Qualche decennio fa, introducendo la raccolta di Tutte le poesie di Carlo
Betocchi, Luigi Baldacci accennò a un “anti-Novecento che, per troppo tempo, una
storiografia di comodo ha cercato di mettere tra parentesi”. Citava, l’augusto
critico, a mo’ di presunto repertorio, senza troppe spiegazioni, Palazzeschi e
Govoni, Umberto Saba, Diego Valeri, Sandro Penna; disse di Betocchi, disse “del
secondo Caproni”. Insomma: l’anti-Novecento – una baruffa tra intellettuali – è
infine una vicenda tutta interna al ‘canone’, al Novecento, senza particolari
evasioni né invasioni di campo. Si tratta di una opzione più che di una
rivoluzione, di un bivio più che di una conversione.
Davvero negletto dalla storiografia, invece, è un nugolo di poeti che pare
abbiano fatto storia a sé. Marginalizzati – per diverse ragioni, a
volte patologiche – dal sistema culturale, ignorati dall’editoria imperante,
questi poeti hanno perseguito – da perseguitati – una scrittura vertiginosa,
solitaria, a tratti maniaca, che ha sbalestrato il linguaggio consegnandocelo
rinnovato, in nuova innocenza, al cristallo. Autori di un’operamonstre, senza
riserva né misura, pressoché postuma e ancora da scoprire, ci hanno dato – se si
lavora per scrematura, per ‘sublimazione’ – alcuni dei testi più folgorati del
secolo, di sempre. Non tanto “anti-Novecento” dunque – anche perché qui è
tutt’altro che il linguaggio dimesso, da tonache lise e pecore smarrite – ma una
specie di canone “avverso”, di canone avversato, che ha qualche remoto padre
(l’esoterico Arturo Onofri, il selvatico Dino Campana, il furibondo Giovanni
Boine), e che si svolge al di là delle avanguardie e del ‘dibattito’,
praticabile soltanto da chi ha fatto della propria ostinata solitudine allo
stesso tempo alcova e mattatoio. Linguaggio inclassificabile quello di questi
poeti, che non concede carriere accademiche dacché mette in discussione le
fondamenta del cosiddetto ‘canone’; poesia che si offre – ostia avvelenata –
come rivelazione di un esistere in fiamme, a volte stigmatizzata dalla
tragedia.
Di questi avversati, di questi avversari al noto il campione è Lorenzo Calogero,
di cui si attende ancora, nonostante sporadici, pur potenti riconoscimenti (da
Leonardo Sinisgalli ad Aldo Nove), degna sistemazione dell’opera. Gian Giacomo
Menon, nato pochi mesi dopo Calogero (entrambi del 1910, il primo è di novembre,
l’altro di marzo), è il fronte ustorio del canone “avverso” – che non è un
anti-canone, dacché questi poeti, pionieri dell’ignoto, non sono anti- nulla, a
nulla si contrappongono. Nato anch’egli all’estremo emisfero del Paese –
Calogero è di Melicuccà, Calabria; Menon di Medea, Gorizia, allora
austroungarica –, a differenza di Calogero, Menon ha avuto una vita, si direbbe,
in pienezza. Futurista per eccesso di giovinezza – nel 1930 pubblicò a sue
spese il nottivago: colse il plauso di Marinetti (“Ingegno indiscutibile…
Immagini audaci”), ma l’autore lo sconfessò, “rastrellò, facendole sparire,
tutte le copie in circolazione” – Menon fu straordinario professore al liceo
classico ‘Stellini’ di Udine, in grado di sedurre ed egualmente intimidire
legioni di studenti. Leggeva Pascal, Schopenhauer e i Sofisti, amava Giuseppe
Rensi, “filosofo solitario e inattuale per eccellenza”, tra i poeti preferiva
Rimbaud, Valéry e Sergej Esenin. Scrisse moltissimo, pressoché per sé, Menon:
dagli undici agli ottantacinque anni, scrive lui, “più di 100000 poesie, dicendo
10 versi l’una in tutto più di 1 milione di versi”; attività che esaspera in
vecchiaia (hanno contato “almeno 14mila poesie” scritte fra il 1993 e il ’99,
cioè all’incirca cinque poesie al giorno). In vita, uscirono un mannello di
poesie – diciassette – su “La Fiera Letteraria”, nel 1966, e un librettino, I
binari del giallo, edito da Campanotto nel 1998, con prefazione di Carlo
Sgorlon, che riteneva Menon “filosofo del nulla e poeta assoluto”. Morì poco
dopo, il poeta, nel dicembre del 2000; nel 1945 aveva sposato la ex allieva
Silvia Sanvilli: non ebbero figli perché lui non ne voleva; per tutta la vita
inseguì le jeunes filles, amori rubati all’ombra di un androne. Ormai anziano,
aveva “‘fatto amicizia’ con un uccellino che tutti i giorni veniva a posarsi sul
terrazzo dell’appartamento di via Carducci”. In molti ricordano il suo carisma,
l’impeccabile nitore del dire, le feroci conclusioni. Alcuni hanno ravvisato
nella sua opera, magmatica, indifesa e difforme, la petroglifica nitidezza di
Paul Celan.
Ciò che resta, appunto, è una poesia che va per lapidazioni e lacerazioni, che
spezza, sempre, l’occasione in stato d’assedio, che rimpolpa la parola di un
bestiario nuovo, di esseri zodiacali, con le zanne; questa, ad esempio:
> dentro di noi come uova di mosca
> dileguarsi con i congegni per le madri astrali
> stabiliti su acque icarie nelle frazioni del vento
> sbarrati e neri nei sai
> quando il tempo delle città apre le sue botole
> un calcolo reticolato sulla sinistra dei codici
> profilo di cifre marginali
> e l’uomo con le ascelle fiorite
> esperto di addii al livello dei grani
> abbandonato alla legge
> piomba nelle orine animali impastate di erba
> e altri dopo con ossature di tela
> il cuore sospeso all’aperto
> un chilometro più lungo della vita
> scattano oltre i canali sui denti della neve
> a risvegliare le controcorrenti dei pesci
> la contesa dei corni
> e altri azzurri di punta con occhi di metallo
> annotano la fuga ostile dei giorni
> al seguito dei cani gonfiati dalla luna
> dentro di noi covare la nostra profezia
> spiarci brevi nell’uncino e nell’elitra
> all’orlo dei cieli domestici
> insicuri sui nettari sulle croste del sangue
> predatori da gioco
> barattare con le lacrime l’insolenza delle parole
Passò la vita, lunga, ad annientarsi, Menon, “praticamente tappato in casa…
accuratamente nascosto agli occhi dei più, sfuggendo ogni anche pur minimo coté
sociale” (Cesare Sartori, qui come nelle precedenti citazioni). Non ci è
riuscito – chi è fuoco finisce per sfamare incendio, per richiamare accoliti. Da
anni, uno dei talentuosi allievi di Menon, Cesare Sartori – friulano, di
formazione filosofo, giornalista professionista per una vita –, che abbiamo
chiamato al dialogo, lavora, pressoché in solitaria, per ‘sistemare’ l’immensa
mole di scritti del poeta. Finora, ha curato tre libri – Poesie inedite
1968-1969 per Aragno, 2013; Qui per me ora blu per KappaVu, 2013; Geologia di
silenzi e altre poesie per Anterem, 2018 – una plaquette – non più di un
bisbiglio nella pena dell’essere, per le leggendarie edizioni pulcinoelefante,
2017 – e un sito meravigliosamente ben fatto, http://www.giangiacomomenon.it.
Anche questo accomuna gli autori del canone “avverso”: chiedono di
essere raccolti più che capiti. Bisbigliano. Pretendono il tu-per-tu. Prendono
il viso del lettore a due mani, come fosse una brocca. Non puoi trovarli nelle
antologie scolastiche perché troppo sottile, troppo feroce è il loro segreto.
Pretendono l’audacia chiamata dedizione.
La mania e il nascondimento. Intendo dire: come si spiega la scrittura fluviale,
compulsiva, ‘maniaca’ di Menon con la totale ritrosia a pubblicare, una sorta di
spudorato pudore?
Bello e azzeccato quello «spudorato pudore»! Menon aveva piena consapevolezza di
essere totalmente dedito alla poesia essendo la poesia il più grande, fedele,
immutabile, ossessivo e probabilmente unico vero amore della sua vita. Ma
coerentemente con la sua «decisione di assenza» dal mondo e dal circuito sociale
presa prima dei cinquant’anni (a parte l’attività di insegnante al liceo
classico ‘Stellini’ di Udine e le uscite da casa per inseguire dei suoi amori)
non faceva niente per promuovere o far conoscere i suoi versi. Aveva anche
consapevolezza del valore della sua poesia («Di Gian Giacomo Menon – scrisse
nell’agosto 1966 la “Fiera Letteraria” pubblicandogli 17 poesie – non sappiamo
quasi nulla. Sappiamo solo che è un poeta, un vero poeta, ed è questa l’unica
cosa che conti»), ma non si sarebbe mai ridotto a pietire ascolto e accoglienza
dagli editori bussando come un mendicante alle loro porte. A parte il nottivago,
il libretto con versi di ispirazione futurista uscito nel 1930, Menon non ha
pubblicato praticamente niente in vita nonostante una produzione abnorme: come
lui stesso dichiara in un appunto autografo che ho ritrovato tra le sue carte di
aver scritto dagli undici anni in poi oltre centomila poesie, più di un milione
di versi (che ha in gran parte distrutto prima di morire). La pubblicazione
sulla «Fiera letteraria» si deve all’iniziativa di altri: il critico letterario
Mario Schettini, lo scrittore Antonio Barolini… Ci furono poi, negli anni ’60,
tentativi di contatto con Feltrinelli ed Einaudi dei quali si occupò l’amico
antropologo Carlo Tullio Altan, risoltisi però in un nulla di fatto. E poi a due
anni dalla morte la pubblicazione a Udine per i tipi di Campanotto di una scelta
di versi per iniziativa e su pressante insistenza di Carlo Sgorlon dopo che era
andato a vuoto un mezzo impegno che il romanziere friulano aveva strappato, se
non ricordo male, a Marsilio.
Da dove viene la poesia di Menon? Intendo: cosa leggeva, cosa lo affascinava
della letteratura italiana ed europea? È possibile tracciare una ‘poetica’ di
Menon?
Menon ha un grande debito – da lui stesso più volte dichiarato – con i
simbolisti francesi: Mallarmé in primis, Rimbaud («Non so quanto e come capito»
ha scritto tre anni prima di morire) e Baudelaire, quindi Valery e il russo
Sergej Esenin. Sono questi i suoi numi tutelari. Gli esponenti principali
dell’ermetismo italiano invece Menon li ha nominati poco o punto. Ho ritrovato
soltanto un’annotazione manoscritta del ’97 dove sostiene: «Più (ma molto poco)
Quasimodo che Montale». In terza liceo (1967-’68) ci parlò a lungo e con
ammirazione di Lorenzo Calogero del quale erano usciti tra il 1962 2 il 1966 i
due volumi di Opere poetiche nella leggendaria e prestigiosa collana con le
copertine rosse di Roberto Lerici: un poeta, come si sta sempre più confermando,
che per ragioni esistenziali, stilistiche e linguistiche appare per Menon come
un ‘fratello gemello separato alla nascita’.
«Della mia poesia – ha annotato Menon nell’ottobre 1997 – non bisogna
preoccuparsi dei contenuti né dei messaggi o dei racconti ma di strutturazione
delle parole, dei ritmi, degli incastri, degli accostamenti, travestimenti,
tradimenti». E puntualizza: «La mia poesia è tutta basata sul ricordo, sulla
memoria e sulla trasfigurazione simbolica della realtà» e ne fissa le
caratteristiche fondamentali: «Prosodia, metonimia (la figura retorica
principale delle mie poesie, una parola per dire altro, una parola simbolo di
altro), simbolismo, nominalismo, scomposizione». E così, trasfigurando e
inventando, Menon riesce a compiere la titanica impresa di rinominare il mondo,
la vita vissuta, il presente e i ricordi. Forzando il lessico ai limiti
dell’indicibile, Menon sembra aver fatto suo il lapidario appello di Paul Celan
(poeta che a scuola, curiosamente, non ricordo che abbia mai nominato) per una
lingua «a nord del futuro». E ancora:
> «Poesia è silenzio di poeta, poeta rompe silenzio inventando parole, poeta non
> crede alle sue parole, fa credere le sue parole al lettore, poeta non sogna,
> poeta inventa sogni per gli altri, poesia non è fanciullezza, è alta maturità;
> è vita solo l’invenzione, il sogno inventato, non per crederci, non per
> sognare ma per fare sognare gli altri, per imbrogliare gli altri, ad esempio
> la poesia».
Ma nel ’97 rivendica orgogliosamente:
> «Io non ho avuto idoli, non mi occorrono maestri, io ho quello che mi occorre.
> Ogni uomo è sé, nessun paragone tra uomini, solitudine essenziale, un
> disincanto disperato e lì io nudo, solo, impaurito».
Che valore ha avuto il pellegrinaggio giovanile nel Futurismo nella vita lirica
di Menon?
Beh, credo che l’esperienza futurista a Gorizia (suo sodale e amico era
l’aeropittore Tullio Crali; insieme firmarono un manifesto futurista e misero in
scena una provocatoria pièce teatrale) tra i 18 e i 25-26 anni abbia lasciato in
lui segni duraturi. Istrionico e provocatore, attore consumato e Gran Narciso
(credo che le maiuscole nel suo caso siano obbligatorie) ma comunque bisognoso
di
un uditorio, Menon amava colpirti provocando stupore e sorpresa. Così riusciva
(o sperava di riuscire) a catturare l’attenzione dei suoi studenti. Il suo modo
di fare lezione era intrigante, suggestivo, affascinante: un seduttore quasi
irresistibile. Trasgressivo, controcorrente, mai banale, a volte feroce,
elitario (quelli, pochi, che stavano dentro il cerchio e quelli, molti, che non
ci stavano). Spesso ci fece ridere. Come ben ricordano tutti coloro che lo hanno
avuto come insegnante, l’elenco delle sue stranezze e bizzarrie comportamentali
è lungo. Eppure, se ripenso a quelle sue
stramberie, a quegli sberleffi di ex futurista ogni volta gli vedo spuntare
sulla faccia un sorrisino tra l’ironico e il beffardo, vedo balenargli negli
occhi un lampo di arguzia malandrina e sorniona. Sogghignava, il provocatore,
godendosi il nostro sconcerto, se la spassava tra sé e sé spiando «l’effetto che
fa».
Mi racconti un aneddoto, un frammento di vita che ci aiuta a capire il
‘personaggio’ Menon.
Ne scelgo uno fra i tanti perché mi pare tuttora emblematico e significativo per
capire meglio Menon. Soli, in un’aula vuota, una volta mi raccontò di quando,
sotto Natale, lui se ne stava rincantucciato nel buio di un portone a fare la
posta a una donna. «Mi vengono incontro due uomini – sillabò –, forse erano
cacciatori; parlano ridendo del gneur (la lepre in lingua friulana) che hanno
preso e di come se lo sarebbero sbafato in salmì con la polenta. Le lacrime
hanno cominciato a scendermi sul viso». Se il canto delle sirene della vita è
ammaliante e irresistibile per ognuno di noi, paradossalmente lo era a maggior
ragione per lui: quante volte mi ha confessato il rammarico e il rimpianto di
non poter essere come gli altri, di non potersi accucciare nella consolatoria e
stordente «normalità» della massa. Anche lui era alla ricerca di un nido.
Mi indichi una poesia a suo giudizio esemplare del lavoro incessante di Menon.
Ah, che domanda difficile! Sarebbe come chiedermi di scalare il Cervino con gli
infradito e in pantaloncini corti! Una su centomila! Bon, me la caverò così,
citando i versi pubblicati dall’amico Alberto Casiraghy in un suo
«pulcinoelefante» e pochi altri estrapolati da un paio di sue poesie:
«nido del sagittario
un grillo ha cantato
non più di un bisbiglio
nella pena dell’essere
(…)
coltivatore di ansie
uomo solo
vado con bagagli di vento,
speranze di infanzia,
i segni lasciati sul cuore
dalla tua mano
(…)
terra lenta dell’erpice
fatiche di una vita
si scardina il sasso dalla zolla
nello spavento della locusta
invidia di più forti ali
e l’erba resta sospesa nel vento
questa stagione di prove
non si appoggia a stelle matematiche
impotenti nei giri assegnati
contro il caldo furore del sangue
che tira il grido dalla sua parte
e ogni perdizione
non confondermi nell’istante della resa
non giudicarmi se l’occhio si fa vetro
sulla parete offesa dalla rinuncia
tutto umano è il piede
che incontra il suo ostacolo
il braccio che decide di abbassare lo scudo».
Quando e perché ha cominciato a dedicare forze e spirito a Menon? E poi: cosa ci
resta da scoprire di Gian Giacomo Menon?
Era il 2010, ero andato in pensione dal giornale dove ho lavorato per trent’anni
(“La Nazione” di Firenze) e ho deciso di fare qualcosa perché il velo dell’oblio
non cadesse inesorabile a coprire il ricordo di Menon come insegnante e come
poeta. Perché l’ho fatto? Per il debito, il grande debito di riconoscenza e di
gratitudine che ho sempre avuto – e continuo ad avere – nei confronti del
“fatale professore”. Ricorda l’indimenticabile professor Keating dell’Attimo
fuggente, quello di «Oh Capitano, mio Capitano»? La Giulia Terzaghi dell’Ora di
lezione di Massimo Recalcati? O quell’imperdibile libro che è La lezione dei
maestri di George Steiner? I motivi, il perché li trova lì. Menon aveva alcuni
doni che riversava generosamente intorno a sé. Intanto il carisma (χάριςμα),
quell’attributo che significa grazia, autorevolezza, prestigio, dottrina,
saggezza, sapienza, fascino… e che, come il coraggio di don Abbondio, uno se non
ce l’ha difficilmente se lo può dare.
Poi aveva il λόγος, polisemica parola greca che vuol dire tante cose: parola,
discorso, intelligenza; ragione universale e pensiero divino secondo Eraclito;
ragione generatrice che conferisce ordine e vita a tutte le cose per gli stoici;
quel qualcosa che contiene in sé il bello, il buono e il giusto stando a
Plotino… Terzo, Menon fu un impareggiabile pontifex, letteralmente un
costruttore di ponti tra culture e discipline diverse, ponti gettati verso e sul
mondo per sfuggire alle ristrettezze culturali e mentali della piccola provincia
udinese; un «insegnante-testimone capace di aprire mondi attraverso la potenza
erotica della parola e del sapere che essa sa vivificare» (Recalcati). Per lui
non eravamo «vasi vuoti da riempire, ma fiaccole da accendere» (Plutarco). Che
poi, a ben vedere, è lo stesso atteggiamento, volutamente provocatorio, che
Socrate adotta nei confronti del giovane Agatone nella scena iniziale
del Simposio.
Gian Giacomo Menon (1910-2000) in una rara posa ‘mondana’
Chi ha avuto Menon come insegnante ha avuto una fortuna: quella di trovarsi a
contatto con il riverbero di una mente sopraffina e di alto livello. Tutti i
suoi allievi hanno sperimentato direttamente la ‘minaccia’ che tale contatto
costituiva, ne sono stati in qualche modo ‘infettati’ perché è noto che
l’eccellenza può dimostrarsi spesso brutale e che confrontarsi con essa è
un agòn, un pòlemos. A scuola come nella vita. Dopo quel contatto, però, molti
di loro non hanno più potuto dimenticare né quella luminosità né quel riverbero
né quella ‘minaccia’. Forse sono inattivi e silenti quei germi, quegli agenti
dell’infezione, ma sono sempre lì, in agguato, annidati in loro e pronti a
balzar fuori. E molti ex allievi ancora oggi sono fieri di essere
‘sopravvissuti’ alle sue lezioni. Quando sei stato esposto a quel virus – anche
Menon trasmetteva quella contagiosa ‘malattia’ che Melanie Klein ha chiamato
epistemofilia, la libido sciendi, la brama di sapere –, non importa quanto a
lungo, te ne rimarrà sempre un riverbero, uno stigma. Per il resto della tua
carriera e della tua vita privata, magari del tutto normali, magari banali e
prive di distinzione, avrai sempre, come avverte George Steiner, «una protezione
contro il vuoto». Chi scrive considera un privilegio l’essere stato uno dei suoi
allievi e ai suoi figli, quando hanno fatto il loro ingresso alle superiori
(quella fase che corrisponde probabilmente alla più importante, formativa e
magica stagione della vita), ha augurato soprattutto una cosa: di avere nella
loro vita scolastica almeno un insegnante, fosse pure uno solo, come la Giulia
Terzaghi, il John Keating o… il professor Menon della sezione A del liceo
classico ‘Stellini’ di Udine.
Come il vecchio Dencombe di quello stupendo racconto di Henry James che è Mezza
età, anche Menon «ha fatto vibrare qualcuno» che è la cosa che più conta quando
tiri le somme della tua vita. Oh, sì, Menon ci ha fatto vibrare, ne ha fatti
vibrare molti: di desiderio di sapere. «In una classe quanti allievi pensi che
debbano seguire con partecipazione le mie lezioni perché io mi ritenga
soddisfatto?», mi chiese una volta. «Mah, non so – risposi –, la metà, un
terzo…». «Uno, me ne basta uno per classe!», rispose. Anche ai veri cabalisti e
a certi maestri eremiti era concesso un solo discepolo; Nietzsche ebbe un unico
allievo.
I dialoghi platonici, le lettere di Seneca a Lucilio, la scuola di Tagore sono
lì a dimostrare che non è importante soltanto che cosa si insegna, ma anche come
si insegna. Lo sanno bene gli insegnanti e lo sa anche chi insegnante non è, che
si può insegnare in tanti modi, ma che l’unico modo per insegnare con grandezza
e lasciando un segno davvero duraturo è suscitare dubbi e domande negli allievi,
promuovere e sollecitare il loro senso critico, aprire e far ‘sorgere’ per loro
mondi nuovi, inattesi, sconosciuti, inaspettati, allenarli al dissenso,
prepararli al distacco: «Ora lasciatemi», ordina Zarathustra; Empedocle prega il
suo discepolo di lasciarlo solo sul ciglio del cratere.
A suo avviso, come si colloca Menon nella poesia italiana del Novecento e cosa
manca perché il suo nome compaia nei repertori antologici della letteratura del
nostro paese?
Non lo so. Non sono un accademico né un critico letterario, non ho la competenza
per esprimere giudizi se non dire che a me la poesia di Menon piace. La poesia è
un mistero, come l’amore. Se i versi che stai leggendo non risuonano dentro di
te, se non ti cantano dentro non c’è barba di esegesi critica che possa farlo.
Posso però dire perché la poesia di Menon è ancora in larghissima parte
sconosciuta o misconosciuta nonostante il sottoscritto da quindici anni ci provi
a diffonderla, a farla conoscere: distrazione, pigrizia, scarsa propensione ad
accogliere il nuovo e a lavorarci sopra… Oh, sì ho incassato riconoscimenti e
attestazioni di stima anche autorevoli, ma Menon non ha ancora sfondato a
livello nazionale come invece, secondo me e secondo alcuni altri lettori molto
competenti, meriterebbe. Ma la speranza è dura a morire! Provare, fallire,
provare ancora, fallire meglio… Io di certo non mi arrendo!
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poeta, un vero poeta” proviene da Pangea.
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Nel 1910, a Copenaghen, esce un libro a suo modo decisivo. S’intitola Vita del
lappone, lo ha scritto Johan Turi in uno stile, al contempo, crudo e fiabesco,
come appena estratto dal fuoco, una specie di nordica Lascuax. Nelle fotografie,
Turi ha lo sguardo ad accetta, occhi che contengono boschi. Nato nel 1854,
faceva l’allevatore di renne; il suo libro, scritto in lingua sami con la
traduzione in danese, fu pubblicato in diverse lingue: in Italia è al 235 della
“Biblioteca Adelphi”. Il libro ha una leggiadria adamitica, la prontezza delle
cose prime e nude: si parla di bestie, di estati come coltelli, di segni nel
suolo e nel cielo e della “pietra del serpente”; le costellazioni si chiamano
“Alce”, “Branco di cani” e “Sciatori”; la Via Lattea è la “Scala degli
uccelli”.
La data in cui è pubblico il libro è importante: di lì a poco i Sami, etnia
indigena del Nord, verranno ripetutamente vessati dalle entità statali,
Norvegia, Finlandia, Svezia, a estirpare terre, a sradicare tradizioni. Non a
caso, intorno a quella data, nel 1913, attracca Ædnan, il poema epico di Linnea
Axelsson, poetessa svedese di origine Sami. Edito nel 2018, Ædnan – che in Sami
significa “terra”, “luogo natio” quando non “madre, matria” – racconta, in
versi, la saga di una famiglia Sami, tra enormità di panorami, apparizioni di
morti, vessazioni, dai primi del Novecento al nostro millennio. Il ritmo imposto
dalla Axelsson contrasta con il tambureggiare dell’epica tradizionale: i versi
sono brevi, a volte brevissimi; si procede per singulti e apocalissi in palmo di
mano; c’è molto bianco intorno, tanto che le parole paiono impronte di renna
sulla neve, rivoli di una danza antica e perduta, di uomini-pernice, di
uomini-gufo. Un esempio:
“Mi addentrai nella palude
dei lamponi gialli
–
Avanzai
finché potei
poi mi spogliai
sciolsi i nodi dei pantaloni
e li riempii di bacche
–
Annodai lo scialle con
della stoffa e ne feci
uno zaino
ricolmo di bacche
–
Una pozza nera
si aprì nel muschio
l’acqua era fredda
meravigliosa per la nuca
–
Allora spuntò
scura nel cielo
l’aquila reale
l’occhio giallo
e nero
–
Nell’occhio giallo
il mondo ebbe
un altro riflesso
–
Dischiuse gli artigli
e si gettò su Aslat
lasciai le bacche
e corsi gridando
con le braccia alzate
–
Vidi l’immenso
rapace volare via
–
Tutto era come sempre
ma c’era un’ombra”
Tradotto in inglese, da Knopf, nel 2024, Ædnan ha avuto un impatto importante:
il libro, tra l’altro, è stato finalista al National Book Award for Translated
Literature. Di questo “ambizioso romanzo in versi”, an Arctic epic from Sweden,
ha detto il “Guardian”, toccando il punto centrale del testo: “in ogni pagina,
distese di spazio bianco, a memoria di una narrazione fatta di assenze,
fratture, silenzi, oblio e mutilazione”. Una porzione di Ædnan è stata tradotta
da Maria Cristina Lombardi – già traduttrice, tra l’altro, del fenomenale poema
epico-cosmico Aniara del Nobel per la letteratura Harry Martinson – nel libro
libro collettivo Voci di donne dal Nord, edito da Crocetti (in cui sono
sintetizzati, per poesie-totem, i lavori, oltre che di Linnea Axelsson, di Eva
Ström e di Ann Jäderlund).
Lei è Linnea Axelsson
Ædnan, soprattutto, è il poema di una lingua defunta che risorge rifulgendo (“La
lingua sami dormiva/ da tempo nel corpo/ bloccata// dentro/ dalla vergogna…//
Come se mai/ noi e i nostri avi/ fossimo esistiti// mai avessimo/ costruito
nulla”). Di una lingua dissotterrata, di minime, esigenti tracce nella neve che
tornano artigli, il ruggito del profondo Nord. Certo, il poema s’infittisce
nella nostalgia: le parole descrivono ma non operano; la danza, non più
sciamanica, è sciamannata, dei fasti restano le vestigia, le braci – pigolano
gli astri. Su tutto, tuttavia, agisce lo straordinario.
Con l’aiuto della Lombardi, abbiamo contattato Linnea Axelsson, a dare ligneo
lignaggio a questa lingua.
Come è nata l’idea di scrivere un poema epico sui Sami? Come ha scelto di
strutturare il libro?
Più che un’idea iniziale, sono stati il lavoro e il materiale ad ispirarmi la
scrittura di un poema epico sui Sami: la poesia epica è stata una scoperta che
poi ho messo in pratica. Credo che un’opera si sviluppi da un’immagine interiore
che funge da orientamento verso un certo linguaggio, una data struttura, un
mondo che il lettore è chiamato ad immaginarsi. Nel caso di Ædnan, l’immagine,
almeno come come la ricordo, era un volto di donna, o meglio, il silenzio nel
suo volto. Fu lei che durante la stesura del testo haportato con sé lo spazio
(Sápmi, la terra dei Sami), gli eventi e gli altri personaggi. Pian piano
l’ampiezza e la natura del materiale – ad esempio, le relazioni interpersonali e
lo svolgimento della narrazione nel tempo – iniziarono a suggerirmi che forse il
racconto sarebbe stato più adatto alla prosa che alla poesia. Prosa e poesia
sono costituite dagli stessi elementi, ma si utilizzano in modi diversi e con
enfasi diversa. Non mi pareva giusto scrivere un romanzo, sarebbe stato come
assolvere a un compito inesatto. Così, a un certo punto, mi è venuta in mente la
tradizione epica, e allora mi sono presa una pausa necessaria. Non nel senso che
ho cominciato a leggere i poemi epici antichi; piuttosto, ho iniziato a
impostare alcuni principi formali di riferimento. Ho riflettuto a lungo intorno
alla tradizione degli joikar sami che sono contemporaneamente canto, tradizione
poetica più o meno narrativa, e strumento per ricordare e conservare le memorie.
Come è riuscita a trovare il ‘ritmo’ adatto al poema? Intendo dire: nel poema si
coagula una lingua arcana, arcaica, ma anche un tono proprio della poesia
contemporanea. Mi spieghi il suo processo linguistico.
Trovare il ritmo è stato decisivo ed è parte della forma stessa del poema: versi
brevi, scarsità di parole, silenzio. Questo mi ha ispirato un sensazione di
ampiezza e di movimento, nello spazio e nel tempo, che tenesse insieme e
caratterizzasse la narrazione. Ci è voluto molto a trovare il giusto ritmo: in
qualche modo, è scaturito durante la scrittura. Altre volte mi è accaduto di
sentire un ritmo senza nessuna parola, che solo dopo è divenuto poesia, ma non è
il caso di quest’opera.
Il ritmo è anche legato alla respirazione e allo svolgimento, nel senso che
nasce quando una poesia si muove tra qualcosa di quotidiano, che senti sulla
pelle, e qualcosa di cosmico, di esistenziale. Produce suono e realismo. Lo
stesso svolgimento si rispecchia nella parola: un termine della sfera quotidiana
o comunque della contemporaneità si incontra con una parola più solenne, più
carica di connotazioni o più antica, riuscendo nella poesia a essere avvertito
come semplice e naturale al pari della parola quotidiana.
Per molto tempo – oggi non è più così – sono stata attratta dall’arcaismo
facile, sia perché amo le profondità e le diverse fasi della lingua, sia perché
quello che devo costruire non è documentato, ma vive nella narrazione orale,
nelle fiabe, nel mito. In Ædnan ho cercato anche di cogliere un certo suono che
credo fosse tra i Sami nell’ambiente in cui sono cresciuta quando si parlava di
cose come lo stato e gli svedesi, o come quando si raccontavano aneddoti.
Quali sono le fonti di cui si è nutrita? In Italia è abbastanza noto il
resoconto di Johan Turi, ma per il resto il popolo dei Sami appare tra le brume
della leggenda. Quali sono i miti miliari, decisivi dei Sami?
Uso tutto quello che posso: ricordi, cose che ho sentito e ho visto, che ho
letto. Più importante di tutto è l’immaginazione, lo spazio per la capacità di
rappresentazione che dobbiamo conservare in noi stessi. Non faccio ricerca nel
senso giornalistico ma, al contrario, evito di leggere proprio di ciò su cui
scrivo.
Detto questo, sono sempre stata interessata e ho letto tanto sulla storia e
sulla mitologia dei Sami, ma la grande fonte, quando si tratta di questa storia,
è fatta di esperienza, cultura e narrazione orale, dunque, dalle conoscenze che
si tramandano in famiglia, tra parenti e amici. Molte culture, come quella sami,
si scontrano con due fattori essenziali: la propria storia scritta, quando non
sia stata resa del tutto invisibile e assimilata, è stata comunque a lungo
formulata da qualcun altro, e che ciò che si conserva ci si aspetta sia
autentico.
Nella mitologia sami ci sono divinità e miti della creazione. In realtà, non so
quanto delle fonti scritte sia influenzato e concepito dai colonizzatori che per
primi l’hanno scritta e tramandata. Ho riflettuto a lungo e non so se i
termini dèi e dèe funzionino veramente. Ad esempio, Sáráhkka[1], non è piuttosto
una forza che non una dèa nel senso occidentale del termine? Forza generatrice e
maternità sono presenti anche nelle acque di un lago.
Mi sembra che il suo poema epico abbia altresì un ruolo ‘politico’. Quali
reazioni ha risvegliato il libro dopo la pubblicazione?
Quando Ædnan è uscito in Svezia, credo abbia contribuito ad aprire gli occhi ai
lettori svedesi sulla loro storia e sulla situazione coloniale del paese: che la
Svezia non è mai stata un paese con un solo popolo. Tra i lettori Sami, se
parliamo da un punto di vista storico e politico-sociale, le reazioni sono state
ovviamente di altro tipo: riguardando soprattutto aspetti come rappresentazione,
riconoscimento, ecc. Io sono un po’ indecisa se considerare il
poema politico oppure no. Credo che tutto quel che scrivo abbia in sé un piano
politico. Ma sono assolutamente convinta che le eventuali verità sulla nostra
vita si possano scoprire solo attraverso l’immaginazione, liberandosi da ogni
dovere e impegno, e che qualsiasi riflessione su temi e aspetti politici emerga
molto tardi nella stesura di un’opera, se non addirittura mai.
Quali sono le letture che la hanno formata, i poeti che può appellare a maestri?
Sono molti e diversissimi tra loro. Nils Aslak Valkeapää, Birgitta Trotzig,
Robert Musil, Elizabeth Bishop, Ingeborg Bachmann. Mi piace moltissimo leggere
testi teatrali: Harold Pinter, Lars Norén, Brian Friel. Qualche volta leggere è
quasi come andare dal medico: è qualcosa di molto preciso quello che mi
prescrivo.
Oggi, nell’era dell’algocrazia, delle guerre continue e dell’intelligenza
artificiale, che senso ha la poesia? Che senso ha l’epica?
Mi viene voglia di rispondere che il senso della poesia oggi è lo stesso che è
sempre stato. La poesia sembra essere qualcosa cui si ricorre in situazioni
terribili. Lo vediamo oggi a Gaza: sia i palestinesi a Gaza che uomini e donne
in tutto il resto del mondo scrivono poesia che, in modi diversi, nasce
dall’attuale genocidio. Lo abbiamo visto nei campi di concentramento del Terzo
Reich, dove gli ebrei scrivevano poesie nonostante rischiassero la
vita. È un segno del significato della poesia, ma ilsignificato è difficile da
determinare. Per me, come lettrice e poeta, ha a che fare con il lavoro
linguistico, con la lingua come essere vivente, con l’immaginazione,
l’attenzione e la concentrazione. Ha a che fare con il piacere e la realtà.
Cioè, con un aspetto della realtà.
È come se poesia, letteratura e arte fossero un fiume che scorre accanto alla
vita, dalla stessa sorgente. Sono legate e si rispecchiano a vicenda, ma la
letteratura non può essere solo uno specchio, una rielaborazione o
un’esplorazione. È costruzione di se stessa. La poesia dovrebbe essere un
vortice ben definito, e i vortici portano ossigeno al fiume. Per me, poesia
epica non significa che il testo presenti una certa lunghezza, o si espanda in
un certo arco temporale o che sia narrativo allo stesso modo di un romanzo. Per
me la poesia epica è legata alla memoria e alle storie. Storie che possono
conservare il nostro contatto e la conoscenza delle nostre origini, e
testimoniare la qualità del nostro rapporto con tutto ciò che vive.
(Traduzione di Maria Cristina Lombardi)
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[1] Dèa dello sciamanesimo, protettrice del parto, venerata nelle regioni
abitate dai Sami in Svezia e Novegia.
L'articolo “La lingua sami dormiva, bloccata dalla vergogna”. Dialogo con Linnea
Axelsson proviene da Pangea.
Gliel’ho detto così, brutale, a bruciapelo. Il tuo libro non mi è piaciuto.
Sembrava saperlo. Sembra sapere tutto. Sembrava sollevato. Poi ho capito
qualcosa – che dirò più tardi.
Con La Repubblica italiana dei poeti – Edizioni Industria & Letteratura, 2025 –
Andrea Temporelli tenta di costruire un orizzonte per comprendere la poesia
italiana contemporanea. Lo fa consapevole del frainteso, per un bene più grande,
a mo’ di lascito. Più che la costruzione di un nuovo canone, mi pare la sua
disfatta – qualcosa di simile all’Uranometria di Johann Bayer, dove gli ammassi
stellari possono sembrare draghi, pellicani ed eroi omerici fuori tempo, oppure
meri emblemi del nostro disorientamento. In sostanza, Temporelli passa in
rassegna oltre seicento poeti. Neppure troppi, se si pensa che Pier Vincenzo
Mengaldo, nel ’78, ne ha riferiti, a rappresentare i Poeti italiani del
Novecento, una cinquantina – non tutti indimenticabili –; un numero che è
andato, con lo svolgersi dei decenni, drammaticamente levitando.
La Repubblica italiana dei poeti – io propendo ancora per la “Dittatura
dell’unico” – è costruita a contrario rispetto a una comune antologia. Dopo aver
impilato i poeti di cui occorre “leggere tutto”, “tutto o quasi”, “tutto o quel
che si può” (il che è tutto risolto a pagina 28), l’autore si impegna – per le
successive duecento e passa pagine – a dar conto degli esclusi. Questa porzione
del libro s’intitola La cura degli assenti; non è secondario ricordare – a dire
della mente simbolica dell’autore, nel senso che tiene assieme tutto – che
quello è anche il titolo di una recente poesia di Temporelli (il quale, per buon
gusto – anzi, con alta malizia –, non si auto-antologizza), apparsa su un numero
di “Poesia” (n.31, Maggio-Giugno 2025). Ne ricalco alcuni lacerti, i più belli:
> “La neve invece
> prepara il fango, l’usura del gelo, il silenzio
> ingoiato per fame, vera fame. […]
> L’osso scartato dai cani
> è la prima idea del mattino”.
Nel circuito di queste parole – la neve e la fame, l’osso, il mattino, i cani –
si trova forse la chiave per comprendere La Repubblica dei poeti.
Smetto di cianciare.
Il lavoro di Temporelli è folle: richiede la mente di Cartesio in un corpo
dionisiaco. La danza, selvaggia, pretende, perché la profezia si avveri, di
polverizzare tutto: così un figlio s’india nel padre e il padre può smettere di
essere padre, ma acqua, mano, neve.
La Repubblica italiana dei poeti, attaccavo, è un libro che non mi piace. Ovvio:
la vertigine dei nomi – legionedirebbe l’evangelista – fa svenire, fa venir
voglia di consacrarsi ad altro. Ma sarebbe sbagliato perché ogni singola vita –
insegna l’autore o la sua ombra – va benedetta. Non mi piace, dicevo, perché ho
avuto il privilegio di scorrazzare nella savana di “Atelier”, la rivista ideata
da Marco Merlin – l’altro lato di Andrea Temporelli, il suo idolo – trent’anni
fa e da lui diretta fino al 2013. A quell’epoca – di cui potete leggere tutto –,
era già tutto chiaro, con furia lungimirante, ad alto grado di ebbrezza: la fine
dei ‘maestri’, l’implosione di ogni ordine di autorevolezza (ergo: pubblicare
per ‘Lo Specchio’ Mondadori equivale a stampare per l’editore-artigiano sotto
casa), la latitanza da ogni orizzonte di gloria, il brigantaggio del linguaggio,
la critica spettrale, atta a certificare la lebbra, la morte-in-vita. Alla
letteratura, appunto – con le sue stole, le moine, i premi, il delirio
patologico dell’egotismo – preferimmo la vita. Per intenderci, così scriveva
Marco Merlin nell’editoriale di “Atelier” del marzo 2004:
> “La nostra parte ci è chiara. Quello che spetta a noi è stare, verticali,
> dentro il nostro respiro, smemorati del nostro nome, aperti a tutto, senza
> privilegio alcuno da difendere. Ma anche senza la paura di testimoniare le
> passioni che ci animano e di soffiare sull’orizzonte, per vedere se qualche
> zolla comincia a bruciare”.
Ho conosciuto Marco Merlin attorno a un editoriale dal titolo che ancora brucia,
“Militare più che militante”. Era il 2001. Quegli editoriali (dai
titoli-emblema: “Siamo poeti o giullari?”; “Fine del Novecento”; “Lo scisma
della poesia”; “La poesia è una marchetta”; “Liberarsi dalla letteratura”), che
costituiscono una delle audacie più pure e più folli della poesia recente, sono
stati poi raccolti in un libro, Smarcamenti, affondi e fughe(Giuliano Ladolfi
Editore, 2016). L’autore di quel libro risulta essere Andrea Temporelli – in
realtà è Marco Merlin. Andrea Temporelli – che ho chiamato al dialogo – ha
inglobato e divorato Marco Merlin, maestro di cui sono ormai orfano.
Ricalco alcune frasi – come sempre di miliare potenza, che istigano a un compito
– con cui Temporelli chiude La Repubblica dei poeti. “La competizione, semmai, è
crescere verticali su sé stessi per raccogliere più luce”; “Riconosciamo nel
dissenso e nella diversità di vedute l’unica opportunità sensata e interessante
per superare la palude contemporanea. Il nemico leale sarà il vero maestro, la
pietra per saggiare e rafforzare il talento”.
Ora ho capito – dicevo al principio. La ridda di nomi serve per disfarsene – per
disfarsi, soprattutto, del proprio sguardo ‘critico’, del proprio io. Un
ritornare puri dopo la puritana guerra. Sporchi, luridi – ma vivi.
Andrea Temporelli ha scelto il deserto – che lo dica bosco è lo stesso. Lo
chiamerò Ismaele. Il figlio di Abramo “abitò nel deserto e divenne un arciere”
(Gn 21, 20). Arciere in ebraico si dice qashshath, parola che viene usata
soltanto una volta in tutto il Testo, per onorare Ismaele. Il figlio sinistro ha
destrezza nell’arco, non si fa addestrare dalla trafila del Patto. Alla Terra
Promessa preferisce il Nessundove dei rettili e dei cavalli rudi, dal pelo
ispido, le dune e le tende al giardino del tempio. Mi viene in mente il bel
libro di Octavio Paz, L’arco e la lira – ma lì si parlava di Apollo. Chissà se
il dardo sibila in endecasillabi prima di avverarsi nella preda. Parole,
parole.
Immagino Temporelli, di spalle, l’arco a tracolla – ed è tutto.
Andrea Temporelli: che fine ha fatto Marco Merlin?
Finalmente si è tolto dalle scatole. Me lo sono divorato e sbocconcellato fino
all’ultimo brandello e ora, dopo una bella dieta dimagrante, posso scattare
senza ingombri oltre il suo territorio limitato. Averlo fatto fuori, mi
permetterà di scrivere, disinibito, lasciando ad altri la teoria e il lavoro
critico. Temo solo che qualcuno voglia fare pagare a me i suoi debiti. Ma, si
sappia, non ci penso nemmeno. Mi chiedo, divertito, quanto tempo gli altri ci
metteranno a capire che non c’è più.
Che rapporto c’è tra “L’opera comune” e “La Repubblica italiana dei poeti”?
Idealmente, sono due meravigliosi fallimenti concentrici. Il primo, entro il
raggio ristretto dell’amicizia; il secondo, con un raggio quasi illimitato che
rilancia in una dimensione politica la medesima utopia.
Che rapporto c’è, nel tuo ‘metodo’ poetico – dunque, esistenziale – tra il
deserto che ti sei scavato e la massa di poeti – una schiera, una falange, una
squadriglia – che hai scovato?
Non lo so. Era una domanda da porre a quell’altro, che non c’è più. Io non
possiedo il metodo, semmai ne sono posseduto e solo dall’esterno qualcuno potrà
descriverlo. Per me la massa è il deserto.
I maestri sono scimmie ammaestrate che desiderano portaborse, l’autorevolezza
editoriale è defunta da un pezzo, gli editori ‘di peso’ equivalgono ai pesi
piuma. In questo spazio – che dura da più di un ventennio – di libertà assoluta,
che senso ha rifondare un canone, perimetrare un ‘orizzonte’?
Tutta la vicenda umana consiste nell’innalzare castelli di ghiaccio nel deserto!
Lo si fa per obbedienza a un senso di bellezza, alla bellezza di un senso che ci
sfugge. Detto questo, tu lo sai bene e lo hai spiegato: si fa l’appello per lo
sterminio della vanità, per attraversare il fuoco dell’opera (nostra, altrui,
comune) che ci travalica, che diventa dono. Di maestri non ne ho più bisogno,
ormai. Ma non fraintendermi: preferirei averne ancora desiderio, significherebbe
essere ancora giovani e aperti a molteplici sviluppi. Alla mia età, però,
sarebbe patologico insistere a cercare “padri”. Quelli che si sono presentati
come tali, erano padrini incapaci di riconoscere e difendere la profezia degli
eventuali figli e, dunque, non c’è stato reciproco riconoscimento. Hanno
preferito, come indichi nella domanda, la gratificazione immediata del
rispecchiamento. Si sono bruciati da soli, in tal senso. E sono fiducioso: la
loro eredità, per fortuna, andrà perduta. La loro autoconsacrazione nel canone
non ha fondamento. Io, con questo libro, rimetto idealmente tutto in
discussione. I conti con la tradizione, vivaddio, sono sempre aperti, e lo
sguardo determinante è quello dei posteri, degli alieni che equivocheranno,
rimedieranno, rimuoveranno secondo la loro logica, non secondo quella di chi li
ha preceduti.
Lui è Andrea Temporelli o Marco Merlin?
Nella tua “Repubblica” pare che la quantità abbia soppiantato la qualità. Mentre
il secolo scorso si può riassumere entro una piramide di nomi e di dicotomie
(Pascoli/D’Annunzio; Ungaretti/Montale/Svevo; Luzi/Zanzotto/Sereni/Caproni etc.,
con singolarità satellitari – es. Campana, Sbarbaro, Rosselli, Bertolucci,
Pasolini, Pozzi…) l’oggi è l’assembramento di centinaia. Il poeta è detronizzato
dallo storicismo, dall’orizzontalità dilagante, da una analfabeta
alfabetizzazione? Cosa?
Siamo passati dall’umanesimo aristocratico, con i suoi pregi e difetti, alla
democratura dell’individualismo capitalistico. Ma la rete si sta formando: i
nodi strategici si rafforzeranno, le cricche saranno poste ai margini, la
coscienza generale lascerà emergere le nuove strutture, e anche la matassa ora
apparentemente indistricabile in cui ognuno pare avere il diritto di
autorealizzarsi (in qualsiasi pratica sociale o forma d’arte) avrà una sua
figura riconoscibile. Manca qualcuno, nel mio catalogo? Indubbiamente. Tu
aggiungeresti, mi hai detto, Ivano Fermini, io Sonia Gentili e, forse, Ugo
Magnanti e Domenico Segna; ma anche qualche decina di nomi ulteriori non
smuoverebbe la massa critica di oltre seicento autori (selezionati!). Per questo
la fotografia del panorama resta complessivamente credibile e, adesso che il
perimetro è ragionevolmente chiuso, si potrà anche eleggere i pochi che
veramente svettano – spiegando perché, rendendo ragione, insomma, di tutti gli
altri. Questo è l’intento del libro. Se poi si vorrà ammettere che non svetta
nessuno, che abbiamo tante colline e che in generale la produzione poetica è
buona (una visione ottimistica e inclusiva), sia pure. Saremo un’epoca di
produzione di massa da cui prendere, di volta in volta, esempi a capriccio. Per
quel che riguarda me, invece, arriverei a dire che i poeti che mi interessano e
che continuerò a seguire sono pochissimi. Due mani per contarli basteranno.
Che rapporto c’è, cioè, tra il singolare talento di un poeta e la ‘comunità’ dei
poeti?
Vedo che fatichi anche tu a ricordarti che Marco Merlin non c’è più. È una
domanda a cui lui avrebbe saputo rispondere. Non a caso, la Repubblica italiana
dei poeti non è un suo libro, perché non ha metodo e uniformità di sguardo
critico. È il bolo fermentante, il rigurgito con cui ho digerito ciò che lui
avrebbe voluto apparecchiare con perizia tecnica. Perdonerai l’immagine
infelice, che però coglie nel segno.
Che differenza c’è, cioè, tra generosità ed ecumenismo, tra dottrina e
indottrinamento?
Non lo so. Umanamente e intellettualmente, mi addestro alla generosità, con
risultati alterni. L’ecumenismo e l’indottrinamento spettano a chi ha qualche
idea da imporre agli altri. Magari qualche poetica. Io invece non ne ho. Non a
caso, nel libro non escludo nessuna ipotesi di poesia, nessun orientamento
specifico.
In un recente incontro, hai usato la parola ‘benedire’. Spiegami: cosa significa
nel contesto della tua ricerca?
Benedire significa dire bene. Pronunciare un nome in modo che il chiamato si
senta compreso, rispettato, amato. Significa riconoscere l’alterità. Anche
quando si convoca l’altro per una responsabilità, per chiedere di rispondere a
qualcosa che ha che fare con la relazione. Occorre benedire ogni poeta, e
benedire ogni epoca. Anche la propria, che è sempre così facile da disprezzare.
La poesia all’epoca dell’Intelligenza Artificiale: che senso ha? Che poeta
verrà?
Non lo so. Ma sono molto curioso. Penso che mi troverò a mio agio nella
strategia della continua evoluzione di pensiero e di stile. L’IA è il terreno in
cui coltivare la Maniera. L’arte sopravvivrà in forme più selvatiche. L’errore,
l’imperfezione, lo scatto qualitativo imprevisto rispetto al sistema saranno le
stimmate della verità poetica. E l’errore evolutivo, lo scarto, ogni forma di
smarcamento hanno a che fare con l’emozione, che resta supporto
dell’intelligenza umana, come ha dimostrato Damasio.
Ma chissà, staremo a vedere.
Mi pare che la poesia abbia perso premura di profezia, è così orientata al tempo
presente da perderlo di vista. Sbaglio, sono un qualunquista?
Ciò che è davvero presente, pre-sente. Ma molti poeti, hai ragione, non sono
presenti a sé stessi, perché si fissano nello specchio, anziché guardare la
scena in cui sono essi stessi inseriti. Forse, la fotografia dell’oggidì
scattata in questa Repubblica italiana dei poeti fornirà a qualcuno la scossa
per risvegliarsi dall’incantamento.
E ora… cosa scrivi?
Ho una raccolta di poesie quasi pronta; si intitola Luz. Ho in gestazione un
poema, per ora informe. Queste le sento come due opere urgenti, che vorrei
licenziare quanto prima, per determinare un punto di non ritorno. Ma sto
concependo anche un romanzo fantasy, o forse più propriamente epico, che
potrebbe anche abortire e ho un semenzaio di appunti su quaderni e diari
piuttosto vasto. Ho il presentimento di un flusso poetico che vuole emergere in
modo continuativo con una sua particolare struttura, insieme mossa e
determinata. Mi tenta, per tutte queste avventure, l’ipotesi di dedicarmici in
una condizione di libertà dalla pubblicazione. Molto di ciò che scriverò, oltre
ai prossimi due passi poetici (Luz e il poema), potrebbe restare inedito per
scelta. Non so. Non vorrei che fosse il segno di una resa, un alibi rispetto
alla “lotta” per difendere ciò in cui si crede. Ma l’idea di attendere i
fatidici nove anni prima di rileggersi ed eventualmente proporsi a un editore mi
piace, mi dà pace. O magari andare ben oltre i nove anni. Ci pensi anche tu?
Scrivere per non pubblicare, ma solo per dedicarsi all’opera. Che vertigine di
libertà!
*In copertina: Leonardo da Vinci, Studio per la testa di un guerriero, 1504 ca.
L'articolo “Benedire tutto, crescere verticali su sé stessi”. Dialogo con Andrea
Temporelli proviene da Pangea.
Entro in una libreria, siccome è per bambini è come se gli adulti s’inventassero
per sé un cartello all’ingresso che li esclude. Scelgo Il segreto delle cose di
Maria José Ferrada e mettendo giù Il borsellino della sirena e altre poesie di
Ted Hughes prendo a leggere le prime pagine di Dizionario segreto d’infanzia di
Arianna Giorgia Bonazzi. Alla frase “ma adesso, capisco che durante tutta
l’infanzia ho coltivato quel che potremmo chiamare un verbario o meglio
un sonario” capisco che il libro vuole essere letto tutto, che io, presunto
lettore di letteratura-adulta, sto facendo esperienza della nuova frontiera di
quello che in un volume della Carrocci Emy Beseghi e Giorgia Grilli
chiamano letteratura-invisibile. Il Dizionario è una storia d’amore per il
linguaggio. Un cripto-romanzo di grande consapevolezza linguistica. Un’avventura
carrolliana dove ogni parola è uno specchio e l’infanzia è il Bianconiglio di sé
stessa. Per dirlo con Antonio Moresco, è il canto delle parole. Quanto grandi
bisogna essere diventati grandi per poter accogliere dentro di sé il proprio
essere stati piccoli, senza alterare il racconto dell’infanzia per puntellare la
nostra vita adulta? Ho chiesto ad Arianna Giorgia Bonazzi di parlare di questo e
altro, e lei ha risposto. (a.c.)
Da Dizionario segreto d’infanzia: “In principio era il verbo, e il verbo era
presso Dio, e il verbo ero io.”
La bambina protagonista del libro si fa l’idea di essere lei a creare il mondo,
battezzandolo. Il libro, di per sé, vuole segnare il confine tra il linguaggio
come strumento espressivo e il linguaggio come imbrigliatura in automatismi di
pensiero. Nei primi anni di vita siamo noi a inventare il linguaggio, liberi di
associare alle parole travisate, storpiate o sentite male i significanti che
secondo noi più si addicono ai loro suoni. Poi cresciamo, socializziamo, c’è la
scuola, il lavoro, la televisione, i social, ed è il linguaggio del cervello di
massa a parlarci, a irrigidirci nei codici che ci avvicinano alla comunicazione
standard e ci portano lontani da noi stessi.
Sulla soglia di Dizionario segreto d’infanzia troviamo Natalia Ginzburg a
pronunciare la parola poesia.
L’epigrafe tratta da Vita immaginaria è stata aggiunta alla fine. Mi sono
imbattuta nel libro della Ginzburg a Dizionario già scritto:
“Molte sono le parole che sentiamo di dover pensare nel loro vero significato,
scrostandone ogni volta le vernici di falsità che le hanno coperte; e una di
queste è la parola poesia.”
Sono stata in dubbio se riportare o meno l’ultima parte della citazione. Troppo
esplicita. L’accesso alla letteratura, deve avvenire per vie traverse. Nel libro
la parola poesia non ricorre, mentre abbondano parole quasi sgradevoli:
dialettali, ispide, ruvide. Alla poesia si arriva per dei budelli segreti.
Astrakan, sgrisoli, sencillo, ternoriposo tra tomba e tombola, torsolo tra orso
e toro. Come collani le parole di cui fai dizionario? Dal verbo collanare: “la
collana era una macchina da scrivere.”
L’idea del libro nasce dall’incontro con Giovanna Zoboli editrice di
Topipittori. Zoboli, conoscendo Les adieux, il mio esordio pubblicato da
Fandango libri nel 2007, mi propose di entrare a far parte della loro collana
sulla nascita degli immaginari artistici nei primi anni d’infanzia. La mia prima
risposta fu: io non ho un immaginario! Ho sempre fantasticato tramite le parole,
i loro suoni. Così ho accettato senza sapere come avrei fatto. Zoboli mi ha poi
fatto notare che il libro in realtà è zeppo di immagini perché ogni parola fa
sorgere una serie di visioni. Ci aveva visto bene prima di me. Una volta deciso
il formato del dizionario, le parole sono venute da sé, per associazioni
istintive. Volendo, si possono suddividere i lemmi per aree tematiche: ci sono
le parole delle filastrocche, le toponomastiche, le capite-male, le onomatopee.
A scavo avviato il processo è diventato sorgivo, e tutt’oggi continuano a
venirmi in mente altre parole che chiedono un loro spazio nel Dizionario. I
dizionari si sa non stanno mai fermi.
Il libro indica due rischi del linguaggio: deve esserci consapevolezza della
distinzione tra tTempo vero/lingua vera e tempo falso/lingua standard , ma ci si
deve pure guardare dal non “ricadere nelle lusinghe di un individualismo di
maniera.” Esiste un punto d’equilibrio?
È la letteratura il luogo dell’armistizio tra il linguaggio intersoggettivo
necessario a una vita comunitaria e il linguaggio personale necessario a una
vita onesta con sé stessi. Rachel Cusk in un saggio contenuto in Coventry spiega
che il motivo della diffusione dell’insegnamento della scrittura creativa è da
ricercarsi nel bisogno di un linguaggio più onesto: scrivere è il recupero di un
“sé” più vero all’interno di un mondo dove ci si sente alienati.
Tra il favoleggiato e il biografico nel Dizionario traspare la storia di un
idillio con le parole che è stato consentito dall’essere stati risparmiati a una
“una precoce socializzazione”. È un lieto fine o una fine dovuta quello della
protagonista che dice “finalmente a scuola dopo anni di isolamento, la mia
gorgogliante parlantina cominciò a irrigidirsi nelle statue ghiacciate
dei cioè e dei praticamente”? Sembra un finale alla Collodi, dove non si sa se
essere felici o no per Pinocchio, o alla Carroll. Per dirlo dalla prefazione di
Busi a Alice nel paese delle meraviglie: “la disgrazia più irrimediabile della
vita: non essere mai adulti e poi, improvvisamente, non essere più bambini”.
Non idealizzo l’infanzia come tempo mitico dove tutti siamo felici e buoni. C’è
anche tanta crudeltà nell’infanzia e la protagonista del Dizionario la lascia
trasparire attraverso i suoi pensieri più oscuri. È una bambina un po’ folle ma
anche molto matura, con uno sguardo severo sulle ombre della vita familiare.
Allo stesso tempo, la voce adulta che rievoca quella bambina non ha smarrito la
propria identità infantile. La salvezza, se ce n’è una, è essere stati bambini
un po’ spietati; e diventare adulti con uno sguardo pietoso per l’infanzia.
Allargando il campo. I libri sull’infanzia rientrano in quella che Emy Berseghi
e Giorgia Grilli, in un bel saggio Carrocci, definiscono ‘letteratura
invisibile”, la letteratura che dà voce a chi non parla, per stare
all’etimologia di infanzia, lungo la faglia: “bambini come creature da formare e
bambini come creature non ancora deformate”. Ti senti una scrittrice-invisibile?
Katherine Rundell in Perché dovresti leggere libri per ragazzi anche se sei
vecchio e saggio cita un’intervista a Martin Amis. Gli avevano chiesto se avesse
mai pensato di scrivere per bambini e lui aveva risposto: “Forse se avessi un
grave danno celebrale lo farei.” Il saggio di Rundell è la replica perfetta allo
sguardo altezzoso che esiste verso la letteratura per ragazzi. C’è un
pregiudizio simile perfino tra chi i libri per bambini li scrive. Alla domanda:
“Hai scritto qualcosa ultimamente?” capita di rispondere “Ah, niente, solo un
libro per bambini.” Credo comunque che ci sia sempre stata una grande osmosi tra
i miei lavori per bambini e i miei lavori per adulti, al punto che scrivendo mi
capita di domandarmi a quale pubblico mi sto rivolgendo davvero. Stabilirlo in
modo netto è una questione editoriale e commerciale: i librai devono sapere in
quale settore catalogare ogni libro. Se mi sento una scrittrice invisibile?
Diciamo che mi piace ibridare, e che le dinamiche editoriali non sempre
sorridono a chi non rientra in facili classificazioni.
Secondo i saggi contenuti in La letteratura invisibile la domanda delle domande
è: “essere stati bambini che cosa significa”?
Aver vissuto senza pelle nell’incandescenza delle cose sentite fino in fondo e
conservarne intatto il ricordo nelle proprie identità future. Provando magari a
guardare sempre tutto come chi è appena arrivato sul pianeta Terra e cerca di
capire come vanno le cose.
Il Dizionario segreto d’infanzia contiene una bibliografia suggerita. Ginzburg,
Batuman, João Guimarães Rosa, Virginia Woolf, Dino Buzzati, Calvino, Magris,
Meneghello e altri. Perché Dizionario è anche un’esplicita riflessione sullo
scrivere. C’è la Le Guin de I sogni di spiegano da soli, che parla
delle disinsegnanti. La letteratura ci può ancora disinsegnare qualcosa?
La letteratura non fornisce risposte o consapevolezze ma apre a dubbi e
voragini, e la letteratura per l’infanzia deve fare altrettanto, senza
rinunciare alla sua ambiguità, non riducendosi a manualetto d’istruzione per le
prime volte, a promozione di messaggi educativi di base. I bambini sentono
l’impostura dei libri con la missione incorporata. Le storie devono dare la
possibilità a ciascun lettore di fare le sue scelte, morali e no.
Da Les Adieux: “Crescere è fare le cose dei libri dei proverbi, un vocabolario
che li mette in fila.” Proverbi in Dizionario credo di non averne trovati. Tra
il primo libro e questo com’è cambiato, se è cambiato, il tuo essere scrittrice?
È una domanda che mi sono posta mettendo mano dopo circa venti anni a questa
sorta di Les Adieux “remastered”: non mi ero allontanata più di tanto da
quell’inizio o stavo compiendo la chiusura di un cerchio? I temi ritornano ma la
consapevolezza è un’altra. Durante questi vent’anni sono diventata altre
persone, ho attraversato altre identità. Non avrei potuto proseguire con lo
stile sregolato di Les Adieux, così legato alla ventenne universitaria e
sperimentale che ero allora. In Dizionario tornano le mie ossessioni espresse
però dalla me che sono diventata dopo la conquista dell’età adulta. Continuando
a volermi incompleta, plasmabile, reinventabile.
Concludiamo con un ultimo tocco di teologia beffarda. Dal Dizionario: “Adulterio
– Era sicuramente il peccato di essere adulti.” Come ce lo si perdona?
È il passaggio del libro che meglio racchiude tutta la rabbia che il bambino
nutre verso il tradimento degli adulti quando non si sente visto, riconosciuto,
rispettato in quanto bambino, cittadino di un mondo misterioso e delicato. Non
ce lo si perdona.
antonio coda
*In copertina: illustrazione di John Tenniel ad “Alice’s Adventures Under
Ground”, 1886
L'articolo “Nell’incandescenza delle cose sentite fino in fondo”. La letteratura
per l’infanzia apre voragini. Dialogo con Arianna Giorgia Bonazzi proviene da
Pangea.
Nel 1988 Giovanni Pozzi e Claudio Leonardi pubblicarono, per Marietti,
un’antologia di Scrittrici mistiche italiane. Il libro, straordinario, finito
fuori dai radar editoriali da tempo –nello schema generale, è riproposto
in Mistiche, Magog, 2025, a cura di Alessandro Deho’ –, testimonia una sorta di
contro canone della nostra letteratura. Le “mistiche” contemplate da Pozzi e
Leonardi – non tutte contemplative, dacché si contempla, come scriveva Cristina
Campo, “preparando torte, lavando le stoviglie, prendendosi cura degli altri”;
dalle notissime, Angela da Foligno, Caterina da Siena, Veronica Giuliani, alle
purissime ignote, Osanna Andreasi, Maria Celeste Crostarosa, Angela Gavazzi
– sono state spesso vessate, marginalizzate, processate. Del cristianesimo,
propongono la via eccezionale, degli eccessi; la via oscura.
Tra queste, alcune sono state madri e mogli, altre prostitute (Caterina
Vannini); Carlo Emilio Gadda preferiva Maria Gaetana Agnesi, “matematichessa e
filosofa”, donna d’alto ingegno – insegnò matematica all’Università di Bologna,
nel 1750 – che si diede alle opere di carità e alla teologia senza appartenenza
ad alcun ordine. Di queste donne, scrittrici per estro e per necessità, sono
proprie l’ossimoro e la tautologia, “figure linguistiche di frontiera”, che
sfidano “l’ineffabile”. Ossimoriche e tautologiche, piuttosto, sono le “Otto
mistiche laiche del Novecento” riferite da Lucetta Scaraffia in Dio non è
così (Bompiani, 2025), donne “di frontiera”, “ineffabili”, protagoniste di un
> “tipo di esperienza mistica di natura spontanea, oserei dire selvaggia… non
> nella gabbia di schemi consolidati e accettati, ma con una libertà nuova”
> (Scaraffia).
Donne di rottura, donne dirompenti.
Alle biografie più attese – Simone Weil, Chiara Lubich, Romana Guarnieri –,
redatte con mano partecipe, a tratti impetuosa, seguono profili spiazzanti:
quello di Banine, ad esempio, l’audace scrittrice di origine azera che
scandalizzò i salotti di Parigi, amante-amica di Henry de Montherlant e di André
Malraux, baccante supplice di Ernst Jünger (si legga: Banine, Incontri con Ernst
Jünger, De Piante-Terra Insubre, 2021), che nel folgorante diario, Ho scelto
l’oppio (Massimo, 1965; riprodotto in parte dalle edizioni Magog, 2022),
racconta la catabasi nella conversione (fino al desiderio di sedurre il proprio
confessore). Il libro è aperto dal profilo di Catherine Pozzi, poetessa di
vitrea sapienza, amata da Paul Valéry – che, in sostanza, non la capì –, amica
di Rilke, pari, per vertigine, secondo Michel de Certeau, alla grande mistica
Hadewijch. “Essere donne, essere in un certo senso sempre irregolari, dà a tutte
una ampiezza di vedute che la porta a scelte innovative”, scrive la Scaraffia:
l’abbiamo contattata. Non credo sia un caso la citazione, in esergo, di
Benedetto XVI: “Querere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui”. Era il
settembre del 2008, il santo padre parlava a Parigi, al Collège des Bernardins.
> “Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come
> non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della
> ragione”.
Disse questo, tra l’altro.
Circoscriviamo il termine. Cosa intende per “mistica”?
Per mistica intendo passione per l’assoluto, ricerca di raggiungere un contatto
personale con l’assoluto.
Quando parla di mistica “selvaggia” mi ricorda Paul Claudel che aveva coniato, a
proposito di Rimbaud, la formula “mistico allo stato selvaggio”. Come dobbiamo
dunque intendere la mistica “femminile”?
Mistica selvaggia perché è esperienza vissuta al di fuori dei codici imposti
dalla religione, che ha cercato di controllare l’esperienza mistica e di
certificarla distinguendola in buona e cattiva, cioè demoniaca. Queste otto
donne non erano alla ricerca di una codificazione da parte religiosa
istituzionale, sia perché non erano religiose professe sia perché se lo potevano
permettere: nel ’900 non correvano più il pericolo di venire punite come
eretiche. Una libertà dalla religione istituzionale che si configura anche come
libertà dal controllo maschile. Per questo penso che fossero tutte, più o meno
consapevolmente, femministe: del resto lo prova la loro vita.
Proseguendo e variando la domanda precedente: la mistica esprime il proprio
misticismo attraverso il linguaggio, oppure nell’agire nel tempo? Insomma, qual
è il carisma del misticismo?
Esistono diversi tipi di misticismo, anche se quello più noto è quello
certificato dal linguaggio, cioè dal racconto diretto delle esperienze mistiche.
Queste donne, quasi tutte fini intellettuali, hanno raccontato la loro
esperienza per scritto, in modi diversi fra di loro, e con modalità diverse da
quelle tradizionalmente attribuite alla narrazione dell’esperienza mistica.
Proprio per questo svolge un ruolo importante anche la loro vita che, in tutti i
casi, dimostra la possibilità di sperimentare un rapporto intenso con l’assoluto
all’interno di vite normali, segnate da una professione, spesso una famiglia e
comunque anche rapporti intensi e perfino trasgressivi con uomini. In questo si
misura tutta la loro libertà.
Lei è Lucetta Scaraffia
Mistica, di solito, si lega a un pensare e a un vivere eterodosso. È davvero
così? Perché?
In realtà, nella storia del cristianesimo, mistica si lega a una vita super
ortodossa, rinchiusa al mondo, dedicata a una ascesi totale. Il controllo
esercitato sulle mistiche imponeva loro di provare la verità del rapporto con il
divino attraverso una vita di rinunce. Lo stile di vita eterodosso, legato a
una mistica che possiamo definire “selvaggia”, nasce dalla particolare posizione
morale in cui si trova a vivere chi sperimenta queste esperienze, al di sopra
del bene e del male.
Le mistiche sono un punto permanente di contraddizione. La loro, mi pare, è la
purezza nell’impurità. In questo, sono autenticamente ‘cristiane’. Mi sbaglio?
Eppure, come penetra il ‘religioso’, la danza dell’invisibile, nella biografia
delle donne di cui scrive?
Certo le loro biografie sono ricche di contraddizioni. Il religioso penetra come
ricerca di qualcosa di più, di un amore assoluto del quale provano una sete
inesauribile, quasi dolorosa.
La mistica e la Storia. Come si colloca l’esperienza, singolarissima, delle
‘sue’ donne nelle temperie del secolo, del mondo, del mondano?
Le mie donne sono completamente immerse nel mondano, nella storia del loro
tempo, fino alla fine. L’esperienza mistica non le pone fuori dal mondo, ma
suggerisce loro una lettura diversa del mondo in cui vivono e in cui continuano
a vivere. Una lettura che comunicano agli altri, attraverso poesie, diari,
saggi, lettere, assolutamente originali.
Quale, tra le figure che ha scelto, l’ha sorpresa per l’audacia, per la
‘sconvenienza’?
Direi Banine, la musulmana atea che nei suoi libri autobiografici racconta con
ironia di avere fatto quello che noi oggi chiamiamo la escort, che non rinnega
niente della sua vita avventurosa e difficile, e che sa far crescere la sua sete
di conoscenza intellettuale in sete di conoscenza mistica e raccontarla.
Mi pare, a bracciate, che la mistica italiana più mistica di tutte, per
anomalia, sia Cristina Campo. Lei non l’ha rubricata, non l’ha detta. Come mai?
Certo che ho letto Cristina Campo, che amo moltissimo. Ma più che una mistica mi
è sembrata una cacciatrice di misticismo, che sa riconoscere a raccontare, e
soprattutto far scoprire e amare. Ma non mi è mai sembrata una mistica lei
stessa, se pure una donna di straordinaria sensibilità.
Ho anche trascurato Etty Hillesum, che certo era una mistica della stessa
famiglia delle mie otto mistiche, ma sulla quale si è già detto e scritto tanto.
Ugualmente non ho inserito Maria Zambrano, che considero mistica, perché non
sono riuscita a trovare documentazione esauriente sulla sua vita.
Le chiedo un giudizio sul pontificato di Francesco. Che ruolo hanno avuto le
‘mistiche’, diciamo così, nel suo governo?
Papa Francesco non è mai stato interessato alle parole delle donne, neppure se
mistiche.
Spero che questo papa sia equilibrato e prudente, che ristabilisca pace e
armonia in una chiesa lacerata. Non ho speranze per il ruolo delle donne: nessun
gruppo di potere ha mai ceduto il suo potere spontaneamente. Solo le religiose
possono combattere e ottenere dei risultati veramente significativi, cosa che
fino ad ora non è avvenuta.
*In copertina: una immagine da “Persona”, film di Ingmar Bergman del 1966
L'articolo “Passione per l’assoluto”. Mistiche, cioè: donne allo stato
selvaggio. Dialogo con Lucetta Scaraffia proviene da Pangea.
Si incontrarono nell’estate del 1900, a Worspswede, la comune di artisti fondata
in Bassa Sassonia. Rilke era reduce dal viaggio in Russia: aveva conosciuto
Tolstoj e fatto visita a Leonid Pasternak; il figlio, Boris, che aveva dieci
anni, resterà folgorato dalle sue poesie, tempo dopo, “per l’insistenza di ciò
che vi era detto, la sicurezza, il tono deciso, che andava dritto allo
scopo”. Paula Becker aveva ventitré anni, la bellezza di un usignolo: figlia di
un ingegnere di Dresda, aveva studiato, compiacendo i genitori, per diventare
istitutrice; voleva fare l’artista.
I due si piacquero, entrambi fatui al mondo, ma Rilke preferì la migliore amica
di Paula, Clara Westhoff, scultrice dal maschio fascino: si sposarono nel 1901.
Cinque anni dopo, Paula realizza il più noto ritratto di Rilke: il pittore pare
indemoniato, “barba da faraone, baffi da unno… sguardo esorbitante”. Aveva da
poco mollato Rodin, di cui era segretario, per un bisticcio. Paula si era
trasferita a Parigi per vivere vertiginosamente d’arte: pochi soldi, talento
selvatico e un marito pittore, Otto Modersohn, lasciato in Germania. Dipingeva
tantissimo, con un genio che ricorda Cézanne e Gauguin; i suoi nudi,
soprattutto, di una carnalità poetica e brutale, sono tra i più belli mai
tracciati da mano di pittrice. Trent’anni dopo, l’era nazista dichiarerà
“degenerata” l’opera di Paula, che dell’uomo ha mostrato la meraviglia e la
sfiancata malinconia. Morirà troppo giovane, nel novembre del 1907, Paula, dopo
aver partorito la prima figlia, Mathilde. A Brema le è dedicato un museo. Per
lei, Rilke scrisse Requiem per un’amica: “Vieni qui al lume della candela. Non
ho paura/ di contemplare i morti”, scrive il poeta, abissale, come sempre –
riuscì a non citare il nome dell’“amica”. Una raccolta di lettere – pubblicate
da Insel, in Germania – dice della loro conturbante amicizia.
A Paula Becker, artista straordinaria, del tutto postuma, Marie Darrieussecq,
l’autrice di Troismi, ha dedicato un romanzo biografico di cristallina
potenza, Essere qui è uno splendore (Crocetti Editore, 2025), tra Plutarco e
Marguerite Duras; uscito in origine per P.O.L., in Francia, nel 2016, piacque,
tra gli altri, al Premio Nobel J.M. Coetzee. Insinuandosi tra gli spiragli di
un’esistenza in picchiata, l’autrice scrive, in fondo, un elogio della vita
votata all’arte, della vita nuda, della nudità, della sacralità della carne e
del suo scandalo nell’epoca dei corpi digitalizzati e delle intelligenze
artificiali. Resta il dilemma del titolo – splendido –, catafalco da bibliomani:
è tratto dal “verso 38 della Quinta elegia di Rilke”, mi dice l’autrice.
Introvabile nell’edizione italiana. In questa sfasatura – o lapsus – sta il
lampeggiare dell’angelo, sono i fantasmi al banchetto.
Fin nel titolo, il libro su Paula Becker è sotto l’orbita di Rilke, il quale,
con lento candore, sembra un po’ ‘cannibalizzare’ la pittrice. Che idea si è
fatta di Rilke?
Paula e Rainer erano intimi, ottimi amici, probabilmente innamorati, durante
quella meravigliosa estate del 1900 in cui si incontrarono. Rilke non è stato un
buon amico. Né un buon marito, tanto meno un buon padre: ha deciso di sposare la
migliore amica di Paula, Clara Westhoff, ha avuto da lei una figlia, per poi
scappare da entrambe. Il poeta resta immenso, l’uomo non mi piace. Rilke ha
descritto magnificamente Paula nel suo magnifico Requiem… senza nominarla. I
nomi delle donne… anche questa è una bella storia, che racconta parte del mio
libro.
Paula Becker, Rainer Maria Rilke, 1906
Tre aggettivi che riassumano la vita di Paula Becker.
Libera, energica, interrotta.
Che cos’è la ‘libertà’ per Paula; che cos’è la ‘libertà’ per Marie, una
scrittrice che vive nel 2025?
Per Paula libertà significa sottrarsi al lavoro salariato (il padre voleva che
diventasse governante o istitutrice) per poter dipingere. L’unica soluzione
concessa all’epoca: sposare un uomo che la mantenesse… restando maritata. Per me
libertà è avere la straordinaria possibilità di vivere della mia scrittura – e
di amare, liberamente.
Una curiosità bibliografica. Da quale passo delle Elegie duinesi ha tratto il
titolo del libro?
Versetto 38 della Quinta elegia nella vecchia, bellissima traduzione di
Joseph-François Angelloz.
Quali sono stati i ‘lari’, gli scrittori-totem che l’hanno accompagnata nella
scrittura di questo libro, per forgiare questa lingua, al contempo intima, ma
mai ‘confessionale’, precisa fino al diamante?
Georges Perec, Marguerite Duras, Natalia Ginzburg.
Qual è l’aspetto a suo dire più folgorante della biografia di Paula? Quale
quello che ha scelto di tenere in ombra?
Forse la cosa più sorprendente la sorprendiamo nella sua ultima parola: ombra,
oscurità. Morire così giovane, con un tale portento d’opera…
Quello che ho lasciato nell’ombra: non ho voluto infilarmi nel letto di Paula.
Alcuni biografi hanno indicato delle amanti: non c’è nulla di certo. Non ho
voluto inventare ciò che i diari e le lettere non dicono. Se Paula ha voluto
nascondere alcune cose con cura, ho rispettato il suo segreto. Nessuno può dire
perché non sia riuscita ad avere figli nei primi sei anni di matrimonio, se
questa sia stata una scelta intenzionale o meno. Il rapporto di Paula con la
maternità è ambiguo, affascinante.
Marie Darrieussecq; photo Charles Freger
Esiste a suo avviso una diversità ‘genetica’ tra opere d’arte femminili e
maschili; esiste cioè, più che il talento singolare, un genio ‘di genere’?
Nulla di ‘genetico’, no, benché giochi con questo termine. Tuttavia,
sociologicamente e culturalmente le donne sono state “seconde” per secoli.
Questo ha creato una cultura femminile specifica: del ritiro, del nascondimento
e dell’emarginazione, e una certa centralità – domestica. Lo sguardo di Paula
sulle bambine è unico al mondo e pionieristico per la sua epoca: la serietà che
conferisce loro, la gravità, lontana da tutti i cliché di purezza o innocenza
imposti da uno sguardo patriarcale.
Quando Rilke fa visita a Paula, in atelier, scrive: “Ci siamo guardati, con un
brivido di stupore, come due esseri che si trovano all’improvviso davanti a una
porta dietro la quale c’è Dio”. I quadri di Paula emanano una sacralità frugale,
che sa di paglia, di campo appena tagliato. Le domando: qual è il suo rapporto
con il ‘sacro’, con l’invisibile?
Con il sacro: nessuno, credo. Con lo spirituale e l’invisibile: molto forte.
L’invisibile è ciò che mi obbliga alla scrittura. Non ho bisogno di
sacralizzarlo.
La ‘carne’ è uno dei temi del libro, perfino nel quadro-totem di Paula Becker:
un figlio appeso al seno della madre, nuda. La carne e l’eros. Eppure, siamo
nell’epoca disincarnata, disincantata rispetto al corpo, oleografico,
palestrato, liofilizzato. Siamo nell’era di PornHub e di Tinder, del ‘toccare’
come gesto sacrilego – o pervaso da perversioni…
Tutti i miei libri dicono del toccare, da Troismi a quest’ultimo – e non ho
ancora finito…
Diciamo che Paula è vissuta prima dell’Intelligenza Artificiale: possiamo
sentire il tocco del suo pennello sulla tela. Grazie a questo gesto, scorgiamo
le sue tracce. È presente, è qui, come indica il titolo che ho scelto, ed è uno
splendore. Amava essere viva, amava vivere il presente. Da giovane donna, per le
strade di Parigi, città che adorava, si sentiva ‘nuda’ sotto lo sguardo
insistente degli uomini, allora, con un certo candore, mostrava la fede nuziale,
come fosse una sorta di talismano. È stata la prima donna a dipingersi nuda, e
non credo lo sapesse: un gesto rivoluzionario dopo secoli in cui le donne erano
state dipinte nude dagli uomini. Ma i modelli costavano troppo. Il dipinto di
cui parla raffigura una donna italiana in posa con il suo bambino. All’epoca,
gli immigrati in Francia erano italiani e le donne, spesso molto povere,
accettavano di posare nude per pochi spiccioli.
Con autentico azzardo, lei è entrata in una vita altrui. Una vita vera, reale.
Oggi si dice di libri scritti dall’Intelligenza Artificiale; oggi i ragazzi
consultano l’Intelligenza Artificiale per consigli sentimentali e ‘morali’, si
fanno scrivere le lettere dal bot. Riuscirà la letteratura a non soccombere
all’IA?
Spesso pongo delle domande a Chatgpt (beh, non troppo spesso, visto che ogni
volta consumiamo piscine d’acqua). La sua sistematica cortesia mi fa venire i
brividi. Quando le domando di raccontarmi qualcosa di divertente o di poetico,
non riesce. Per ora. Nella macchina non c’è alcun soggetto e lo si capisce. Il
suo “io” è un’imitazione ancora un po’ patetica.
Paula Becker, Autoritratto per il sesto anniversario di matrimonio, 1906
Come può un’opera d’arte, un libro su un’artista vissuta un secolo fa diventare
un gesto ‘politico’?
Non sapevo di scrivere di una donna “invisibile”; il tema non esisteva quando ho
iniziato la mia ricerca su Paula M. Becker. Evidentemente, facevo parte di un
movimento politico senza saperlo, portando alla conoscenza del pubblico un’opera
obliata per troppe pessime ragioni: di genere, certo, ma anche di antigermanismo
in seguito alle due guerre. Ma Paula è la pittrice meno “nazionalista”
possibile: non ha mai fantasticato di una Germania territoriale, a differenza di
molti suoi colleghi artisti della colonia di Worspwede, dove ha vissuto prima di
fuggire a Parigi. La sua è in effetti una visione “politica”: dipinge una
Germania universale, quella delle ragazze che sapevano che il mondo non
apparteneva a loro e quella delle madri fiacche, non le Madonne che allattano il
sacro bimbo, ma delle donne che hanno avuto troppe gravidanze, che allattano in
posizioni mai viste prima in pittura, ma assai più comode di quelle della
Vergine Maria!
*In copertina: Paula Becker (1876-1907)
L'articolo Storia di Paula Becker, l’artista “interrotta” amata da Rilke.
Dialogo con Marie Darrieussecq proviene da Pangea.
Poi – giorni dopo – sono, per lo più, due occhi verdi, verbosi, per sempre
fanciulli, occhi da bimbo con la cerbottana. Occhi d’erba. Cristiano Godano, per
lo più, è lì, negli occhi: occhi che scalpitano. Occhi con le unghie. Occhi tra
l’altalena e la fame, tra azzurro e azzardo.
Siamo ancora qui, mi dirà, dopo. Beve Red Bull. Ha ordinato una quantità di
piatti. Mangia poco. Sono di una lentezza esasperante, dice. Ride. Poi, ancora.
Siamo ancora qui, dice. Dice dei Marlene Kuntz. Cita i Verdena. Parliamo di
Gianni Maroccolo e di Ferretti, dei CSI e del Consorzio Produttori Indipendenti.
Tenacia nell’occhio destro, malinconia in quello sinistro. Cristiano ha occhi da
Alessandro.
Catartica esce nel 1994 – dovevi essere nella brutale periferia torinese, in
quegli anni anodini, ad ascoltarlo. Cesare Pavese ha intravisto, in un celebre
saggio, il Middle West in Piemonte, ha tentato un gemellaggio tra le Langhe e
l’Ohio, mitica terra narrata da Sherwood Anderson. Sono cresciuto a Orbassano,
gattopardesco ghetto degli operai della Fiat: quel luogo, nei neri e nubiformi
anni Novanta, pareva paragonabile, semmai, agli slums scozzesi di Trainspotting;
pensavo alle brughiere di Emily Brontë, a tratti, per uno slancio di
sentimentalismo esistenziale. Per salvarmi, rubavo Dylan Thomas e Julio Cortázar
nelle librerie di Torino (a Orbassano non esistevano); il mio amico Jonathan
suonava Eric Clapton, Mark Knopfler e Jeff Beck. Ascoltavamo,
annegando, Nuotando nell’aria:
> “Intanto
> l’aria intorno è più nebbia che altro…
> Mi piacerebbe sai, sentirti piangere
> anche una lacrima, per pochi attimi”.
Imperava la droga – Roberto Baggio, imperiale, negli Usa – il podio del Festival
di Sanremo diceva la piagnona disumanità italica: Aleandro Baldi, Giorgio
Faletti, Laura Pausini – in maggio, si insediava il Governo Berlusconi I.
Intorno a Orbassano: chilometri di terre infeconde – il marrone addosso come un
bastone, il marrone in faccia. In fondo, a Sfinge, le montagne, bianche,
inaccesse – cupa mascella di Dio, pari alle nostre montagne interiori.
*
Più tardi suonerà Osja, amore mio, il pezzo dedicato a Osip Mandel’štam, il
grande poeta russo straziato da Stalin, morto di stenti nei Gulag sovietici,
poco dopo il Natale del 1938. La canzone trae spunto dall’ultima, memorabile
lettera di Nadežda al marito – una lettera rimasticata dagli spettri, che Osip
non leggerà mai. Osja, amore mio esce nel 2013, l’album dei Marlene Kuntz
s’intitola Nella tua luce. “Se mi senti dimmi dove sei…”. Amo le memorie di
Nadežda, bellissime e tremende: c’era quel libro, L’epoca e i lupi, ora so che
l’hanno ristampato come Speranza contro speranza, mi dice Godano. Poi parliamo
di Iosif Brodskij. Fondamenta degli Incurabili. Come se fosse un abbecedario
minimo – Godano indossa gli occhiali da sole come fossero un elmo. All’inizio,
però, era Oblomov.
Incupito, Cristiano Godano costretto ad ascoltare le prediche di Brullo
*
Sono a letto, scusami, non si addice alla nostra conversazione: ora mi alzo. Mi
dice Godano, giorni fa – giorni che potremmo chiamare Alpi, giorni in rampicata.
Come Oblomov, faccio io.
Insieme a Roberta Rocelli, donna di indocile lucidità, che alterna la tenerezza
al cazzotto, abbiamo deciso di invitare Cristiano Godano a suonare al Festival
Biblico e a parlare del “Salterio dei Poeti”. Così, gli telefono. Che mi dici di
Dio? Andavo a Messa da bambino – potrei dirmi ateo, preferisco agnostico: non è
nel mio orizzonte, fa lui. E i poeti? Non li leggo. Non è vero, lo incalzo.
In Poeti – brano installato in Bianco sporco, album dei Marlene del 2005 – citi
Guido Gozzano, “il gran poeta”: Un mio gioco di sillabe ti illuse, da L’onesto
rifiuto, gran bella poesia. È vero…, fa lui, intendevo dire che non sono un buon
lettore di poesia. Più tardi si attarderà su Montale, “è sempre disponibile a
farsi leggere e rileggere”; poi va a Borges, “una sua poesia mi ha ispirato”.
Comincia così un dialogo in ascesa. Come corda, piccozza e artigli usiamo
WhatsApp. Facciamo un esperimento, gli dico: ti faccio una domanda al giorno.
Sondiamo gli insondati, gli indicibili. Con rapace generosità – sbandato tra un
concerto e l’altro – Godano ci sta.
*
Parto dal campo base. Ci accomuna l’amore per Nick Cave e Vladimir Nabokov. Il
primo è semplice. Mentre io andavo in delirio per No More Shall We Part –
ipnotico brano di apertura, As I Sat Sadly by Her Side, mandato a ripetizione in
una casa-catafalco a Milano – i Marlene avevano pubblicato da poco Che cosa
vedi. Più tardi, sul palco, Godano sradicherà da quel disco il pezzo-Houdini,
quello che scatena i cuori ammanettati degli astanti, La canzone che scrivo per
te. Manca Skin, non ho il physique. “Di Nick Cave amo tutto. I miei tre dischi
preferiti? Forse The Good Son, The Boatman’s Call, Kicking Against the Pricks”.
Poi c’è Nabokov. Ovunque. Cosa c’entri Nabokov con Nick Cave, a parte l’ecumene
di N e di K, lo faccio dire a lui, copio-incollo da Il suono della rabbia (il
Saggiatore, 2024):
> “Due dei miei eroi di riferimento nel campo artistico, Nick Cave e Vladimir
> Nabokov, un cantante e uno scrittore, hanno vissuto una vita dedita in maniera
> spontaneamente totalizzante all’arte. Immuni a qualsiasi ingerenza del sociale
> nei loro lavori artistici, mi hanno sempre dato la sensazione, influente e
> ispiratrice, di una esistenza eccitante nella ben nota (e da molti
> disprezzata) torre d’avorio dell’artista”.
Godano cita Nabokov come un amuleto. Entrambi siamo affascinati dall’uomo;
quando gli parlo di Intransigenze, raccolta nabokoviana di interviste rette dal
carisma della crudeltà (in Italia: Adelphi, 1994; l’anno di Catartica…), Godano
va in brodo, cita a memoria alcuni giudizi del sommo, “l’asinina Morte a
Venezia di Mann… le pannocchiesche cronache di Faulkner”. Ride. L’austerità
dell’arte incline a tirannica ascesi. Lo scrittore: al contempo demone e
crocefisso all’asse del proprio mondo. Godano preferisce La vera vita di
Sebastian Knight; parliamo di Fuoco pallido; quando scopre che ho scritto un
romanzo, Nabokov, su Nabokov, mi piglia per matto.
Credo che a Godano piaccia distruggere le maschere. Eleva la maschera a idolo,
poi la abolisce, ne fa abominio. Si leva la maschera e la offre come trogolo al
pubblico. Condanna di chi vive sul palco, perpetuo pasto dei fan, costretto a
essere sigillo di memorie altrui, che non gli appartengono, di cui è ignaro.
Nell’ultimo disco, Stammi accanto, un lotto di testi – Lode all’istante, Cerco
il nulla, Vacuità – costituisce una specie di sentiero dello spirito, rasenta
una poetica dell’esistere.
Vuol farmi credere che “nel Cristiano solista c’è meno frattura – o zero proprio
– fra l’io narrante e il sottoscritto”. Fosse così, l’artista morirebbe a ogni
pezzo. Spaccare lo specchio, esercitarsi coi vetri finché il sangue non è che
una variante del cielo.
*
Un giorno lo scambio si infuoca. Gli piace Cioran, lo stringo sulla morte,
sull’aldilà.
> “Adoro il black humour di Cioran: la penso come lui sul senso della vita, che
> per me non c’è. Dunque, detesto profondamente la morte che considero
> tremendamente ingiusta. Non ho alcun rapporto ‘foscoliano’ particolare con i
> morti: un cimitero mi dice poco in merito al dialogo con loro, nonostante
> camminarvi dentro mi consegni una fantastica pace. Una volta ho fatto footing
> in un cimitero: inverno, otto e trenta del mattino, tentavo di trovare una
> routine salvifica dagli stati ansiogeni che mi assillavano. Sforzo vano:
> detesto correre”.
…ma ti rendi conto la noia di essere eterni?
“Oh, no, siamo in totale disaccordo. Penso che si tenda a parlare di noia
dell’eternità perché la si immagina in connessione con il mortificante
accadimento della senescenza, ma se si potesse essere eterni senza invecchiare
sfido chiunque a ritrovarsi a un certo punto annoiati della vita…”
…eppure la bellezza esiste perché sfiorisce e gli uomini si amano, fino a
morirne, proprio perché muoiono… altrimenti, crepino nel crepitio eterno.
“Farei a meno dell’amore (ah, l’amore, il mio mistero per eccellenza: l’unica
crepa nella mia apparentemente radicale convinzione che tutto sia illusione e
che i vari nostri valori – bellezza inclusa – non siano altro che nostre
inevitabili costruzioni) se in cambio avessi l’eternità”.
Ad ogni modo, hai un figlio. Per lui, sei tu il senso. Al suo cospetto, la vita
torna vita, non più tenue insensatezza.
“Sono il senso per mio figlio perché la vita (e l’evoluzione) ci ha tirato
questo brutto scherzo: a tutti gli esseri viventi la condanna a cercare di
vivere a tutti i costi, affannandoci costantemente e costringendoci a legarci ai
più prossimi (genitori in primis) per non soccombere, e a noi esseri umani, in
più, la sfiga della coscienza (siamo costretti a essere coscienti) che ci porta
e riflettere e speculare e inventare illusioni. (Sono così, ahinoi, soverchiato
dal raziocinio)”.
…ma l’arte è mania, mantica, insorgenza dell’irrazionale. La ragione, il logos,
è la quintessenza dell’illusione. Se non esistesse la morte (il pensiero della
morte, dunque l’amore che ci lega a questo ferito e fetido mondo e non ci fa
suicidi), non avrebbe peso né presa l’arte. Un figlio non è generato dal caos,
ma dal fato: un dono più che una condanna, da preservare, come il fuoco e il suo
fuco. Che si spegnerà è ovvio: intanto, scalda, è luce. Si vive per dare la vita
a un altro (anche se l’altro la rifiuta). Da gettati.
“Ahimè, per me la vita è condanna. Questione di tempra. ‘Si vive per dare la
vita a un alto’ è un altro brutto tiro della vita e dell’evoluzione, questa
insensatezza rivolta in avanti (anche se il tempo, come dicono, non esiste).
Vedi che è la cazzo di morte (violenta, ingiusta) che definisce tutto? È la sua
protervia che ci costringe a ogni tipo di sotterfugi, arte inclusa (che fra
tutte le illusioni è l’unica con qualche potenziale, illusorio anch’esso,
salvifico)”.
Se è grazie alla morte che ho potuto leggere Trakl e Rilke, vedere Bellini e
ascoltare… Godano e Nick Cave, beh, sono felice di morire. Il sotterfugio è il
vero gioco da illusionisti. Amo questa terra grave di morte, ma non così tanto.
Levarsi di torno senza tema di memoria, di lacrime, di arpie pettegole sarebbe
saggio. Sparire più che morire. La morte fa da sprone – la vita, mai nostra, sia
restituita. Il resto, chissà… troppo chiasso fanno i pensatori, i poeti
impastano l’impensato.
“Io amo la vita, ma solo nel senso che è mia con tutto il corredo di sentimenti
emozioni affetti che a lei mi lega tenacemente. Odio la morte, che temo
ardentemente. Per me ci si può con tranquillità chiedere se fosse meglio non
nascere, e propendo più per il sì, con qualche circostanziata remora”.
*
Un giorno gli dico che è lui il grande illusionista.
I cantautori scrivono pezzi che inchiodano chi li ascolta a quel particolare
ricordo, frainteso, acido d’anni: una rosa che si rivela iena, che ti si rivolta
addosso. Schiavizzano, e sono schiavi. Mi risponde poco dopo:
> “Credo di poter dire che alla fin fine i miei scopi artistici sono
> principalmente estetici. Nell’ambito della scrittura questo vuol dire che
> gioisco in particolare di una qualche forma di eleganza connessa all’idea
> dello stile, come se avesse un piccolo vantaggio sul significato”.
La forma è il significato (scarceriamo le parole dalla condanna di significare
qualcosa, lasciamole essere falchi, ungulati, a unghiate); la chiarezza:
idolatria da geometri, da vetusti cardinali del vocabolario. Su questo siamo
(quasi) d’accordo.
Più tardi costringo Godano al ‘sacro’; si smarca: “non avendo fede e non
riuscendo a immaginare credibile l’esistenza di una deità che ci abbia a cuore
non penso di nutrire una qualche riverenza altrettanto credibile nei confronti
del sacro. Sacri al limite, per me, possono essere alcuni nostri valori (nostri
in quanto creati da noi esseri umani), come la compassione”. Parliamo
dell’anima, ma so che è fare Arlecchino con il fumo. “Ragionerei più in termini
di coscienza”, fa lui, e fiancheggia altre vie, l’arsura del no, “ammetto di non
essere particolarmente attratto o consolato dall’idea che la nostra ‘energetica
coscienza’ confluisca in un gigantesco ricettacolo universale… anche ’sti
cazzi”. Potrebbe essere il motto di una nuova formula teologica.
*
Più che altro, va tenuta sull’ambone questa nostra vita da sfracellati.
Forse “Cristiano Godano”, votato alla musica, obbligato a concelebrare sul
palco, non ha avuto lo spazio per poter essere Cristiano Godano. Da qui gli
occhi: perpetuamente famelici. Felici.
Ogni parola, con le sue botole, i botoli, le trappole, semina disorientamenti.
Poi è il concerto, nel giardino del palazzo vescovile di Vicenza, tra fantesche
gelsomini. Il canto annienta ogni concetto e tutto torna come è, per sempre
primo, rupestre. La vita, allora, è questa immemore caccia di comete felidi,
questa luce tra le mani, i volti come stelle filanti.
Quando mi chiama – Davide, Davide – siamo già all’Ade di noi, in un altro mondo
di ombre.
*In copertina: Cristiano Godano in un ritratto fotografico di Gabriella Vaghini;
nel servizio le fotografie sono di Nicola Zolin
L'articolo “Detesto la morte”. Dialogo filosofico (via WhatsApp) con Cristiano
Godano, tra Nabokov, Marlene Kuntz e l’insensatezza di tutto il resto proviene
da Pangea.
Tom Buron pare un corsaro. Giovane – classe 1992 –, gioviale, ha esordito con
Gallimard con un poema, Les Cinquantièmes hurlants, che va in direzione opposta
ai toni dominanti del nostro tempo: lo stile sifilitico, il pallore da
confessionale, una scrittura senza febbre, senza sbalzi, spesso anemica, utile
al post sui social, gradevole alla lettura pubblica. In una intervista
pubblicata di recente su “Zone Critique”, Tom Buron ha detto che “questa è
un’epoca che necessita di miti”; si è detto portavoce di “una sorta di lirismo
in lotta, di un lirismo violento”; disprezza la “poesia del quotidiano e quella
che esiste per rivendicare qualcosa”, come “l’anti-poesia, cioè la poesia ‘che
non sembra poesia’”. Nei suoi versi, la foga di Melville e di Lord Byron si
mescola al rock, l’epica dilagante di Saint-John Perse dialoga con sonorità
elettriche contemporanee. Il mito di Tom Buron è Velimir Chlebnikov, uno dei più
prodigiosi inventori di linguaggio del secolo: non credo sia sul comodino di
molti scrittori di oggi, in verità, spettri viventi. Come Chlebnikov, anche Tom
Buron veste ampie pellicce, indossa uno sguardo spiritato, confida nel
neologismo.
Tra i romanzi, preferisce Sotto il vulcano, l’epopea alcolica di Malcolm Lowry,
ambientata a Cuernavaca, Messico. Proprio il Messico è uno dei luoghi-totem di
Tom Buron – lo fu anche per Antonin Artaud, che laggiù tentava di ritrovare
l’origine magica, glossolalica della parola poetica.
Nonostante il gargantuesco, granguignolesco entusiasmo – che è già oro in un’era
di palestrati e di depressi – Tom Buron non è un poseur. Ha vissuto a lungo in
Ucraina, dove ha terminato Les Cinquantièmes hurlants – ha combattuto, ha
sofferto, ma ne sussurra, senza i laboriosi sofismi del retore e del neofita.
Esige il rischio, proclama l’avventura come sale per la letteratura, eppure non
gioca all’esteta armato. Resta, nonostante tutto, un ragazzo sfuggente – più
René Char che André Malraux, per intenderci. Non ama i proclami, sa cos’è
l’ispirazione e cosa significhi perdere l’ispirazione – conosce la veglia, la
ferita in ambone, l’acquasantiera degli insonni.
Les Cinquantièmes hurlants, a una prima lettura, ha due grandi precedenti: Le
bateau ivre di Rimbaud e The Bridge, il poema di Hart Crane, il poeta che ha
scelto di morire gettandosi nel golfo del Messico. In ogni caso, è l’elemento
marino a dominare il libro di Tom Buron, il disorientamento, la rottura di tutti
gli ormeggi del linguaggio – un Antartide tutto attorno, che è poi pari a
Minotauro, e venti che scuoiano la pelle fino al sillabario.
Non è stato difficile raggiungerlo – la generosità è parte dell’estro di un
poeta; gli altri, quelli che non si imbarcano nelle imprese disperate,
continuino a fare le vittime.
Perché la poesia in questo tempo impoetico?
Non è forse questa l’unica arte della nostra epoca a non essere diventata
industria?
Quali sono i tuoi maestri, i poeti che ritieni decisivi alla tua crescita?
Citami una poesia-amuleto, un libro-totem, un lotto di versi che tieni sempre
con te.
Velimir Chlebnikov, Conrad Aiken, Roger Gilbert-Lecomte, Hart Crane, T.S. Eliot
e Pound, Dylan Thomas, Matthieu Messagier, Saint-John Perse, Cendrars,
Majakovskij sono molto importanti per me: il mio amore per loro dura
dall’adolescenza. Potrei citare altri poeti dell’Era d’argento russa come Marina
Cvetaeva e Anna Achmatova. A questi dovrei aggiungere il sommo Derek Walcott, o
ancora Basil Bunting e John Ashbery. Dei francofoni, devo citare Arthur Cravan,
un autentico selvaggio, un autentico modello di vita e di energia vivente, ma
anche Stanislav Rodanski e Marcel Moureau. Non amo distinguere tra poeti e
romanzieri, dunque voglio dirti anche Nikos Kazantzakis, Ernesto Sábato, William
Faulkner, Dostoevskij, Melville, Bolaño, Thomas Wolfe (non ho detto Tom…),
Joyce… Cormac McCarthy e la sua cavalcata nell’orrore, quel tremebondo poema in
prosa faulkneriana che è Meridiano di sangue… A noi più prossimo, devo citare
Laszlo Krasznahorkai, uno dei più grandi romanzieri viventi. Amo la lingua
francese di Pierre Michon, quella di Albert Cohen, di Drieu e di Morand, di
Blondin – amo le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. L’opera che
apprezzo di più è quella di Malcolm Lowry. Potremmo dire del desiderio contro il
senso di colpa, dell’ossessione per il paradiso perduto, della cerca e della
devastazione nell’alcol, di una sublime vulnerabilità e di uno stile che
combatte tutti gli stili, ma ciò che ricordo meglio di Lowry è la sua presenza,
ovunque, nell’opera, è il rapporto conflittuale con la scrittura, frammentario e
doloroso, questo rapporto con l’opera in corso, in corsa, che commenta
costantemente e da cui dipende la salvezza dell’uomo, senza condizioni.
Detto questo, è difficile scegliere l’unico libro, il libro-totemico, come dici
tu, ma sono disposto al gioco: se dovessi andare in qualche luogo per sei mesi e
potessi portare con me un solo libro, beh, allora opterei per le opere degli
ultimi anni di vita di Velimir Chlebnikov. Amo la dismisura e le imprese
eccessive, la chiave di una soluzione che deve essere ancora trovata, e lui ha
tentato di trovarla più di chiunque altro: credo, come Chlebnikov, che il poeta
debba essere anche un pensatore – Chlebnikov è il grande poeta dell’impossibile.
D’altronde, un grande amore, quando tentiamo di spiegarlo, ci sfugge sempre, non
è forse vero? Mi viene in mente quell’aneddoto in cui Caitlin racconta che il
marito, Dylan Thomas, di fronte agli amici, cercando di spiegare alcuni suoi
versi, si gettò a terra, d’improvviso, rotolandosi sul tappeto, grattandosi come
una bestia…
Che rapporto esiste tra ‘vita’ e ‘poesia’? O meglio: qual è la tua ‘poetica’
dell’esistere?
Mi dirai banale: l’incontro con Rimbaud, a dodici anni, mi ha fatto credere,
allora e per sempre, che l’avventura sia legata alla scrittura poetica. Il mio
desiderio di scrivere si è sempre manifestato con il gusto per l’avventura e per
il rischio: credo, come Hemingway, che bisogna far scontrare il corpo e la mente
con la realtà, credo nella viva carne, nel sangue che ribolle. Non riesco a
distinguere una dimensione dall’altra, è una sorta di rivelazione ontologica.
Già a quel tempo vedevo il poeta come una creatura che scrive e agisce al
medesimo tempo, una canaglia capace nel metodo, un essere che oscilla tra
ascetismo e latitanza. Byroniani, rimbaudiani, insomma. Credo che occorra andare
e ‘vedere’, sperimentare con i nervi e con le ossa. Ci sono cose che non si
possono trasmettere né ripetere se non dopo averle vissute, se non dopo
l’avventura, quella autentica. L’avventura, come la poesia, è una forma di
eccedenza, si tratta di dimensioni che comunicano. Insomma, è una visione un po’
nietzschiana del poeta. La vita non basta – la letteratura neppure. Il mio caro
Zorba direbbe: “Vivere, sai cosa significa? Slacciare le cinture e attaccar
briga”.
Come nasce “Les cinquantièmes hurlants”, da quale ispirazione? Mi pare che il
linguaggio che usi sia diametralmente opposto al minimalismo, alla poesia
‘orizzontale’ in voga in Francia come in Italia. Da dove arriva la tua lingua?
Non so dirti da dove arrivi questa lingua: passo il tempo a cercarla, a
tentarla. Certamente, deriva in gran parte, oltre che dal mio inesauribile
interesse verso la lingua francese, da una preoccupazione per il ritmo, la
melodia, l’armonia.
Les cinquantièmes hurlants è un poema che ho portato dentro di me per sei anni.
Detto questo, l’ho lavorato a lungo tra il 2020 e il 2022. Volevo terminarlo
entro il mio trentesimo compleanno, come mi è riuscito, per poi smettere tutto,
certo che sia la migliore delle cose che abbia tentato di fare finora. Due anni
dopo, ecco che appare. È un poema che nasce dal desiderio di spiazzare i temi
che mi sono cari, di spostarli dalla città all’oceano, lo spazio di ogni
rischio. Nasce anche dalla prospettiva di una traversata, una traversata mutila.
Tuttavia, ho dato inizio a un movimento, lungo i porti d’Europa, raccogliendo
appunti, cercando di dar loro un corpo; sono andato in giro per un anno e mezzo
circa, prima di mettere tutto da parte perché non riuscivo a giungere a ciò che
volevo da quella distanza. Quando a Est è scoppiata la guerra, sono partito.
Prima presso la frontiera polacca, poi in Ucraina, verso il fronte meridionale e
orientale, a Charkiv, Zaporižžja, Cherson, Mykolaiv, Pokrovsk… Prima nei ranghi
umanitari, la logistica, poi, di recente, dal 2024, nell’esercito. Di questi tre
anni, un anno e mezzo è stato consacrato alla guerra. Se ciò non è direttamente
ravvisabile nel libro, ciò che ho vissuto lo ha inevitabilmente intriso: di
ritorno da una missione, a Ochota, un quartiere di Varsavia dove ho vissuto per
alcuni mesi, sono riuscito a sedermi al tavolo, a riprendere il lavoro e a
completarlo, nell’autunno del 2022. Finalmente, avevo trovato un’architettura
per i miei versi, una lingua per la storia del mio navigatore, un ritmo oceanico
e cavalleresco da imprimere a quella traversata, un ordine e una disciplina per
tale furia. Poi ho nascosto il manoscritto, ho fatto la valigia, sono ripartito
per l’Ucraina.
Riguardo al termine che usi, la poesia ‘orizzontale’: Les cinquantièmes
hurlants è l’esatto opposto, è un poema della verticalità. Questa sorta di
‘orizzontalità’ permanente di cui dici, non riguarda soltanto la Francia, ma il
mondo occidentale in sé – non riguarda soltanto l’arte letteraria, ma molto di
più. Non me ne occupo, ma se vuoi sapere cosa ne penso, dirò soltanto che trovo
la ‘produzione’ attuale per lo più deplorevole, perché va di pari passo con il
disprezzo per la verticalità, la ricerca incessante, l’opera. Ma non ho tempo
per reagire, mi preoccupo di lavorare, mi occupa l’azione. Tutto cambierà in
fretta, sono fiducioso.
La poesia è sempre eversiva, sempre ha in sé un linguaggio anarcoide, contro la
necrosi linguistica odierna: è davvero così? Quali sono i confini tra la poesia
autentica e la falsa poesia, il ‘poetume’ (pattume) di cui è intriso il nostro
tempo? Insomma: dove ci porta la poesia?
Mi avventuro di rado nei meandri della teoria letteraria, ma penso che la poesia
non abbia nulla a che fare con una forma di ‘comunicazione’. Meglio: poesia è
comunicazione suprema. Mi pare che la poesia sia in un certo modo estranea a
queste considerazioni. È terra d’invenzione, superamento del linguaggio,
significato e pensiero rinnovati. Credo che un poeta autentico debba
necessariamente condurre il lettore in una lingua estranea. Nel passato – ma
accade ancora oggi – venivo accusato di essere un poeta per poeti. È un modo per
squalificarti, per evitare l’ingaggio col pensiero… Allo stesso tempo, credo che
in letteratura non si possa che fallire. Questo è ciò che mi spinge a
continuare, che mi fa desiderare di andare oltre. Sbagliamo e sbagliamo ancora e
torniamo alla battaglia: “Ancora una volta sulla breccia, amici cari, ancora una
volta”. Non so se sarò mai in grado di cogliere il segno. Siamo sempre opere
incompiute, incomplete. E quando ti concentri sul poema, come nel mio caso, una
gara di fondo composta da quindici round, devi stare lì, devi essere sempre
vigile riguardo ai tuoi errori, devi arrivare fino alla fine. Penso che il poema
sia la forma più completa e sofisticata: non ha nulla a che vedere, mi si
perdoni, con una bellissima lirica di quattro strofe.
Esiste a tuo avviso un rapporto – di complicità o di avversità – tra ‘poesia’ e
‘politica’?
In Les cinquantièmes hurlants, pur in forma remota, c’è la presenza della guerra
e delle armi nucleari, riecheggia in forma escatologica ciò che stiamo vivendo
oggi. Comprendo dunque la ragione di questa domanda. Detto questo, nonostante il
mio interesse per la geopolitica e la storia, non mi addentro in modo frontale
in questo tema, ho orrore per quelli che si definiscono “scrittori impegnati”.
Trovo che tale atteggiamento manchi di classe e corrompa il lavoro lirico. I
poeti non servono alcuna causa. Bob Dylan, che ha dovuto difendersi da molte
tentazioni in questo senso, diceva, fin da giovanissimo, “Non esiste il bianco e
il nero… Esistono solo l’alto e il basso… E io cerco di andare in alto senza
pensare a cose triviali come la politica”. Tornare alla verticalità di cui
dicevamo prima: ecco la mia risposta.
Hai viaggiato tanto. Quale viaggio e quale incontro ti hanno formato?
È vero. Ho viaggiato in Africa, nelle Americhe, in Asia, poi ho deciso di
concentrarmi sul nostro continente e ho girato l’Europa in autostop, con
l’autobus, sui treni, come quando ero ragazzo. Mi sento uno scrittore europeo
che si esprime in lingua francese e proviene da Omero, Dante, Blake, Nietzsche e
Rimbaud. Da giovane alternavo lavori part-time, scrittura e lunghi viaggi con
pochi mezzi per il continente.
Tre anni fa avrei risposto a questa domanda in modo diverso. Avrei detto che il
Messico mi ha cambiato profondamente. È stato un viaggio che ho scelto nel
momento giusto e in cui – cosa rara – tutto è andato per il verso giusto. Potrei
parlare dell’Africa, in particolare del Senegal. Tuttavia, è l’Ucraina che
occupa ormai un posto enorme nella mia vita. Ciò che ho condiviso lì con alcuni
esseri umani, non lo vivrò con nessun altro. Ciò che ho vissuto con certi amici,
nel lavoro umanitario come nell’esercito, non sarò mai in grado di raccontarlo
come si deve – sono racconti che infine mettono a disagio chi li ascolta, al
ritorno, quindi, semplicemente, smetto di parlarne, anche alle persone a me
prossime. Almeno, questo vale per me: ne parlo poco, racconto poco, non
condivido quasi nulla, ne scrivo, per me solo, però. Penso che tutto questo
troverà, col tempo, un suo equilibrio, ma è certo che gli ultimi tre anni mi
hanno invaso, hanno mutato in profondità l’uomo che ero.
E adesso… cosa fai?
Ho ancora qualche lettura prima dell’estate. Intanto, a Parigi, attorno a una
antologia su jazz e poesia che ho curato insieme allo scrittore di jazz Franck
Médioni, s’intitola Le nom du son. È la prima antologia in francese su questo
tema. Riunisce un centinaio di autori, dunque un centinaio di testi scritti tra
il 1917 e il 2024. Leggerò una selezione di testi che comprende poesie di Mina
Loy, Michel Bulteau e Bob Kaufman, accompagnato da un musicista, Antoine
Berjeaut. Porterò Les cinquantièmes hurlants nel sud della Francia, a Sète, poi
a un festival parigino, con un adattamento musicale creato insieme a Fred Aubin
dei “La Maison Tellier”, un mio amico trombettista. Abbiamo alcune date da qui a
settembre. Da poco, ho ricominciato a scrivere. Come dicevo, dopo aver
finito Les cinquantièmes hurlants, alla fine del 2022, ho pensato di smettere
con la scrittura. Il silenzio è durato due anni.
**
Da Les cinquantièmes hurlants
Alimentiamo questa caduta mercuriale,
la magnolia in un concerto di vertigini,
una volta soltanto – sole di rame –
tra i flutti di un mandolino catartico
ci ha reso vulnerabili. L’odore della meccanica
i ronfi dell’Olandese Volante
ci lordavano i sandali:
“Strano, il babbuino, puah… sublime assillo”
Sento lo stesso, di lontano, lo stesso
sciaguattare di chiatta, un’ambiguità ontologica
e le corde che vibrano lacerando
straniere plaghe, strani pelasgi.
Perché occorre dirlo abbiamo
dormito poco in quest’ultimo secolo: le radici
dissennate divennero torce
e ancora recludono lo spasmo delle montagne
russe tossicologiche. Non ho detto troppi
addio perché sono marchiato
dai sigilli, ma, fiacchi di guerra, hanno assolto
gli idoli cavi, la vite, un amuleto
occulto, l’esca e l’acciarino
nell’avventura dello squallore, dello squarcio:
tutto spira, l’alba si perde in caricature
carminio. La parata d’oro impone trasalimenti
i colori si rinnovano come folgorazioni
dall’acquarello che popoliamo
tra il bronzo e il piombo,
convergendo instancabili verso queste
tessere del domino che cadono una dopo l’altra
nel culto del ricordo.
Così, così, mai l’oblio fu incontrato
ma questo vivere se non da mutilati, seguaci
di frammenti eremitici, di un deliberato
disordine, lo specchio semovente, l’arena regina
il combattimento intangibile: Mare, dunque
e lì, Mare, e là, la plenitudine del Sud – il pieno Sud.
Tom Buron
L'articolo Tra ascetismo e latitanza, contro gli scrittori “impegnati”, verso
l’impossibile. Dialogo con Tom Buron proviene da Pangea.
È una straordinaria resa dei conti con il nostro passato e la nostra Storia
(politica, culturale e sociale), quella che Giampiero Mughini, regala ai lettori
con il suo Controstoria dell’Italia. Dalla morte di Mussolini all’era
Berlusconi (Bompiani, 2024). Un viaggio a ritroso in oltre settant’anni di vita
politica e culturale – mischiando storia e memoria, critica e indagine – tra
libri, immaginari e personaggi che hanno cambiato e condizionato la storia
italiana. Dagli aneliti fratricidi e i camaleontismi che hanno accompagnato il
dopoguerra alle guerriglie ideologiche degli anni Settanta passando per i
linciaggi mediatici della Seconda Repubblica. Tra Pasolini, Bilenchi, Ramelli,
Craxi e Berlusconi. Un testo in cui Mughini, intellettuale, scrittore,
giornalista e grande maestro di gusto e di pensiero, ha ricostruito la storia
d’Italia oltre ataviche ripartizioni e lottizzazioni, mostrandone le complessità
e profondità aldilà di pregiudizi atavici e ancestrali antagonismi. Mostrando i
fenomeni più complessi e le figure più discusse del nostro patrimonio storico
culturale attraverso la lente non dell’ideologia o del moralismo, bensì tramite
un approccio capace di restituire ad essi la loro irriducibile complessità e la
loro ineludibile umanità. Ne emerge un documento personale e collettivo, fatto
di tanti voci e personaggi che in qualche modo pone finalmente le condizioni
fondamentali per una vera pacificazione (senza giustificazionismi o
strumentalizzazioni) per la nostra storia nazionale.
Questo 25 aprile sono caduti gli ottant’anni dalla Liberazione. Secondo lei come
è stato affrontato nel nostro Paese il tema della “guerra civile”?
L’ondata di speranze portate dalla Liberazione aveva favorito l’idea che con la
fine del ventennio fascista ci sarebbe stata una palingenesi che avrebbe
costruito una sorta di paradiso terrestre. Tanto che io stesso mi portai dietro
per molti anni l’idea che l’antifascismo ci avrebbe condotto verso un futuro
radioso e perfetto. Però con gli anni capii che la storia è fatta di ambiguità,
di complessità, di esperienze e persone. Tutti fattori che non possono essere
riassunti nella logica bene/male, luce/ombra, buoni/cattivi, uomini e no. Ci
sono, infatti, troppe sfumature intermedie nella realtà e ridurre tale
complessità a questi facili dualismi è un gravissimo errore. Un errore che
spesso ci ha impedito di comprendere la storia del nostro Paese a causa di
vecchie nostalgie e deleterie sacralizzazioni. A distanza di ottant’anni credo,
infatti, che possiamo convenire che con il 25 aprile del 1945 non
iniziò nessuno paradiso terrestre, ma finì per fortuna una tragica e sanguinosa
guerra civile in cui ci furono tanti morti e tante ragioni diverse, alcune
giuste altre sbagliate, che però a distanza di ottant’anni non bisogna
strumentalizzare, bensì studiare e capire. Credo, infatti, che non serva più
continuare a dividersi e a rievocare, con troppa retorica, i fantasmi della
Storia. Servirebbe, invece,solo cercare di affrontarli senza pregiudizi e
preconcetti. Cercando di confrontarci finalmente con le numerose sfumature del
nostro passato.
Ma… c’è ancora nel nostro Paese un anelito fratricida?
No, io credo che non ci sia (per fortuna) un anelito fratricida nella società
italiana. C’è però molta gente che, purtroppo, ancora si avvantaggia di quella
divisione, e che appena può cerca di avvalersi di essa per i propri scopi.
Cercando di sfruttare una polarizzazione, fascismo-antifascismo, che nel 2025
non esiste e non conta niente, per fini strumentali. Purtroppo, la Repubblica
Italiana pur lasciandosi alle spalle un ventennio maledetto e nefasto quanto a
sopraffazioni e violenze, è nata, infatti, nel peggiore dei modi. Marchiata a
sua volta dal gusto del sangue, dalla vendetta, dall’odio reciproco delle
fazioni, dall’esaltazione che della guerra civile facevano quelli che l’avevano
vinta (e per fortuna) grazie agli aerei da bombardamento e ai carri armati degli
americani. E del resto a tutt’oggi, quanti di quelli che nel linguaggio pubblico
diffuso cianciano di “fascismo” e di “anti-fascismo” sanno di che cosa stanno
parlando? Essi ignorano, infatti, quanto fosse stato intricato e complesso il
reticolato della storia politica e morale dell’Italia del Novecento.
A proposito di tale ambiguità mi ha colpito l’episodio del cameriere e di suo
padre che compare nel libro, indicativo delle contraddizioni del dopoguerra. Può
raccontarcelo? E che insegnamento ci dà quell’aneddoto?
Ma sa, i miei genitori erano separati e io andavo a pranzo da mio padre un paio
di volte al mese. Papà parlava poco, pochissimo, giusto l’indispensabile. Con il
passare degli anni diventai uno studente della sinistra radicale nella versione
propria degli anni Sessanta. E sebbene tale visione fosse agli antipodi della
ideologia di mio padre mai, mai una volta, lui obiettò qualcosa alle mie
sfuriate di sinistra radicale, che pure erano ben note nella città in cui
vivevo. Lo fece solo una volta. E qui veniamo alla sua domanda. In quella
occasione eravamo andati a pranzare con mio padre in un ristorante dove i
camerieri erano entrati in sciopero contro il loro datore di lavoro, e il capo
cameriere (leader degli scioperanti) era venuto a salutare mio padre. Nel
momento in cui lui venne al nostro tavolo io giovane studente di sinistra
guardai con estasi quello che mi appariva come un vero ribelle. Quando lui si
allontanò mio padre mi disse, però, poche parole: “Sei un settario. Quel
cameriere che ti piaceva così tanto perché in sciopero era stato a suo tempo un
manganellatore, e io l’ho espulso dal Partito Nazionale Fascista.” Parole che, a
ripetermele oggi che sono passati circa sessant’anni, mi trafiggono ancora come
mi trafissero allora per quanto erano inappellabili. Del resto, sempre le poche
parole che pronunziava mio padre mi trafiggevano.
Com’era suo padre?
Era una brava persona. E posso dire che oggi a distanza di tanti anni solo a
questo tengo, anche io: ad essere una brava persona. Tutto il resto (destra e
sinistra incluse) è cianfrusaglia.
Perché dice che la cultura degli anni del dopoguerra era solo illusoriamente
fatta di uomini nuovi e costruita ex novo?
L’idea che noi ventenni bevemmo a gran sorsate negli anni Sessanta, ossia che a
guerra conclusa e a Liberazione avvenuta si fosse manifestata in Italia una
cultura radicalmente nuova, animata da uomini che avevano poco se non niente a
che vedere con la storia culturale del ventennio, era un’idea che non valeva
nulla. Né più né meno dell’idea, sussurrata una volta nientedimeno che dal
nostro maestro, Norberto Bobbio, che affermava che il fascismo non avesse avuto
una sua “cultura”. Una tesi che sembrava volesse dire che durante il ventennio
non ci fosse stata in Italia una vita culturale degna di questo nome, non ci
fossero stati scrittori, pittori, architetti, riviste di cultura che avessero
lasciato delle tracce. E lo dico senza nulla togliere a quello che rappresentò
per tutti noi ventenni la lettura dei Quaderni che Antonio Gramsci era andato
stilando in una cella fascista e che l’editore torinese Giulio Einaudi aveva
pubblicato dal 1948 al 1951. Certo che era un uomo nuovo l’Antonio Gramsci i cui
scritti potevamo finalmente leggere perché il Tribunale speciale fascista aveva
sì racchiuso il suo corpo, ma non era riuscito a spegnere il suo cervello. Solo
che non tutto della cultura italiana dell’immediato secondo dopoguerra
cominciava e finiva con Gramsci. Anzi. Non erano uomini nuovi o comunque
radicalmente diversi da quel che erano stati nel ventennio dei creatori dal gran
risalto quali l’architetto e designer Giò Ponti, il prodigioso scrittore Alberto
Savinio nonché il suo imponente fratello Giorgio De Chirico, il giornalista e
editore Leo Longanesi, e Mino Maccari. Non lo era Romano Bilenchi o Elio
Vittorini, e neppure quel Bruno Munari che fin dal 1930 era andato trasformando
in oro tutto quel che creava. Come non lo erano l’architetto Luigi Moretti, il
cui genio per essere lui rimasto fascista sino all’ultimo (è morto a sessantasei
anni nel 1973) viene ricordato una volta sì e cinque no. Persino Vitaliano
Brancati che già durante il ventennio aveva preso a scrostare da sé l’iniziale
sua venerazione di Mussolini non lo era; come non lo erano Rossellini e
Visconti. Oppure pensiamo, sempre in questo senso, ai Longhi, ai Praz, agli
Ungaretti. Ciò deve farci riflettere. La storia, specie quella della cultura, è
sempre più complessa di quanto la immaginiamo o di come vorremmo che fosse. Poi
non parliamo del delitto più torvo compiuto dalle ricostruzioni culturali in
auge nell’immediato secondo dopoguerra.
Quale?
Quello per cui si spiegava tutto e ogni cosa in nome della partizione avversante
tra l’Italia dei tempi dominati dal fascismo e l’Italia sopravvenuta dopo la
Liberazione. Una partizione talmente secca da aver cancellato d’un colpo solo
una delle avanguardie più frastornanti e geniali dell’intero Novecento europeo,
quel futurismo marinettiano che per trent’anni s’era completamente avviluppato
con il fascismo e con la sua topografia ideale.Furono, infatti, così cancellati
i libri creativamente strepitosi di Fortunato Depero (un altro che rimase
fascistissimo fino all’ultimo), i quadri di Mario Sironi, il succulento libro di
esaltazione della “cucina futurista” a firma di Marinetti e Fillia. Per fortuna
qualcosa sta cambiando e le ragioni dell’arte possono essere riscoperte.
Quale è l’orgoglio e il fondale che accompagna questa controstoria di cui parla
nel libro? E perché ha scritto questo testo?
Quello di cui sono più orgoglioso e che costituisce il vero significato della
“controstoria” che ho scritto è il tentativo di rimuovere via via i presupposti
di quella guerra civile che aveva insanguinato l’Italia tra il 1943 e il 1945, e
di cui sono stati in molti ad avere nel dopoguerra come una sorta di nostalgia.
E dunque darsi ad affrontare ciascun personaggio rilevante, ciascun momento
politico della nostra storia, ciascun comparto della nostra scena culturale non
con l’aria di chi ha già etichettato tutto, ma con la volontà di andare
scoprendone ogni volta un versante rimasto nascosto e offrirlo a un lettore che
non sia accecato dalle sue convinzioni. Tutto l’opposto della cancel culture che
ripete ad ogni riga ossessivamente le stesse prosopopee e sempre quelle, e cioè
fondamentalmente che il Bene è meglio del Male. E questo tanto più oggi che le
topografie del Novecento cui ci eravamo abituati sono saltate tutte. Solo che
questo darsi addosso reciproco è divenuto per molti una necessità ossessiva,
incuranti come sono che da tempo siamo entrati in un nuovo millennio della
storia umana. Anzi tale condizione è divenuta, quasi, una mania nell’attuale
sistema politico-partitico italiano, dove in mancanza di meglio le parti
contrapposte (quali parti poi esattamente?) non la smettono di alimentare ogni
volta inesauribili litigi su questioni emotive e insignificanti. Tutte questioni
che ti sbattono addosso se entri in uno studio televisivo a commentare il
presente e che mi fanno appisolare al solo rievocarle.
Uno degli ultimi capitoli è quello su Silvio Berlusconi. Le volevo chiedere come
Silvio Berlusconi ha cambiato la politica italiana, la politica dei partiti, e
l’immaginario italiano?
Nei primi anni Novanta i partiti ansimavano e allora la figura di quest’uomo
talmente ricco, talmente potente e se non anche talmente abile ha preso il
sopravvento.
Lei crede che ormai i partiti non esistano più? Avevano cominciato a non
esistere già allora. Un partito, del resto, per esistere deve essere fatto da
uomini che hanno delle certezze assolute e che sulla base di quelle certezze
assolute si comportano e agiscono giorno per giorno seguendo una determinata
visione. Tutto questooggi non esiste. Da Berlusconi in poi la scena politica
italiana sarebbe divenuta, invece, il teatro di un unico e asfissiante
referendum politico e morale pro o contro Berlusconi, il teatro di una inesausta
e rabbiosa colluttazione permanente tra berlusconiani estatici e
antiberlusconiani ostinatissimi.
Secondo lei, dal ricordo che sta emergendo della figura di Sergio Ramelli allo
sdoganamento dei pregiudizi su Bettino Craxi, si sta cercando di costruire una
narrazione unificante nella società italiana?
Purtroppo, prima il nome di Sergio Ramelli non veniva neppure pronunciato, tanto
che per alcuni era uno che era morto quasi per un’infezione sconosciuta. Invece,
adesso onestamente sono contento di notare che il nome di Ramelli viene
pronunciato… e questa è una grande fortuna. Per quanto riguarda Craxi, vorrei
sottolineare che è morto da esule della nostra patria, mentre qualcuno diceva
che era un latitante… Anche se non sfugge, o almeno non sfugge a chi ha un
occhio minimamente esercitato, che sia stato uno dei grandi uomini politici
della nostra epoca. Per tale motivo sono soddisfatto che finalmente gli stiano
tributando l’attenzione e il rispetto che merita e che avrebbe meritato
soprattutto nell’ultima fase della sua vita.
In questo senso, quali sono stati, gli eventi che hanno accompagnato questa sua
presa di coscienza, questa sua evoluzione oltre la logica dello scontro frontale
degli anni Sessanta e Settanta?
Moltissimi. Lei ha citato giustamente un evento come la morte di Ramelli, ma in
quegli anni furono troppi gli episodi che mi fecero prendere coscienza di quella
situazione insostenibile che si stava sviluppando in Italia. Iniziai a sentire,
col passare degli anni, sempre di più la cognizione di quest’aria fratricida di
cui abbiamo parlato e che volevo superare. Ed anche da questa cognizione
nacque Compagni addio. Un testo che in tale ottica segnò uno spartiacque tanto
nella mia vita quanto nei miei libri.
Ci sono varie personalità in questa Controstoria dell’Italia, descritte anche
con toni letterari, ma quali sono stati, dei personaggi citati nel testo, quelli
che l’hanno più colpita, che l’hanno più cambiata?
Tanti, talmente tanti, che non riuscirei ad elencarli tutti. Certamente non
posso non citare una figura come Norberto Bobbio, che è stato per un lungo
momento un personaggio nel quale io ho visto un mio riferimento. Ma ce ne sono
tanti altri. Nella politica, forse, le direi Ugo La Malfa, una figura
che stimavo molto. Però è estremamente difficile scegliere.
Lei ha detto che la morte di Giovanni Gentile non è così diversa dall’omicidio
di Matteotti. Perché?
Mi pare evidente, anche perché non riesco a comprendere in che cosa tali morti
dovrebbero essere diverse. Giovanni Gentile non aveva fatto nulla di male,
semplicemente è stato un filosofo e un intellettuale che ha continuato ad essere
dalla parte che aveva sostenuto per oltre vent’anni. Matteotti, allo stesso
modo, aveva semplicemente fatto un discorso alla Camera, presentando la sua
coerente e intransigente visione politica. Entrambi sono stati uccisi da una
violenza cieca, fratricida, crudele solo perché erano visti come dei simboli da
distruggere. Ma dietro quei simboli c’erano grandi uomini che avevano cercato di
cambiare il loro paese e che sono stati uccisi da innocenti. Quindi sono due
morti che si somigliano, che si somigliano pazzescamente. Pertanto porto a
queste due figure il medesimo profondo rispetto che meritano.
Francesco Subiaco
L'articolo Italia, una Repubblica fondata sulla vendetta. Dialogo con Giampiero
Mughini proviene da Pangea.
Tra le varie testimonianze utili a perimetrare la vita – e dunque, l’opera,
sempre ‘battesimale’ – di Caproni, ne preferisco due. La prima è la lunga
intervista concessa a Ferdinando Camon, raccolta in Il mestiere di poeta (Lerici
Editori, 1965; magistrale ovvietà: un’intervista funziona, al di là
dell’intervistato, se c’è del genio nell’intervistatore). Caproni – che ha
sempre quel “viso affilato e severo” – è già l’autore di Stanze della
funicolare e de Il passaggio di Enea; con Il seme di piangere ha vinto un
‘Viareggio’, ha da poco pubblicato Congedo del viaggiatore cerimonioso. Tra le
tante cose – necessarie a designare una poetica; ad esempio, l’importanza dello
“studio del violino, uno studio duro, egoistico, che richiede otto, dieci ore
giornaliere d’applicazione”, che significa, “lenta conquista” e assidua
dedizione all’arte, sempre artigiana – scelgo questa:
> “L’unica certezza che c’è nei miei versi è quella della vita e della morte.
> Oggi come oggi, sento che tutte le strutture (le ‘istituzioni’) classiche e
> ottocentesche non reggono più. Oggi non viviamo più in un mondo
> geometricamente perfetto, anche se pieno d’orrende ingiustizie, come all’età
> di Pericle o nel Medioevo o nel positivista e progressista Ottocento. Oggi
> dobbiamo rifare tutto da capo, oserei dire Dio stesso, se questa non fosse,
> per credenti e miscredenti, una boutade. La mancanza di una certezza, più che
> mia, mi sembra dell’epoca”.
L’intervista termina con un coup di quelli di Caproni: il poeta si augura la
venuta del “poeta nuovo capace di farci invecchiar tutti quanti d’un colpo… con
la sola forza della sua poesia”. Che meraviglia questa fede nella sempiterna
giovinezza – cioè: nella sempiterna violenza – della poesia. Va detto che
la novità della poesia di Caproni continua, da anni, a far invecchiare d’un
colpo poeti ben più giovani di lui, ignari di cosa sia la giovinezza, il suo
sentore di animale in sangue.
Forse perché era ossessionato da Dio – o dalla sua eco, o dalla sua eminente
assenza, o dalla sua carnivora presenza – credo che il più arguto esegeta di
Caproni sia stato Cesare Cavalleri. Erano amici, legati dallo spudorato pudore
proprio ai maestri, ai grandi: lo testimonia un epistolario cominciato nel 1972,
di cui Cavalleri ha svelato, sorvolando, alcuni brani (trovate il tutto alla
voce “Caproni” in: Cesare Cavalleri, Letture 1967-2022, Edizioni Ares, 2023,
libro necessario quant’altri mai per orientarsi tra eden e paludi della
letteratura italiana e non). I due si sfiorarono nel 1982, alla ‘Piccola Scala’:
Caproni, “visibilmente frastornato”, vinceva il Premio Montale; Cavalleri gli
chiedeva “il testo della poesia che aveva letto in quell’occasione” (Oh cari,
per la cronaca). In un’intervista pubblicata su “Studi Cattolici” l’anno dopo,
in ottobre, Caproni gioca a spezzare tutti i vetri.
> “Io ho sempre pensato che nella vita ci sono tante cose da fare, oltre ai
> versi. Poi, se vengono i versi, uno li scrive. Ora come ora vorrei non averne
> mai scritti. Vorrei aver speso meglio quella che Machado chiamava la monedita
> del alma”.
Aveva da poco pubblicato Il franco cacciatore. Poesie gnomiche, profezie incise
in acciaio. Palingenesi, per dire:
Resteremo in pochi.
Raccatteremo le pietre
e ricominceremo.
A voi,
portare ora a finimento
distruzione e abominio.
Saremo nuovi.
Non saremo noi.
Saremo altri, e punto
per punto riedificheremo
il guasto che ora imputiamo a voi.
Non credo sia un caso che per le Edizioni Ares, consustanziali all’intelligenza
ferina di Cesare Cavalleri, sia uscito uno ‘strumento’ importante per capire
Caproni. Lo ha firmato Francesco Napoli, critico di implacabile acume,
s’intitola Giorgio Caproni. Scrittore in versi (2025). Tra le altre cose, Napoli
parla in quel libro di un incontro organizzato dall’Università di Salerno:
Caproni fumava, scavato, segaligno, lucido. Esatto come un endecasillabo. Si
dice – va da sé – degli anni della Resistenza, dell’amicizia con Pasolini e con
Betocchi, di Sbarbaro e Ungaretti. Poeti importanti, è vero, ma che si
riconoscono per piccole cose, per baluginii e reticenze, per inciampi;
si odorano, preferiscono la macchia. Anche il corpo di Caproni è epigrafico, è
un petroglifo – ambone di un’opera autentica.
Insomma, ho contattato Napoli.
Qual è l’evento centrale – o gli eventi – nella vita di Caproni, quello che
forgia il suo dire?
Non è facile, a mio avviso, individuare uno o più eventi che hanno forgiato un
dire che è stato costantemente in ascesa verso un fare poetico e di pensiero
sempre più affinato e incisivo. Mi piace indicare però due fatti, che avvengono
durante la sua formazione, di natura diversa. Il primo è l’incontro con la
poesia di Ungaretti. E ce lo racconta molto bene lo stesso Caproni quando ne
parla come di una illuminazione. Frequenta già la poesia, è andato a pescare
Carducci da qualche parte per saltare D’Annunzio e lo stesso Pascoli, forse
anche per una vicinanza sanguigna e toscana. Ebbene: viveva a Genova e lavorava
come fattorino presso l’avvocato Ambrogio Colli. Nella biblioteca dello studio,
nella centralissima via XX Settembre, scova una copia dell’Allegria di
Ungaretti. Il suo “sillabario” poetico lo definì sin da subito e questo incontro
segna il suo dire una parola poetica adeguata, nella ricerca del “sapore perduto
della parola” per dirla come l’ha detta lui. “Perduta”, amissa. L’altro
episodio, anche questo raccontato da lui, è l’abbandono ‘fisico’ e ‘violento’
del violino. A 18 anni, sempre a Genova, dopo aver suonato per balere e
dintorni, gli tocca sostituire un primo violino in un concerto con musiche di
Massenet. Nonostante si fosse ben preparato e avesse studiato la parte, la
tensione dell’esibizione pubblica lo stravolge. Non vive benissimo questo
passaggio e il confessato “fallimento” si concretizza d’improvviso, seguendo
quasi le sue spigolosità caratteriali, quando una sera, dopo tanto studiare,
abbandona traumaticamente il violino, spezzandolo di ritorno a casa. Da lì un
continuo seguire la musica nella parola.
Pur al centro del canone della letteratura italiana, Caproni mi sembra un poeta
defilato, uno che ha percorso una sorta di ‘via oscura’ della lirica, totalmente
propria. È davvero così a suo giudizio? Qual è il libro emblematico di questo
percorso?
Una via lirica tutta sua senz’altro, una parola originale in una tramatura
musicale di straordinario equilibro metrico-ritmico e sonoro. Ma aggiungo, un
percorso intellettuale unico. Eppure, proprio lui, traendo forza e ispirazione
anche dalla lirica duecentesca, non petrarchesca, e vivendo nell’imperante verbo
ermetico (a prevalenza petrarchesca peraltro) degli anni Trenta, amico fraterno
di Alfonso Gatto, rompe con questa linea provando a ricondurre la poesia verso
l’Allegoria allontanandola dal Simbolo (proprio dell’ermetismo). Libro
emblematico credo sia a questo proposito Il passaggio di Enea del 1952. Qualche
anno prima, nel 1948, descrive in un articolo sull’“Avanti!” l’eroe virgiliano
come se parlasse di sé e del suo lavoro poetico:
> “Non potendo più appoggiarsi a nessuno (nemmeno al padre, vale a dire alla
> tradizione ch’ormai cadente grava fragilissima sulle sue spalle) egli deve
> operare, del tutto solo, non soltanto per sostenere sé stesso ma anche per chi
> l’ha sostenuto fino a ieri (il padre e la tradizione) e chi al suo fianco lo
> segue.”
Perfeziono: “Res amissa” è secondo lei il culmine della poesia di Caproni o
piuttosto una ‘deviazione’?
La pubblicazione postuma di questo libro è stata curata da Giorgio Agamben e dai
figli davvero al meglio, restituendo pressoché pienamente il lavoro di Giorgio
Caproni. Questo capita di rado. In genere frettolosi eredi e ben più animati
editori rovistano a man bassa nei cassetti e curiosano sulle scrivanie degli
autori e sui loro lavori in corso finendo per lo più per tradirli. Per fortuna
con Res amissa questo non è accaduto. Detto questo voglio ricordare come
l’intero lavoro poetico di Caproni si contraddistingue per riprese e ricuciture,
di plaquette come di versi pubblicati in rivista, ricomponendosi poi in un libro
(non una raccolta, attenzione) coerente e coeso. Ora non so bene se Res
amissa sia un “culmine” o una “deviazione”, quello che so è che è
capronianamente in continuità di pensiero poetico e poetante, con variazioni sui
temi già sviluppati, con rinnovati congedi che sembravano già definitivamente
esauriti, per giungere all’estremo del “congedo dal congedo stesso, per
inoltrarsi in regioni di sempre più estrema disappropriazione fra l’uomo e il
Dio” come ha scritto Giorgio Agamben. Il pensiero di una cosa perduta, che per
Caproni sembra, azzardo un paradosso, essere una sensazione che si prova sin
dalla nascita, mi sembra molto pertinente alla condizione dell’Essere.
Il poeta ha subito per questo suo nuovo libro le idee molto chiare. Infatti, la
poesia eponima della nuova opera, Res amissa appare su “Lengua” (gennaio-giugno
1987), la rivista di Gianni d’Elia e Katia Migliori, accompagnata da una
illuminante nota del poeta che attacca così: “Questa poesia sarà il tema del mio
nuovo libro (se ce la farò a comporlo)”. Credo che mai Caproni abbia iniziato
con le idee così chiare. Mi sembra inoltre che l’intero cammino poetico di
Giorgio Caproni si svolga secondo una linearità fatta anche di scarti e
deviazioni. Sembra un ossimoro, ma a ben vedere non lo è. Basta solo ricordare
il suo metodo di costruzione dei libri pubblicati, basato su un continuo riesame
e ravvicinamento dei testi. Per Res amissa vale lo stesso discorso: il libro
prosegue il pensiero del Conte di Kevenhüller e da questo se ne discosta e poi
si riavvicina.
Quali sono state le amicizie decisive, autenticamente feconde per Caproni?
Sono diverse e in diversi momenti della vita e con gradienti differenti
d’intensità. Certo, dalle patrie storie letterarie Pier Paolo Pasolini, Attilio
Bertolucci e Vittorio Sereni, tra i poeti, e Giuseppe De Robertis tra la critica
sono stati i suoi amici più vicini. Ma c’è un altro poeta, oggi poco frequentato
anche da noi critici, sbagliando, che più sembra consuonare con Caproni e di cui
in qualche modo il poeta di Livorno riconosce un magistero umano e di pensiero:
parlo di Carlo Betocchi. Invito ad andare a leggerlo con attenzione, e io per
primo lo farò, provando a liberarlo dall’ombra imponente e importante di Mario
Luzi.
Ritagli dalla sua memoria i versi memorabili di Caproni, quelli che a suo dire
ne distinguono la poetica.
Tre citazioni, senza commento.
> “Tutti riceviamo un dono.
> Poi, non ricordiamo pi
> né da chi né che sia.
> Soltanto, ne conserviamo
> – pungente e senza condono –
> la spina della nostalgia.”
>
> (Generalizzando in Res amissa)
> “Ho provato a parlare.
> Forse, ignoro la lingua.
> Tutte frasi sbagliate.
> Le risposte: sassate.”
>
> (Sassate in Il muro della terra)
> “Ora che più forte sento
> stridere il freno, vi lascio
> davvero, amici. Addio.
> ( Di questo, sono certo: io
> son giunto alla disperazione
> calma, senza sgomento.
>
> Scendo. Buon proseguimento.”
>
> (chiusa del Congedo del viaggiatore cerimonioso, nell’eponima raccolta)
Che rapporto esiste, a suo avviso, tra la vita di Caproni e l’opera, tra il
‘corpo’ fisico e il ‘corpo’ lirico?
Ho avuto un incontro, folgorante, all’Università di Salerno con il poeta, e lo
racconto nel libro. E se vado con la memoria a quell’incontro, a quando ci ha
detto che l’italiano ha il suo naturale respiro nell’endecasillabo, a quando
fumava e non poco anche in aula, ebbene più come una sensazione che come
certezza, secondo me, l’identità tra corpo fisico e lirico in Caproni è molto
stretta.
Chi si muove nei solchi di Caproni? Intendo dire: Caproni ha aperto una via
lirica percorsa da altri o è un inascoltato pioniere?
Molti hanno letto e amato, incontrato e frequentato Caproni, anche tra i
viventi. E penso a Cucchi come a Mussapi, i primi che mi vengono in mente. Ma
non sono stati i soli. È un poeta di spessore, con un pensiero intenso anche
quando sembra facile da leggerlo o quando pensiamo di averlo capito. E tra le
due opzioni che chiudono la sua domanda penso che dobbiamo averlo sul nostro
comodino, accanto al letto, come lui aveva Dante. Un maestro.
*In copertina: Giorgio Caproni in un ritratto fotografico di Dino Ignani
L'articolo “Buon proseguimento”. Chiacchiere intorno a Caproni, un maestro
proviene da Pangea.