Uno sguardo profetico: “Altrove dichiara che nella storia degli uomini vi è
certamente un progresso, che ‘l’uomo è sensibilmente migliore di quanto non era
[in passato]’, ma che tutte le civiltà, ognuna a sua volta, ‘tengono nella
storia per un momento la fiaccola del progresso’, poi sono fatalmente colte
dalla decadenza e non sono più rappresentate che da ‘cari vecchi popoli’,
costretti ormai a rimettere ad altri la direzione dell’evoluzione”.
Appunti di stile: “La pittura accademica e i libri scritti nella lingua
letteraria sono incapaci di provocare l’emozione. La pittura presenta la realtà
sotto una falsa luce, la ‘luce dello studio’. E i libri utilizzano una ‘lingua
morta’, che è una falsa lingua, quella dei mandarini. Gli scrittori devono
dunque fare quel che hanno fatto i pittori della scuola impressionista. Devono
ritrovare la lingua vera, creatrice di emozione, così come i pittori hanno
ritrovato la vera luce. Ebbene, Céline è l’unico scrittore a cui sia riuscita
questa traslazione. Egli è tornato allo stile parlato e l’ha reso emotivo. La
nuova lingua della quale è l’inventore è lo stile emotivo parlato: ‘L’emozione
non si lascia captare che nel parlato… Il compito dello scrittore è quindi
semplice: si tratta di captare l’emozione del parlato e di «riprodurla»
attraverso lo scritto, al prezzo di mille sofferenze, mille pazienze che nemmeno
s’immaginano! Chiaro, eh?’”.
È in libreria Louis-Ferdinand Céline di Maurice Bardèche (ITALIA Storica
Edizioni, 2025, a cura di Andrea Lombardi, con traduzione di Moreno Marchi). A
un primo sguardo Louis-Ferdinand Céline di Maurice Bardèche parrebbe solo
l’ennesima voce in un coro già affollatissimo di biografie dedicate all’autore
di Viaggio al termine della notte: un mattone in più accatastato accanto a una
decina, forse venti, Céline che già gremiscono gli scaffali. E invece c’è un
carburante segreto che lo fa scattare avanti: una vera “complicità” – quasi una
dipendenza reciproca – fra biografo e biografato, entrambi forgiati da uno
stesso sguardo ferocemente disincantato sul mondo.
Scrivere di Céline resta un terreno minato: senti alle spalle il suo ghigno
pronto a sconfessare ogni aggettivo. È il pedaggio che ogni céliniano paga. Per
decenni lo scrittore ha incassato le interpretazioni più disparate,
dall’acrobaticamente dotto al ridicolmente balzano. Bardèche, però, non si fa
cogliere impreparato. Sa che la biografia è impastata di storia, così come la
storia scolpisce i destini individuali e collettivi. E lui, insieme a Céline,
quelle tempeste le ha attraversate in prima linea, talora fianco a fianco,
talora su fronti divergenti ma sempre dentro lo stesso turbine.
Il risultato è un corpo a corpo fra titani: da una parte uno dei narratori più
dirompenti del Novecento; dall’altra un critico-saggista tra i più acuminati,
prolifici e irrequieti della sua epoca. Ne esce un ritratto che, più che
aggiungere un altro Céline agli scaffali, costringe a riconsiderarli tutti.
Carlo Tortarolo
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Da “Louis-Ferdinand Céline”
Non avevo intenzione di scrivere un libro su Céline. Il mio progetto consisteva
nel ricercare perché, come la letteratura di narrativa avesse cessato di essere
una creazione artigianale umilmente presentata agli acquirenti, e come, perché
essa sia divenuta, per la maggioranza degli scrittori, un modo di presentarsi,
di affermarsi, insomma un esibizionismo. A ciò contribuiscono molti fattori. Non
pretendo di esporli tutti. Volevo soltanto individuare degli itinerari, cercare
di capire da qualche tipico caso, come alcuni autori fossero stati indotti a
sostituire i loro studi con un one man show, come avessero abbandonato la stessa
idea di avere uno studio, una fucina e perché, come avessero sostituito al loro
dovere professionale uno strip-tease inteso sia quale esibizione muscolare sia
quale apologia e sovente entrambe assieme. La trasformazione dello scrittore in
divo dello show-business esigeva uno studio sociologico che trovavo al di sopra
delle mie forze. Volevo limitarmi ad analizzarne tre esempi: quelli di
Jean-Jacques Rousseau, di Léon Bloy e di Céline.
Tale modesta inchiesta era quanto potevo fare.
Non conosco molto bene l’opera di Céline. Da lontano trovavo nella sua carriera
di scrittore una soddisfacente risposta alla questione postami. Egli venne
indotto all’esibizionismo dalla persecuzione. Il suo esempio fu edificante:
s’era lanciata contro di lui una muta, che lo aveva costretto a far fronte e a
difendersi, che aveva distrutto in lui lo scrittore, facendone un animale di
bosco non potendo far altro che emettere grida, malgrado lui, esibizioniste. Era
divenuto un esibizionista perché aveva dovuto giustificarsi: come Jean-Jacques,
come Léon Bloy.
Mi accorsi allora che la sua opera non era, come credevo, come molta gente
crede, un’opera autobiografica, ma che Céline era un affabulatore, il quale
aveva usato come canovaccio il proprio itinerario biografico. Più m’informavo,
più verificavo e più constatavo l’estensione dell’affabulazione. Capii che di
questa sistematica deformazione egli aveva fatto uno dei principi della sua
tecnica narrativa. Dovetti anche ammettere che era stato quell’artigiano che
speravo ritrovare nello scrittore: il suo coraggio, gli scrupoli, le infinite
correzioni, il suo accanito lavoro corrispondevano alla perfezione con la
probità da me opposta all’attrazione dell’esibizione.
Le cose non erano dunque così semplici come immaginavo. Céline era al contempo
un artigiano e una rockstar, non perché traeva i racconti dalla sua esistenza,
ma perché gridava, misurava il palco, suonando la sua selvaggia musica,
impegnando in simile denuncia della realtà ciò che di più profondo e vero era in
lui, mettendo “sul tavolo”, come diceva, “la sua pelle e le sue trippe”. Era la
definizione stessa del poeta lirico: secondo Musset, così come secondo Rimbaud o
Baudelaire. Céline finì per confessarlo.
Presentò il chiarimento scenico sullo scrittore quale un diritto, un privilegio
ed addirittura una necessità.
Mi trovai quindi davanti ad uno sconosciuto che metteva a soqquadro la mia
arbitraria classificazione. Avevo cominciato, decisi di continuare.
Davanti a questo sconosciuto provai disparati sentimenti. Era stato esaltato e
violentemente attaccato. Era stato ammirato e odiato. Tali contrasti non mi
dispiacquero. Ma più ne avevo conoscenza, più li trovavo estranei alle qualità
che amo trovare in un uomo. Mi apparve fanfarone, bugiardo, arrogante,
chiacchierone, tonitruante prima e lagnone poi. Ammirai il suo coraggio
allorquando si fece tribuno. Vedevo un intrepido volontario affrontare l’odio,
rischiare la vita. L’impetuosa carica mi fece dimenticare quanto di lui sapessi.
Mi apprestai ad ammirarlo nelle tribolazioni. Quelle da lui attraversate
rinnovarono la mia simpatia: pensai alla prigione di Tasso, alle infermità di
Cervantes. L’incontro mi deluse: lo scoprii egocentrico, ingiusto, stridulo,
vanitoso come un uccello di cortile. Cos’è uno scrittore che non accetta la
responsabilità di quel che ha scritto, quando quel che ha scritto è stato per
altri mortale? Capii che egli fu al contempo un eroe ed il suo contrario: un
irresponsabile.
Irresponsabile perché in lui è tutto contraddizione. Mescola tutto, il cinismo
che ostenta, la bontà che nasconde. È un utopista, sogna per gli uomini un
inaccessibile benessere, ma allo stesso tempo, non si fa su di loro alcuna
illusione. Il suo amore, la sua pietà vengono contraddetti ogni istante da ciò
che vede e descrive. Bugiardo quando parla, quando inventa, detesta la menzogna
degli uomini e denuncia la perpetua commedia che recitano tra loro, come
scrittore egli persegue aspramente la verità: quanto sa degli uomini, la
cattiveria, il sadismo, l’isteria, la vanità della loro vita. Tale verità, così
crudele, concreta, brutale, imbarazza, offende. E quando la si estende a tutto,
ai regimi come agli uomini, più non si vede cos’abbia di generoso: essa provoca
l’odio. Si trattava di un compito troppo arduo per lui, di un fardello che non
ha saputo portare.
A causa di questo cinismo, non solo professato, ma per così dire statutario,
tutta una parte di lui stesso non riesce a esprimersi e va indovinata. E per
attimi la s’indovina quando il suo linguaggio, quel famoso linguaggio così
osceno, così sconcio, si flette. All’improvviso la voce diviene musicale e
triste. Dietro al teppistello si avverte un’ombra, come nei Campi Elisi degli
Antichi, tendente delle braccia translucide verso i vivi in visita ai morti. È
un’apparizione, quella di un altro, di un prigioniero di colui che scriveva,
un’anima intravista che chiede di essere liberata e che vuole si sappia.
Quest’ombra è il Céline incompreso, terminante una delle sue prime interviste
con il dir degli uomini: “Ah! avessero potuto amarsi!”, esclamazione incongrua
ed enigmatica; senza commenti. Pertanto sono le parole che riprende alla fine
della sua esistenza, quando scoraggiato scrive: “La gente dice è un bruto, non è
vero, io sono tutto cuore”. Ci aveva messo vent’anni a scoprire ciò che chiamava
“il terribile pericolo dell’aver buon cuore”.
Ho voluto conservare, presentare come conclusione del mio ritratto di Céline la
sua immagine custodita da coloro che gli furono vicini, Pierre Monnier, Arletty,
Robert Poulet ed anche Barjavel: una buona fata sotto le sembianze della fata
Carabosse.
Per riconciliare i due Céline, quello che si mostrava in primo piano occupando
l’intera scena e quell’ombra che domandava giustizia sulle sponde del fiume
della morte, immaginai una spiegazione che si ponesse al centro della mia
presentazione. Punto di partenza è l’immagine che lo scrittore si fa di se
stesso e che in ogni sua opera del dopoguerra appare come un’idea fissa: tale
panoplia comprende la ferita durante il combattimento nelle Fiandre, la sua
anima di “sottuff.” effettivo, la medaglia militare, indispensabile accessorio
sovente ricordante lo sconosciuto Céline posto sotto i travestimenti di Bardamu
e di Ferdinand. Cardine di simile spiegazione è la maggiore e più determinante
crisi della sua vita, gli anni di prigione e di esilio in Danimarca e l’ingiusta
persecuzione di cui fu vittima. Questo “eroico” Céline da anni camuffato in un
Céline chiacchierone ed ingombrante è quello che un giorno ebbe l’idea di
caricarsi di una supposta missione di sacrificio al servizio degli uomini. Tale
suo periodo di vita, che i biografi attraversano in punta di piedi, è molto
interessante. Se ne scorge il vero carattere. Innanzitutto, l’ingenuità. Il
cinico, l’insubordinato si toglie la maschera: si vede comparire uno zelante, un
“fanà”, dicono i militari, un maresciallo agli alloggi che si dà volontario per
una missione pericolosa. Al contempo, l’irriflessione: “Cos’andava a fare in
quella galera?”. Al contempo, l’inesperienza. L’odio lo sorprenderà: cosa
aspettava dunque? “Forza, piccolo!”, come a undici anni quando accompagnava il
padre con un fagotto sulle spalle. Infine ne veniva fuori tutto quel che fa il
conservatore, compresa l’intransigenza, il semplicismo, la perentorietà.
Insomma, secondo me sull’autore di Viaggio al termine della notte si erano
sbagliati tutti.
In seguito, nel pericolo e nella sofferenza che sondano reni e cuori, appare un
altro uomo: quello che la sua immaginazione trasporta così come lo aveva
trasportato nella galoppata dei pamphlet. Giustamente egli ha paura, fugge, ne
ha ben ragione. Ma nel momento in cui non teme più niente, è ancora prigioniero
del panico. L’illusione della persecuzione muta le forme di ciò che lo circonda:
geme, grida, accusa in un incubo. Per giustificarsi si ripiega allora sull’idea
di essersi sacrificato, volontariamente sacrificato, che era stato l’unico ad
averlo fatto. Quindi si costruisce una propria maschera, o piuttosto si ritrova
tale era davvero, ravvivando con ostinazione l’immagine tutelare, ispiratrice
che si era fatta di sé all’epoca dei suoi pamphlet, i quali, diceva, io avevano
guidato: il valoroso combattente del 1914, glorioso ferito di guerra,
irreprensibile patriota, perseguitato da un’odiosa cospirazione, fuorviato in
un’abominevole avventura che lo altera e da cui non riesce ad estrarre la storia
di sé che vorrebbe imporre: quella di un resistente alla guerra,
all’Occupazione, che è stato deportato in Prussia e che sotto il terribile
stivale danese ha subito sofferenze sfidanti l’immaginazione.
Simile cambiamento a vista fu un po’ brutale. Céline trovava il percorso assai
semplice, logico, evidente. Nessuno condivise tale convinzione. Egli vi si
rifugiò, la mantenne per sé, senza riuscire ad imporla. Ma, per difendersi dagli
uomini, si costruì un’altra maschera, opposta alla prima. Non più il cinico, ma
il vinto, il relitto. Ha scoperto l’odio e vi risponde con l’odio, è lui ad
usare il termine. “Io sono tutto cuore”, specifica a volte l’epilogo… Non
dimentica niente. Non ha però il diritto di esprimere la sua rabbia. Si
protegge, come può, sotto il suo ultimo mascheramento, una canadese da esiliato
nel fango di baroni: diffidente, sornione, prudente, “in guardia”, come dice,
traduzione della frase di Descartes: “Larvatus prodeo”. Ed a questo punto la
trasparenza non lascia passare altro che un’immagine, la più sorprendente di
tutte, quella di un uomo che, non credendo a nulla, crede ancora al premio Nobel
e alla Pléiade.
L’immagine che Céline si faceva di sé io la credevo vera. Noi non siamo quel che
siamo, ma quel che crediamo di essere. L’ha detto Pirandello e prima di lui
Pascal. Perché non spiegarlo attraverso l’immagine che si faceva di sé? Come
ognuno di noi. Egli ha diritto ad un giusto processo. È uno da rimettersi
all’immagine che il Partito si fa obiettivamente della nostra condotta?
Si può allora dire che Céline fu uno scrittore “fascista”? Non si è
necessariamente fascisti perché si è portato un plico sotto le palle, non di più
perché si è antisemiti, in qualunque partito vi sono gli antisemiti, né perché
si è desiderata un’alleanza franco-tedesca onde assicurare un avvenire di pace.
Non è nemmeno “razzista”, in quanto la sua angoscia davanti al declino della
razza bianca non ha niente in comune con il dogma della superiorità degli
ariani, essa esprime l’ansietà dell’igienista che egli sempre fu. Con la sua
condotta, con la sua attitudine Céline è profondamente estraneo all’energia, al
rigore, alla determinazione rivendicate dai “fascisti”: ed ancor più ad una
rigidezza da loro ostentata. Lo si crede fascista a causa dei suoi pamphlet: non
lo è più di quanto non fosse comunista quando scrisse il Viaggio. Egli non è né
coerente né sistematico. Vi è in lui qualcosa di molle, a volte di debole: in
alcuni momenti fa pensare ad un ubriaco incontrato per caso e che tra i
singhiozzi ci racconta la sua storia. Essa può interessare, l’ubriaco la
sviolina abbastanza bene. Lo si può amare, ma senza illusioni. Ad ogni modo è
inclassificabile e ci s’inganna quando si pretende di appropriarsene.
Maurice Bardèche
*Per gentile concessione si pubblica un passaggio dal “Louise-Ferdinand Céline”
di Maurice Bardèche, edito da Italia Storica Edizioni, pubblicato in origine da
La Table Ronde nel 1986
L'articolo “Io sono tutto cuore”. Artigiano e rockstar, osceno e candido:
Maurice Bardèche sfida Céline proviene da Pangea.