> Quando arrivò a casa l’ambulanza chiedeva disperatamente di me. Mi voleva come
> sempre accanto a lui. Gli ho preso la mano e lui continuamente sussurrava:
> “Vittoria, Vittoria…”. Arrivati al San Camillo c’era mio fratello e dopo è
> arrivata la figlia Lia. Lui era in coma, eppure mi ha detto: “Perché non va
> qualcuno a comprarmi Paese Sera?”. Allora è andato mio fratello. Ernesto mi ha
> detto: “Ma la rivista Aut-Aut è arrivata?”. “Sì, è arrivata”, gli ho risposto.
> “Me la vai a prendere?”. Gli ho dato questa rivista sempre con la mano nella
> mano e mi fa: “Ma come mai non c’è luce?”.
> Allora facendomi estrema forza gli ho detto: “Ma guarda tu se in un ospedale
> può mancare la luce’”.
> Detto questo lui è spirato[i].
6 maggio 1965. così si compie il cammino di questo mondo di Ernesto De Martino.
la mano che lo tiene è quella di Vittoria De Palma, sua compagna di vita e di
ricerca per quasi vent’anni. l’ultima apocalissi della sua vita, la stanza di un
ospedale romano, una vita iniziata a ridosso di un’altra apocalissi, il
terremoto di Messina e Reggio Calabria del 1908. dai ricordi di sua madre,
Ernesto sarebbe nato il giorno dopo il terremoto, mentre per le strade di Napoli
stavano passando dei camion per la raccolta di vestiti e beni di prima necessità
per gli sfollati. la madre vide dalla finestra una donna sfinita con un bambino
in braccio, e il travaglio iniziò, disse. era il 1 dicembre[ii].
l’apocalissi è stata la condizione intrinseca della vita di De Martino, e non è
forse un caso che diede il nome anche all’ultima opera, incompiuta, cui lo
storico e antropologo napoletano lavorò, La fine del mondo. Contributo
all’analisi delle apocalissi culturali(postumo, 1977)[iii]. ampio spazio è stato
dato nella letteratura accademica all’analisi del concetto di apocalissi
demartiniano in una prospettiva sociale e politica, anche grazie agli ottimi
curatori delle ultime due edizioni, francese (2016) e italiana (2019), Giordana
Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio. De Martino distingue tra apocalissi
e catastrofe. nel primo caso la fine è “portatrice di senso e diventa nucleo di
produzione culturale: l’apocalisse è sempre, per etiologia, una
rivelazione” (Quarta 2021, 77). nel secondo caso, la catastrofe non ha apertura
sulla storia, è una caduta senza riscatto, una “catabasi senza anabasi” (Idem),
anche se la prima racchiude potenzialmente la possibilità di esaurirsi nella
seconda. De Martino contempla tre fenomenologie apocalittiche: quella
con escaton, quella senza escaton e le apocalissi psicopatologiche, simili alle
catastrofi. le prime due si svolgono sul piano culturale collettivo; prevedono
una “salvezza” che si esplica nel reintegro dell’individuo in un codice sociale
condiviso in cui c’è la gestione possibile del negativo. le terze non prevedono
nessuna possibilità di condivisione pubblica; sono l’esperienza di un mondo
“oscuro e privato”. quest’ordine porta De Martino ad avvicinare le apocalissi
senza escaton alla catastrofe. “Proprio perché fra tutte le apocalissi culturali
essa appare più di tutte le altre prossima alla crisi radicale dell’umano, la
apocalisse senza escaton dell’occidente si presta in modo elettivo a illustrare
il valore euristico del documento psicopatologico” (De Martino 2019, 356). una
tensione tra salvezza e caduta definitiva che caratterizzerà anche l’uomo De
Martino.
poco è stato scritto sui risvolti personali di Ernesto De Martino rispetto alla
dimensione apocalittica che lo rivestiva, presenza immanente a tutta la sua
ricerca antropologica come un continuo lamento tellurico a bassa frequenza.
apocalissi in cui cercò sempre un escaton attraverso una volontà incrollabile
quanto la speranza.
> Io credo tuttavia che tra la mia psicastenia, il mio ittero, la mia
> turbercolosi, la mia epilessia vi sia un rapporto intimo (mi guarderei
> dall’affermare tale rapporto fra queste malattie come tali), e che non si
> possa fare la storia della mia persona senza includervi anche le mie malattie.
>
> (De Martino 2004, 28)
la malattia, la cronica dimensione di carenza, è stata una condizione fondante
di De Martino. un travaglio che se in giovinezza fu esplicito, come le crisi di
epilessia, dopo i trentacinque anni rimase latente, anche grazie alla sua grande
forza d’animo, lui che non faceva parola della sofferenza, che non malediva
quello stremo che accompagnava le sue ricerche sul campo, il suo studio alacre,
ma che fu corpo di tutta la sua ricerca empirica e teorica. come ha scritto
Luigi Chiriatti, De Martino cercò di esorcizzare il dolore, la malattia, la
morte, quella paura di “cadere nel nulla o nelle mani di un dio irato” (De
Martino 2004, 26) studiando le manifestazioni di dolore, malattia, morte
attraverso quel caravanserraglio materiale e simbolico della “magia” che
accompagnava la resistenza al male in quegli umani più esposti alla catastrofe e
alla perdita improvvisa, a quella che chiamava “sapienza del pianto” (De Martino
2021, 14). erano i contadini del Sud Italia del secondo dopoguerra, quelli che
morivano, parafrasando un canto funebre lucano, “con la fatica alle mani”
(Ibidem, 90). questo attraverso un’analisi comparativa e un innovativo, per la
ricerca etnografica italiana, approccio interdisciplinare[iv] che unirono le
culture euromediterranee attraverso il filo rosso di sopravvivenze arcaiche,
come il lamento funebre rumeno, il bocet, evocato attraverso la descrizione dei
funerali di Lazzaro Boia, pastore di Ceriscior, morto a 50 anni nell’ospedale di
Ghelar. riportato a Ceriscior, il corpo fu vestito a festa e ricoperto di lino
in una bara di legno nero. tre candele di cera ardono al capezzale, altre tre
tra le mani del morto. come nella maggior parte dei rituali funebri riportati da
De Martino, sono le donne che intonano la litania del lutto. in questo caso
ognuna canta il proprio scomparso, ognuna rievoca il proprio lutto, in una
lamentazione collettiva che è anche consolazione reciproca per i lutti
passati. una donna canta il dolore per un figlio morto in terra straniera,
“senza i riti della sua gente, e perciò vagante nel mondo al pari di una larva
inquieta”: “…Se incontrerai Giorgio, Nicola mio,/ o caro, e se lo vedrai/ triste
e afflitto,/ è perché se ne andò senza i riti.” (Ibidem, 160). e al mondo
agreste si rifanno i pianti di Clitennestra e di Dario nell’Agamennone e
nei Persiani di Eschilo: “Fin troppa ne abbiamo mietuta di messe del dolore”,
“L’ΰβρις giunta alla fioritura, ha dato come frutto la spiga della colpa e della
punizione, donde ne venne messe infinita di pianti” (Ibidem, 242-243). il pianto
umano come specchio del pianto divino, di cui De Martino vede l’apice
nelle Lamentazioni di Iside e di Nephtys. così recita Iside: “Fin tanto che
posso vederti, ti chiamo piangendo, anche nelle altezze del cielo, ma tu non
senti la mia voce, sebbene io sia tua sorella che tu amasti sulla terra e
sebbene tu non amasti che me, o fratello, o fratello” (Ibidem, 279).
il filo rosso tra passato remoto e presente si materializza nell’ “Atlante
figurato del pianto”, ultima sezione di quello che è considerata forse l’opera
più compiuta della ricerca demartiniana, Morte e pianto rituale. Dal lamento
funebre antico al pianto di Maria (1958). qui, il materiale fotografico raccolto
in Lucania e in Sardegna viene comparato alla mimica gestuale della lamentazione
antica cristiana, greca ed egizia, come, ad esempio, le braccia piegate ad
angolo, considerate da De Martino un paradigma della lamentatiofunebre, o il
“kopetòs”: “le braccia sollevate in alto del modello precedente si abbattono
sulla testa e sono spinte verso il viso, con tendenza a iterare indefinitamente
l’atto e a dargli un ritmo di esecuzione collettiva” (Ibidem, 653)[v]. questo
passaggio dal dolore individuale a quello collettivo è una condizione costante
dell’opera demartiniana e della sua visione dell’apocalissi, che nel suo
andamento concentrico, dall’individuo, alla società contadina del Sud Italia, ai
popoli colonizzati[vi], sembra riprendere le parole di Gesù: “In verità vi dico:
ogni volta che avete fatto queste cose a uno dei più piccoli di questi miei
fratelli, l’avete fatto a me… In verità vi dico: tutto quello che non avete
fatto a uno di questi piccoli, non l’avete fatto a me” (Mt, 25, 40; 45). il
male, come il bene, ha un effetto domino che dal singolo si dilata alla
comunità, al cosmo, per questo ogni individuo, ogni gesto, è portatore di un
destino condiviso. De Martino, laico in dolore. bellissime, le sue parole, tutte
le sue parole a Vittoria De Palma:
> Ma non credere che io faccia propaganda di ateismo, e che con leggerezza
> voglia distruggere ciò che nella società presente con le sue ingiustizie e i
> suoi dolori è inevitabile, cioè la consolazione, della preghiera fatta al
> padre, e anche io, in dati momenti, come figlio di questa società, come figlio
> del dolore e dell’oppressione dico a dio la mia preghiera”.
>
> (De Martino 2004, 27)
la terza apocalissi della sua vita De Martino la visse durante la Resistenza,
cui partecipò attivamente da intellettuale[vii] anche redigendo, nel novembre
1944, dopo che le forze alleate erano entrate in Romagna, il Proclama della
Liberazione, all’epoca temporaneamente nascosto dal socialista Alvaro
Badiali[viii] nel granaio di Palazzo Maltoni, a Cotignola (Ravenna). nel
dicembre dello stesso anno De Martino soggiornò a Palazzo Annaratone, nella
frazione di Masiera (Bagnacavallo), a ridosso del fiume Serio, che per quattro
mesi divenne il fronte di guerra tra da una parte i Tedeschi e i repubblichini
fascisti e dall’altra le forze alleate. il racconto “I Trenta di Masiera”
rappresenta l’unico testo autobiografico pubblicato disponibile ad oggi di De
Martino, in cui parlando in terza persona quest’ultimo prende le spoglie di un
ingegnere meridionale stanco e pavido senza nome, “lo sfollato”, che insieme a
un gruppo di otto famiglie di classi sociali diverse è costretto a lasciare
Masiera, presso Fusignano, per andare a rifugiarsi in una villa vicina, in
attesa della liberazione. l’ingegnere “porta panni non suoi, laceri e unti, le
scarpe fanno acqua, e se ne sta avvolto in una capparella nera romagnola, dono
di un contadino di Masiera”. rimane in disparte, pensando alla famiglia lasciata
a Solarolo. proverà a incamminarsi su quei 28 Km che lo dividono dalla moglie e
dalle due bambine ma l’artiglieria lo farà tornare indietro. “il capitano
Adler”, delle forze alleate, dice loro che l’indomani all’alba dovranno
incamminarsi per 3 km verso Bagnacavallo con una bandiera bianca. ognuno
dispera, si insinua il dubbio che si tratti di un tranello. all’alba c’è
concitazione; nel mentre delle informazioni che si contraddicono una con
l’altra, entra un soldato tedesco, “lacero, infangato, senza elmetto, con la
barba lunga di giorni”. come non pensare al Ferito in fuga di Otto Dix, gli
occhi spalancati e ritorti, la benda sulla testa che non riesce a trattenere il
sangue che cola dalla fronte, la mano con una ferita come stimmate. dice
all’ingegnere che quello è il sesto Natale di guerra per lui. viene da una
cittadina della Bassa Sassonia. quando l’ingegnere gli chiede se ha una famiglia
risponde “Non so”, e poi si mette a ridere. De Martino dice che rideva come se
trovasse la domanda spiritosa. forse rideva dalla disperazione. morirà poco dopo
in un fosso, “l’oscuro fante”, accanto all’ingegnere, sporco del suo sangue[ix].
non ci sono più né nemici né alleati, né nobili né contadini ma una sola umanità
sofferente.
nei frangenti della Resistenza De Martino unisce la fragilità delle sue
condizioni di salute allo sperdimento della guerra, iniziando a forgiare nel
buio dell’anima quel concetto di “perdita della presenza” che caratterizzerà
tutta la sua riflessione scientifica, da Il mondo magico (1948)[x] a La fine del
mondo (1977). la “presenza” è presenza al mondo, alle ancore di riferimento
culturali della propria società: quello che fa rimanere in equilibrio, sebbene
precario. e la magia, “restauratrice di orizzonti in crisi” (De Martino 2022,
125) serve a riempire le voragini del crollo della presenza e la caduta
dell’individuo nel caos, la perdita della propria anima e di conseguenza del
proprio mondo, soprattutto in quei contesti dove gli àuguri si accaniscono
contro i più esposti, i contadini italiani e i popoli non industrializzati di
ogni parte del mondo. a domare i venti del fato contrario è lo sciamano, il
mago, “Cristo magico” “colui che sa andare oltre di sé, non già in senso ideale
ma proprio in senso esistenziale” (Ibidem, 99) per riscattare tutta la comunità
e portare “salvezza”. “Solo coloro che, nel loro dramma esistenziale, sono
diventati i signori del limite, gli esploratori dell’oltre, gli eroi della
presenza” (Ibidem, 105). il dramma magico esistenziale, scrive De Martino, si
dilata se ci riferiamo “a un grande tema culturale del magismo: la fattura o
malia”. prendendo l’esempio degli Arunta (Australia centrale), De Martino
descrive come il solo fatto di ritenersi affatturati dall’“apparecchio magico”
dell’arungquilta, o in caso di violazione di un tabù, può diventare causa di
morte laddove ci sia tale convinzione. da storico delle religioni, oltre che
antropologo, De Martino considera dramma nel dramma l’incapacità delle culture
occidentali industrializzate di capire la “funzione storica” della fattura e
della controfattura, che permette di cogliere il quadro esistenziale in cui
queste ultime si producono. negando la dimensione storica di questi fenomeni in
quanto eventi culturali si nega, tout court, la presenza storica degli individui
che ci credono e che in essi vivono. [xi]
è da ricordare che Il mondo magico viene pubblicato nel 1948, l’anno precedente
il primo soggiorno di De Martino in Lucania, a Tricarico, “l’immagine del caos”
(De Martino 2013, 121)[xii], e un anno dopo le Lettere dal carcere di Gramsci.
da quei primi soggiorni nel “Meridione” nascono le Note Lucane, pubblicate per
la prima volta nel 1950[xiii]. esse rappresentano il primo manifesto di pensiero
politico di De Martino applicato a una ricerca di campo etnografica nel Sud
Italia, e uno dei suoi documenti più vibranti. vengono da un humus storico e
politico che aveva già attirato l’attenzione su quelli che allora erano i servi
della gleba della nazione, i contadini del “Meridione”, rovina tra le rovine
della guerra. nel 1945 Carlo Levi aveva pubblicato Cristo si è fermato ad Eboli,
libro di testimonianza scaturito dal suo confino negli anni ‘30 per attività
antifasciste prima a Grassano, poi ad Aliano, in Basilicata. in quello stesso
anno Rossellini gira Roma città aperta; si inaugura la stagione neorealista ma
qui il regista, come lo scrittore, è una figura molto presente: le inquadrature
mostrano la sua mano, il suo angolo di lettura del mondo mentre nel
libro-testimone di Levi l’autore resta in disparte per far rimbombare l’umanità
dolente delle popolazioni lucane. De Martino, pur stimando Levi, non condividerà
la visione dei contadini lucani presi in un destino immobile; al contrario dirà
che proprio in quei sistemi di rappresentazione così lontani dal panorama
identitario della borghesia cittadina, tra cui il ricorso alla magia, sta la
dignità culturale, e quindi storica perché situata, delle popolazioni contadine.
in questo senso, De Martino si distacca dagli studi sul “folklore” che avevano
caratterizzato la demologia italiana fino ai primi decenni del ’900 per
costruire, anche a seguito dell’influenza gramsciana, una teoria sul confronto
tra classi egemoni e classi subalterne, che aprirà la strada al volume
dell’antropologo Alberto Maria Cirese Cultura egemonica e culture
subalterne. Rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale (1971)[xiv].
De Martino, che per primo si batte per rimanere presente alla sua storia, si
riconosce nello specchio delle lotte per rimanere al mondo dei contadini lucani,
siciliani, calabresi, la cui dignità di coscienza è insita proprio in quegli
oggetti di uso e di culto quotidiani ritenuti retrogradi e selvaggi dalle classi
politiche di un Paese che si apprestava ad entrare nel boom economico del
decennio successivo. nel 1948 Palmiro Togliatti andò a Matera per verificare le
condizioni di vita descritte da Levi, dichiarando le condizioni in cui vertevano
gli abitanti dei Sassi “vergogna nazionale”[xv]. tuttavia Togliatti si dimostrò
freddo rispetto alle ricerche di De Martino e al fatto che quest’ultimo
considerasse anche i contadini lucani protagonisti della storia in un momento in
cui il governo italiano era orientato verso l’industrializzazione del Paese e il
PCI guardava più al mondo operaio cittadino che ai contadini del “Meridione”, i
più poveri tra i poveri[xvi]. De Martino spiega il lamento lucano come parte di
un regime esistenziale, un sistema di rappresentazione del mondo imbevuto delle
tremende condizioni di vita dei contadini.
La Lucania, scrive De Martino, è caratterizzata da un’economia rurale
“relativamente arretrata”: i campi, caratterizzati da una grande
parcellizzazione della proprietà, distano decine di chilometri dai borghi di
residenza, i terreni sono avari, le frane frequenti. a livello famigliare vige
un profondo regime di dipendenza: gli uomini dipendono dai loro padroni, le
mogli dai mariti, l’anziana madre dai suoi figli, gli orfani restano in balίa di
chi li prende in carico. questo causa una grande “indeterminazione sociale”,
accentuata dall’enorme fatica delle attività agricole e dalle “lunghe
segregazioni” richieste dalla pastorizia, e porta a uno stato di “miseria
psicologica”. questa precarietà appare in tutto il suo fragore nel documentario
di Luigi Di Gianni Magia lucana (1958) di cui Ernesto De Martino fu consulente
scientifico. il paesaggio, simile a una cava di marmo, è scandito solo dagli
zoccoli dell’asino e dai passi dei contadini; i campi sono lontani dal paese,
ogni giorno è un viaggio per la vita in uno spazio ostile e muto, al tempo
stesso spazio vitale. e al paese si attende il ritorno “senza emozione”, quasi
che si sia incorporata già la possibilità di un lutto:
> E se non tornano? Se l’uomo cade colpito dalla natura muore con lui l’unica
> ricchezza, quella del suo vigore… Gioacchino mio, bene della tua donna, che
> morte improvvisa, bene della tua donna. Oh, le mani pregiate che avevi, quanta
> fatica hai fatto con queste mani, bene della tua donna. Mi debbo rimboccare la
> gonna e devo uscire fuori casa per lavorare alla giornata, bene della tua
> donna, e debbo scendere e salire le rampe del paese per guadagnare un pezzo di
> pane per i figli tuoi. Debbo mettermi la zappa sulle spalle per guadagnare una
> giornatella per i figli tuoi, bene della tua donna.
>
> Dove sarà il fidanzato lontano? Dimmelo Santa Monica, dimmelo, angelo della
> Notte.
in questo contesto, “la morte di una persona di famiglia risolleva di colpo,
nella sua imponente carica emozionale, tutto l’arco di una vicenda esistenziale
deficitaria”. le lacrime di una persona sono le lacrime di tutti, e non si
piange per una sola ragione ma per tutte le ragioni in un pianto solo. in questo
senso il lamento, ma anche l’ascesso erotico, la bulimia, l’autolesionismo,
rispondono a questo panorama esistenziale. in particolare, il lamento funebre
come “istituto culturale” serve a non scivolare nella “scarica incontrollata di
impulsi o in una sorta di stupore immemore della situazione luttuosa” (De
Martino 2013, 157), un ricorso questo in cui anche l’autolesionismo, come ad
esempio lo strapparsi i capelli o battersi il capo, viene ritualizzato con il
supporto di moduli recitativi ridondanti attraverso il lamento funebre.
nelle Note Lucane De Martino identifica un relativo riscatto dei contadini
lucani della Rabata di Tricarico attraverso forme di resistenza alle autorità e
ai politici locali che instillano un “fermento di civiltà e storia che
restituisce al tempo prospettiva e contenuto umani”. è emblematico il caso del
berretto del maresciallo Gallo, strappatogli durante l’occupazione della caserma
dei Carabinieri dai paesani di Tricarico e passato di mano in mano sino a finire
nell’orinatoio del paese, in un burrone e poi sotto le radici di un melo. sotto
la pressione popolare il maresciallo Gallo fu allontanato dal paese e questo
rappresentò per De Martino un momento di riappropriazione della storia da parte
dei Rabatani.
> Essi vogliono che quel loro cercarsi in questo mondo di tenebre tendendosi le
> mani e chiamandosi ‘frate, frate’ si costituisca in immagine altrettanto
> storica come gli affreschi della cappella Sistina o la cupola di Michelangelo.
> Ma essi vogliono anche che giunga al mondo l’eco dei loro sforzi per
> emanciparsi, e dal fondo delle loro spelonche, deformi nei corpi logorati
> dall’umido, essi gettano sul viso di coloro che iniquamente li tengono in
> catene il verso di sfida: ‘Nuie simme a’ mamma d’a’ bellezza’, noi siamo la
> giovinezza del mondo.
>
> (Ibidem, 132-133)
De Martino sente senso di colpa e collera per le condizioni dei Rabatani, “una
collera tutta storica perché storica è la mia colpa come anche la colpa del
gruppo sociale al quale appartengo” (Ibidem, 140). da borghese intellettuale,
vede la sua libertà come il sacrificio delle popolazioni lucane, un
compiacimento per “civettare con la ‘dignità della persona umana’ al modo che la
intendono coloro che ‘fanno gli intelligenti’”[xvii]. “Rendo grazie al quartiere
rabatano e ai suoi uomini per avermi aiutato a capire meglio me stesso e il mio
compito” (Idem).
è in questo solco che quasi dieci anni dopo Ernesto De Martino prepara la sua
missione di ricerca nel Salento sul tarantismo, anche qui per dimostrare che la
‘follia’ e la sua canalizzazione terapeutica non sono peculiari a popolazioni
ignoranti e incoscienti ma sono il grido di dolore di cuori castrati, della
“noia” della solitudine e dell’amore. colui che ama, sa. ne La Terra del
rimorso, egli incontra di nuovo un’umanità di sangue e carne che guarda al cielo
per scorgere i messaggi di fortuna e sfortuna dell’acre giornata, alla terra per
piangere i suoi morti. rispetto a questa condizione, scrive De Martino, il
tarantismo assicurava qualche giorno da eroi, l’attesa “dell’epoca del sogno”:
> ognuno poteva così rialzare la propria sorte tanto quanto la vita l’aveva
> abbassata, e viveva episodi che si configuravano come il rovescio della
> propria oscura esistenza. Al verde paradiso si contrapponeva un paradiso in
> rosso, un agonismo che si sforzava di mimare pose eroiche, il sognare di
> essere un grande della terra, un atleta, un abile, un capitano, un tribuno, un
> artista a corte, un Re dei Re.
>
> (De Martino 2023, 175)
c’è un’immagine, quasi un’immagine spiritica, evanescente, tra quelle presenti
ne La terra del rimorso, quella di una tarantata, Rosaria di Nardò, che, di
schiena, picchia con i pugni chiusi la porta che cela la statua di San Paolo,
patrono delle tarantate e dei tarantati. siamo a Galatina, alla festa annuale
dei SS. Pietro e Paolo. che differenza con quella sequenza de La taranta di Gian
Franco Mingozzi (1962), quando la tarantata Lea batte sul vetro del ritratto di
San Paolo, tenuto da un bambino. lì lei è a casa sua, regina. il viso è teso,
nodoso come un tronco d’olivo. è in collera con San Paolo, che non si decide
ancora a darle la grazia per far cessare la sua danza; è in collera com’è in
collera un’amante verso l’amato, con la rabbia dell’amore degli esseri umani.
intorno ha i musicanti che la accompagnano, la seguono e la “scazzicano”
formando un corpo solo con lei e allo stesso tempo un dialogo armonico[xviii].
San Paolo non concede la grazia, e Lea continua a danzare rabbiosa. è vita, lei,
secondo un codice che tutti conoscono. invece a Galatina i rituali domestici che
rendevano la tarantata protagonista della sua possessione sbiadiscono davanti a
una folla che sembra non fare altro che aumentare la solitudine del morso
d’assenza. non si può non notare anche la differenza di genere. una foto ritrae
un tarantato a terra all’interno della cappella di San Paolo. si chiama Donato
di Matino; ha gli occhi chiusi, le braccia e la bocca aperte. vicino a lui
quattro donne sono chine; stanno sistemando un cuscino sotto la testa di una
tarantata. attorno, un gruppo di persone guarda senza guardare, quasi a disagio.
altre due foto ritraggono la piazza antistante la chiesa dei SS. Pietro e Paolo.
la folla si accalca attorno a due tarantate; una è sdraiata a terra, l’altra,
nella seconda foto, è carponi. nelle due immagini sono presenti soprattutto
uomini. la donna che era carponi si alza e intima alla folla di dividersi in due
ali, lei al centro. sembra dare un ordine ma in realtà è schiacciata
dall’indifferenza, dalla non-partecipazione di chi le si accalca intorno. tra
quelle persone, oltre ai famigliari, c’è anche una massa di curiosi attratti da
una morbosità improferibile. il corpo unico del rituale domestico non c’è più,
c’è solo il corpo randomico della tarantata, urla sole senza rito. e non c’è più
la lotta d’amore con San Paolo, cancellata dalla sfilata della statua del
patrono con la banda del paese: suoni omogeneizzati in onore dei Santi patroni,
la modernità. fedeli anonimi, non amanti che si chiamano per nome.
“un sistema di inerzie, di intolleranze, di contraddizioni inavvertite, di
incompatibilità sopportate: ma in questo caos cui si dà il nome romantico di
‘folklore’” (Ibidem, 393)[xix]. queste parole, che chiudono La Terra del
rimorso, De Martino le scrive insieme a Vittoria De Palma. sul campo, Vittoria
prepara l’incontro, con il suo sorriso solare smussa la diffidenza, soprattutto
nell’approccio dell’équipe con le donne, quelle contadine che in un piccolo
paese videro per la prima volta le proprie fattezze attraverso le foto mostrate
da Vittoria, scattate durante un soggiorno precedente, credendo alle compaesane
presenti che dicevano che in effetti erano proprio loro. una ricerca di campo,
le antropologhe e gli antropologi lo sanno bene, è un travaglio di compromesso,
soprattutto con la propria coscienza. un continuo pericolo di oggettivazione
delle persone, i momenti in cui l’ambizione di raccogliere “dati” prevalica
sulla percezione che si è realmente davanti a esseri umani che hanno priorità
profondamente diverse dalle nostre. l’esperienza di campo è una continua
decentratura, un continuo riconoscimento dei propri limiti, un continuo rammendo
di poli a volte inconciliabili. anche De Martino si è trovato davanti a questo
compromesso. alcuni suoi metodi per ottenere le informazioni possono sollevare
interrogativi, come nel caso della giovane Rosa di Ferrandina, “l’immagine di un
torbido ingorgo di potente sensualità” (De Martino 1953, 75). De Martino voleva
registrare il pianto di Rosa per un lamento funebre ma la ragazza era restìa.
trovarono un compromesso. la ragazza proferì il suo lamento da uno sgabuzzino
dando a Vittoria la mano per allontanare il malaugurio di intonare il lamento
fuori dal rituale, e all’esterno il tecnico della RAI registrò la voce di Rosa
facendo passare il microfono attraverso l’angusta fessura della porta socchiusa.
in molti casi De Martino chiese espressamente alle persone di riprodurre canti e
gesti rituali funebri, come accadde a Pisticci. nelle Note lucane e nell’ultima
appendice de La Terra del rimorso si evince che De Martino era consapevole di
questi scarti dell’incontro, che riconobbe con anima intera, quella con cui
abbracciò tutti gli eventi della sua vita.
è difficile parlare di un essere umano smisurato. è difficile parlare di Ernesto
De Martino. cerco un appiglio nella vastità della sua opera, della sua persona,
di cui probabilmente ancora non ci si rende esattamente conto, per concludere
questo brevissimo omaggio. in un’intervista di molti anni fa chiesero a Norberto
Bobbio cosa considerasse la cosa più importante, arrivato alla sua età; credo
che all’epoca avesse circa 90 anni. durante la vita, disse, si considerano
prioritari il proprio lavoro, i propri testi; poi, arrivati in fondo, l’unica
cosa preziosa che resta è l’amore delle persone care. se devo pensare a una sola
cosa che resta di Ernesto De Martino dico l’amore. amore per quel creato che era
il teatro di apocalissi e catastrofi che egli restituì in una scrittura così
caparbiamente non-attuale, a tratti ostica. e così semplice quando parlava a
Vittoria nella lingua del sogno, nella loro lingua, nel loro sogno, alleggerita
di tutto tranne dell’essenziale:
> La mia anima è ormai un oceano in tempesta, e ogni ondata porta il tuo nome,
> il mio sguardo è ormai allucinato e l’unica immagine che esso vede è la tua.
> Il mio cuore batte solo le ore dei nostri incontri e i miei pensieri per te e
> anche il mondo che si tocca, il mondo delle cose, va gradatamente scomparendo
> al mio sguardo per lasciare posto ad un unico corpo reale, a un corpo che non
> è materia, che ha perso per me tutte le macchie del peccato, è un corpo che è
> puro, che è anima e che è solo la via per conoscere l’anima…
>
> (De Martino 2004, 30)
Cristiana Panella
**
Riferimenti bibliografici
Charuty, G. Les vies antérieures d’un anthropologue. Marseille: Éditions
Parenthèses, MMSH, 2009.
Dei, F. e A. Fanelli 2015. “Magia, ragione e storia: lo scandalo etnografico di
Ernesto de Martino”. Introduzione a E. De Martino, “Sud e magia”. Roma: Donzelli
[1959] 2015, IX-XLV.
De Martino, E. “Note di viaggio”, Nuovi Argomenti, 1 (2), 47-79, 1953.
De Martino, E. Vita di Gennaro Esposito napoletano. Appunti per una biografia di
Ernesto De Martino. Calimera: Kurumuny-edizioni, 2004.
De Martino, E. Furore Simbolo Valore. Milano: il Saggiatore [1962] 2013.
De Martino, E. La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi
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De Martino, E. Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di
Maria. Torino: Einaudi [1958] 2021.
De Martino, E. La Terra del rimorso. A cura di M. Massenzio. Torino: Einaudi
[1959] 2023.
Fanelli, A. 2019. “ ‘La verità sta di casa tra Palazzo Filomarino e il Sasso di
Matera’. Un carteggio tra Alberto Maria Cirese ed Ernesto de Martino”, Studi
Storici, 1, 5-44.
Faranda, L. Le lacrime degli eroi. Pianto e identità nella Grecia antica. Roma:
Edizioni Universitarie Romane [1992] 2022.
Panella, C. 2022. “L’incantevole vertigine dell’anima sbigottita. Magia,
etnografia e movimento nella taranta di Suzanne Doppelt”, Pangea, 25 Marzo 2022.
Quarta, L. “Apocalisse e storia. Fondazione trascendentale dell’umano”, ANUAC,
10 (2), 75-83, 2021.
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[i] Intervista di Luigi Chiriatti a Vittoria De Palma in De Martino 2004, 29.
[ii] Il sisma di magnitudo XI della scala Mercalli con il successivo maremoto
che uccise, tra le province di Messina e Reggio, circa 90.000 persone avvenne
all’alba del 28 dicembre 1908 ma le scosse erano iniziate dai primi di novembre
di quell’anno; pertanto è probabilmente agli eventi di fine novembre che il
ricordo della madre di De Martino si riferisce (Panella 2025, in pubblicazione).
Ringrazio Maria Grazia Insinga per avermi dato questa informazione temporale
sulla scosse del novembre/dicembre 1908.
[iii] La prima edizione de La fine del mondo è stata curata per Einaudi da
un’assistente di ricerca di De Martino, e successivamente fine antropologa,
Clara Gallini. Dopo l’edizione del 2002, quella del 2019, sempre per Einaudi, a
cura di Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio, è stata in alcune
parti tradotta e redatta, con un’organizzazione più sistematica e accessibile
rispetto all’edizione a cura di Gallini, a partire dalla versione francese
pubblicata nel 2016 dall’École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS),
curata da Charuty.
[iv] Le ricerche di campo vedranno la partecipazione di diverse competenze tra
cui Vittoria De Palma come assistente sociale e ponte con il mondo femminile, lo
psichiatra Giovanni Jervis, l’antropologa Amalia Signorelli, lo psicanalista
Emilio Servadio, l’etnomusicologo Diego Carpitella e il fotografo Franco Pinna.
[v] In Le lacrime degli eroi. Pianto e identità nella Grecia
antica l’antropologa Laura Faranda recupera la prospettiva di Morte e pianto
rituale per indicare il principio di “soglia” tra il polo della vita e quello
della morte, insito nel pianto rituale demartiniano, per sondare la valenza del
pianto anche nel polo di vita, tornando alla funzione sociale del pianto
teorizzata da Marcel Mauss, che vedeva l’obbligatorietà delle lacrime in un
assetto istituzionalizzato, come le formule di saluto o i rituali iniziatici,
poi riscontrate in successivi contesti etnografici (Faranda 2022). Allo stesso
tempo De Martino scrive che la pratica del kopetòs era combattuta dalla Chiesa
cristiana stessa, riportando diverse omelie e testimonianze già del primo
Cristianesimo, da San Paolo a Giovanni Crisostomo a Gregorio Nazanzieno, fino
alle punizioni contro le “donnette” che si danno ai “barbarici clamori” operate
nel ‘500 e nel ‘600, in cui si nobilita il dolore composto e si redarguisce il
lamento ostentato (De Martino 2013, 147-152). A questo proposito non si può non
pensare alla compostezza del dolore di Maria come leit-motiv di molte
rappresentazioni pittoriche.
[vi] Rispetto a Gramsci, De Martino estende la riflessione sul confronto tra
culture egemoni e culture subalterne ai Paesi extra-europei colonizzati dalle
potenze europee, anche avvicinandosi allo studio dei culti millenaristici. “In
tal modo si è venuta raccorciando la distanza che separava le forme culturali
subalterne interne alla civiltà occidentale e le culture indigene dell’epoca
coloniale: la differenza tra le une e le altre appare sempre più esser di misura
e non di qualità, e sempre meno appare giustificabile una distinzione rigorosa
dell’oggetto della etnologia da quello delle tradizioni popolari, poiché in
entrambi i casi stanno davanti a noi sincretismi interculturali, rapporti tra
livelli diversi di cultura, dinamiche messe in movimento da questi rapporti” (De
Martino 2019, 322).
[vii] Dal 1945 De Martino operò come segretario di federazione del Partito
socialista a Bari, Molfetta e Lecce; l’anno dopo si iscrive al Partito comunista
italiano, in cui viene ufficialmente ammesso nel 1953.
[viii] Alvaro Badiali fu attivo nella 28° Brigata Gordini Garibaldi a Cotignola
(Ravenna). Rappresentò il PSI nel CLN locale (fonte:
storiaememoriadibologna.it).
[ix] Il racconto “I Trenta di Masiera” è disponibile sul blog dell’antropologo
Riccardo Ciavolella “Alterpolitica” (hypotheses.org).
[x] Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo inaugurò la celebre
“Collana viola”, Collezione di studi etnologici, religiosi e psicologici di
Einaudi, creata da De Martino stesso e Cesare Pavese, importante contributo per
l’apertura della cultura italiana a temi e lavori internazionali di
antropologia, sociologia e psicanalisi. Nella stessa Collana furono pubblicati,
tra altri, Jung, Lévi-Bruhl, Kérény, Propp, Malinowski, Frobenius, Frazer,
Durkheim, Eliade.
[xi] Il confronto tra Ernesto De Martino e i suoi maestri, Adolfo Omodeo e
Benedetto Croce, fu travagliato e non privo di ambiguità rispetto a quelle
posizioni etnocentriche da cui il primo voleva distaccarsi. Semplificando
estremamente potremmo dire che De Martino, per una parte della sua ricerca, si
distingue dal pensiero di Croce nella misura in cui quest’ultimo considera la
magia una superstizione fuori dalla storia, ossia dal libero arbitrio e dalle
scelte individuali che fanno la storia, e la follia come un spazio senza storia
né prospettiva storica. Per un’analisi sfumata delle posizioni di Croce e De
Martino si veda Dei e Fanelli 2015.
[xii] Tra il 1949 e il 1950, Ernesto De Martino effettua tre soggiorni à
Tricarico, ospite, insieme a Vittoria De Palma, del sindaco e poeta Rocco
Scotellaro. Ci tornerà nel giugno 1952 per una missione di preparazione del
soggiorno di ricerca dell’autunno dello stesso anno, insieme, oltre che a
Vittoria De Palma, a Benedetto Benedetti e Arturo Zavattini.
[xiii] Prima pubblicazione: De Martino 1950. “Note Lucane”, Società, VI (4),
650-667. La rivista Società era stata creata nel 1945 dall’archeologo Ranuccio
Bianchi Bandinelli e dal filosofo Cesare Luporini come voce del PCI. Nel 1953
verrà avviata da Alberto Moravia e Alberto Carocci la rivista Nuovi Argomenti,
che nel primo numero accoglierà diversi testi di Francesca Armento, madre di
Rocco Scotellaro. Queste iniziative editoriali daranno un forte impulso al
dibattito sul folklore che, nutrito dall’opera di Gramsci e dalla pubblicazione
di Cristo si è fermato ad Eboli, non avrà pari in Europa in quel periodo
(Charuty 2009, 22).
[xiv] Sul carteggio tra Ernesto De Martino e Alberto Cirese, si veda Fanelli
2019.
[xv] I Sassi vennero sgomberati su iniziativa di Alcide De Gasperi con la legge
619 del 17 maggio 1952.
[xvi] Tra gli anni ’50 e ’60 per la prima volta in Italia il numero degli
operai superò quello degli agricoltori.
[xvii] Qui De Martino riprende una famosa rima rabatana contro gli
intellettuali, identificati soprattutto con i politici e il clero: “Voi che fate
l’intelligente/non capite proprio niente./Se nun fusse pe’ li cafoni/ve
mangiassive li cuglioni”.
[xviii] Per la sintesi di alcuni elementi che caratterizzano il tarantismo
“agito” analizzato da De Martino, si veda Panella 2022.
[xix] Il passo è tratto dall’appendice V, l’ultimo contributo del volume.
L'articolo “La mia anima è ormai un oceano in tempesta”. In ricordo di Ernesto
De Martino proviene da Pangea.
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Firenze, settembre 2018. il bibliotecario della Marucelliana posa il volume su
un leggio e si allontana con discrezione.cancellature, singole parole,
riscritture formicolano sopra le righe. guardo. guardo e basta, se tocco, tutto
scompare. sono rimasta a lungo su quei primi versi. simili al suo Libro ma
diversi. diversi. il titolo scritto a caratteri più minuti del testo:
“Cinematografia sentimentale”, “La notte mistica dell’amore e del dolore”. poi,
per tutto, fu semplicemente La Notte. non era il Libro. l’uomo non era,
esattamente, lo stesso. contemplando quel supporto pulito pensai a quante volte
Dino fosse entrato in una biblioteca, da anonimo. anonima la sua lungimiranza
nel consultare testi che ancora nessuno in Italia aveva notato. anonimo perché
già oltre. il volume sul leggio si intitolava Il più lungo giorno. l’amico Dino
Castrovilli quella mattina mi aveva detto: “ho una sorpresa per te”. così è
stato, che gliene sia sempre grata. incontrare quella rilegatura così gracile
dopo avere sognato un libro immenso. guardo e penso che tutta la vita di Dino
Campana è stata il più lungo giorno “ne la luce catastrofica”: ogni giorno
l’attesa vitale, urgente. ne la luce catastrofica. queste quattro parole mi
rotolano davanti tra le righe, tra tante altre, impigliate ad altre, ognuna
definitiva, visione autonoma. continuo a guardare. accanto a “stanza” Dino
scrive “piena di sogni”. sopra “scheletrico”, “vulcanizzato”. così apparivano le
coste antracite dei suoi Appennini. in alcuni casi, frasi accavallate: “e nella
vita stellare dello specchio un ricordo d’antica sera d’amore di viola”, segni
in schegge. mentre scrivo ho vicino a me la versione anastatica de Il più lungo
giorno di Vallecchi, la ‘realtà’ di quello che resta. ripenso a quei giorni come
a un sogno fugato.
devo iniziare. mi viene ‘ordine’. la parola che sale per prima percorrendo
questo magnificente lavoro di Gianni Turchetta, atto d’amore. fare ordine,
innanzi tutto. riconoscere la volontà di Dino Campana di affermare un talento
che sapeva, rivendicava, e ribadiva con uno studio continuo rimasto nella
maggior parte della critica sotto traccia, offuscato dalle diagnosi di
nevrastenia, dalle boutades dei momenti di corto circuito, dai pregiudizi di chi
vide in tutte quelle cancellature e riscritture un segno di confusione invece di
un intento lucido di rileggere le varie versioni di uno stesso testo e scegliere
quella che sembrasse migliore, come farebbe ogni scrittore. lineare nel proporsi
al mondo da poeta, tessitore di sogni, di connessioni inesplorate, creatività
pulita. nettarlo dallo stereotipo del matto talentuoso ma caotico, capace di
fulgori ma arronzone, scarpone indesiderato dei piccoli Olimpi letterari.
restituirgli un disegno personale, anche se offeso dal travaglio, e forse per
questo più assetato. l’ordine di Gianni Turchetta si manifesta già nella sezione
introduttiva, L’eterno ritorno dell’immagine e la resistenza della
poesia (Turchetta 2024, XI-CVIII)[i], che in esergo riporta come una
dichiarazione di intenti una frase di Michel Foucault: “dove c’è l’opera non c’è
follia” (da Storia della follia nell’età classica).
questo saggio di apertura è un attento lavoro filologico che mostra con
implacabile affetto verso l’essere umano che Turchetta segue da 40 anni,
attraverso alcuni elementi cardinali, l’intento costruttivo del Poeta rispetto
alla sua esperienza di studio della letteratura e della filosofia, in
particolare tedesca, inglese e belgo-francese, e questo attraverso una reiterata
frequentazione delle biblioteche, suggerendo spostamenti mirati che contestano
l’immagine di un dromopatico che si sarebbe trovato per caso, nel suo moto
perpetuo, anche in una biblioteca. le sedute di studio sono volute, nella
coscienza piena che il suo destino di poeta e letterato fosse stato deviato
dalla volontà della famiglia di farne un farmacista. già la scelta del
titolo, Canti Orfici è un manifesto identitario, una “posture visionnaire”
(Claudel in Turchetta 2024, XXXIX) che vuole discostarsi dal mito orfico
dell’Antichità o dell’Occultismo. l’Orfismo di Dino Campana rivendica il
concetto stesso di arte in quanto “mito della magia dell’artista, del suo
disperato immergersi nei ciechi abissi del cuore e dell’universo, e della sua
speranza e del suo bisogno di farne ritorno per raccontare a tutti il suo
viaggio” (Segal, Ibidem). Orfeo incarna la poesia che può vincere la morte, una
connotazione che Dino attribuisce a Faust, “alter ego del poeta” (XL). l’omaggio
alla poesia si sviluppa attorno a una tensione costruttiva, a un meccano
circolare in cui si alternano i temi della ripetizione e del ritorno, scrive
Turchetta, che nei testi del Quaderno, precedenti i Canti Orfici, si reiterano
attorno a un femmineo che non concerne soltanto la figura della donna ma diventa
uno sguardo sensibile che permea anche il paesaggio: la notte, la montagna,
l’acqua, le navi, la città (XCII). tutto è animato da un fremito cosmico: “Odore
amaro d’alloro ventava sordo dall’alto/Attorno al bianco chiostro sepolcrale:/
Ma bella come te, battello bruciato tra l’alto/ Soffio glorioso del ricordo,
gridai o città,/ (Quaderno, “Oscar Wilde a S. Miniato”, 158). e ancora: “Nave
che soffri e vegli/ Coll’occhio disumano/ E al destino lontano/ Sempre sopra del
vano/ Ondeggiare tu pensi/ E m’arde e m’arde il cuore/ Nella notte serena/
(testo 38, senza titolo). la nave come creatura senziente, quasi che
quell’“occhio disumano” fosse quello di un pesce e che l’ondeggiamento, più che
il beccheggio della prua, un respiro di branchie. rispetto alla figura della
donna, è evidente, scrive Turchetta, una continua oscillazione tra incontro e
perdita, un sentimento d’amore che si tempra e trova le sue note più alte
nell’assenza dell’amata. una volontà di strutturazione, scrive l’autore, si
evince anche dal riequilibrio del rapporto tra versi e prose, che nei Canti
Orfici sono rispettivamente 15 e 14, contro il rapporto di 14 a 4 ne Il più
lungo giorno. e allo stesso tempo questa tensione alla costruzione di
un opus unitario procede per lacerti, correzioni, rimandi, ritorni. Turchetta
espone quasi chirurgicamente il cantiere della costruzione poetica campaniana:
dopo l’Introduzione e la Cronologia, propone una vivida “Nota all’edizione” in
cui esplicita la struttura del volume, organizzato in quattro parti principali
(“macro-sezioni”): la prima dedicata ai Canti Orfici, le due successive ai testi
a stampa e manoscritti che hanno preceduto e seguito il Libro e la quarta alle
Lettere. qui l’autore esplicita il suo intento di far affiorare l’ordine
dell’immenso lavoro di scrittura e riscrittura di Dino Campana, una “tensione
verso la verità” (CXCIII) irraggiungibile per definizione ma continuamente
reiterata, elemento principe della dignità del lavoro campaniano, sia di quello
concepito come privato, come nel caso del Taccuinetto faentino, del Fascicolo
marradese inedito e del Taccuino Mattacotta, che di quello destinato a un
pubblico, come Il più lungo giorno e le Carte Bandini.
porre come primo documento i Canti Orfici, il cui commento è “intenzionalmente
ampio” (CXCVII) è una scelta assertiva, a dire che dopo infiniti giri attorno al
sole, rovinose cadute, perdite e smarrimenti questo è ciò che doveva rimanere.
un’alternativa sarebbe stata ordinare il materiale secondo un ordine cronologico
ma mettendo i Canti Orfici in prima posizione si vuole ribadire un pieno diritto
di presenza, umana e poetica. scemati i giudizi, i conflitti,
l’incomunicabilità, lo sperdimento, resta l’opera, l’unico Libro, anima salva.
là dove tutto era sembrato perso, mancato, l’opera è salvezza, senso di una
vita. nelle note all’unico Libro (853-1139), eroiche, si sente la meticolosità
di un affetto profondo e sedimentato, un dialogo intimo da cui affiora chiara
l’intenzione di riscattare un uomo ma soprattutto un immenso magmatico poeta.
solo per citare qualche esempio, apprendiamo che l’edizione dei Canti
Orfici proposta è quella che Dino Campana considerava, parlando dell’edizione
Vallecchi del ’28, l’editio princeps, corretta “sul testo di Marradi e delle
riviste che stamparono i miei versi per la prima volta” (853). le dimensioni del
volume 19,5×12,5 sono indicative perché si riscontrano almeno due diverse
partite di carta. informazioni dettagliate riguardano il corpo dei caratteri (10
per la poesia, 12 per la prosa), il numero di esemplari giunti a noi (Roberto
Maini ne avrebbe recensiti 111 cui se ne sono aggiunti nove), forniti o privi di
dedica, la menzione della qualità e del formato della carta, le differenze
riscontrate, dovute a correzioni effettuate sui piombi, segnano passo dopo passo
la qualità dell’analisi filologica dell’autore. egli menziona anche “l’unico,
prezioso reperto del processo di stampa della princeps” (855): le “bozze”
appartenute a Paolo Toschi, che incontrò per la prima volta Dino Campana “una
sera d’estate, a Marradi, in una stanza bassa e soffocante di una piccola
trattoria, negl’anni sereni in cui s’andava addensando il turbine della guerra:
e mi sembrò d’ascoltare una novella di Edgardo Poe”. in un’altra occasione,
nell’estate del ’14, il Poeta gli disse: “Voglio che lo legga anche Lei, il mio
volume: non posso regalargliene una copia, ma Le darò le bozze […] E oggi –
scrisse Toschi – sfoglio quelle bozze segnate di correzioni a lapis copiativo e
a penna, grosse come se fossero scritte con un fiammifero” (Ibidem). malgrado la
stima sincera che Toschi nutrì per la poesia di Dino Campana (“Fra molte cose
illogiche o non completamente realizzate, ma sempre lampeggianti di sprazzi di
poesia, trovo alcune pagine limpide, espressive di tale evidenza e poeticità
quale è raro trovare anche fra i più bravi scrittori d’oggi”), si può immaginare
che molte delle espressioni colorite che usò per descrivere l’uomo andarono a
innaffiare il mito del matto, riportando con dovizia di particolari alcune
imprese occorse per strada o nelle trattorie. “Tale vita avventurosa e
fantastica io l’ho sentita raccontare da lui stesso una sera d’estate” (Toschi
1926). A questo potremmo aggiungere la materialità dei verbali di “Pubblica
Sicurezza” e delle reiterate diagnosi e descrizioni sintomatiche, tra cui la
“Modula informativa per l’ammissione dei mentecatti nel manicomio di Firenze, 9
aprile 1909”, firmate negli anni da dottori e specialisti ai fini dei diversi
ricoveri psichiatrici. a volte sono i Carabinieri stessi a farsi medici: “segni
di pazzia furiosa […] essendo il Campana riconosciuto per matto furioso dal
Dottor condotto del luogo (“legione Territoriale dei Carabinieri Reali di
Firenze, 8 aprile 1909) (CXXXIX). già tre anni prima la Questura di Firenze
l’aveva definito “squilibrato di mente” (CXXV), avviando la catena del profilo
criminogeno ed entrando in sinergia con le diagnosi patogene degli specialisti
che sarebbero seguite e che avrebbero condotto Dino al manicomio di Imola il 5
settembre 1906 a seguito dell’“ordinanza” che attestava la sua “alienazione
mentale” (CXXXI). “il soggiorno nel manicomio di Imola era avvenuto – scrive lo
psichiatra Carlo Pariani – ‘non perché fosse malato di mente ma perché lo
volevano matto per forza’” (Pariani 2002, 21). appare oggi surreale che la
diagnosi che ha sentenziato l’entrata di Dino in manicomio è di “demenza
precoce?” con il punto interrogativo (Idem) e che tra le patologie, che
diventano voci di crimine, risulti anche l’uso di caffè “del quale è avidissimo
e ne fa un abuso eccezionalissimo” (Ibidem). il peccato di avidità fa la colpa,
la frequenza, la malattia. ugualmente vago è il certificato stilato dal Dott.
Cuylitis presso quella che era all’epoca la Maison de santé Saint- Bernard di
Tournay (attuale Tournai, in Belgio), il quale certifica, tra la fine del 1909 e
l’inizio del 1910, di aver personalmente “visto, esplorato e interrogato Campana
Decio (sic) “colpito da una malattia che si caratterizza con i sintomi seguenti:
“tendenza alla pigrizia (?)”, “al caffè”, “alcolismo” (CXLI)[ii]. a Tournai,
dopo aver passato due mesi nella prigione di Saint Gilles, a Bruxelles, Dino
avrebbe incontrato Il Russo, alter ego, scrive Turchetta, dell’“io poetico”,
opposto e complementare a Regolo; il primo vittima del sistema repressivo
pubblico, il secondo, alter ego vincente. eppure Il Russo incarna il sentimento
di persecuzione della poesia, quindi del “boy” innocente e, come in un gioco di
specchi, di Dino Campana stesso (1077). ne è prova anche l’errore, forse non
così casuale, nella traduzione dell’epigrafe da Whitman che chiude i Canti
Orfici, dove Dino ha tradotto: “Erano tutti stracciati e coperti del sangue del
fanciullo” quando l’originale in inglese recita: “I tre erano tutti stracciati e
coperti del sangue del fanciullo”, come a sottolineare la persecuzione di cui si
sentiva vittima, soprattutto da parte di Papini e Soffici. un’ interpretazione
complementare vede i versi di Dino Campana ispirati anche dalle Georgiche di
Virgilio nel passo in cui si narra dell’uccisione di Orfeo da parte delle donne
dei Ciconi, Georgiche che avrebbero avuto un ruolo importante nella diffusione
dei mito di Orfeo. allo stesso tempo, la diffidenza del Poeta verso la forza
pubblica andrà di pari passo con la necessità di trovare ancor più che un
equilibrio un ordine, manifesto d’altronde nell’intenzione di frequentare la
Scuola Ufficiali e poi di entrare in Polizia.
le Note ai Canti Orfici sono un lavoro di alta oreficeria, con infiniti spunti
di riflessione e approfondimento. soltanto per citare un esempio, La Notte,
Turchetta sottolinea come essa designi un percorso iniziatico dove si sentono
gli influssi degli Inni alla Notte di Novalis nella misura in cui il buio
notturno rappresenta il tempo della rivelazione e della verità “che la luce del
giorno nasconde”: “E la notte fu il grembo possente/delle rivelazioni – là
tornarono gli dei” (869). a questo elemento si intreccia “l’assoluta centralità
del tema dell’amore” (Ibidem) incarnato dall’incontro con la donna. amore,
scrive Gianni Turchetta, che dal singolo individuo passa a una verità cosmica,
in un contesto di sacralità laica. speculum ne è per l’autore La Verna, seconda
lunga prosa dei Canti Orfici. là dove ne La Notte si intravede l’ombra del V
canto dell’Inferno dantesco, la Lussuria, La Verna fa da contraltare, con i suoi
riferimenti a San Francesco e gli scenari all’aperto che implicano “ascesa” e
“purezza”, “pellegrinaggio da espiazione” (Ibidem). a giusto titolo Turchetta
esplicita il carattere altamente cinematografico de La Notte al fine di rompere
l’andamento cronologico e intesserlo di scorci, flashback e paesaggi onirici.
tutto per restituire, fondamentalmente, la dimensione di un viaggio
introspettivo che solo in questo modo avrebbe potuto accogliere l’immensità
dell’esperienza d’amore che attraverso la grazia della poesia si fa stato
d’amore universale. in questo senso, aggiungo, torniamo, anche se in una
declinazione laica, all’esplicitazione dell’intento di luce e amore del viaggio
dichiarato nel Paradiso: “poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte/ sembianze
femmi perch’io spandessi/ l’acqua di fuor del mio interno fronte. ‘La Grazia che
mi dà ch’io mi confessi’/ comincia’ io ‘da l’alto primopilo,/ faccia li miei
concetti bene espressi’”[iii].
*
la seconda parte del volume, Prima dei “Canti Orfici”, raccoglie diverse
sezioni[iv]. la prima, “Testi pubblicati da Campana”, conta tre scritti poi
rielaborati nel Libro: “Montagna – La Chimera”, “LE CAFARD (Nostalgia del
viaggio)” e “DUALISMO – Ricordi di un vagabondo. Lettera aperta a Manuelita
Tchegarray”. segue il Quaderno, ritrovato dal fratello di Dino, Manlio,
consegnato a Enrico Falqui, che nel 1942 ne curò la pubblicazione di cinque
pagine per l’editore Vallecchi nel volume Inediti di Dino Campana.questa sezione
raccoglie la totalità dei testi del Quaderno, 42, di cui 15 senza titolo.
Silvano Salvadori aveva già scritto, nel suo saggio sul Quaderno, di un afflato
universale del quotidiano. segue una breve sezione di tre “Testi contenuti nelle
lettere”, poesie, scrive Turchetta, che Dino Campana copia in una lettera
destinata ai periodici “La Lettura” e “Corriere della Domenica” (Lettera 4,
febbraio 1912), prima di arrivare al Taccuinetto faentino, acquistato in una
cartoleria di Faenza, “del tipo di quelli sui quali i clienti si fanno segnare
dal bottegaio i debiti della spesa giornaliera”, scrive Domenico De Robertis
nella Nota al Testo dell’edizione Vallecchi. un “quadernuccio” che “non ha un
principio e neppure una fine – nel senso che, essendo scritto nei due versi,
comincia senza terminare e l’uno s’intreccia e si confonde con l’altro”,
scriverà Falqui nell’introduzione all’edizione Vallecchi del 1960. quest’ultimo
si preoccupa dell’immagine da “scartafaccio” dell’opera, composta da testi
scritti in momenti diversi, forse già dal 1912 (1227), che si dipanano in
verticale e in orizzontale, a penna e a lapis, come aveva già sottolineato De
Robertis. e malgrado questo, Falqui sottolinea l’intento preparatorio di Dino,
in vista dei Canti Orfici, in cui farà confluire nove testi del Taccuinetto, che
attraverso quest’ultimo ci fa capire “quanto lungo e minuzioso e accanito e
cosciente sia stato il lavoro di Campana, […] quasi che chieda e cerchi e
aspetti e aneli di trovare e godere presso di noi il perfezionamento ideale”.
dopo il Taccuinetto Turchetta pone le Carte Ravagli con il “Fascicolo
marradese”, donato da Manlio Campana a Federico Ravagli, da questi pubblicato
tra il 1950 e il 1951 su Portici, e le Carte Bejor, che Turchetta restituisce
attraverso non il volumetto di Bejor ma dal volume del ‘42 di Ravagli. segue Il
più lungo giorno. Turchetta sottolinea come il manoscritto dimostri che, anche a
riscontro degli innumerevoli rimaneggiamenti, riscritture e sovrapposizioni dei
testi campaniani in nome di una poesia del movimento, i Canti Orfici non furono
una copia del primo manoscritto; al contrario, l’autore attesta l’esistenza di
un “antigrafo comune a PLG e a CO, da cui sarebbero stati copiati entrambi”
(1261). contrariamente alla credenza che il supporto cartaceo del manoscritto
fosse di poco conto, Turchetta ricorda che Dino Campana si avvalse di un “antico
volumetto rimasto bianco, trovato chissà dove, la cui composizione si può far
risalire alla prima metà del secolo XVIII” (De Robertis, Ibidem). le note
dell’autore alla sezione de Il più lungo giorno (1259-1293) sono di estremo
interesse: egli afferma che, per la presenza di inesattezze e irregolarità, il
manoscritto è probabilmente la riscrittura di un testo antigrafo; dubita
dell’affermazione, ormai radicata, che Il più lungo giorno costituisca due terzi
dei Canti Orfici, come affermato da De Robertis, e mostra dettagliatamente come
questo manoscritto che anticipa il Libro sia fondamentalmente provvisorio nelle
sue parti, tale da non poter costituire un’opera compatta sovrapponibile per i
suoi due terzi all’Opera. secondo l’autore, benché il manoscritto non fosse allo
stadio di appunti personali, Dino Campana non avrebbe mai consegnato a una
tipografia il testo de Il più lungo giorno nella forma in cui lo aveva redatto.
e se Papini e Soffici avessero accettato il manoscritto egli vi avrebbe
certamente apportato cambiamenti. quindi, anche per l’evidente sviluppo dei
testi campaniani pubblicati come “Autografi lacerbiani”, consegnati
probabilmente insieme a Il più lungo giorno e per la presenza di pagine vuote,
quest’ultimo non può essere considerato ‘il Libro’ di Campana (1263-65).
le Carte Papini contano due fascicoli con quattro testi nuovi rispetto a Il più
lungo giorno che confluiranno nei Canti: “Il Russo (storia vera)”, “(Crepuscolo
mediterraneo”), “Dualismo (Lettera aperta a Manuelita Etchegarray)” e “Pampa”.
probabilmente i testi consegnati a Papini erano più numerosi, visto che Campana
aveva consegnato altri testi per Lacerba insieme a Il più lungo giorno (1294).
in ogni modo emerge l’evidenza di una stesura di gran parte dei Canti
Orfici precedente la consegna de Il più lungo giorno, che nel suo insieme appare
ponderata, lontana dall’ipotesi diffusa di una ricostruzione frettolosa a
memoria. le Carte Bandini testimoniano una cura per la comprensibilità della
redazione, evidente nelle numerose rifiniture delle lettere, come se i testi
fossero destinati a ipotetici lettori. è interessante notare, scrive Turchetta,
che la sequenza dei Notturni combacia quasi interamente con la versione
dei Canti Orfici mentre altri testi presentano delle varianti, attestando un
percorso che va dagli “avantesti” de Il più lungo giorno alle diverse versioni
dei Canti Orfici, “elaborando i testi nelle direzioni di addensamento semantico
e di esasperazione iterativa che meglio caratterizzano il suo stile” (1303).
seguono Altri inediti, di influenza nietzschiana e baudelairiana, in parte
consegnati a Enrico Falqui dai parenti di Dino Campana. la parte Dopo i “Canti
Orfici” riprende “Versi e prose sparsi”, testi pubblicati tra il novembre 1914 e
il maggio 2016, tra cui tre prose estratte dai Canti Orfici. gli altri testi
verranno pubblicati nel 1928 da Attilio Vallecchi nella sezione “Inediti” del
volume Liriche. essi testimoniano la nuova direzione della scrittura campaniana,
sempre più orientata su un’integrazione tra poesia e pittura, e indicano la
volontà di Dino di arrivare a una seconda edizione del Libro, forse rivolgendosi
a un altro editore. alla luce di questo progetto di riedizione in vista di
un’ulteriore piallatura dei testi potrebbero essere lette anche le reiterate
pressioni, nel 1916, su Papini e Soffici affinché restituissero il manoscritto
de Il più lungo giorno. ne è prova una lettera in cui Emilio Cecchi nel maggio
1916 suggerisce a Dino Campana lo Studio Editoriale Lombardo per far “rivivere
il libro in un’edizione bella, corretta, etc con unite Olimpia, Toscanità e le
altre cose nuove” (1323). è evidente che questa fase in nuce della creazione
campaniana procedeva intrecciata al difficile percorso personale del Poeta,
evidente dal tenore delle Lettere: “Scrivere non posso, i miei nervi non lo
tollerano più, per ora”, confida all’amico Mario Novaro nell’aprile del
1916 (CLXVIII; 601). in questa fase di “sofferta monotonia” la mattina del 3
agosto 1916 Dino incontra per la prima volta, a Barco nel Mugello, Sibilla
Aleramo. a lei sono destinati alcuni dei Versi sparsi, testi scritti a mano
negli spazi liberi di alcune copie del Libro donate o vendute agli amici, tra
cui appunto Aleramo, Bejor, Cecchi e Ravagli. lungi dall’essere il risultato di
una mania correttiva, questi testi, scrive Turchetta, testimoniano di una
coerenza stilistica che Dino Campana voleva imprimere alla sua opera in vista di
una riedizione. ne è prova il fatto che quando Cecchi propone di far confluire
nella futura edizione una selezione dei Canti Orfici più “le ultime cose”, egli
risponde che sarebbe “la cosa più dolorosa che si potesse fare” (1323) a
testimonianza del fatto che considerava le sfumature apportate attraverso la
limatura o l’aggiunta di testi nuovi come parte integrante di un unico disegno
poetico del Libro. tra i Versi sparsi spicca “Arabesco-Olimpia”, che Turchetta
considera, “un arabesco sonoro”, per le fitte corrispondenze fonetiche e la
presenza di “colorismo”, “un testo capitale non solo di questa fase, ma di tutta
la produzione campaniana” (1326)[v]:
> Oro, farfalla, dorata polverosa perché sono spuntati i fiori del cardo? In un
> tramonto di torricelle rosse perchè pensavo ad Olimpia che aveva i denti di
> perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù? Dei fiori bianchi e
> rossi sul muro sono fioriti. Perchè si rivela un viso, c’è come un peso
> sconosciuto sull’acqua corrente la cicala che canta.
il Taccuino Mattacotta, che segue i Versi sparsi, è un “quaderno di lavoro”, che
consiste nel “fare e rifare un numero relativamente limitato di componimenti”
in italiano, inglese e francese, avendo Dino riscritto, soprattutto a matita
copiativa e a penna a inchiostro nero, sulle stesse pagine da due a quattro
volte, databile tra gli ultimi mesi del 1914 e l’estate del 1916 (1341-1343).
il Taccuino fu donato a Sibilla Aleramo che in seguito l’avrebbe donato a Franco
Mattacotta durante la loro relazione.
> I announce the justification
> of candour and the
> justification of pride
> (se devo annunciar qualche
> cosa)
nella sezione Altri manoscritti, sono riunite le “Carte
Aleramo-Gallo-Mattacotta”, il “Manoscritto Orlandi”, le “Carte Gallo”, le “Carte
Novaro-Falqui” e “Poesie per Sibilla Aleramo”. nel primo fascicolo appare il
luminoso frammento L’infanzia nasce, che Turchetta attribuisce, benché non sia
autografo, a una sorta di testamento spirituale:
> L’infanzia nasce da un ritorno di se stessi giacchè in uno strano eco
> s’immobilizza e s’allontana dai giorni: anzi nasce proprio da una cosa
> “specchiata” con le ridenti spighe gialle e con i campanili: conoscenza eterna
> (di poco tempo) e sempre a sapersi da un tempo infinito come a stare sempre
> sulla riva del giorno.
nelle “Carte Gallo” affiora Giulietta e Romeo, un testo spedito a Sibilla
Aleramo a metà dicembre del 1916, forse uno dei “biglietti cinici” di cui
Sibilla dice a Leonetta Pieraccini, moglie di Emilio Cecchi. a Niccolò Gallo,
scrive Turchetta, si deve la prima edizione, nel 1958, del carteggio tra Sibilla
Aleramo e Dino Campana. qui torna il tema reiterato dell’innocenza: “e infine
della/lotta delle passioni/il trionfo dell’innocenza/, quasi a sottolineare il
baratro tra il cuore intatto del Poeta e le intemperie che lo colpiscono.
Turchetta propone una grafia emotiva, evidente nel “disordine convulso della
scrittura” (1369), in cui coabitano aggressività e pentimento. segue “Poesie per
Sibilla Aleramo”, testi iconici della poesia campaniana dove la rabbia sfuma nel
passo che incede del ricordo, nella dolce ripetizione che fissa l’eterno:
> Più pura nell’azzurro è la luce d’argento
> Più bella la tua figura.
> Più bella la luce d’argento nell’ombra degli archi
> Più bella della bionda Cerere la tua figura
nella sezione seguente, Altri testi, sono raccolte due delle quattro prove
d’esame per docente in Lingue straniere che Dino affrontò, senza successo,
nell’aprile del 1911 presso l’Istituto di Studi Superiori di Firenze. si tratta
del tema di italiano, “A zonzo per Firenze” e della redazione in francese, “Le
repentir”, da cui traspaiono, malgrado siano state redatte in un frangente
particolare e con un tempo limitato a disposizione, tòpoi familiari all’opera
campaniana, tra cui l’attenzione al paesaggio. le quattro “Traduzioni” che
seguono, da Verlaine, Ward Howe, Goethe e Heine, sono solo una parte del lavoro
effettuato da Dino Campana su testi stranieri.
*
Cercavo idealmente una patria non avendone
l’ultima parte del Meridiano è dedicata alle 290 Lettere 1903-1931, di cui la
maggior parte scritte tra il 1915 e il 1917. come nota Gianni Turchetta si
attesta una grande differenza tra il numero di lettere che precede i Canti
Orfici e quello che segue il Libro. la Lettera 7 indirizzata a Giuseppe
Prezzolini (6 gennaio 1914) riporta una versione de “La Chimera” molto vicina a
quella dei Canti Orfici. lo stesso è per una versione dei “Notturni” che appare
nella Lettera 13, destinata a Luigi Bandini. il lavoro di ricerca sulle Lettere
non è esaustivo. Turchetta ci dice, ad esempio, che ne mancano molte inviate
all’amico Mario Novaro (“siamo un po’ fratelli, non è vero?”, Lettera 93, aprile
1916) e a Sbarbaro. una recente pubblicazione a cura di Costanza Geldes da
Filicaia e Marcello Verdenelli rivela che Alessandro Pavolini avrebbe continuato
a scrivere a Dino Campana anche dopo l’internamento a Castel Pulci, stemperando,
seppure con cautela, l’immagine di una solitudine totale del Poeta durante i 14
anni in manicomio. le Lettere sono forse il contributo d’affetto per Dino
Campana più evidente dell’alacre lavoro di Gianni Turchetta, che rispetto alle
edizioni precedenti elimina la separazione tra la corrispondenza con Sibilla
Aleramo e le altre. qui lo studioso si fa da parte, e mentre egli tace la vita
di Dino si dipana, affiora il bisogno di essere riconosciuto, di percepirsi,
scrive Turchetta, attraverso lo sguardo degli altri. tra le epistole più
toccanti ci sono certamente quelle scambiate con Sibilla. l’abisso di una
passione limpida mista a rovina, “il cupo bagliore del miracolo”, scrive la
scrittrice al suo Dino “fatto per il sole”, coagulando forse un’intuizione[vi].
la reiterazione implacabile tra speranza e delusione, ira e dolcezza. due cuori
bambini che la vita ha portato lontani l’uno dall’altro. il continuo tentativo
di farsi capire votato all’incomprensione, la solitudine infera per un disamore
subίto che Dino sentiva destinale, ferita di abbandono che a sua volta diventa
lama acuminata che giudica e abbandona.
> Pensa che per vivere l’assurdità del nostro amore hai bisogno di tutta la tua
> grazia […]. Tu ora mi conosci e potremmo abitare lontani se non mi abbandoni
> col pensiero[vii].
eppure forse il dolore più cupo, l’affanno più lancinante di questa continua
ricerca di presenza al mondo affiora dalle lettere mandate ad amici e
intellettuali, tra cui spiccano Boine, che sente per Dino una sincera empatia:
“Ma lei dice che lo troveremo questo Iddio introvabile come una fiera che si
appiatti?” (Lettera 60, 15 novembre 1915), Novaro, Cecchi, Cardarelli, Carrà.
“Un po’ di coltura di pensiero veramente e vivamente moderno la posseggo
anch’io”, scrive il Poeta alla Direzione della rivista “La difesa dell’arte”
nell’estate del 1910 (Lettera 3). con Papini, con cui aveva ingaggiato una
tenzone a senso unico mesi prima, si firma nel dicembre 1913 “Suo uomo dei
boschi” (Lettera 6), chiedendogli di portare la sua “piena solidarietà” agli
“altri indimenticabili compagni”, compagni che certamente non avevano pensieri
per lui. Dino vuole riconoscersi altro dalla sfilata di “filibustieri”,
“bluffisti”, “nemici”, “chacals”, “mangiapane” dei circoli letterari soprattutto
fiorentini ma allo stesso tempo chiede a Mario Novaro: “Se à notizia di qualche
recensione per me la prego dirmelo” (Lettera 83, 25 febbraio 1916). alcuni
furono sinceramente toccati dall’aderenza piena alla vita di Dino. Francesco
Chiesa scrive: “Le sue parole mi commuovono e mi affliggono” (Lettera 61, 19
novembre 1915); Emilio Cecchi gli dice che le ore passate insieme erano state
“una ripresa di energia e fiducia” e si firma “aff.mo” (Lettera 84, 27 febbraio
2016). nella risposta di Dino affiora tutta la sua prostrazione per il
sentimento di incomprensione che avvertiva sia dai compaesani di Marradi, dai
quali si sentiva perseguitato “con un’infamia e una ferocia tutte
lazzaronescamente italiane e clericali” che dalle presenze immanenti di Papini e
Soffici, “ladri spie venduti e vigliacchi soprattutto” (Lettera 85, 1-2 marzo
1916). è quasi una lettera ultima in cui Dino si raccomanda affinché Cecchi non
dimentichi le ultime parole dei Canti Orfici, i versi di Whitman: They were all
torn and covered with the boy’s blood, “che sono le uniche importanti del
libro”. se è possibile che la solitudine di Dino Campana sia stata oltremodo
accentuata dalla critica, sicuramente questa lettera a Cecchi è una di quelle in
cui, forse anche a seguito delle sue condizioni fisiche e psichiche, si avverte
il senso di isolamento e di incomunicabilità: “Mi lascio vivere in un disgusto e
una noia mortale” (Lettera 88 a Cecchi, 28 marzo 1916). Cecchi appare come un
interlocutore amico, amico che cercherà di riconfortare il Poeta esprimendogli
da una parte stima e comprensione, pur avendo attraversato egli stesso “giorni
buj terribili… ore e ore di violenza e prigionia”, e consigliandogli dall’altra
di non dare troppa importanza al comportamento di Papini, di non “soffrire di
certe cose che francamente non valgono la pena per il fatto che non possono più
toccarla” (Lettera 86, 13 marzo 1916). è chiaro invece che l’indifferenza di
Papini rispetto all ‘assassinio’ di aver perso la copia de Il più lungo
giorno rimase per Dino una spina nel cuore. anche Boine registra la sua
sofferenza e a sua volta lo mette a parte delle proprie difficoltà economiche e
di salute: “Caro Campana, Le sue lettere sono sempre così dolorose! Non so mica
che cosa risponderle…Non pigli mai per inimicizia il mio silenzio: le voglio
bene, Campana, e ho grandissima stima di lei e delle sue cose [.]. Ma sono un
amico inutile. Suo Boine” (Lettera 99, 22 aprile 1916). da Margherita Carnecchia
Lewis, che lo chiama “Infelice Fratellino” (Lettera 124, 30 giugno 1916) a Emma
Cima, molti rispondono al suo disagio esistenziale, a loro volta provati da
vicissitudini personali, quasi che la sofferenza di Dino rappresentasse una
condizione umana condivisa, trascinata silenziosamente nei giorni. un diluvio
per tutti.
poi arrivò Sibilla.
*
T’ho avuto tutto nel primo sguardo, così interamente.
già nella Lettera 128 del 24 luglio 1916 si sente l’urgenza di
raccontarsi. Sibilla Aleramo va contro il galateo di ruolo dell’avvicinamento
amoroso. si muove per prima verso Dino, senza conoscerlo. cammina
nell’essenziale suo, fin dall’inizio in un’intimità spalancata, sovversiva
perché anti-strategica, aderente solo a quell’evento di piena che quattro anni
prima le aveva fatto scrivere in Corsica la sua prima poesia:
> e penserò allora a queste notti in paese straniero
> a queste luci vivide nel vento
> che volteggia dolce su le rupi,
> a questa mia anima
> che ancora una volta si risolleva,
> si risolleva avida,
> penserò a questo ch’è ancora nelle mie vene
> palpito di giovinezza,
> ardore forte
> volontà più grande d’ogni mio grande pianto,
> e stupirò allora,
> o notte di stelle, di vento, di anelito solitario[viii]
“Ho avuto la vostra cartolina, poche ore prima di partire, ieri. Adesso siamo
più vicini… Forse m’avete conosciuta in essenza, in un lampo, se v’ha toccato
qualche mio piccolo accento – e tutto il resto vi confonderà”. Lei già vicina.
si racconta tutta insieme, rotolando cose disparate, come se quel primo
riconoscimento fosse già maturo, pregno, già oltre. come se le parole dicessero
di un plurale. il giorno dopo dedica a Dino una poesia. e un giorno è un
lunghissimo tempo per chi ha capito. “Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli,/
meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo,/ liberi singhiozzando, senza
mai vederci,/ né mai saperci, con notturni occhi… Cuor selvaggio,/ musico cuore”
(Lettera 129, 25 luglio 1916). Dino le risponde in francese: “Je vois que nous
pourrons être des amis si vous le voulez…Voilà donc une âme comme il en
manque…comme il en manque…je me suis dit. – Votre première lettre était vraiment
trop belle pour moi et je me suis mis à douter, mais maintenant j’ai
compris. Pardonnez-moi” (Lettera 133, 27 luglio 1916). segue un invito a
“condividere” la sua ammirazione per la linea “severa” e “musicale” degli
Appennini, ad andare insieme a Marradi e per le montagne
circostanti. “Aimeriez-vous de vivre un peu sous la tente?… Ce qui m’a le plus
touchez a été [sic] le souvenir de votre enfance. Comme je vous aime quand vous
écrivez cela ! Je vous baise les deux mains. Votre Cloche”. Sibilla accetta
l’ironico invito in tenda parlando come si parla alla vigilia di una vita
insieme: “Mi racconterete a voce quali altri tic bisogna perdonarvi, oltre a
quelli che bisogna ignorare” (Lettera 134, 28 luglio 1916). “Si vous venez ici
je n’oublierais pas, jamais, votre grace” (Lettera 135, Campana a Aleramo, 30
luglio 1916). dopo scivolarono. nell’amore. nel buio. l’ultima lettera per Lei è
dal manicomio di San Salvi, a Firenze, anticamera del destino: “Cara, Se credi
che abbia sofferto abbastanza, sono pronto a darti quello che mi resta della mia
vita. Vieni a vedermi, ti prego tuo, Dino” (Lettera 282, 17 gennaio 1918).
Sibilla non rispose. tace, il dolore.
dopo l’ingresso al manicomio di Castel Pulci, le rare lettere, indirizzate allo
psichiatra Carlo Pariani, all’amico Bino Binazzi e al fratello Manlio, indicano
una volontà di distrazione dal mondo, cioè uno sguardo ormai orfano d’innocenza
sul mondo, in cui tuttavia soggiace uno spirito vigile: “La suggestione regna
largamente in Italia e fa ottimi affari. Io sono un solitario e non mi piace
ammetterla” (Lettera 284 a Carlo Pariani, 30 aprile 1927). e allo stesso tempo,
Pariani riporta che qualche giorno prima gli avrebbe detto: “C’è il mezzo di
ringiovanire, di rivivere; c’è la suggestione. La suggestione può influire sul
carattere, può arrestare lo sviluppo del tempo, può lasciare uno nello stato in
cui è anche sempre. Può continuargli la vita anche per cento anni, la
suggestione (Pariani 2002, 26-27). a leggere oggi la testimonianza di Pariani si
resta in silenzio. lo psichiatra costruisce sistematicamente, commento dopo
commento, il profilo psicotico di Dino Campana con deduzioni proprie: “Del
secondo colloquio si riportano le idee vane […], si trascriveranno le stoltezze
principali e così dell’ultimo, tutto insensato, per manifestare intera la
personalità patologica” (25-26), e con scambi di questo tenore: “Sarà come lei
dice, ma gli avvenimenti che narra, signor Dino, non sono credibili. Lei passa
qui il tempo senza costrutto. Si troverà vecchio col dispiacere di averlo
sciupato” (25). non sapremo mai fino a che punto Dino giocasse con Pariani allo
‘spostato’ per proteggersi da tutto questo. sappiamo quasi niente. di quanto il
pensiero di Sibilla lo accompagnò in tutti quegli anni, “nel velo attraverso il
quale tutte le cose eterne vibrano e sorridono” (Aleramo in Turchetta 2020,
395). gli ultimi giorni non sono chiari ma Gianni Turchetta esprime chiaramente
l’ipotesi, condivisa da altri, tra cui lo scrittore e psichiatra Mario Tobino,
che non sia stata l’infezione all’inguine in un tentativo di fuga a uccidere
Dino ma che si sia trattato di un tentativo di autolesionismo immediatamente
insabbiato dalla Direzione di Castel Pulci.
resta il Poeta, come indica la lapide nella chiesa di Badia a Settimo,
nascosta, sotto il pavimento della navata sinistra: “Dino Campana, poeta,
1885-1932”.
in quei giorni di settembre, qualcuno aveva portato sulla tomba dei fiori
gialli.
i viali deserti di San Salvi imbevuti di notte fresca rimandavano ombre buone,
sussurri rappacificati. non c’è più nessuno, tutto è rimasto fedele.
Cristiana Panella
*
Riferimenti bibliografici
Alighieri, D. La Divina Commedia. A cura di A. Vallone e L. Scorrano. Napoli:
Editrice Ferraro, 1987.
Campana, D. Il più lungo giorno. Riproduzione anastatica del manoscritto
ritrovato dei Canti Orfici. Archivi, Arte e cultura dell’età moderna in
collaborazione con Vallecchi editore: Roma e Firenze, 1973. Copia numerata.
Pariani, C. Vita non romanzata di Dino Campana. A cura di C. Ortesta. SE:
Milano, 2002. Titolo originale: Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e
di Evaristo Boncinelli scultore, 1938.
Sitzia, S. “Per ua nuova edizione del “Quaderno” di Campana. Testimoni e
varianti di tradizione. Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiano
Otto-Novecentesca (OBLIO), I (2-3), 2011. Testo disponibile
su https://www.campadino.it
Toschi, P. “Il Rimbaud della Romagna”, Il Resto del Carlino, Bologna, 27
novembre 1926. Testo disponibile su https://www.campadino.it
Turchetta, G. Vita oscura e luminosa di Dino Campana, poeta. Giunti/Bompiani:
Firenze e Milano, 2020.
Turchetta, G. Dino Campana. L’opera in versi e in prosa. I Meridiani. Milano:
Mondadori, 2024.
Vèroli, L. pudore selvaggio. L’estate in Corsica di Sibilla Aleramo.
Associazione Melusine e La Vita Felice: Milano, 2020.
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[i] Tranne laddove indicato, tutti i riferimenti in corpore al testo sono da
Turchetta 2024.
[ii] La traduzione dal francese è dell’autrice.
[iii] Paradiso, XXIV, 55-60.
[iv] Per una nota critica sulle prime pubblicazioni dei testi del Quaderno,
Sitzia 2011.
[v] Magistrale l’analisi dell’autore su “Arabesco-Olimpia” (Turchetta 2024,
1326-1329).
[vi] Lettera 139 di Sibilla Aleramo a Dino Campana, 6-7 agosto 1916.
[vii] Lettera 208 di Dino Campana a Sibilla Aleramo, 4 gennaio 1917.
[viii] Aleramo in Vèroli 2020, 91.
*In copertina : Max Kllinger, Una vita, 1885 ca.
L'articolo “…ne la luce catastrofica”. Attorno al Meridiano Campana di Gianni
Turchetta proviene da Pangea.