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Tra ascetismo e latitanza, contro gli scrittori “impegnati”, verso l’impossibile. Dialogo con Tom Buron
Tom Buron pare un corsaro. Giovane – classe 1992 –, gioviale, ha esordito con Gallimard con un poema, Les Cinquantièmes hurlants, che va in direzione opposta ai toni dominanti del nostro tempo: lo stile sifilitico, il pallore da confessionale, una scrittura senza febbre, senza sbalzi, spesso anemica, utile al post sui social, gradevole alla lettura pubblica. In una intervista pubblicata di recente su “Zone Critique”, Tom Buron ha detto che “questa è un’epoca che necessita di miti”; si è detto portavoce di “una sorta di lirismo in lotta, di un lirismo violento”; disprezza la “poesia del quotidiano e quella che esiste per rivendicare qualcosa”, come “l’anti-poesia, cioè la poesia ‘che non sembra poesia’”. Nei suoi versi, la foga di Melville e di Lord Byron si mescola al rock, l’epica dilagante di Saint-John Perse dialoga con sonorità elettriche contemporanee. Il mito di Tom Buron è Velimir Chlebnikov, uno dei più prodigiosi inventori di linguaggio del secolo: non credo sia sul comodino di molti scrittori di oggi, in verità, spettri viventi. Come Chlebnikov, anche Tom Buron veste ampie pellicce, indossa uno sguardo spiritato, confida nel neologismo.  Tra i romanzi, preferisce Sotto il vulcano, l’epopea alcolica di Malcolm Lowry, ambientata a Cuernavaca, Messico. Proprio il Messico è uno dei luoghi-totem di Tom Buron – lo fu anche per Antonin Artaud, che laggiù tentava di ritrovare l’origine magica, glossolalica della parola poetica.  Nonostante il gargantuesco, granguignolesco entusiasmo – che è già oro in un’era di palestrati e di depressi – Tom Buron non è un poseur. Ha vissuto a lungo in Ucraina, dove ha terminato Les Cinquantièmes hurlants – ha combattuto, ha sofferto, ma ne sussurra, senza i laboriosi sofismi del retore e del neofita. Esige il rischio, proclama l’avventura come sale per la letteratura, eppure non gioca all’esteta armato. Resta, nonostante tutto, un ragazzo sfuggente – più René Char che André Malraux, per intenderci. Non ama i proclami, sa cos’è l’ispirazione e cosa significhi perdere l’ispirazione – conosce la veglia, la ferita in ambone, l’acquasantiera degli insonni.  Les Cinquantièmes hurlants, a una prima lettura, ha due grandi precedenti: Le bateau ivre di Rimbaud e The Bridge, il poema di Hart Crane, il poeta che ha scelto di morire gettandosi nel golfo del Messico. In ogni caso, è l’elemento marino a dominare il libro di Tom Buron, il disorientamento, la rottura di tutti gli ormeggi del linguaggio – un Antartide tutto attorno, che è poi pari a Minotauro, e venti che scuoiano la pelle fino al sillabario.  Non è stato difficile raggiungerlo – la generosità è parte dell’estro di un poeta; gli altri, quelli che non si imbarcano nelle imprese disperate, continuino a fare le vittime.  Perché la poesia in questo tempo impoetico?  Non è forse questa l’unica arte della nostra epoca a non essere diventata industria? Quali sono i tuoi maestri, i poeti che ritieni decisivi alla tua crescita? Citami una poesia-amuleto, un libro-totem, un lotto di versi che tieni sempre con te.  Velimir Chlebnikov, Conrad Aiken, Roger Gilbert-Lecomte, Hart Crane, T.S. Eliot e Pound, Dylan Thomas, Matthieu Messagier, Saint-John Perse, Cendrars, Majakovskij sono molto importanti per me: il mio amore per loro dura dall’adolescenza. Potrei citare altri poeti dell’Era d’argento russa come Marina Cvetaeva e Anna Achmatova. A questi dovrei aggiungere il sommo Derek Walcott, o ancora Basil Bunting e John Ashbery. Dei francofoni, devo citare Arthur Cravan, un autentico selvaggio, un autentico modello di vita e di energia vivente, ma anche Stanislav Rodanski e Marcel Moureau. Non amo distinguere tra poeti e romanzieri, dunque voglio dirti anche Nikos Kazantzakis, Ernesto Sábato, William Faulkner, Dostoevskij, Melville, Bolaño, Thomas Wolfe (non ho detto Tom…), Joyce… Cormac McCarthy e la sua cavalcata nell’orrore, quel tremebondo poema in prosa faulkneriana che è Meridiano di sangue… A noi più prossimo, devo citare Laszlo Krasznahorkai, uno dei più grandi romanzieri viventi. Amo la lingua francese di Pierre Michon, quella di Albert Cohen, di Drieu e di Morand, di Blondin – amo le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. L’opera che apprezzo di più è quella di Malcolm Lowry. Potremmo dire del desiderio contro il senso di colpa, dell’ossessione per il paradiso perduto, della cerca e della devastazione nell’alcol, di una sublime vulnerabilità e di uno stile che combatte tutti gli stili, ma ciò che ricordo meglio di Lowry è la sua presenza, ovunque, nell’opera, è il rapporto conflittuale con la scrittura, frammentario e doloroso, questo rapporto con l’opera in corso, in corsa, che commenta costantemente e da cui dipende la salvezza dell’uomo, senza condizioni.  Detto questo, è difficile scegliere l’unico libro, il libro-totemico, come dici tu, ma sono disposto al gioco: se dovessi andare in qualche luogo per sei mesi e potessi portare con me un solo libro, beh, allora opterei per le opere degli ultimi anni di vita di Velimir Chlebnikov. Amo la dismisura e le imprese eccessive, la chiave di una soluzione che deve essere ancora trovata, e lui ha tentato di trovarla più di chiunque altro: credo, come Chlebnikov, che il poeta debba essere anche un pensatore – Chlebnikov è il grande poeta dell’impossibile. D’altronde, un grande amore, quando tentiamo di spiegarlo, ci sfugge sempre, non è forse vero? Mi viene in mente quell’aneddoto in cui Caitlin racconta che il marito, Dylan Thomas, di fronte agli amici, cercando di spiegare alcuni suoi versi, si gettò a terra, d’improvviso, rotolandosi sul tappeto, grattandosi come una bestia… Che rapporto esiste tra ‘vita’ e ‘poesia’? O meglio: qual è la tua ‘poetica’ dell’esistere? Mi dirai banale: l’incontro con Rimbaud, a dodici anni, mi ha fatto credere, allora e per sempre, che l’avventura sia legata alla scrittura poetica. Il mio desiderio di scrivere si è sempre manifestato con il gusto per l’avventura e per il rischio: credo, come Hemingway, che bisogna far scontrare il corpo e la mente con la realtà, credo nella viva carne, nel sangue che ribolle. Non riesco a distinguere una dimensione dall’altra, è una sorta di rivelazione ontologica. Già a quel tempo vedevo il poeta come una creatura che scrive e agisce al medesimo tempo, una canaglia capace nel metodo, un essere che oscilla tra ascetismo e latitanza. Byroniani, rimbaudiani, insomma. Credo che occorra andare e ‘vedere’, sperimentare con i nervi e con le ossa. Ci sono cose che non si possono trasmettere né ripetere se non dopo averle vissute, se non dopo l’avventura, quella autentica. L’avventura, come la poesia, è una forma di eccedenza, si tratta di dimensioni che comunicano. Insomma, è una visione un po’ nietzschiana del poeta. La vita non basta – la letteratura neppure. Il mio caro Zorba direbbe: “Vivere, sai cosa significa? Slacciare le cinture e attaccar briga”.  Come nasce “Les cinquantièmes hurlants”, da quale ispirazione? Mi pare che il linguaggio che usi sia diametralmente opposto al minimalismo, alla poesia ‘orizzontale’ in voga in Francia come in Italia. Da dove arriva la tua lingua? Non so dirti da dove arrivi questa lingua: passo il tempo a cercarla, a tentarla. Certamente, deriva in gran parte, oltre che dal mio inesauribile interesse verso la lingua francese, da una preoccupazione per il ritmo, la melodia, l’armonia.  Les cinquantièmes hurlants è un poema che ho portato dentro di me per sei anni. Detto questo, l’ho lavorato a lungo tra il 2020 e il 2022. Volevo terminarlo entro il mio trentesimo compleanno, come mi è riuscito, per poi smettere tutto, certo che sia la migliore delle cose che abbia tentato di fare finora. Due anni dopo, ecco che appare. È un poema che nasce dal desiderio di spiazzare i temi che mi sono cari, di spostarli dalla città all’oceano, lo spazio di ogni rischio. Nasce anche dalla prospettiva di una traversata, una traversata mutila. Tuttavia, ho dato inizio a un movimento, lungo i porti d’Europa, raccogliendo appunti, cercando di dar loro un corpo; sono andato in giro per un anno e mezzo circa, prima di mettere tutto da parte perché non riuscivo a giungere a ciò che volevo da quella distanza. Quando a Est è scoppiata la guerra, sono partito. Prima presso la frontiera polacca, poi in Ucraina, verso il fronte meridionale e orientale, a Charkiv, Zaporižžja, Cherson, Mykolaiv, Pokrovsk… Prima nei ranghi umanitari, la logistica, poi, di recente, dal 2024, nell’esercito. Di questi tre anni, un anno e mezzo è stato consacrato alla guerra. Se ciò non è direttamente ravvisabile nel libro, ciò che ho vissuto lo ha inevitabilmente intriso: di ritorno da una missione, a Ochota, un quartiere di Varsavia dove ho vissuto per alcuni mesi, sono riuscito a sedermi al tavolo, a riprendere il lavoro e a completarlo, nell’autunno del 2022. Finalmente, avevo trovato un’architettura per i miei versi, una lingua per la storia del mio navigatore, un ritmo oceanico e cavalleresco da imprimere a quella traversata, un ordine e una disciplina per tale furia. Poi ho nascosto il manoscritto, ho fatto la valigia, sono ripartito per l’Ucraina.  Riguardo al termine che usi, la poesia ‘orizzontale’: Les cinquantièmes hurlants è l’esatto opposto, è un poema della verticalità. Questa sorta di ‘orizzontalità’ permanente di cui dici, non riguarda soltanto la Francia, ma il mondo occidentale in sé – non riguarda soltanto l’arte letteraria, ma molto di più. Non me ne occupo, ma se vuoi sapere cosa ne penso, dirò soltanto che trovo la ‘produzione’ attuale per lo più deplorevole, perché va di pari passo con il disprezzo per la verticalità, la ricerca incessante, l’opera. Ma non ho tempo per reagire, mi preoccupo di lavorare, mi occupa l’azione. Tutto cambierà in fretta, sono fiducioso.  La poesia è sempre eversiva, sempre ha in sé un linguaggio anarcoide, contro la necrosi linguistica odierna: è davvero così? Quali sono i confini tra la poesia autentica e la falsa poesia, il ‘poetume’ (pattume) di cui è intriso il nostro tempo? Insomma: dove ci porta la poesia?   Mi avventuro di rado nei meandri della teoria letteraria, ma penso che la poesia non abbia nulla a che fare con una forma di ‘comunicazione’. Meglio: poesia è comunicazione suprema. Mi pare che la poesia sia in un certo modo estranea a queste considerazioni. È terra d’invenzione, superamento del linguaggio, significato e pensiero rinnovati. Credo che un poeta autentico debba necessariamente condurre il lettore in una lingua estranea. Nel passato – ma accade ancora oggi – venivo accusato di essere un poeta per poeti. È un modo per squalificarti, per evitare l’ingaggio col pensiero… Allo stesso tempo, credo che in letteratura non si possa che fallire. Questo è ciò che mi spinge a continuare, che mi fa desiderare di andare oltre. Sbagliamo e sbagliamo ancora e torniamo alla battaglia: “Ancora una volta sulla breccia, amici cari, ancora una volta”. Non so se sarò mai in grado di cogliere il segno. Siamo sempre opere incompiute, incomplete. E quando ti concentri sul poema, come nel mio caso, una gara di fondo composta da quindici round, devi stare lì, devi essere sempre vigile riguardo ai tuoi errori, devi arrivare fino alla fine. Penso che il poema sia la forma più completa e sofisticata: non ha nulla a che vedere, mi si perdoni, con una bellissima lirica di quattro strofe. Esiste a tuo avviso un rapporto – di complicità o di avversità – tra ‘poesia’ e ‘politica’? In Les cinquantièmes hurlants, pur in forma remota, c’è la presenza della guerra e delle armi nucleari, riecheggia in forma escatologica ciò che stiamo vivendo oggi. Comprendo dunque la ragione di questa domanda. Detto questo, nonostante il mio interesse per la geopolitica e la storia, non mi addentro in modo frontale in questo tema, ho orrore per quelli che si definiscono “scrittori impegnati”. Trovo che tale atteggiamento manchi di classe e corrompa il lavoro lirico. I poeti non servono alcuna causa. Bob Dylan, che ha dovuto difendersi da molte tentazioni in questo senso, diceva, fin da giovanissimo, “Non esiste il bianco e il nero… Esistono solo l’alto e il basso… E io cerco di andare in alto senza pensare a cose triviali come la politica”. Tornare alla verticalità di cui dicevamo prima: ecco la mia risposta.  Hai viaggiato tanto. Quale viaggio e quale incontro ti hanno formato? È vero. Ho viaggiato in Africa, nelle Americhe, in Asia, poi ho deciso di concentrarmi sul nostro continente e ho girato l’Europa in autostop, con l’autobus, sui treni, come quando ero ragazzo. Mi sento uno scrittore europeo che si esprime in lingua francese e proviene da Omero, Dante, Blake, Nietzsche e Rimbaud. Da giovane alternavo lavori part-time, scrittura e lunghi viaggi con pochi mezzi per il continente.  Tre anni fa avrei risposto a questa domanda in modo diverso. Avrei detto che il Messico mi ha cambiato profondamente. È stato un viaggio che ho scelto nel momento giusto e in cui – cosa rara – tutto è andato per il verso giusto. Potrei parlare dell’Africa, in particolare del Senegal. Tuttavia, è l’Ucraina che occupa ormai un posto enorme nella mia vita. Ciò che ho condiviso lì con alcuni esseri umani, non lo vivrò con nessun altro. Ciò che ho vissuto con certi amici, nel lavoro umanitario come nell’esercito, non sarò mai in grado di raccontarlo come si deve – sono racconti che infine mettono a disagio chi li ascolta, al ritorno, quindi, semplicemente, smetto di parlarne, anche alle persone a me prossime. Almeno, questo vale per me: ne parlo poco, racconto poco, non condivido quasi nulla, ne scrivo, per me solo, però. Penso che tutto questo troverà, col tempo, un suo equilibrio, ma è certo che gli ultimi tre anni mi hanno invaso, hanno mutato in profondità l’uomo che ero.  E adesso… cosa fai? Ho ancora qualche lettura prima dell’estate. Intanto, a Parigi, attorno a una antologia su jazz e poesia che ho curato insieme allo scrittore di jazz Franck Médioni, s’intitola Le nom du son. È la prima antologia in francese su questo tema. Riunisce un centinaio di autori, dunque un centinaio di testi scritti tra il 1917 e il 2024. Leggerò una selezione di testi che comprende poesie di Mina Loy, Michel Bulteau e Bob Kaufman, accompagnato da un musicista, Antoine Berjeaut. Porterò Les cinquantièmes hurlants nel sud della Francia, a Sète, poi a un festival parigino, con un adattamento musicale creato insieme a Fred Aubin dei “La Maison Tellier”, un mio amico trombettista. Abbiamo alcune date da qui a settembre. Da poco, ho ricominciato a scrivere. Come dicevo, dopo aver finito Les cinquantièmes hurlants, alla fine del 2022, ho pensato di smettere con la scrittura. Il silenzio è durato due anni.  ** Da Les cinquantièmes hurlants Alimentiamo questa caduta mercuriale, la magnolia in un concerto di vertigini, una volta soltanto – sole di rame –  tra i flutti di un mandolino catartico ci ha reso vulnerabili. L’odore della meccanica i ronfi dell’Olandese Volante ci lordavano i sandali: “Strano, il babbuino, puah… sublime assillo” Sento lo stesso, di lontano, lo stesso sciaguattare di chiatta, un’ambiguità ontologica e le corde che vibrano lacerando straniere plaghe, strani pelasgi.  Perché occorre dirlo abbiamo dormito poco in quest’ultimo secolo: le radici dissennate divennero torce e ancora recludono lo spasmo delle montagne russe tossicologiche. Non ho detto troppi addio perché sono marchiato dai sigilli, ma, fiacchi di guerra, hanno assolto gli idoli cavi, la vite, un amuleto occulto, l’esca e l’acciarino nell’avventura dello squallore, dello squarcio: tutto spira, l’alba si perde in caricature carminio. La parata d’oro impone trasalimenti i colori si rinnovano come folgorazioni dall’acquarello che popoliamo tra il bronzo e il piombo, convergendo instancabili verso queste tessere del domino che cadono una dopo l’altra nel culto del ricordo.  Così, così, mai l’oblio fu incontrato ma questo vivere se non da mutilati, seguaci di frammenti eremitici, di un deliberato disordine, lo specchio semovente, l’arena regina il combattimento intangibile: Mare, dunque e lì, Mare, e là, la plenitudine del Sud – il pieno Sud.  Tom Buron L'articolo Tra ascetismo e latitanza, contro gli scrittori “impegnati”, verso l’impossibile. Dialogo con Tom Buron proviene da Pangea.
May 16, 2025 / Pangea