nell’ultima
appendice de La Terra del rimorso si evince che De Martino era consapevole di
questi scarti dell’incontro, che riconobbe con anima intera, quella con cui
abbracciò tutti gli eventi della sua vita.
è difficile parlare di un essere umano smisurato. è difficile parlare di Ernesto
De Martino. cerco un appiglio nella vastità della sua opera, della sua persona,
di cui probabilmente ancora non ci si rende esattamente conto, per concludere
questo brevissimo omaggio. in un’intervista di molti anni fa chiesero a Norberto
Bobbio cosa considerasse la cosa più importante, arrivato alla sua età; credo
che all’epoca avesse circa 90 anni. durante la vita, disse, si considerano
prioritari il proprio lavoro, i propri testi; poi, arrivati in fondo, l’unica
cosa preziosa che resta è l’amore delle persone care. se devo pensare a una sola
cosa che resta di Ernesto De Martino dico l’amore. amore per quel creato che era
il teatro di apocalissi e catastrofi che egli restituì in una scrittura così
caparbiamente non-attuale, a tratti ostica. e così semplice quando parlava a
Vittoria nella lingua del sogno, nella loro lingua, nel loro sogno, alleggerita
di tutto tranne dell’essenziale:
> La mia anima è ormai un oceano in tempesta, e ogni ondata porta il tuo nome,
> il mio sguardo è ormai allucinato e l’unica immagine che esso vede è la tua.
> Il mio cuore batte solo le ore dei nostri incontri e i miei pensieri per te e
> anche il mondo che si tocca, il mondo delle cose, va gradatamente scomparendo
> al mio sguardo per lasciare posto ad un unico corpo reale, a un corpo che non
> è materia, che ha perso per me tutte le macchie del peccato, è un corpo che è
> puro, che è anima e che è solo la via per conoscere l’anima…
>
> (De Martino 2004, 30)
Cristiana Panella
**
Riferimenti bibliografici
Charuty, G. Les vies antérieures d’un anthropologue. Marseille: Éditions
Parenthèses, MMSH, 2009.
Dei, F. e A. Fanelli 2015. “Magia, ragione e storia: lo scandalo etnografico di
Ernesto de Martino”. Introduzione a E. De Martino, “Sud e magia”. Roma: Donzelli
[1959] 2015, IX-XLV.
De Martino, E. “Note di viaggio”, Nuovi Argomenti, 1 (2), 47-79, 1953.
De Martino, E. Vita di Gennaro Esposito napoletano. Appunti per una biografia di
Ernesto De Martino. Calimera: Kurumuny-edizioni, 2004.
De Martino, E. Furore Simbolo Valore. Milano: il Saggiatore [1962] 2013.
De Martino, E. La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi
culturali. Torino: Einaudi [1977] 2019.
De Martino, E. Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di
Maria. Torino: Einaudi [1958] 2021.
De Martino, E. La Terra del rimorso. A cura di M. Massenzio. Torino: Einaudi
[1959] 2023.
Fanelli, A. 2019. “ ‘La verità sta di casa tra Palazzo Filomarino e il Sasso di
Matera’. Un carteggio tra Alberto Maria Cirese ed Ernesto de Martino”, Studi
Storici, 1, 5-44.
Faranda, L. Le lacrime degli eroi. Pianto e identità nella Grecia antica. Roma:
Edizioni Universitarie Romane [1992] 2022.
Panella, C. 2022. “L’incantevole vertigine dell’anima sbigottita. Magia,
etnografia e movimento nella taranta di Suzanne Doppelt”, Pangea, 25 Marzo 2022.
Quarta, L. “Apocalisse e storia. Fondazione trascendentale dell’umano”, ANUAC,
10 (2), 75-83, 2021.
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[i] Intervista di Luigi Chiriatti a Vittoria De Palma in De Martino 2004, 29.
[ii] Il sisma di magnitudo XI della scala Mercalli con il successivo maremoto
che uccise, tra le province di Messina e Reggio, circa 90.000 persone avvenne
all’alba del 28 dicembre 1908 ma le scosse erano iniziate dai primi di novembre
di quell’anno; pertanto è probabilmente agli eventi di fine novembre che il
ricordo della madre di De Martino si riferisce (Panella 2025, in pubblicazione).
Ringrazio Maria Grazia Insinga per avermi dato questa informazione temporale
sulla scosse del novembre/dicembre 1908.
[iii] La prima edizione de La fine del mondo è stata curata per Einaudi da
un’assistente di ricerca di De Martino, e successivamente fine antropologa,
Clara Gallini. Dopo l’edizione del 2002, quella del 2019, sempre per Einaudi, a
cura di Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio, è stata in alcune
parti tradotta e redatta, con un’organizzazione più sistematica e accessibile
rispetto all’edizione a cura di Gallini, a partire dalla versione francese
pubblicata nel 2016 dall’École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS),
curata da Charuty.
[iv] Le ricerche di campo vedranno la partecipazione di diverse competenze tra
cui Vittoria De Palma come assistente sociale e ponte con il mondo femminile, lo
psichiatra Giovanni Jervis, l’antropologa Amalia Signorelli, lo psicanalista
Emilio Servadio, l’etnomusicologo Diego Carpitella e il fotografo Franco Pinna.
[v] In Le lacrime degli eroi. Pianto e identità nella Grecia
antica l’antropologa Laura Faranda recupera la prospettiva di Morte e pianto
rituale per indicare il principio di “soglia” tra il polo della vita e quello
della morte, insito nel pianto rituale demartiniano, per sondare la valenza del
pianto anche nel polo di vita, tornando alla funzione sociale del pianto
teorizzata da Marcel Mauss, che vedeva l’obbligatorietà delle lacrime in un
assetto istituzionalizzato, come le formule di saluto o i rituali iniziatici,
poi riscontrate in successivi contesti etnografici (Faranda 2022). Allo stesso
tempo De Martino scrive che la pratica del kopetòs era combattuta dalla Chiesa
cristiana stessa, riportando diverse omelie e testimonianze già del primo
Cristianesimo, da San Paolo a Giovanni Crisostomo a Gregorio Nazanzieno, fino
alle punizioni contro le “donnette” che si danno ai “barbarici clamori” operate
nel ‘500 e nel ‘600, in cui si nobilita il dolore composto e si redarguisce il
lamento ostentato (De Martino 2013, 147-152). A questo proposito non si può non
pensare alla compostezza del dolore di Maria come leit-motiv di molte
rappresentazioni pittoriche.
[vi] Rispetto a Gramsci, De Martino estende la riflessione sul confronto tra
culture egemoni e culture subalterne ai Paesi extra-europei colonizzati dalle
potenze europee, anche avvicinandosi allo studio dei culti millenaristici. “In
tal modo si è venuta raccorciando la distanza che separava le forme culturali
subalterne interne alla civiltà occidentale e le culture indigene dell’epoca
coloniale: la differenza tra le une e le altre appare sempre più esser di misura
e non di qualità, e sempre meno appare giustificabile una distinzione rigorosa
dell’oggetto della etnologia da quello delle tradizioni popolari, poiché in
entrambi i casi stanno davanti a noi sincretismi interculturali, rapporti tra
livelli diversi di cultura, dinamiche messe in movimento da questi rapporti” (De
Martino 2019, 322).
[vii] Dal 1945 De Martino operò come segretario di federazione del Partito
socialista a Bari, Molfetta e Lecce; l’anno dopo si iscrive al Partito comunista
italiano, in cui viene ufficialmente ammesso nel 1953.
[viii] Alvaro Badiali fu attivo nella 28° Brigata Gordini Garibaldi a Cotignola
(Ravenna). Rappresentò il PSI nel CLN locale (fonte:
storiaememoriadibologna.it).
[ix] Il racconto “I Trenta di Masiera” è disponibile sul blog dell’antropologo
Riccardo Ciavolella “Alterpolitica” (hypotheses.org).
[x] Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo inaugurò la celebre
“Collana viola”, Collezione di studi etnologici, religiosi e psicologici di
Einaudi, creata da De Martino stesso e Cesare Pavese, importante contributo per
l’apertura della cultura italiana a temi e lavori internazionali di
antropologia, sociologia e psicanalisi. Nella stessa Collana furono pubblicati,
tra altri, Jung, Lévi-Bruhl, Kérény, Propp, Malinowski, Frobenius, Frazer,
Durkheim, Eliade.
[xi] Il confronto tra Ernesto De Martino e i suoi maestri, Adolfo Omodeo e
Benedetto Croce, fu travagliato e non privo di ambiguità rispetto a quelle
posizioni etnocentriche da cui il primo voleva distaccarsi. Semplificando
estremamente potremmo dire che De Martino, per una parte della sua ricerca, si
distingue dal pensiero di Croce nella misura in cui quest’ultimo considera la
magia una superstizione fuori dalla storia, ossia dal libero arbitrio e dalle
scelte individuali che fanno la storia, e la follia come un spazio senza storia
né prospettiva storica. Per un’analisi sfumata delle posizioni di Croce e De
Martino si veda Dei e Fanelli 2015.
[xii] Tra il 1949 e il 1950, Ernesto De Martino effettua tre soggiorni à
Tricarico, ospite, insieme a Vittoria De Palma, del sindaco e poeta Rocco
Scotellaro. Ci tornerà nel giugno 1952 per una missione di preparazione del
soggiorno di ricerca dell’autunno dello stesso anno, insieme, oltre che a
Vittoria De Palma, a Benedetto Benedetti e Arturo Zavattini.
[xiii] Prima pubblicazione: De Martino 1950. “Note Lucane”, Società, VI (4),
650-667. La rivista Società era stata creata nel 1945 dall’archeologo Ranuccio
Bianchi Bandinelli e dal filosofo Cesare Luporini come voce del PCI. Nel 1953
verrà avviata da Alberto Moravia e Alberto Carocci la rivista Nuovi Argomenti,
che nel primo numero accoglierà diversi testi di Francesca Armento, madre di
Rocco Scotellaro. Queste iniziative editoriali daranno un forte impulso al
dibattito sul folklore che, nutrito dall’opera di Gramsci e dalla pubblicazione
di Cristo si è fermato ad Eboli, non avrà pari in Europa in quel periodo
(Charuty 2009, 22).
[xiv] Sul carteggio tra Ernesto De Martino e Alberto Cirese, si veda Fanelli
2019.
[xv] I Sassi vennero sgomberati su iniziativa di Alcide De Gasperi con la legge
619 del 17 maggio 1952.
[xvi] Tra gli anni ’50 e ’60 per la prima volta in Italia il numero degli
operai superò quello degli agricoltori.
[xvii] Qui De Martino riprende una famosa rima rabatana contro gli
intellettuali, identificati soprattutto con i politici e il clero: “Voi che fate
l’intelligente/non capite proprio niente./Se nun fusse pe’ li cafoni/ve
mangiassive li cuglioni”.
[xviii] Per la sintesi di alcuni elementi che caratterizzano il tarantismo
“agito” analizzato da De Martino, si veda Panella 2022.
[xix] Il passo è tratto dall’appendice V, l’ultimo contributo del volume.
L'articolo “La mia anima è ormai un oceano in tempesta”. In ricordo di Ernesto
De Martino proviene da Pangea.
La riflessione filosofica sull’esperienza religiosa ha da sempre navigato
attraverso acque turbolente, tra le onde dell’impossibilità di rappresentare il
divino ed il desiderio umano di avvicinarsi ad esso. La tensione tra l’idolo e
la distanza, tra il desiderio di cogliere l’Essere assoluto e l’incapacità di
ridurre il divino ad una figura riconoscibile e domestica, è una delle
problematiche più acute della filosofia teologica e fenomenologica. Questa
distanza, non solo ontologica, ma anche etica ed esistenziale, solleva
interrogativi che attraversano secoli di pensiero.
La filosofia dell’idolo è, per così dire, una filosofia della rappresentazione,
ma non una rappresentazione che possa mai colmare l’abisso che separa il finito
dall’infinito. L’idolo, nel suo significato originario, rappresenta una
proiezione umana del divino, un tentativo di incarnare l’immensurabile in forme
finite. Questa rappresentazione, pur sembrando un accostamento possibile, è,
paradossalmente, la negazione stessa del divino: l’idolo è insieme la verità e
la sua distorsione, la vicinanza e la separazione. La fenomenologia dell’idolo
non può prescindere dalla consapevolezza di un abisso che lo separa dalla
divinità autentica. Da una parte, l’idolo si presenta come il tentativo di
incarnare il trascendente nel finito, dall’altra come il segno di un fallimento
incolmabile, come un simbolo che riduce l’infinito a un’immagine mortale.
La filosofia kantiana, nel suo rigore critico, aveva già messo in luce
l’impossibilità di una rappresentazione adeguata del divino: ciò che è veramente
divino sfugge inesorabilmente alle maglie della comprensione umana. La nozione
di “cosa in sé” esprime una realtà che, pur manifestandosi fenomenicamente,
rimane incognita ed inconoscibile. Non possiamo ridurre Dio ad una
rappresentazione sensibile, né interpretare la sua essenza con le categorie
dell’esperienza. L’idolo, in questo senso, si fa segno di una distanza
irrimediabile, di una separazione ontologica che fa del divino l’oggetto di una
contemplazione che è sempre, al contempo, una perdita di contatto con il divino
stesso. In Kierkegaard, questo abisso tra l’umano ed il divino si esprime
attraverso il concetto di “salto della fede”. La religiosità, per Kierkegaard,
non è una forma di conoscenza oggettiva, ma un atto di fede che sfida ogni forma
di rappresentazione, ponendo l’individuo di fronte ad una divinità che, pur
rivelandosi nella sua alterità, rimane sempre fuori dalla portata della
comprensione. La fede non è un atto di possesso del divino, ma un atto di
abbandono, di apertura ad un mistero che trascende ogni possibilità di idolo,
ogni tentativo di ridurre l’infinito ad una figura conoscibile. Nel momento in
cui il divino viene sottratto alle categorie ontologiche tradizionali, la
domanda su Dio si sposta dal piano dell’essere a quello dell’alterità assoluta.
La filosofia contemporanea, a partire da Heidegger, si è confrontata con la
necessità di pensare Dio non come un essere, ma come un’alterità che sfida ogni
definizione ontologica. Per Heidegger, l’essere stesso non è Dio, ma la sua
“abbandonata” manifestazione; eppure, proprio questa lontananza dell’essere
diventa il terreno di un’interrogazione che resta sempre aperta e
inassoluta. Dio, in questo quadro, non è un essere, ma un oltre, un’apertura che
non può essere colta se non come un’assenza. L’essere stesso è “vuoto” rispetto
alla presenza del divino, e in questa “assenza” risiede la possibilità del
divino di farsi presente, ma sempre sfuggendo alla piena conoscenza.
La fenomenologia dell’eccesso, che pervade la riflessione sul divino, trova una
delle sue espressioni più potenti in Emmanuel Levinas. Per Levinas, Dio è
l’alterità per eccellenza, l’ineffabile che si manifesta nel volto
dell’altro. L’incontro con l’altro, per Levinas, non è mai un semplice incontro
con una realtà finita, ma l’esperienza di un’infinità che sfida ogni pretesa di
riduzione a concetti finiti. Dio, dunque, non è mai un essere tra gli esseri, ma
l’appello che giunge dall’alterità assoluta, dalla distanza che non può mai
essere colmata. In questa prospettiva, la filosofia di Levinas non solo sottrae
Dio alla rappresentazione, ma lo colloca al di là dell’essere, in un ordine che
non può essere messo a sistema, ma che è continuamente esperito come un eccesso
che infrange ogni tentativo di ridurre la realtà ad un oggetto conoscibile. Se
Dio non è riducibile all’essere, se l’idolo ne distorce l’immagine, e se la sua
manifestazione sfugge alle maglie della rappresentazione, allora la
fenomenologia del divino diventa una fenomenologia dell’eccesso. Il divino si dà
non come un concetto, ma come un oltre che irrompe nell’esistenza in una forma
che non può essere afferrata, ma solo vissuta come una tensione, un’aspirazione
che resta sempre inappagata. L’esperienza del divino, in questa luce, non è una
conoscenza, bensì un incontro con l’inconoscibile che ci sfida ad abbandonare
ogni pretesa di dominio. Così come il volto dell’altro ci sollecita a una
responsabilità che non può essere risolta in una semplice rappresentazione, Dio
si fa esperienza di un’infinità che ci solleva e ci sospende.
Anche Nietzsche, nel suo pensiero sulla morte di Dio, non intende un
annientamento del divino, ma un superamento delle metafisiche che hanno ridotto
il divino ad un’entità da comprendere e dominare. La morte di Dio, per
Nietzsche, non è la fine del divino, ma la fine di un concetto di divinità che
poteva essere compreso e ordinato. Dio, nell’ordine della volontà di potenza, è
il segno di un oltre che non può essere trattenuto da alcuna rappresentazione,
un’espressione di una forza che travalica ogni limitazione. La fenomenologia del
divino si presenta come un’esperienza di tensione e distanza, in cui l’idolo,
pur avvicinando l’uomo al divino, ne tradisce l’essenza. L’idolo è la forma che
il divino assume nel tentativo di essere afferrato dal finito, ma è anche il
segno di una separazione che lo rende irriducibile a ogni figura e
rappresentazione. Il divino, nell’alternativa proposta dalla fenomenologia
dell’eccesso, non è un essere, ma un’alterità che si fa presente solo
nell’inaccessibilità, solo nella distanza che resta. Non c’è concetto che possa
contenere Dio, non c’è rappresentazione che possa esaurirlo. Solo l’esperienza
di un incontro con l’infinito ci permette di avvicinarci al mistero, senza mai
riuscire a comprenderlo appieno. Eppure, proprio in questa impossibilità di
possederlo, il divino si rende manifestamente presente come l’oltre che ci
interpella senza risposte definitive, come un’eccedenza che sfida ogni tentativo
di riduzione all’essere.
Jean-Luc Marion, nel suo Dio senza l’essere (Dieu sans l’être, 1982), si propone
di superare la tradizione ontoteologica che ha caratterizzato il pensiero
occidentale, in particolare a partire dalla scolastica e dalla sintesi
heideggeriana della metafisica. La tesi fondamentale dell’opera è che Dio non
possa essere costretto entro le maglie del concetto di essere, poiché
quest’ultimo è un determinante filosofico che riduce la trascendenza alla misura
del pensiero umano. In questo senso, Marion si inserisce in un solco di critica
radicale alla metafisica occidentale, riprendendo e rielaborando le intuizioni
di pensatori quali Heidegger, Derrida e, ancor più, la tradizione teologica
negativa che da Pseudo-Dionigi l’Areopagita arriva fino a Meister Eckhart.
Marion accoglie la diagnosi di Heidegger sull’ontoteologia, secondo cui la
metafisica occidentale ha sempre pensato Dio a partire dall’essere,
trasformandolo in summum ens, cioè in un ente supremo, anziché lasciarlo nella
sua irriducibile alterità. In tal senso, il Deus ens della tradizione tomista e
scolastica è per Marion una forma di idolatria concettuale, poiché costringe Dio
entro categorie umane. Tuttavia, mentre Heidegger suggeriva un Gelassenheit, un
lasciar-essere che aprisse all’evento della verità dell’essere, Marion sposta il
centro dell’attenzione su un altro concetto: il dono. Come scrive:
> «L’essere non ha titolo sufficiente per pensare Dio, e dunque deve essere
> decostruito a favore di un pensiero dell’eccedenza».
Questo lo pone in contrasto con l’ermeneutica heideggeriana, che pur
individuando la problematica dell’ontoteologia, non riesce a liberarsi del
primato dell’essere. Dio non si definisce in base all’essere, bensì in base al
dono assoluto, un’eccedenza che non può essere ricondotta ad una logica
ontologica. Qui, Marion introduce il concetto chiave del fenomeno saturo, cioè
un fenomeno che si manifesta in eccesso rispetto alla capacità del soggetto di
accoglierlo e comprenderlo. L’evento rivelativo divino è esattamente questo:
qualcosa che si dona senza misura, oltrepassando la possibilità di essere
oggettivato. Egli scrive:
> «Dio non è, bensì dona se stesso senza riserve, e nel donarsi eccede ogni
> concettualizzazione».
Questo concetto richiama la surabondance di Henri de Lubac e il pensiero di
Emmanuel Levinas, il quale afferma che «l’Altro si presenta come ciò che non può
essere ridotto a un concetto» (Levinas, 1961). Tuttavia, mentre per Levinas il
volto dell’Altro è l’accesso etico alla trascendenza, per Marion il dono divino
è un’eccessività che si manifesta senza condizioni.
Uno dei momenti più densi del testo riguarda la distinzione tra idolo e icona,
già centrale in L’idole et la distance (1977). L’idolo è l’immagine che chiude
lo sguardo su di sé, che permette all’uomo di contenere il divino nel proprio
orizzonte. L’icona, al contrario, è ciò che si sottrae allo sguardo, che invita
lo sguardo umano a oltrepassarsi, a non esaurirsi nella rappresentazione. Dio,
nel suo rivelarsi, non è un idolo concettuale, ma un’icona che lascia
intravedere un’eccessività irriducibile:
> «L’icona non è ciò che noi vediamo, ma ciò che ci guarda».
Questa distinzione si rivela decisiva nel contesto della teologia negativa,
poiché sposta l’accento dalla definizione di Dio alla sua fenomenalità come
rivelazione eccedente. Se l’idolo è un riflesso che il soggetto controlla,
l’icona è il punto in cui il soggetto si scopre guardato:
> «Nell’icona, non siamo noi a vedere, ma siamo visti».
Questo si ricollega alla mistica cristiana, dove la contemplazione non è il
raggiungimento di Dio, ma il lasciarsi invadere dalla sua presenza. Non
sorprende che il pensiero marioniano trovi assonanze profonde con la tradizione
mistica cristiana. La sua critica all’essere è, in un certo senso, un recupero
della via negativa che attraversa Pseudo-Dionigi, Maestro Eckhart e persino la
mistica carmelitana di Giovanni della Croce. Dio non è colto nell’essere, ma
nell’esperienza del suo donarsi, un’esperienza che rimane sempre sovrabbondante
rispetto alle nostre categorie. Come scrive Pseudo-Dionigi:
> «Dio è più alto di ogni affermazione e più nascosto di ogni negazione».
>
> (De Mystica Theologia)
Questo si sposa perfettamente con la nozione di fenomeno saturo di Marion, che
indica una rivelazione che eccede ogni presa concettuale.
In Dio senza l’essere, Marion ci offre un pensiero radicale e vertiginoso, che
tenta di liberare la riflessione su Dio da ogni compromissione con la
metafisica. L’uscita dall’ontoteologia non è solo un gesto decostruttivo, ma
l’apertura a una nuova possibilità di pensare la trascendenza: non come essere
supremo, ma come dono infinito. Questa prospettiva lo distingue da altri
pensatori della decostruzione del divino come Derrida, per il quale il concetto
di différance lascia Dio in una sospensione incessante. Marion, invece, va oltre
la sospensione e si inoltra nell’esperienza di una rivelazione che si dona in
sovrabbondanza. In questo, il pensiero di Marion rappresenta una delle sfide più
affascinanti e audaci della filosofia contemporanea, tracciando un percorso che
collega fenomenologia, teologia negativa e mistica in un dialogo fecondo.
Giusy Capone
*In copertina: Jan van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, 1426-1432,
particolare
L'articolo “Dio non è, bensì dona se stesso senza riserve”. Per una
fenomenologia dell’eccedenza proviene da Pangea.
Friedrich Nietzsche era una scissione. Per molti versi,
la nostra scissione. L’uno, Friedrich, era l’esatto rovescio dell’altro,
Nietzsche: quanto più vitale, vorace, impietoso il primo, quanto più infermo,
mite e ingenuo il secondo. Il suo cervello, una spugna elettrica di portentosa
potenza, prosperava come un parassita a spese del resto del corpo. Il
compiaciuto Anticristo era “buono di cuore fino all’eccesso”, come egli stesso
riconosceva in privato. Sulla carta, dava vita a un pirotecnico teatro di
giudizi penetranti e quasi sempre azzeccati, pavoneggiandosi da primadonna
mentre trascorreva “un’esistenza da mansarda”.
La biografia di questo colosso parla di noi: della nostra infelicità, della
nostra tracotanza, della nostra piccolezza mascherata da grandezza. Il
disadattato Nietzsche è già stato, nel suo peculiare modo, ciò che noi siamo
oggi: il prototipo da laboratorio dell’umanità ferita e alienata, brulichìo di
atomi ognuno dei quali con la presunzione d’essere il centro
dell’universo. Nietzsche non solo pensò il vuoto che ci bracca da ogni lato: si
offrì come cavia. Visse una non-vita sinistramente simile a quella che,
nell’impero liquido e virtuale del nostro tempo, confina un po’ tutti noi nella
celletta d’isolamento digitale. Egli incarnò in anticipo, dilacerato fra corpo e
mente, la faustiana corsa al potere illimitato della mente, a cui corrisponde il
franare dell’integrità corporea. Di questa iper-modernità, ai suoi tempi sugli
altari, preconizzò e riassunse la degenerazione, l’esaurimento, il disagio. Si
intestardì a voler vincerli, anzi a darsi come confutazione vivente, da
trasvalutatore in trionfo. Voleva, sì. Ma non poteva. Il padre del Superuomo
era, dopo tutto, un uomo. Fragile e patetico come, sotto sotto, lo siamo tutti.
Prostrato da una miopia da talpa, visse modestamente grazie a una sorta di
pensione anticipata che l’ateneo di Basilea gli assegnò per riconosciuti meriti
per lo straordinario pedagogo che fu. Il suo fisico, in sé perfettamente sano,
si macerava in un grumo di contorcimenti psicosomatici: emicranie croniche,
vomito a ondate al minimo refolo emotivo, spossatezze prolungate, immobilità a
letto. I sintomi che avevano accompagnato alla tomba, a soli trentasei anni, il
padre Ludwig, prete luterano. La morte di questo papà che si dilettava al
pianoforte, tanto pio quanto malaticcio, rappresentò per Friedrich l’evento
fondante, lo spettro onnipresente di una fine prematura, la prefigurazione di un
decesso di ben altra portata: la morte di Dio.
Da bravo cocco di mamma e figlio spatrizzato, il sesso e l’intimità lo
sgomentavano. In questa paura della corporeità, è rintracciabile un punctum
dolens del nostro tragicomico quotidiano. Cosa sono, infatti, l’edonismo da
poveracci, il consumismo pseudo-sentimentale e il salutismo mortifero, se non la
farsa di una “grande salute” dietro cui si nasconde, e neanche tanto bene, il
terrore per la più piccola frustrazione? Più il corpo viene esibito,
sessualizzato e sbattuto ovunque, tanto meno è vissuto. Il dionisiaco, pagano,
gaio Nietzsche non aveva nulla di dionisiaco, di pagano, né di gaio. Lui lo
reprimeva. Noi lo pornografizziamo. Ma il risultato è identico.
Dannato a cogitare senza requie (“non ho mai tregua”), si nutriva di rabbia
narcisistica. Se Nietzsche non fosse stato Nietzsche ma un qualunque omiciattolo
odierno, l’avremmo compatito come una vittima comune dell’attuale narcisismo di
massa (noto anche come liberale, democratico individualismo). E gli avremmo
consigliato un bravo psicanalista. Ma per disgrazia sua – e fortuna nostra – a
quei tempi la psicoterapia era di là da venire. Se “curato”, probabilmente non
avremmo goduto dello splendore scabroso della sua opera.
Nietzsche nacque davvero “postumo”. Ora, se in privato era un abitudinario
angosciato e nevropatico, come filosofo Nietzsche era un brillantissimo
fuorilegge che batteva bandiera pirata: senza religione, senza patria e senza
famiglia, in nome della libertà dal pregiudizio fa terra bruciata intorno a sé,
espugnando e abbattendo tutto: metafisica, morale, scienza. Viveva “una missione
insolita e gravosa” che gli prescrive, dice, di “non legarsi più a nessuno”;
anche se, afferma, diffida dei “pensieri nati da un animo depresso e da viscere
in disordine”. Nel retropensiero di un amor fati che converte il fatalismo in
slancio attivistico, si intuisce il terrore di scoprirsi nei propri punti
deboli.
> “Egli – testimoniava un’amica – condannava tutta una serie di sentimenti nella
> loro forma accentuata, non perché non li aveva, bensì, al contrario, perché li
> aveva e ne conosceva la pericolosità”.
A confermarlo è lui stesso, sia pur intonando il ritornello della presunta
necessità:
> “L’assenza perpetua di un amore veramente rigenerante e salutare, l’assurda
> solitudine che essa comporta, al punto che quasi tutti i contatti che
> rimangono diventano fonte di sofferenza, è la situazione peggiore che ci si
> possa immaginare e ha un’unica giustificazione, quella cioè di essere
> necessaria”.
Nietzsche non riusciva ad accettare i suoi bisogni, giudicati indegni del
magniloquente simulacro che si era scolpito di sé (“anche sul più alto trono del
mondo siamo sempre seduti sul nostro culo”, diceva invece il saggio Montaigne).
E dunque proiettava la sua Ombra sul cosiddetto “debole”, sul “tipo umano della
degenerescenza”, sull’“incapacità di dominarsi, di non reagire ad un dato
stimolo”. Nient’altro che il suo autoritratto. Nell’ultimo anno di sanità
mentale, il gran misogino e gran misantropo precipitò verso il burrone a ritmo
di valanga. Una sovralimentazione psichica lo elevò al picco di produttività: a
testimoniarlo è il fulmicotonico Ecce homo, partorito negli ultimi mesi del
1888. Febbrile testamento ispirato dall’euforia che precede il tracollo, è il
documento principe dell’incipiente demenza che lo avrebbe portato gradualmente a
spegnersi fino al mutismo. Siamo al confronto finale, al
Nietzsche contra Nietzsche: da una parte il depresso, timido, complessato eterno
bambino, dall’altra il caustico, acuto, implacabile speculatore sovversivo. A
furia di decostruire ragionando terminò i suoi giorni, alla lettera,
sragionando. L’araldo della tragedia greca ne tradì lo spirito proprio nel suo
insegnamento centrale: non riconobbe limiti al pensiero dubitante, che
fatalmente finisce per autodistruggersi (“Cartesio non è abbastanza radicale per
me”). Il filosofo tragico par excellence commise il delitto di Edipo:
l’hybris che conduce alla cecità per aver voluto troppo vedere... Fissò la
Medusa negli occhi, e ne finì pietrificato.
Il “carnefice di se stesso” troppo a lungo dissezionatosi, il fautore dell’“uomo
tropicale” e della “barbarie controllata”, fu il primo nichilista e anche il
primo anti-nichilista. A metà, però. Da un lato, dopo di lui nessuna verità
ontologica è più credibile come tale: esistono solo verità prospettiche.
Derivative ma non equivalenti, perché le convinzioni, non più tarabili sul metro
di parametri astratti e universali, restano valutabili in base al grado di
vitalità, alla carica energetica, alla loro potenzialità dinamica. Non
relativismo, dunque, ma prospettivismo che sa collocare i fattori nel loro
contesto, giudicandone la necessità rispetto all’irradiazione di forza. In
definitiva, da Nietzsche in poi non è più possibile aver fede a cuor leggero in
alcunché, facilitandosi la vita al riparo di qualche fideismo fuori sincrono.
Non è ammissibile per nessuno dare più nulla per scontato: nessun punto fermo
resiste al benefico flagello del nichilismo radicale che spazza via ogni
felicità facile, ogni credenza confortevole, ogni realtà fittizia. In questo
senso, non si può non essere nicciani.
Ma non si può essere nemmeno niccisti, seguaci adoranti di chi avvertiva che si
ripaga male un maestro restandone sempre scolari. Per costituzione psicologica,
a Nietzsche era preclusa la maturità che si prova nel piacere di prendersi cura
di sé e degli altri. Tutti, prima o poi, ci ritroviamo in stato di bisogno, alla
ricerca di una mano, di un sostegno, di un incoraggiamento. È da questa mancanza
originaria, che accomuna in comune forti e deboli, dotati e meno dotati, che
sorge il vitalismo autentico, l’unico umanamente possibile. Non certo dal
glaciale volontarismo di un Nietzsche larvatamente transumanista, che
fantasticava di “allevare una razza di dominatori”, i famosi e fumosi “signori
della terra”, con metodi zootecnici, sopprimendo i “parassiti” e vaneggiando di
caste eugeneticamente selezionate mediante l’“annientamento di milioni di
malriusciti”. Nietzsche non è quel proto-nazista che è stato fatto passare: era
troppo intelligente, fine, ironico, anti-tedesco, alieno da ogni biologismo (e
oltretutto, anti-antisemita), per poter essere considerato tale. Ma che fosse un
razzista sociale e un apologeta dichiarato dell’immoralità, su questo non ci
piove.
Bisogna prenderlo con le pinze, Nietzsche. Salvarne la lezione insuperata e
rigettarne la parte malata. Il suo appello a rimanere “fedeli alla terra” è il
commovente grido di un uomo disperatamente moderno, sospeso nell’aria rarefatta
di chi ripudia le radici. Un uomo staccato dalla vita, che proprio per questo
furiosamente diceva di amarla: perché, di amarla veramente in tutti i suoi
aspetti, sublimi e mediocri, eccelsi e grotteschi, non gli riusciva. Era troppo
grande, il suo ribrezzo verso l’umano per com’è. E invece noi tutti siamo, come
anche Nietzsche, umani troppo umani. Tutti quanti sulla stessa barca. Tutti
quanti anime sitibonde d’approdo.
Alessio Mannino
**
Selezione di brani tratti da “Nietzsche contra Nietzsche”
Nietzsche, il martellatore di idoli
“Solo quando la società si divide in due caste una civiltà superiore può
prendere forma: da una parte chi lavora e dall’altra chi ozia, chi sa oziare. O
se vogliamo dirlo più incisivamente: la casta dei lavoratori forzati e la casta
dei lavoratori liberi. Il bisogno di distribuire socialmente la felicità è
secondario, per dare vita a una civiltà superiore. In tutti i casi, la casta
degli oziosi si caratterizza per la facoltà di soffrire, soffre di più, ha meno
gusto di vivere, ma ha un compito più grande”. (Umano troppo Umano).
*
“Compatire indebolisce. Compatendo va a moltiplicarsi la profusione di energia
che il soffrire già da solo comporta. Con la compassione la sofferenza si
diffonde come un contagio. E ci sono volte in cui la compassione provoca uno
spreco di forze sproporzionata rispetto alla quantità corrispondente alla sua
causa (come nel caso della morte del Nazareno). […] la compassione è un ostacolo
alla fonte, per la legge vitale che è il principio di selezione. […] Si arrivati
a definire la compassione una virtù, mentre in ogni morale aristocratica è
considerata un motivo di indebolimento”. (L’anticristo)
*
“La natura, per preservare la specie, deve sbarazzarsi dei malriusciti e degli
aborti viventi. E difatti il cristianesimo rappresenta per essi una potenza di
conservazione. Chi ama l’umanità sa che bisogna volere il sacrificio, per il
bene della specie: prescrivendo il sacrificio umano, è certamente un amore duro,
che esige un continuo superarsi (…)”. (Frammenti postumi)
*
“Per un sano, il malato è il massimo pericolo: i più forti non devono temere i
forti, ma i più deboli. Ma quanta consapevolezza c’è di questo? Ragionando su
vasta scala, non è la paura dell’uomo quella che bisognerebbe ridimensionare,
perché tale paura agisce sui forti perché siano forti e a volte spietati: è
questa paura, a dare la spinta al benriuscito. A dover essere temuta come un
rischio mortale dovrebbero essere piuttosto il disgusto dell’uomo e la pietà per
l’uomo. Se un bel giorno si unissero, il mondo non sfuggirebbe al manifestarsi
di una minaccia enormemente inquietante: le ultime volontà dell’uomo, la volontà
del nulla, il nichilismo. E in effetti, le avvisaglie di ciò sono parecchie”.
(Genealogia della morale)
*
“(…) la vita è, nella sua essenza, incorporazione, aggressione e oppressione
dell’altro da sé e dell’inferiore, è violenza, spietatezza, comando,
acquisizione o nel migliore dei casi sfruttamento. Ma perché poi continuare a
ricorrere a questi termini, su cui il tempo ha messo il sigillo dell’infamia? Si
prenda il corpo, rispetto al quale gli individui, come accade nelle sane società
aristocratiche, si considerano uguali: se è vitale e non già sulla via della
decomposizione, dovrebbe interagire con gli altri corpi facendo tutto quanto gli
individui non fanno fra loro: diventare volontà di potenza incarnata, volontà di
accrescimento, di espansione, di acquisizione, di conquista, poiché non ha il
suo motore in nessuna morale (anche qualora immorale…), ma nel fatto stesso di
essere vivo, in quanto la vita non è che volontà di potenziamento”. (Al di là
del bene e del male)
**
Nietzsche, umano molto umano
“Rinuncia completa: non ebbi né amicizie né relazioni, non potevo leggere un
libro, ogni arte era impossibile. Una cameretta con un letto, i pasti di un
asceta (…) – questa rinuncia fu totale tranne in una cosa: potevo darmi ai miei
pensieri. – Che altro avrei dovuto fare, del resto? Per la mia testa, in realtà,
questa è la cosa più dannosa: ma non so come avrei potuto evitarla”, 11
settembre 1879.
*
“Fin da quando ero bambino non ho trovato nessuno che avesse il mio stesso
tormento nel cuore e nella mente. Il che tuttora, e come sempre, mi obbliga a
presentarmi improvvisando, e spesso controvoglia, vestendo i panni di uno fra i
tipi umani oggi consentiti e compresi. Ma che si possa davvero fiorire soltanto
tra persone che hanno pensieri e volontà simili (fino a includere la dieta e lo
stile di vita), questo per me è dogma. Il mio problema è che non trovo nessuno.
(…) Quasi tutti i miei rapporti umani sono conseguenze di attacchi di
solitudine, da Overbeck a Rée, da Malwida a Köselitz – sono sempre stato felice
in modo ridicolo ogni qual volta ho trovato, o credevo di trovare, un angolo da
condividere con qualcuno”, 20 maggio 1885.
*
“È rarissimo che ancora mi giunga una voce amica. Ora sono solo,
inammissibilmente solo. E nella mia lotta oscura e senza quartiere contro tutto
quello che l’umanità ha adorato e amato fino ad oggi (…) mi sono trasformato io
stesso, senza neanche rendermene conto, in una caverna – in qualcosa di segreto,
che non si troverebbe più neanche se ci si mettesse d’impegno per scovarlo”, 12
febbraio 1888.
*
“Io penso di avere ormai sopportato cinque volte di più di quanto sia
sufficiente a un uomo normale per suicidarsi – e ancora non è finita. (…) Senza
il lavoro che mi dà una meta e senza l’improcrastinabilità di tale meta, io
sarei già morto. Ecco perché dico che a salvarmi la vita è stato Zarathustra,
mio figlio Zarathustra!”,metà luglio 1883.
*
“Non sono mancate le giornate nere, giorni e notti in cui non sapevo più che
senso aveva la mia vita e un abisso di disperazione mi prendeva alla gola, una
cosa che mai prima avevo provato. E con tutto ciò sono consapevole di non poter
scappare, né indietro, né a destra, né a sinistra: io non ho scelta. Ora come
ora a sostenermi è solo questo pensiero. Per tutto il resto, comunque, vivo
sotto tortura”, 3 febbraio 1888.
*
“La vita arriva per me all’apogeo: un paio d’anni ancora e la Terra tremerà,
centrata da un inimmaginabile fulmine. Te lo posso giurare: ho il potere di
modificare il modo di contare gli anni. Niente rimarrà in piedi, io non sono un
uomo: sono dinamite. La mia ‘Trasvalutazione di tutti i valori’, con il
titolo L’Anticristo, è pronta. Nei prossimi due anni devo far in modo di farla
tradurre in sette lingue: la prima edizione in un milione di copie circa”, 26
novembre 1888.
*
“(…) il mondo è trasfigurato: Dio vi è sceso. Non lo vede, come ogni cielo è in
festa? Mi sono insediato nel mio regno, farò sbattere il Papa in gattabuia e
fucilare Wilhelm, Bismarck e Stöcker. Il Crocifisso”, 3 gennaio 1889.
L'articolo “Buono di cuore fino all’eccesso”. Friedrich vs. Nietzsche. Storia di
una scissione proviene da Pangea.
Che io insista a volere a ogni costo che la filosofia dica qualcosa sul seno,
che, per così dire, faccia sentire la sua voce, è qualcosa che avverto come
un’esigenza che altri chiamerebbero ossessione (al pari di quella, per capirci,
di Russ Meyer per le attrici procaci e giunoniche alla Lorna Maitland). Per
altri versi non mi meraviglierei neppure se sul fondo di questa fissazione
scorgessi una vera e propria resa come quella che Pierre Bordieu denuncia in
apertura delle sue Meditazioni pascaliane:
> «Se mi sono deciso a porre qualche problema che avrei preferito lasciare alla
> filosofia, l’ho fatto perché mi è parso che quest’ultima, pur così
> problematica, non se li ponesse, e che continuasse a sollevare […] questioni
> che non mi sembravano tali da imporsi».
Ecco, questo è l’atteggiamento di abdicazione della filosofia, la sua debolezza
o impotenza, cioè porre e continuare a sollevare «questioni che non mi
sembravano tali da imporsi» e lasciare che altre discipline le pongano in sua
vece. Così, adesso è qui davanti a me la «questione» del seno di fronte alla
quale non retrocedo.
La difficoltà del compito che mi attende non mi spaventa affatto, perciò, con
l’imperturbabilità dell’asceta, mi immergo nella delicata ricerca. Ma sempre con
metodo filosofico al quale, malgrado tutto, non intendo rinunciare. Il metodo
della ricerca filosofica, garantisce Hegel nell’Introduzione allaFenomenologia
dello Spirito, percorre essenzialmente il «sentiero del dubbio» (Weg des
Zweifels), ma poi, correggendo il tiro, dice «sentiero della disperazione» (Weg
der Verzweiflung). È su questo sentiero, dunque, che muovo i miei passi. E
sebbene afflitto dal sentimento della disperazione, procedo temerario e senza
indugi auspicando presto la nascita di una nuova disciplina, la senosofia.
*
Il supposto sapere sul seno, quello che banalmente sembra essere alla portata
del volgo, annaspa nella vischiosa pania delle dòxai, delle stupide opinioni.
Compito della filosofia, perciò, sarebbe quello di fuggirle a gambe levate
giacché dagli idola già Bacone un tempo ci mise in guardia. Tuttavia il discorso
filosofico non può né prescindere né trascurare quanto è linguisticamente e
tradizionalmente acquisito (un gigantesco cumulo di macerie che ci sovrasta e
schiaccia come fossimo formiche), e cioè non può ignorare che la parola «seno»
indichi (almeno per ora) una parte anatomica del corpo femminile. Cosicché,
quando l’argomento che riguarda il seno intenzionalmente sfiora la mente del
filosofo, il territorio del femminile – della sua carne, per intenderci –
primariamente si schiude. È da questo luogo troppo spesso martoriato o
frainteso, confuso o esaltato, che egli comincia la sua fredda e «disperata»
speculazione evitando i soliti luoghi comuni, gli atti di cortesia e i
salamelecchi.
Sant’Agata secondo Elisabetta Sirani
*
La percezione del seno, il suo puro apparire o il suo improvviso rivelarsi non
sono semplici nuancesma interpellanze. Esse richiamano un sapere a lungo
trascurato e nascosto. Compito della senosofia, perciò, è la sua rivelazione. La
speculazione filosofica parte da qui, però poi, con un hegeliano «sentimento di
disperazione», va inevitabilmente altrove: ta metà ta physikà, si diceva un
tempo. «Oltre ciò che è carne», diciamo noi oggi. Indagando il seno la
speculazione filosofica irrompe nell’ontologia. Anche questo va tenuto presente.
Il corporeo, cioè, travalica sé stesso e si fa concetto, idea. Essenzialmente
ontologico è l’affaire, dunque. E così bisogna trattarlo.
*
Che neanche la donna sappia cos’è il seno, non lo si deve a una sua distrazione
o presunta incapacità. Del resto anche un uomo, messo di fronte a questo enigma,
saprebbe soltanto bofonchiare come a lungo ha fatto, pure con più zelo e
presunzione, con la dimostrazione dell’esistenza di Dio. Il punto è che ella sa
del seno abbastanza per non saperne nulla, vale a dire che sa del seno almeno
quanto ne sa della sua cistifellea. In altre parole, ciò che il suo corpo
custodisce in termini di organi non necessariamente genera conoscenza come un
tempo in medicina un polmone, un rene o un cuore conferivano allure a questa
scienza empirica e davano uno scopo alla dissezione dei cadaveri. E poi,
diciamolo, il seno non è un organo. Come un amante esperto, invece, la
conoscenza penetra una donna soltanto quando in lei irrompe la consapevolezza
dell’essere che noi qui identifichiamo con il nome senosofia. Cosicché la donna
comincia a sapere qualcosa del seno soltanto quando, per così dire, il
“trattamento ontologico” in lei fa finalmente il suo lavoro. Soltanto allora un
po’ di luce taglia l’oscurità e il seno ha la possibilità di compiere
timidamente la sua epifania. Tuttavia non è un atto scontato. Prima di giungere
al seno occorre superare la mammella, sbarazzarsene, insomma. Occorre, cioè,
evitare quella prisca ed eterna ambiguità che la confonde con il seno e che essa
produce con la sua sola vorace presenza.
*
Ora che il seno non scandalizza più, ciò che ancora sconvolge è la sua
impenetrabilità, il suo interrogativo mutismo. Tuttavia ciò che una donna o un
uomo devono imparare è che il seno non si trova soltanto là dove essi credono
che sia. Fallaci congetture hanno agito in tal senso. Sebbene ami rivelarsi (ne
siamo sicuri?) sul corpo di una donna come la muffa si abbarbica su una parete
umida, questo corpo è per il seno un pretesto, un’occasione alla quale esso non
rinuncia. Su questo corpo il seno sperimenta la sua delicata esistenza poi, come
dicevamo, va altrove, ta metà ta physikà. Il suo manifestarsi dipende dalla
nostra capacità di riconoscerne i contorni oppure, diciamo così, dalla nostra
consapevolezza senosofica. Il seno, dunque, non appartiene al corpo, o almeno
non gli appartiene più di quanto possa appartenergli un abito o un paio di
mutande. Molti uomini, e per molto tempo, si sono accontentati di un’illusione,
di quella parvenza che hanno poi chiamato «seno». Ma il fatto è che non tutti
hanno dimestichezza con l’ontologia. E da oggi in poi, questa sarà una
considerazione da tenere presente.
Sant’Agata secondo Francisco de Zurbarán
*
Se la mammella vive alla luce, il seno abita il crepuscolo. Nessuna donna espone
il seno con la sfrontata e appagante disinvoltura con cui una puerpera tira
fuori dall’abito la sua zampogna gonfia di latte. Fortunatamente per il seno,
questo è anche ciò che gli garantisce quell’esistenza particolare ed
eterna. Persino nelle ricorrenti immagini erotiche in cui il seno è mostrato con
disinvoltura appare, prima di lui, una mammella. Al seno, purtroppo, spetta il
secondo tempo, l’ombra o la parte da comprimario. Pare che il seno gradisca
soltanto la nudità erotica degli amanti, e invece il seno è là, da secoli in
penombra, che aspetta l’occasione per manifestarsi.
*
Se la mammella giace tronfia nei manuali di medicina e chirurgia, non vedo
perché il seno non possa avere il suo posto d’onore in un trattato di ontologia.
Eppure non si deve pensare che l’ontologia che qui si sta auspicando, e che ho
chiamato senosofia, apprezzi le fanfaluche, la ciarla e il fatuo vagheggiare.
Come si è detto, è dalla carne che essa trae ispirazione. Il corpo è il suo
primo interlocutore e con questo corpo deve fare i conti. La fenomenologia ci
impone «la cosa» così com’è, così come la vediamo. Ma il seno non ha niente di
fenomenologico perché noi, de visu, non lo percepiamo. Quello che percepiamo, lo
ripeto, è la mammella, una vescica di latte. Con il seno si tratta perciò di
concentrare lo sguardo e l’attenzione su un argomento a prima vista non
filosofico e farlo diventare di pertinenza esclusiva della filosofia. Fare
ontologia, insomma, con quello che rimane, con ciò che è stato tagliato fuori,
con i resti, gli scarti del corpo e della filosofia. Il senosofo – ossia colui
che fa dell’ontologia del seno il suo principale impegno – è il solo che può
occuparsene. Soltanto lui ha di mira questo traguardo. Suo è il compito di
rispondere finalmente alle interpellanze del seno. Se per il metafisico ciò che
è soltanto qui e non altrove non è degno di interesse, per il senosofo – questa
figura silenziosa e imperturbabile a lui più vicina – non esistono che seni. E
di questi e della loro misteriosa vita perenne, vuole sapere tutto quello che
c’è da sapere.
Vincenzo Liguori
***
Sullo stesso argomento e dello stesso autore si veda anche:
* https://www.pangea.news/seno-anatomia-femminile-liguori/ (14 luglio 2023)
* https://www.pangea.news/senologia-filosofia-liguori/ (12 settembre 2023)
*In copertina: Giovanni Lanfranco, Sant’Agata in carcere, 1614 ca.
L'articolo Senosofia, un’ontologia del seno. Ovvero: per la nascita di una nuova
disciplina filosofica proviene da Pangea.