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“Voglio continuare a fare il vecchio clown”. Perché è impossibile ingabbiare Céline in didascalie museruole
Nel 1956 Alberto Arbasino intervistava Céline a Meudon, incontrando «un vecchio sfinito, abbandonato dentro un maglione a pezzi, fra mobili e pavimenti che gridano “ma non ce l’avete uno straccio per la polvere in questa casa? Piuttosto ve lo porto io”, troppo stanco e confuso e al di là d’ogni possibile moto del cuore perché sembrasse importargli di nulla».  Però, quest’uomo forse così sfinito non era, se diceva:  > «gli accademici e i gesuiti non hanno inteso i valori e il mistero delle > letteratura classica, inafferrabili con strumenti ordinari, compresi soltanto > dai mistici e dai romantici tedeschi».  Oltre l’apparente esaurimento delle forze, questo padrone di casa osava coltivare formule e fiori per l’immortalità?  Le sue vere, disperate, prime preoccupazioni: cose molto difficili, come il dolore, la vita, la morte, la grazia. In un mondo spesso ripugnante, la bellezza vera dove si rifugerà? Ecco, le idee etiche ed estetiche più urgenti per Céline sono la consistenza del trapezio (come in Verlaine) e lo stile:  > «ormai – spiega Céline ad Arbasino – i contatti umani sono così invadenti che > l’insegnamento e l’informazione non hanno più niente in comune con la > letteratura, e viceversa. E poi c’è troppa gente che gira in automobile, che > vuole arrivare in fretta. Vivono tra il comunismo fittizio e le vendite a > rate: sempre più fedeli ai dettati borghesi».  Per lui questi dettati (riassunti nella parola «fingere») sono un veleno che irrigidisce il ritmo del cuore, sterilizza l’emozione del respiro, sacrifica l’oralità e il corpo della frase.  È la grigia, piccola lingua senza musica degli uomini qualsiasi che tengono la morte (e quindi la vita) a distanza, con la «sintassi perfetta» ed evitano il rischio, mettendo in sordina la verità per restare presentabili e defunti. «Finzione di sé» che Céline sabota col fraseggio scosso, i tre puntini come sfiato, la radiosità intermittente (ironia della sorte, la sua insubordinazione è diventata nuovo canone che i borghesi d’oggi fingono di desiderare e capire?). Céline ribadisce fino alla morte la fiducia nelle sue invenzioni linguistiche, nell’argot, nella tecnica della sua scrittura, con l’intento di proseguire la sua vocazione estetica oltre la vita, quasi un debito morale verso sé stesso e verso gli altri che vorrebbe diversi, migliori: «voglio continuare a fare il vecchio clown su un trapezio, lassù, a quarantacinque metri». Ma è difficile praticare quelle alture per la gente qualsiasi dove la vita è solo una rovina tutta coltivata al suolo. Cosa che pure Pasolini (altro uomo del trapezio) sapeva. Che cos’hanno in comune due autori come Pasolini e Céline? Essere contesissimi ostaggi per malati ideologici, fra destre e sinistre. Portati entrambi a forza al commissariato per certificare adesioni totalizzanti e precise mai avvenute. Tutti e due molto «amati», cioè svenduti, per incarnare la scrittura schierata a esprimere un’impossibile e indesiderabile «letteratura politica». In particolare c’è sempre molta attenta, ossessiva, filologia riguardo inequivocabili intenzioni di Céline in materia di razzismi, nazismi, fanatismi. Ma nessun amatore d’arte letteraria dovrebbe occuparsi di questi folklori, figurarsi la critica. Non ci sono troppi dubbi: l’attuale ricezione di Céline è storpia, distratta, patologica, impronta una telenovela. Per miracolo, a proporre il farmaco a questa malattia insopportabile è già lo stesso Céline in Céline, talentuoso patologo. Una comprensione ardita, ossia rovesciata e paradossale della sua opera. Forse i lettori di Céline sono anche suoi ‘pazienti’? Se sì, lui è un medico severo. Riga dopo riga, chiede: “sei stupido?”, “sei vivo”?, “quanta merda inghiotti?”.  Louis-Ferdinand Céline (1894-1961)  Fra le mentite spoglie del finto cameratismo, i libri di Céline negano ai curiosi il diritto a mentire sulla loro eventuale condizione deprimente di cadaveri. Non cercano nel lettore un complice ma un colpevole di morte in vita. È il tranello perfetto di un medico-poeta del romanzo.  Travestito da guascone disilluso, chiede per tutto il tempo della sua letteratura, serissimo: che cosa hai fatto della tua coscienza? Della tua vita? Del tuo tempo storico? Sei il famigerato morto che cammina? Questo scrittore, questo sciamano, cerca un colpevole che ha compiuto una specie di vilipendio di verità e di desiderio. Involontario ospite dello sguardo filosofico di Cristo sul mondo, pare Céline abbia osservato fino all’ultimo quella legge biblica che già «Ferdinand» bambino aveva trascritta «nella carne del cuore»: la vita non ha bisogno di essere redenta ma pronunciata, e per intero, senza esitazione o pietà. Il «fico secco» è condannato. Però, come si blinda una così alta idea dell’esistenza (e quindi anche della morte) da sguaiate effrazioni dei superficialini e dei fans?  Infatti, Louis-Ferdinand Céline (un nome, un brand, un trend?), coincide amaramente con tentativi multipli di sintesi maledettiste, perfette per cacciatori di titoli e scandalini: “dissacrante”, “proibito”, “ingovernabile”,  “mostruoso”, “geniale”, “dissacrante”, “sconcertante”, “realista, “osceno”, “pessimista”, “scorrettissimo”, “grottesco”, “visionario”, “illeggibile”, “delirante”, “disturbante”, “innovativo”, “maledetto”, “impopolare”, “innominabile”, “vietato”, “morboso”, “angosciante”, “crudo”, “irascibile”, “collerico”, “arrabbiato”, “narratore dell’orrore di questo mondo” (per tacere la targhetta “Nichilista”, e Disincanto&Cinismo, quasi in una sete di naming). Tutto vero o tutto falso?  Forse solo banale, dunque osceno, qualunquistico.  Molestia alla sua intima irriducibilità. Etichette che suonano puerili, in accumulo compulsivo di aggettivi, prova indiretta dell’incapacità critica nel sostenere il passo della parola céliniana. Perché la sua scrittura, più che da fotografare con termini veloci, è da guardare come vita che pulsa oltre il mito mediatico del cantore della dissoluzione. Una vita piena, sovrabbondante, eruttiva, verticale. Rigore mascherato da tenebroso caos, che invece è un sole e una guida abbagliante? In molte tradizioni filosofiche ciò che è più vivo non è evidente, ma nascosto.  L’Ātman indiano, quella «tenebra sovrabbondante» di luce inaccessibile alla ragione discorsiva, coincide con quella dimensione che i greci chiamavano zoé, il più di vita, la vita che rende viva la vita, e non è semplice sopravvivenza, ma intensificazione irriducibile dell’esperienza. Céline conosce questa dimensione intimamente. L’ha sperimentata nel solo modo possibile, con l’attraversamento della morte, con la carne, il dolore, la rinascita. Da vero artista, ha osato, manganellianamente, «abitare la soglia», fino a scoprire che l’energia vitale, se mossa dal vero desiderio, sa crescere quando più viene messa in pericolo dai tradimenti mortiferi che la vita rischia di infiggerle: seppellire la propria verità la rivolterà contro il suo carnefice. Il pensiero di Céline è un anatema a Thanatos, quasi un «chi conserva la propria vita la perderà».  Da questo punto di vista, la sua opera somiglia a un’insolita epifania bardica più che all’accessibile bestemmia moderna. «Io sono celtico, prima di tutto», confessava in lettera a Milton Hindus, «sognatore bardico… la mia musica è la leggenda». Questa è la via per il forziere di Ferdinand/Céline? La leggenda come patria dell’anima, custode dell’Essere? (altro che “anti-eroe”!). Quali elementi Céline ci autorizza a bruciare come incensi e quali, invece, a «buttare nel cesso»? Cosa fa, quando scrive? La sua scrittura non è nemmeno nel segno del «realismo. C’è, in apparenza, seppure in forma di piccolo strumento, piegato come un prigioniero alla vendetta contro la crudeltà del mondo; ma sotto la superficie di una forsennata tendenza al «racconto» e al «fatto», come un segreto canto di fondo vibra qualcosa di enorme: avranno le orecchie per danzarlo, tutti questi veloci lettori céliniani? Marina Alberghini annoda – nel suo saggio Céline magico – il segno metafisico a questo vibrare. Céline si circonda di «Fiori dell’Essere» (mémoire des fleurs)[1], mondo marittimo e celeste, d’altrove e d’oltre, extrasensoriale, abitato da figure simboliche, nobili archetipi, forze mitiche, Onde, da cui diceva gli arrivasse la voce che lo rendeva romanziere. Eppure a fiumi lo chiamano nichilista.  L’idea che Céline sia notista letterario della morte è facile ma povera. Il suo cruccio è lontano dal beatificare la fine, e sembra invece punire, confinare, in ogni sua mossa (che sia letteraria, o di opinione critica, lungo risposte inesorabili durante interviste), la morte e i suoi effetti, in un carcere di massima sicurezza, e farla incapace di pronunciare l’ultima parola. Questo carcere è quel tipo di opzione che una parte degli esseri umani sceglie di attraversare nel modo più scemo possibile: suicidandosi da vivi. Céline quindi non «celebra la morte», ma la comicità che vede nella scelta maggioritaria di farne una ridicola, grottesca edificazione a stile e postura nel vissuto (travestimento ipocrita, o alibi, della sopravvivenza).  Come i veri poeti, non conosceva il vuoto: l’assenza di pienezza è la vita non poetica, non generativa, non trascendentale. Sapeva che l’unica «vittoria» possibile è contro sé stessi – contro le miserie dell’ego rapace e materiale –, è intensificare la vita fino a percepirla più forte della sua negazione (se il dolore, come il bello, va udito e poi coltivato con l’anima, non estetizzato).  Leggere Céline, che insegue, minacciandolo, il suo lettore, puntandogli un coltello alla schiena, richiede esperienza del profondo, o almeno il desiderio di farne una, e non si può parlare della sua visione dell’Essere senza aver misurato la propria, nelle scelte, nella rinascita vigorosa quotidiana di sé.  Chi scriverà su Céline senza essersi bruciato il cuore, senza aver accettato di vedersi e da altri essere visto, di portare la ferita alla luce, resta un suo grigio commentatore, esterno, inservibile. Va indossato, senza esitazione, il piglio del bardo e dello sciamano, travestiti da uomini qualsiasi.  Morte a credito lo dimostra, con una grinta intellettiva che non ha bisogno di interpretazioni astratte. Il libro scorre come sangue freschissimo, irruento, in dono al lettore anemico. Céline incita, pagina dopo pagina, a uscire allo scoperto, a correre il rischio di essere riconosciuti. Nascondersi significa morire per gradi, vivere significa aprirsi al suono più vero dell’anima propria, costi quel che costi. E Ferdinand, bambino-funambolo tra miseria, frustrazione e pressioni familiari, fatte di malumori e ricatti morali, lo sa. Gli schiaffi del padre, la durezza della madre, le aspettative schiaccianti della “Coccinella”, il grigiore del Passage non producono in lui vittimismo ma visione. E Courtial De Pereires, brillante imbroglione, non è solo un personaggio, è l’allegoria esplosiva del sogno che insiste anche quando tutto lo contraddice. L’unico credito che non si riscuote mai è quello che vale davvero?  Così pare dica il nostro Dottor Ferdinand.  Céline non permette alla realtà di diventare palude. Non negozia la vita al ribasso, e anche quando odia, odia per amore della vita. Il Passage des Bérésinas è tutto: geografia, teatro del mondo, destino. Céline lo dipinge con un tocco pienissimo di realtà che mai risuona cinico. La miseria per lui non è retorica impressionista, è dato compositivo con cui la scrittura fa nascere una musica nuova. Pagine graveolenti, piene di gas, urine, catarri e sputi, e di meraviglia divertita, come un film delle comiche girato dentro la pellicola della tragedia. Grandezza infante dell’occhio di Ferdinand, amorevolmente lì a tradurre e sublimare la farsa in rivelazione e il dolore in beffa: la verità dei malnati è tutta nel silenzio che segue il rospo quotidiano inghiottito senza batter ciglio, e la violenza nasce esattamente e sempre là dove la parola è assente, quando parlano solo i corpi con le loro acri smorfie di malessere. Il mondo dei subalterni, e dei morti viventi, può parlare solo con una lingua ibrida, spezzata, piena di ripetizioni, ricca di lessico basso. Il francese elegante non rappresenta chi non ha le parole, chi non parla mai veramente, o non è nato mai.  E infatti l’argot è la tattica designata a ritrarre e livellare «tutto quello che fa schifo secondo Céline», i borghesi e i mascalzoni da strada funzionano, nel mondo, allo stesso modo, sono malati dello stessa malattia. Argot che viaggia sulla petite musique, canzone che è traduzione del parlato e del battito sulla pagina, così come del pensato, del vissuto. Possiamo dire su Céline solo quanto ci ha indicato di ereditare. Detesta la felicità superficiale, quella che si ostenta per non sentire il dolore della vita. Gli interessa la gioia vera, che nasce solo dal combattimento con la realtà, ed è questo forse una prospettiva di Céline che oggi pochi critici hanno curiosità di osservare, quella trascendentale. Non religiosa – in senso tradizionale – ma radicata nella convinzione che esista una sfera dell’Essere conosciuta solo da mistici, sensitivi, artisti.  Di certo, lui la abitava, per questo chi lo inquadra nel nichilismo è sordo al bersaglio. Certo che si potrebbe accusare Céline di nichilismo. E sarebbe corretto, se non fosse che il suo però è un nichilismo pieno, attivo, non contemplativo. Non prolifera nel dire «niente ha senso!» ma nell’esporre l’abominio dei meccanismi che triturano gli individui, e nonostante questo continuano a «funzionare», indipendentemente dalle idee, dalle cadute in basso e dalle speranze.  Il suo sguardo è quello del medico, che non può curare la malattia e deve però descriverla con precisione, la sua etica è l’onestà nel referto.  Da qui la potenza rifrattiva della sua scrittura, Céline non consola, diagnostica. Ma la critica letteraria non serve per assolvere o condannare. È compito del lettore adulto, non del pedagogo, confrontarsi con ciò che Céline ha edificato, un monumento alla parte buia, un’opera che costringe a guardarci senza abbellimenti. La diagnosi poco accurata che gli viene rifilata — “nichilista”, “disincantato” — nasce forse, nei più ingenui, cioè nei lettori sentimentali, dallo shock della sua messa a nudo che da una reale pulsione a cancellare il mondo: il nichilista prosciuga i significati, Céline invece comprime la vita per farne esplodere la densità.  Questa lettura pànica di Céline (poco conforme alla moda attuale che lo vuole un po’ instancabile becchino e un po’ distruttore sadico), trova appoggio nelle ricerche che hanno indagato l’origine della sua voce letteraria: una “musica” interna — la petite musique — e una fedeltà a immagini e archetipi (la leggenda, la danza, le “Onde”) che sono lontani da un vuoto ontologico e vicini a una esperienza trascendente della vita trasformativa. La stessa struttura testuale di Céline – la sintassi schiacciata, la ripetizione ossessiva, l’oralità scorticata – non è indizio di un desiderio di annientare senso. Persino le interpretazioni, abbastanza retoriche, che collegano la prosa ai soliti dogmi “trauma & memoria” (in particolare le analisi post-belliche e quelle sulla ferita della Grande Guerra) non possono mentire più di tanto; la frammentazione narrativa è spesso letta come modalità di rappresentare una vitalità scissa e riportata alla pagina per resistere alla morte.  Il frammento, il balbettìo, la punteggiatura come sparatoria, sono il volto della messa in forma dell’esclamazione vitalistica: quanto a chi ignora tale profondità e preferisce leggere Céline come folklore di «torbidume e infimità», si può soltanto constatare un fatto elementare: certi lettori, davanti a un immaginario che pretende coraggio scelgono la comodità del loro piccolo orizzonte, e lo scambiano per giudizio. Ma non c’è nulla da spiegare a chi è fiero della propria cecità – Céline avrebbe detto che per loro la letteratura è già troppo lunga alla prima riga.  Secondo Marina Alberghini, ridurre Céline a semplice «catalogatore disperato» della miseria indica ignorare l’intero impianto metafisico che attraversa la sua opera. Alberghini insiste su un punto decisivo, ossia che il «delirio» di Céline non è distrazione esoterica, né rifugio evasivo, una pratica semmai di ostinazione contro la decomposizione del reale. La féerie – quella “realtà fatata” che egli inseguiva – opera per scarti, folgorazioni, come un’antica controfigura del mondo che permette allo scrittore di abitare con rigore il caos senza farsene inghiottire.  Non c’è dunque fuga nel mito, ma una forma di vita nel mito. Questa è la «perla metafisica» custodita dentro la sua scrittura e la sua geografia, dove agiscono simboli anteriori alla storia, quelle Onde che avvertiva come correnti arcaiche, autentiche pressioni del mito sul presente.  Céline ha generato questi incantevoli crateri a partire da una scia ricchissima e lontana, ha iniziato una ricerca nuova dentro quella «tradizione illustre» che si tenderebbe a ignorare, ma di cui lui era amante e studioso consapevole. Una ricerca, quella celiniana, fiorita lungo esempi lontani, letterari e pittorici: le lugubri ballate di Villon e del romanzo «carnevalesco» e polifonico di Rabelais. Omaggi a El Greco, Goya, e a quelli che lo stesso Céline indica come i suoi pittori prediletti, Bruegel e Bosch.  Attitudini letterarie di Céline che alcuni, insultandolo, leggono come «rivoluzionarie» (ossia sradicate), sono parte della tradizione francese fino all’Ottocento (la miglior letteratura francese!), dai racconti fantastici di Gautier ai romanzi d’avventure di Verne, agli impianti immaginativi e alle figure simboliche di Hugo, al gusto decadente di Baudelaire, agli itinerari spirituali di Verlaine, Mallarmé, Rimbaud. Rubina Mendola -------------------------------------------------------------------------------- [1] In un’intervista, poco prima di morire, disse: «Je ne suis pas un artiste, mais j’ai la mémoire des fleurs». È una frase che ci lascia nel dubbio: la «memoria dei fiori» è ricordare i fiori, ma forse Céline vuole dirci che possiede la memoria peculiare e misteriosa, inaccessibile, che può avere un fiore? L'articolo “Voglio continuare a fare il vecchio clown”. Perché è impossibile ingabbiare Céline in didascalie museruole proviene da Pangea.
December 19, 2025 / Pangea
“Io sono tutto cuore”. Artigiano e rockstar, osceno e candido: Maurice Bardèche sfida Céline
Uno sguardo profetico: “Altrove dichiara che nella storia degli uomini vi è certamente un progresso, che ‘l’uomo è sensibilmente migliore di quanto non era [in passato]’, ma che tutte le civiltà, ognuna a sua volta, ‘tengono nella storia per un momento la fiaccola del progresso’, poi sono fatalmente colte dalla decadenza e non sono più rappresentate che da ‘cari vecchi popoli’, costretti ormai a rimettere ad altri la direzione dell’evoluzione”. Appunti di stile: “La pittura accademica e i libri scritti nella lingua letteraria sono incapaci di provocare l’emozione. La pittura presenta la realtà sotto una falsa luce, la ‘luce dello studio’. E i libri utilizzano una ‘lingua morta’, che è una falsa lingua, quella dei mandarini. Gli scrittori devono dunque fare quel che hanno fatto i pittori della scuola impressionista. Devono ritrovare la lingua vera, creatrice di emozione, così come i pittori hanno ritrovato la vera luce. Ebbene, Céline è l’unico scrittore a cui sia riuscita questa traslazione. Egli è tornato allo stile parlato e l’ha reso emotivo. La nuova lingua della quale è l’inventore è lo stile emotivo parlato: ‘L’emozione non si lascia captare che nel parlato… Il compito dello scrittore è quindi semplice: si tratta di captare l’emozione del parlato e di «riprodurla» attraverso lo scritto, al prezzo di mille sofferenze, mille pazienze che nemmeno s’immaginano! Chiaro, eh?’”. È in libreria Louis-Ferdinand Céline di Maurice Bardèche (ITALIA Storica Edizioni, 2025, a cura di Andrea Lombardi, con traduzione di Moreno Marchi). A un primo sguardo Louis-Ferdinand Céline di Maurice Bardèche parrebbe solo l’ennesima voce in un coro già affollatissimo di biografie dedicate all’autore di Viaggio al termine della notte: un mattone in più accatastato accanto a una decina, forse venti, Céline che già gremiscono gli scaffali. E invece c’è un carburante segreto che lo fa scattare avanti: una vera “complicità” – quasi una dipendenza reciproca – fra biografo e biografato, entrambi forgiati da uno stesso sguardo ferocemente disincantato sul mondo. Scrivere di Céline resta un terreno minato: senti alle spalle il suo ghigno pronto a sconfessare ogni aggettivo. È il pedaggio che ogni céliniano paga. Per decenni lo scrittore ha incassato le interpretazioni più disparate, dall’acrobaticamente dotto al ridicolmente balzano. Bardèche, però, non si fa cogliere impreparato. Sa che la biografia è impastata di storia, così come la storia scolpisce i destini individuali e collettivi. E lui, insieme a Céline, quelle tempeste le ha attraversate in prima linea, talora fianco a fianco, talora su fronti divergenti ma sempre dentro lo stesso turbine. Il risultato è un corpo a corpo fra titani: da una parte uno dei narratori più dirompenti del Novecento; dall’altra un critico-saggista tra i più acuminati, prolifici e irrequieti della sua epoca. Ne esce un ritratto che, più che aggiungere un altro Céline agli scaffali, costringe a riconsiderarli tutti. Carlo Tortarolo  ** Da “Louis-Ferdinand Céline” Non avevo intenzione di scrivere un libro su Céline. Il mio progetto consisteva nel ricercare perché, come la letteratura di narrativa avesse cessato di essere una creazione artigianale umilmente presentata agli acquirenti, e come, perché essa sia divenuta, per la maggioranza degli scrittori, un modo di presentarsi, di affermarsi, insomma un esibizionismo. A ciò contribuiscono molti fattori. Non pretendo di esporli tutti. Volevo soltanto individuare degli itinerari, cercare di capire da qualche tipico caso, come alcuni autori fossero stati indotti a sostituire i loro studi con un one man show, come avessero abbandonato la stessa idea di avere uno studio, una fucina e perché, come avessero sostituito al loro dovere professionale uno strip-tease inteso sia quale esibizione muscolare sia quale apologia e sovente entrambe assieme. La trasformazione dello scrittore in divo dello show-business esigeva uno studio sociologico che trovavo al di sopra delle mie forze. Volevo limitarmi ad analizzarne tre esempi: quelli di Jean-Jacques Rousseau, di Léon Bloy e di Céline. Tale modesta inchiesta era quanto potevo fare. Non conosco molto bene l’opera di Céline. Da lontano trovavo nella sua carriera di scrittore una soddisfacente risposta alla questione postami. Egli venne indotto all’esibizionismo dalla persecuzione. Il suo esempio fu edificante: s’era lanciata contro di lui una muta, che lo aveva costretto a far fronte e a difendersi, che aveva distrutto in lui lo scrittore, facendone un animale di bosco non potendo far altro che emettere grida, malgrado lui, esibizioniste. Era divenuto un esibizionista perché aveva dovuto giustificarsi: come Jean-Jacques, come Léon Bloy. Mi accorsi allora che la sua opera non era, come credevo, come molta gente crede, un’opera autobiografica, ma che Céline era un affabulatore, il quale aveva usato come canovaccio il proprio itinerario biografico. Più m’informavo, più verificavo e più constatavo l’estensione dell’affabulazione. Capii che di questa sistematica deformazione egli aveva fatto uno dei principi della sua tecnica narrativa. Dovetti anche ammettere che era stato quell’artigiano che speravo ritrovare nello scrittore: il suo coraggio, gli scrupoli, le infinite correzioni, il suo accanito lavoro corrispondevano alla perfezione con la probità da me opposta all’attrazione dell’esibizione. Le cose non erano dunque così semplici come immaginavo. Céline era al contempo un artigiano e una rockstar, non perché traeva i racconti dalla sua esistenza, ma perché gridava, misurava il palco, suonando la sua selvaggia musica, impegnando in simile denuncia della realtà ciò che di più profondo e vero era in lui, mettendo “sul tavolo”, come diceva, “la sua pelle e le sue trippe”. Era la definizione stessa del poeta lirico: secondo Musset, così come secondo Rimbaud o Baudelaire. Céline finì per confessarlo. Presentò il chiarimento scenico sullo scrittore quale un diritto, un privilegio ed addirittura una necessità. Mi trovai quindi davanti ad uno sconosciuto che metteva a soqquadro la mia arbitraria classificazione. Avevo cominciato, decisi di continuare. Davanti a questo sconosciuto provai disparati sentimenti. Era stato esaltato e violentemente attaccato. Era stato ammirato e odiato. Tali contrasti non mi dispiacquero. Ma più ne avevo conoscenza, più li trovavo estranei alle qualità che amo trovare in un uomo. Mi apparve fanfarone, bugiardo, arrogante, chiacchierone, tonitruante prima e lagnone poi. Ammirai il suo coraggio allorquando si fece tribuno. Vedevo un intrepido volontario affrontare l’odio, rischiare la vita. L’impetuosa carica mi fece dimenticare quanto di lui sapessi. Mi apprestai ad ammirarlo nelle tribolazioni. Quelle da lui attraversate rinnovarono la mia simpatia: pensai alla prigione di Tasso, alle infermità di Cervantes. L’incontro mi deluse: lo scoprii egocentrico, ingiusto, stridulo, vanitoso come un uccello di cortile. Cos’è uno scrittore che non accetta la responsabilità di quel che ha scritto, quando quel che ha scritto è stato per altri mortale? Capii che egli fu al contempo un eroe ed il suo contrario: un irresponsabile. Irresponsabile perché in lui è tutto contraddizione. Mescola tutto, il cinismo che ostenta, la bontà che nasconde. È un utopista, sogna per gli uomini un inaccessibile benessere, ma allo stesso tempo, non si fa su di loro alcuna illusione. Il suo amore, la sua pietà vengono contraddetti ogni istante da ciò che vede e descrive. Bugiardo quando parla, quando inventa, detesta la menzogna degli uomini e denuncia la perpetua commedia che recitano tra loro, come scrittore egli persegue aspramente la verità: quanto sa degli uomini, la cattiveria, il sadismo, l’isteria, la vanità della loro vita. Tale verità, così crudele, concreta, brutale, imbarazza, offende. E quando la si estende a tutto, ai regimi come agli uomini, più non si vede cos’abbia di generoso: essa provoca l’odio. Si trattava di un compito troppo arduo per lui, di un fardello che non ha saputo portare. A causa di questo cinismo, non solo professato, ma per così dire statutario, tutta una parte di lui stesso non riesce a esprimersi e va indovinata. E per attimi la s’indovina quando il suo linguaggio, quel famoso linguaggio così osceno, così sconcio, si flette. All’improvviso la voce diviene musicale e triste. Dietro al teppistello si avverte un’ombra, come nei Campi Elisi degli Antichi, tendente delle braccia translucide verso i vivi in visita ai morti. È un’apparizione, quella di un altro, di un prigioniero di colui che scriveva, un’anima intravista che chiede di essere liberata e che vuole si sappia. Quest’ombra è il Céline incompreso, terminante una delle sue prime interviste con il dir degli uomini: “Ah! avessero potuto amarsi!”, esclamazione incongrua ed enigmatica; senza commenti. Pertanto sono le parole che riprende alla fine della sua esistenza, quando scoraggiato scrive: “La gente dice è un bruto, non è vero, io sono tutto cuore”. Ci aveva messo vent’anni a scoprire ciò che chiamava “il terribile pericolo dell’aver buon cuore”. Ho voluto conservare, presentare come conclusione del mio ritratto di Céline la sua immagine custodita da coloro che gli furono vicini, Pierre Monnier, Arletty, Robert Poulet ed anche Barjavel: una buona fata sotto le sembianze della fata Carabosse. Per riconciliare i due Céline, quello che si mostrava in primo piano occupando l’intera scena e quell’ombra che domandava giustizia sulle sponde del fiume della morte, immaginai una spiegazione che si ponesse al centro della mia presentazione. Punto di partenza è l’immagine che lo scrittore si fa di se stesso e che in ogni sua opera del dopoguerra appare come un’idea fissa: tale panoplia comprende la ferita durante il combattimento nelle Fiandre, la sua anima di “sottuff.” effettivo, la medaglia militare, indispensabile accessorio sovente ricordante lo sconosciuto Céline posto sotto i travestimenti di Bardamu e di Ferdinand. Cardine di simile spiegazione è la maggiore e più determinante crisi della sua vita, gli anni di prigione e di esilio in Danimarca e l’ingiusta persecuzione di cui fu vittima. Questo “eroico” Céline da anni camuffato in un Céline chiacchierone ed ingombrante è quello che un giorno ebbe l’idea di caricarsi di una supposta missione di sacrificio al servizio degli uomini. Tale suo periodo di vita, che i biografi attraversano in punta di piedi, è molto interessante. Se ne scorge il vero carattere. Innanzitutto, l’ingenuità. Il cinico, l’insubordinato si toglie la maschera: si vede comparire uno zelante, un “fanà”, dicono i militari, un maresciallo agli alloggi che si dà volontario per una missione pericolosa. Al contempo, l’irriflessione: “Cos’andava a fare in quella galera?”. Al contempo, l’inesperienza. L’odio lo sorprenderà: cosa aspettava dunque? “Forza, piccolo!”, come a undici anni quando accompagnava il padre con un fagotto sulle spalle. Infine ne veniva fuori tutto quel che fa il conservatore, compresa l’intransigenza, il semplicismo, la perentorietà. Insomma, secondo me sull’autore di Viaggio al termine della notte si erano sbagliati tutti. In seguito, nel pericolo e nella sofferenza che sondano reni e cuori, appare un altro uomo: quello che la sua immaginazione trasporta così come lo aveva trasportato nella galoppata dei pamphlet. Giustamente egli ha paura, fugge, ne ha ben ragione. Ma nel momento in cui non teme più niente, è ancora prigioniero del panico. L’illusione della persecuzione muta le forme di ciò che lo circonda: geme, grida, accusa in un incubo. Per giustificarsi si ripiega allora sull’idea di essersi sacrificato, volontariamente sacrificato, che era stato l’unico ad averlo fatto. Quindi si costruisce una propria maschera, o piuttosto si ritrova tale era davvero, ravvivando con ostinazione l’immagine tutelare, ispiratrice che si era fatta di sé all’epoca dei suoi pamphlet, i quali, diceva, io avevano guidato: il valoroso combattente del 1914, glorioso ferito di guerra, irreprensibile patriota, perseguitato da un’odiosa cospirazione, fuorviato in un’abominevole avventura che lo altera e da cui non riesce ad estrarre la storia di sé che vorrebbe imporre: quella di un resistente alla guerra, all’Occupazione, che è stato deportato in Prussia e che sotto il terribile stivale danese ha subito sofferenze sfidanti l’immaginazione. Simile cambiamento a vista fu un po’ brutale. Céline trovava il percorso assai semplice, logico, evidente. Nessuno condivise tale convinzione. Egli vi si rifugiò, la mantenne per sé, senza riuscire ad imporla. Ma, per difendersi dagli uomini, si costruì un’altra maschera, opposta alla prima. Non più il cinico, ma il vinto, il relitto. Ha scoperto l’odio e vi risponde con l’odio, è lui ad usare il termine. “Io sono tutto cuore”, specifica a volte l’epilogo… Non dimentica niente. Non ha però il diritto di esprimere la sua rabbia. Si protegge, come può, sotto il suo ultimo mascheramento, una canadese da esiliato nel fango di baroni: diffidente, sornione, prudente, “in guardia”, come dice, traduzione della frase di Descartes: “Larvatus prodeo”. Ed a questo punto la trasparenza non lascia passare altro che un’immagine, la più sorprendente di tutte, quella di un uomo che, non credendo a nulla, crede ancora al premio Nobel e alla Pléiade. L’immagine che Céline si faceva di sé io la credevo vera. Noi non siamo quel che siamo, ma quel che crediamo di essere. L’ha detto Pirandello e prima di lui Pascal. Perché non spiegarlo attraverso l’immagine che si faceva di sé? Come ognuno di noi. Egli ha diritto ad un giusto processo. È uno da rimettersi all’immagine che il Partito si fa obiettivamente della nostra condotta? Si può allora dire che Céline fu uno scrittore “fascista”? Non si è necessariamente fascisti perché si è portato un plico sotto le palle, non di più perché si è antisemiti, in qualunque partito vi sono gli antisemiti, né perché si è desiderata un’alleanza franco-tedesca onde assicurare un avvenire di pace. Non è nemmeno “razzista”, in quanto la sua angoscia davanti al declino della razza bianca non ha niente in comune con il dogma della superiorità degli ariani, essa esprime l’ansietà dell’igienista che egli sempre fu. Con la sua condotta, con la sua attitudine Céline è profondamente estraneo all’energia, al rigore, alla determinazione rivendicate dai “fascisti”: ed ancor più ad una rigidezza da loro ostentata. Lo si crede fascista a causa dei suoi pamphlet: non lo è più di quanto non fosse comunista quando scrisse il Viaggio. Egli non è né coerente né sistematico. Vi è in lui qualcosa di molle, a volte di debole: in alcuni momenti fa pensare ad un ubriaco incontrato per caso e che tra i singhiozzi ci racconta la sua storia. Essa può interessare, l’ubriaco la sviolina abbastanza bene. Lo si può amare, ma senza illusioni. Ad ogni modo è inclassificabile e ci s’inganna quando si pretende di appropriarsene.  Maurice Bardèche *Per gentile concessione si pubblica un passaggio dal “Louise-Ferdinand Céline” di Maurice Bardèche, edito da Italia Storica Edizioni, pubblicato in origine da La Table Ronde nel 1986 L'articolo “Io sono tutto cuore”. Artigiano e rockstar, osceno e candido: Maurice Bardèche sfida Céline proviene da Pangea.
May 15, 2025 / Pangea