In copertina, un particolare dalla Santa Lucia di Francesco del Cossa: occhi che
germogliano da una piantina, stretta con malizioso garbo dalla santa. Era il
1994 e dell’autore – “nato nel 1941 a Rimini, dove vive” – si diceva, per lo
più, della biblioteca, la Gambalunghiana, di cui era, all’epoca, direttore,
“fondata al principio del Seicento, da un gentiluomo allampanato e funereo”. Il
romanzo – L’avvocata delle vertigini –, tra i più singolari e remoti del nostro
canone recente, nascondeva, tra l’altro, un altro libro, Ufficio del silenzio,
in cui si legge quanto segue: “Tacet. Come il colore bianco è la somma
misteriosa di tutti i colori, così quella lingua bianca che è il silenzio
accoglie paternamente tutte le parole”. Un monito, forse. Il protagonista,
Dominici, ricorda a sprazzi il Daniele Dominici de La prima notte di quiete,
l’eroe malinconico del film di Zurlini, ambientato a Rimini. Del libro si parlò
tanto, tanto fu tradotto: un autore italiano nel catalogo Adelphi era pura opera
di teurgia, quasi un’annunciazione; qualcuno paragonò L’avvocata delle
vertigini alla Variante di Lüneburg di Paolo Maurensig, noto romanzo uscito nel
1993: l’affinità è meramente editoriale.
Rispetto ad altri autori dal tardivo esordio – Francesco Biamonti e Gesualdo
Bufalino, ad esempio – Piero Meldini aveva già pubblicato tanto, per lo più
saggi, con l’amico editore di una vita, Guaraldi: tra gli altri,
ricordo Reazionaria, la prima “Antologia della cultura di destra in Italia”,
uscita nel 1973, Mussolini contro Freud (1976) e il ciclo “La cucina
dell’Itaglietta” (1977), che è poi una storia d’Italia, dall’età giolittiana al
fascismo alla “cucina del tempo di guerra”, attraverso la controcultura
culinaria.
Per lo più ostile alla cagnara letteraria, per lo più sulle sue, un isolato,
Piero Meldini ha pubblicato per Adelphi il suo libro più bello – L’antidoto
della malinconia, 1996, ambientato in un inquieto, coriaceo Seicento – e per
Mondadori quello che ritiene il più compiuto, La falce dell’ultimo quarto, nel
2004. L’ultimo libro, Italia. Una storia d’amore (la quinta: vigilia della Prima
guerra, tra Bologna e Rimini) è uscito per Mondadori poco meno di quindici anni
fa. Da allora, Meldini, senza dubbio uno dei grandi scrittori italiani di oggi,
vive in una veglia tutta sua: non ha più voglie letterarie, è quasi del tutto
refrattario al presente. I racconti radunati per Vallecchi come In disparte, in
silenzio (brutta la copertina “generata con AI”), così, fanno l’effetto di una
scoperta. Pochi – sedici – brevi – in tutto, compresa la Nota, il libro conta
centoquaranta pagine – sagaci, non scalfiscono il tema: il testo più recente è
del 2009. Eppure, per una sorta di sfrenata austerità, di spudorata sapienza, i
racconti di Meldini sembrano più moderni, freschi, scattanti, giovani di troppa
narrativa che infesta le librerie patrie.
Il racconto più bello – parere mio – è Dietro la grata: siamo nel Seicento, il
secolo narrativamente aureo e oracolare per Meldini, si parla di una giovane, di
fantomatica bellezza, confinata in monastero, di un diario mistico dalla
“scrittura insieme puerile e artificiosa”, di un donnaiolo attaccabrighe che
porterà al disfacimento la famiglia, non nobile ma capace in ricchezze. Il genio
dello scrittore, come sempre, si vede subito, fin dalla filigrana dell’incipit:
> “Sulla carta spessa, che crocchia e si accartoccia agli angoli, le righe
> corrono svelte. Le lettere pendono a destra, come investite da una corrente
> d’aria. Là dove la scrittura a un tratto si inalbera, graffiando il foglio, la
> porta avrà sbattuto”.
Si sente, cioè, in poche righe, il sapore di un mondo e il suo senso,
il suono dell’epoca. Lo scrittore gioca con gli astri, ha a cuore tutti gli
angoli della propria invenzione (soprattutto quelli invisibili al lettore). La
scrittura di Meldini rimanda – parere mio – ai racconti più riusciti di
Marguerite Yourcenar, quelli raccolti in Come l’acqua che scorre; lui cita, tra
i suoi lari, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Morselli, Buzzati. A Jorge Luis
Borges – autore che accompagna da sempre l’epopea letteraria di Meldini – è
dedicato uno ‘scherzo’ assai sugoso. In Pasticcio, il grande scrittore argentino
interpreta se stesso in vesti di cuoco: il suo piatto, naturalmente un
“capolavoro”, sortirà effetti mortali nella mente e nel corpo dei commensali. I
borgesiani di ferro riconosceranno nomi, temi, topografie, comunque esplicitati
dall’autore in nota.
Come ci si potrebbe attendere, Meldini – almeno in apparenza – guarda con
indocile sprezzatura ai suoi libri: nell’arco di un ventennio o poco più – mi
sono dimenticato di citare Lune, Adelphi, 1999 – ha pubblicato alcuni dei libri
indimenticabili della nostra tradizione recente, ma cosa gli importa… “Dubito
che qualche mio romanzo mi sopravviva e non è che la cosa mi turbi più di
tanto”, tende a ripetere. Lo scrittore forse fa proprio questo: scrive per
cancellarsi – delle cose che ha scritto, gli resta un riverbero, una breve
nudità, lo sbrego sul margine, un manoscritto pervertito dall’uso. Forse la sua
icona è la farfalla – o l’effimera; i libri, intanto, fanno la crisalide. Il
resto – far vivere un libro, dotarlo di eternità – è compito nostro, è la gioia
dei lettori.
Che cos’è il racconto per te: il disegno preparatorio di un romanzo, un romanzo
abortito, a mala pena abbozzato, un’occasione che avvampa, lasciando dello
scritto un pertugio di cenere – e poco altro. O è molto di più?
Il racconto non è né un embrione né un concentrato di romanzo. È un’alternativa.
La scelta, cioè, di raccontare in un numero limitato di pagine una storia con un
capo e una coda: un inizio che inviti alla lettura e un finale appagante,
sorprendente o perturbante. A differenza del romanzo, che lascia il lettore
libero di indugiare, sostare e fantasticare sulle sue pagine, il racconto lo
prende per mano e lo trascina fino alla conclusione. Un buon racconto è una
parabola nel duplice significato del termine: una traiettoria e un racconto con
una morale. Meglio – molto meglio – se indecifrabile.
La quarta recita: “Tutti i racconti di uno dei più originali narratori
italiani”. Ti domando. Sono davvero “tutti” i tuoi racconti qui raccolti; cosa
significa, appiccicato a te, l’aggettivo “originale”; e poi, ti senti davvero un
“narratore”?
Sì, i racconti sono più o meno tutti quelli che ho scritto; i pochi assenti non
meritavano di essere riesumati. Credo (spero) che con “originale” lo strillo –
di cui non sono responsabile – intendesse appartato e inclassificabile, perché
di fatto è così che mi vedo. E sì, mi considero un narratore. Se non ho in testa
una storia, anche semplice, e dei personaggi – chiamiamoli pure fantasmi – mi è
impossibile cominciare un racconto; non parliamo poi di un romanzo. Non credo
che la bella scrittura sia autosufficiente.
Secondo i canoni – idioti si dirà – della casistica narrativa italica, hai
esordito tardi, nel ’94, non pubblichi testi ‘nuovi’ dal 2012, un secolo fa. Il
racconto più recente raccolto in “In disparte, in silenzio” data 2009. Perché?
Non hai più niente da scrivere? La narrativa è stata una delle tante stanze
della tua vita, ora sigillata?
Scrivere è per me molto impegnativo. Il risultato, dopo una giornata di lavoro
(e se sono particolarmente in vena, s’intende), è una mezza cartella di
testo. Sulla quale tornare poi non so quante volte e più per togliere che per
aggiungere. Non è raro che dedichi a un singolo passo una settimana e più di
lavoro accanito. Non è nemmeno raro che poi lo cancelli senza una lacrima. Un
lavoro così lento e faticoso ha bisogno di un contesto favorevole: un’editoria
che si assuma qualche rischio, una critica attenta e autorevole, una comunità di
lettori sufficientemente ampia e curiosa. Nel ’94, quando ho esordito nella
narrativa, questo contesto esisteva; nel 2012 le cose erano già molto cambiate;
oggi mi attenderebbe una terra incognita, ma presumibilmente inospitale, e alla
mia veneranda età non si ipotecano due anni di vita per essere letti da dieci
amici.
In Italia non si legge – tanto meno, si leggono i racconti, antica leggenda.
Perché?
Non so se i lettori italiani non amino i racconti. Quel che so è che gli
editori, a torto o a ragione, li considerano poco commerciali e preferiscono a
una bella raccolta di racconti un romanzo mediocre.
Due domande in una. Che cosa stai leggendo? Qual è il tuo libro che – agli occhi
tuoi – ‘resterà’? (Ne aggiungo un’altra, in coda: il libro tuo che desideri
svanisca nell’oblio, c’è?, qual è?).
Sto leggendo Sotto una stella crudele, un libro del 2017 che avevo
temporaneamente accantonato. Non è un romanzo. Sono le memorie di una donna
ebrea di Praga, Heda Margolius Kovàly, che in meno di un decennio era passata
dagli orrori del nazismo a quelli dello stalinismo. È una lettura che prende
allo stomaco. Andrebbe imposta (no, mi correggo: consigliata) a tutti quei
giovani che si proclamano orgogliosamente fascisti o comunisti. Ma, temo, con
scarsi risultati.
Dubito che qualche mio romanzo mi sopravviva e non è che la cosa mi turbi più di
tanto. Potessi scegliere io, sarei indeciso tra L’antidoto della malinconia – il
romanzo a cui sono più legato – e La falce dell’ultimo quarto – quello che
considero il più maturo, per il suo equilibrio fra dramma e commedia. Tolto
qualche mio remoto saggio, che avrei potuto e forse dovuto lasciar perdere, ci
sono molti libri che oggi scriverei diversamente, ma nessuno di cui mi vergogni.
Anche i racconti – parere mio – confermano che ti trovi narrativamente più a tuo
agio in territori alieni ai più, a noi poveri scribi: il Seicento, l’Ottocento.
Lì, i tuoi tratti, mi pare, trovano una definitività indefettibile. È vero? Dico
sciocchezze?
È vero: ho con la contemporaneità un rapporto complicato, e non m’è del tutto
chiaro se non voglio o non so raccontarla. Mi domando, per altro, se i miei
siano davvero romanzi storici. Sì per la cura scrupolosa dell’ambientazione, a
prova di anacronismi; no per quel che riguarda l’intenzione di resuscitare
un’epoca. Ciò che a me interessava non era la ricostruzione filologica di un
determinato periodo storico, ma la trattazione di temi del tutto personali e
attuali, utilizzando però un “filtro” che mi consentisse di parlare di me stesso
senza compiacimenti e dell’attualità senza riferimenti alla cronaca. Lo
scrittore di romanzi storici finisce spesso, volente o nolente, per attualizzare
il passato. Io credo di aver fatto l’opposto: “storicizzare” il presente
proiettandolo in un’altra epoca.
Tra i racconti, spicca un tributo a Borges, che figura tra i tuoi lari – in
filigrana, vedo la grana della Yourcenar. Quali scrittori italiani tra i tuoi
maestri?
Gadda, innanzi tutto, al punto che avevo l’abitudine di rileggere ogni anno,
come un esercizio zen, La cognizione del dolore. Poi, in parte, Sciascia e
Calvino. Sicuramente Tomasi di Lampedusa. Landolfi, ma in modica quantità, e
Buzzati. Il Morselli di Contro-passato prossimo e Roma senza papa e il Soldati
dei racconti. E inoltre un bel po’ di scrittori ottocenteschi e del primo
Novecento, a cominciare da Svevo.
Pur nella scrittura spesso assertiva, serrata, severa, vedo l’ironia nera, un
piccolo Pan a disfare le sorti dei tuoi personaggi. Un gioco alchemico: il caos
che, in piccole dosi, rende dorata madama armonia. A tratti, la scrittura pare
un gioco – di specchi e di attese e di maschere. È così?
Sì, proprio così, e mi fa piacere che tu lo abbia còlto. I protagonisti dei miei
romanzi sono destinati a percorrere strade che li conducono fatalmente alla
catastrofe. Non ho deciso io di farli finir male, però: lo hanno in qualche modo
deciso loro. Nei racconti, invece, c’è lo zampino maligno dell’autore, che ha
scelto di collocare il veleno nella coda, non so bene se per far dispetto al
personaggio, al lettore o a se stesso.
L'articolo “Con la contemporaneità ho un rapporto complicato”. Dialogo con Piero
Meldini, lo scrittore più appartato e singolare d’Italia proviene da Pangea.
Tag - Dialoghi
È una Romania inedita, nascosta, dimenticata quella che Carolina
Vincenti rievoca nel suo Fantasmi romeni. Dieci biografie straordinarie (La
Lepre edizioni, 2025). Un libro caleidoscopico, una miniera di storie, di vite,
di destini. Pieno di pepite e misteri su un’anima romena tra oriente e
occidente, mistica e rivoluzione, aristocrazia cosmopolita e spirito popolare.
Vincenti – intellettuale nata a Bucarest e cresciuta a Beirut, autrice di
numerosi volumi dedicati ai palazzi romani, che ha curato mostre per il Musée du
Luxembourg in Francia e ha collaborato con il M.I.U.R. – riannoda i fili di una
storia nazionale che intreccia alla memoria personale e familiare, offrendo al
lettore una galleria di medaglioni adamantini di esuli, artisti, testimoni. Da
Panait Istrati, scrittore di novelle incantate, definito il “Gor’kij dei
Balcani”, a Mircea Eliade, il più illustre storico delle religioni del Novecento
– ma anche incantevole romanziere e poeta – passando per Ioan Petru Culiano,
sapientissimo gnostico ucciso all’apice della gloria accademica da un misterioso
assassino, Dimitrie Cantemir, il principe visionario che aveva osservato alla
fine del Seicento l’Europa decollare e la mezzaluna del Bosforo declinare ed
Elena Ghica, formidabile principessa itinerante, archeologa, botanica,
scrittrice e pioniera del pensiero liberale delle élite cosmopolite. Un viaggio,
quindi, tra i fantasmi dell’anima romena, i suoi santuari e soprattutto i suoi
luoghi nascosti.
Come nasce “fantasmi romeni”? Chi sono i protagonisti di queste dieci biografie?
Nasce da un’urgenza personale. Mia madre era di origine romena, ma aveva perso
la cittadinanza poco prima che io nascessi. Mio figlio, invece, anni dopo, stava
per trasferirsi in Romania, ma quel Paese gli appariva come una terra quasi
sconosciuta. Ho sentito il bisogno di raccontargli la Romania che avevo
assorbito dai racconti dei miei nonni, dalle memorie degli esuli, dalle figure
che avevano attraversato quel mondo e che avevo studiato a lungo. Ho scelto
dieci personaggi che hanno vissuto l’esilio come condizione distintiva e la
ricerca dell’identità come destino. Sono figure straordinarie, ognuna con un
frammento dell’anima di quel paese martoriato da fascismo, comunismo, crolli e
ricostruzioni, ma anche ricco di intellettuali e cultura. Questi racconti sono
sintesi di lunghe ricerche: testimonianze minori, dettagli, ricordi, luoghi
rimpianti. Volevo offrire a mio figlio un piccolo vademecum per capire l’anima
romena.
La scelta di questi profili è stata immediata o tormentata?
Direi che sono stati loro a scegliere me. Il primo è Dimitrie Cantemir:
appartiene al mio campo naturale, il Sei-Settecento. Mi ha sedotto il suo essere
sospeso tra Oriente e Occidente, principe poliglotta, primo orientalista
d’Europa. Da storica dell’arte, il suo sguardo sul declino ottomano mi ha
colpito: un Voltaire o un Gibbon nato ai bordi della mezzaluna. Poi Panait
Istrati, poeta dell’amicizia e delle anime semplici, degli slanci attivisti e
delle piccole cose: è stato un uomo ingenuo e visionario, capace di un
entusiasmo rivoluzionario e di un pentimento immediato per quelle speranze mal
riposte. Basti pensare che nel 1927 scrive, in anticipo su Gide e i grandi
francesi, un j’accuse sul bolscevismo quando nessuno osa ancora farlo, pagandolo
sulla sua pelle.
Poi ci sono Eliade e Cioran. Eliade ha cambiato la mia prospettiva sul mondo e
sulle cose: la sua riflessione sul sacro e sulla necessità umana di miti mi ha
parlato profondamente. Di Cioran mi ha colpito invece, dietro il pessimismo
apparente, il fatto che nascondesse un’umanità luminosa: faceva ridere,
consolava, celebrava l’amicizia. Con una scrittura francese che ha pochi rivali:
nitida, chirurgica, lucidissima.
Lei parla della storia come forza inafferrabile, viaggio e destino. È un filo
che attraversa tutti i suoi protagonisti?
Sì. La vicinanza all’Oriente dà loro uno sguardo che definirei “dostoevskiano”:
un’umiltà davanti alla storia, la consapevolezza che l’essere umano non ha alcun
controllo sugli eventi. Cioran lo esprime in modo radicale. L’epistolario con
Eliade è rivelatore: due studiosi del sacro che, allo stesso tempo, ripetono che
“la storia non è”. Studiare questi esuli mi ha trasformata. Io venivo da
un’educazione francese, molto razionale; loro mi hanno mostrato la fragilità
dell’individuo di fronte ai movimenti della storia. È una lezione che ho
assorbito pagina dopo pagina.
Elena Ghica, detta Dora d’Istria, è forse la più sorprendente. Come ha
incontrato questa Mary Shelley d’oriente?
Per caso. In un piccolo libro francese trovato in una minuscola libreria. In
vita era famosissima: a Firenze la definivano la donna più intelligente della
città. A Mosca stupiva tutti con il suo pensiero progressista, al punto da
doversene andar via. Era amica di Garibaldi, figlia e nipote di Voivoda, quindi
parte della grande aristocrazia fanariota. Mi ha affascinato la sua ascendenza
bizantina: molte grandi famiglie romene hanno radici bizantine: questa
stratificazione culturale dice molto della Romania, paese che porta nel nome
stesso il legame con Roma. Era archeologa, filologa, botanica, scalatrice,
antropologa, proto-femminista. Una matrioska inesauribile. Raccontarla
significava restituire una luminosità ingiustamente dimenticata.
Nel libro trova spazio anche Panait Istrati di cui abbiamo già in parte parlato.
Che cosa la colpisce della sua vicenda?
La sua vita sembra scritta da un romanziere. Poverissimo, parte dal delta del
Danubio, una terra immensa e sospesa, e cammina nel mondo con una valigia
minuscola e desideri sterminati. Tenta il suicidio; in tasca ha una lunga
lettera destinata a Romain Rolland. La lettera arriva però all’autore per puro
caso, perché Rolland aveva cambiato indirizzo. Rolland la legge, si mette sulle
sue tracce, lo trova, gli dice: “Scrivi e ti pubblico”. Nasce Chira Chiralina,
un successo enorme. L’Unione degli scrittori lo manda in Russia per il decennale
della Rivoluzione. Per lui è l’incontro col sogno e con l’utopia da cui invece
esce deluso e tradito. È la prova che il destino è un intreccio di caso, tenacia
e soprattutto fragilità.
Nikos Kazantzakis entra in scena quasi come testimone. Che rapporto aveva con
Istrati?
Un rapporto intenso. Kazantzakis descrive Istrati in modo fulminante: “I suoi
bagagli dieci chili per fare il giro del mondo, il suo appartamento un letto, ma
i suoi desideri un universo intero.” È un ritratto perfetto. Istrati era un
vagabondo dell’anima, un uomo che veniva da un porto cosmopolita, Breila,
popolato da etnie e culture diverse. Una Romania che oggi sembra lontanissima.
La sua povertà non era miseria: era leggerezza, apertura totale al mondo.
C’è qualche grande assente che avrebbe voluto includere?
Sì. Il primo è Ionesco. Me lo hanno fatto notare: manca. Ma sono meno
interessata al teatro rispetto alla poesia o alla prosa. Altri assenti: Tristan
Tzara, e due giganti come Paul Celan e Fondane. Celan l’ho evitato perché non
parlo tedesco: affrontarlo senza lingua mi sembrava un tradimento. Ho preferito
restare fedele alla mia onestà intellettuale. Ho incluso invece una figura non
prestigiosa: la tata dei piccoli comunisti. È stata anche la mia tata. Ebrea,
donna di una forza rara. Era la mia chiave per raccontare la comunità ebraica
rumena, che fu vastissima — 750.000 persone — e che come tutte le comunità
ebraiche balcaniche costituì il vero “sale” dell’Europa orientale. Raccontare
lei significava raccontare un mondo, un modo di vivere, un modo di stare nella
storia.
Se dovesse indicare il filo rosso che lega tutti questi fantasmi romani?
Direi: la ricerca dell’identità e il confronto con l’esilio. È l’accettazione
della fragilità dell’essere umano davanti agli eventi. Ci si incammina alla
ricerca di un’identità che si trova in maniera plurale e multiforme. Questi
personaggi lo confermano. Lo stesso Eliade è un non credente che indaga il
nucleo delle religioni e lo fa come pochi. Sono personaggi che hanno vissuto in
transito, tra lingue, imperi, culture. Si sono interrogati su che cosa
significhi appartenere, radicarsi, sognare in una lingua o in un’altra. E
rappresentano un paese che troppo spesso non conosciamo, ma che ha prodotto
pensatori e scrittori di straordinaria grandezza. Raccontarli è stato un modo
per dare voce a ciò che resta di quella Romania: una grandezza intellettuale che
sopravvive nelle storie che hanno lasciato.
Francesco Subiaco
L'articolo In viaggio verso il destino. Da Cioran a Panait Istrati: storia di
rumeni straordinari proviene da Pangea.
Di Eugene Marten, in rete, c’è poco – non ama atteggiarsi; si direbbe, al
contrario, che aspiri a scomparire. In una conversazione con Elle Nash,
pubblicata su “The Creative Independent”, Marten ha fatto la lista delle cose
che gli piacciono. Spiccano “le Perseidi, lo sciame meteorico visto dal Very
Large Array, Nuovo Messico, nel mezzo del nulla” e “il deserto”. Il disastro
stellare – che ai nostri laceri occhi pare la stola di un dio diviso in rivoli –
e il nulla terrestre. È forse questa l’esatta condizione, la postura dello
scrittore. Trarre stelle dal deserto.
Nato a Winnipeg, Canada, nel 1959, da genitori europei (polacchi e tedeschi),
Eugene Marten non ha un blog, non scrive sui giornali, non è censito da una voce
su Wikipedia. Ha esordito alla letteratura venticinque anni fa con In the Blind,
sotto l’ala di Gordon Lish, il mitico editor di Raymond Carver e di Richard
Ford; l’intransigente e leggendario direttore di “Esquire”, di “The Quarterly” e
– per un po’ – della casa editrice Knopf. È stato lui a dichiarare al mondo dei
media che Marten è il vero erede di Cormac McCarthy e di Don DeLillo. Secondo
altri – ne troviamo testimonianza, ad esempio, su “Transatlantica. Revue
d’études américaines”, che nel 2024, per la cura di Brigitte Félix e Stéphane
Vanderhaeghe, ha realizzato An Interview with Eugene Marten – i libri di Marten
hanno fratellanza, per esuberanza di stile, con quelli di Chuck Palahniuk e di
Bret Easton Ellis. Quando si mettono sul tavolo troppi nomi – un po’ come il
gioco delle figurine e dei figuranti – significa che l’autore in questione è
sostanzialmente inclassificabile.
Eugene Marten non ama farsi fotografare – il volto, al contempo sfaccettato e
sfacciato, non incute tenerezze. In fondo, ha pubblicato poco: Layman’s Report,
uscito nel 2013, è il romanzo che ritiene migliore. Eppure, è l’ultimo, Pure
Life, pubblicato nel 2022, dopo quasi dieci anni di silenzio, ad aver fatto
sbalzare dalla sedia critici e lettori. La storia, in vitro, è semplice: si
racconta la vita, aureolata di premi e di tormenti, di Numero Diciannove,
talentuoso quarterback di una squadra della NFL, rifugiatosi nelle giungle del
Centroamerica per curare una cronica afasia mentale, dovuta agli eccessi
sportivi. Marten, di fatto, afferra le icone della cultura statunitense – il
culto della fama, dello sport, della felicità costi quel che costi, finanche il
Graal del Grande Romanzo Americano – e le calpesta, facendone suppurare veleni e
vermi in quantità. La quarta dell’edizione originale del romanzo dice di “un
confronto audace, radicale e brutale, con i miti della modernità, sbriciolati
nel più primordiale degli scenari”; qualche giornale – la “Chicago Review of
Books”, ad esempio – ha scritto di “uno straziante viaggio nel cuore delle
tenebre umane, scandito da un ritmo che tramortisce”. Pare che in Pure Life si
riveli – pur senza rilievi così evidenti – il vero debito di Marten nei
confronti di McCarthy. Come da copione, Marten ha fatto poco, quasi nulla, per
far parlare di sé.
Del libro mi ha parlato, con spiritata enfasi, Andrea Bergamini, dacché le
edizioni Playground lo hanno tradotto come La pura vita (la traduzione è di
Antonio Bravati). Parte che Marten abiti, ora, ad Albuquerque; viene definito
“gentilissimo”. Bergamini mi chiede di leggere, per farmi un’idea, le “prime
trenta pagine” del romanzo, un “montaggio”, dice lui, che sembra “la
trasposizione su carta delle strategie narrative di Terrence Malick”. Gli do
credito, mi incuriosisce lo sconosciuto, il retrattile all’oggi. Il romanzo va
limpido per quattrocento pagine: le prime trenta sono belle; preferisco le
ultime cento. Le pagine sulla catabasi nelle giungle dell’Honduras, tra i
Miskito, gli indigeni di laggiù; lo scrittore non lesina in efferatezze – a un
certo punto, compare per bagliori la sagoma di Fassbinder. In una scena,
emblematica, l’incontro rettilineo con il rettile:
> “Sotto, il fiume era piatto e incolore, ma c’era del movimento. Diciannove si
> soffermò con lo sguardo. Quando il cielo si accese di nuovo lo vide… rosso,
> galleggiante, appena sopra la superficie piatta e immobile del fiume.
> Impassibile, impenetrabile, senza bisogno di traduzione. Lo vide che lo
> fissava attraverso ottanta milioni di anni di implacabile fame rettile,
> indifferente al numero che portavi e tantomeno ai coriandoli che ti erano
> stati lanciati. Tu eri perfetto.
>
> Si accorse che ce n’erano diversi, ma lui avrebbe finito quel che aveva
> cominciato.
>
> Proprio davanti ai loro occhi”.
I grandi scrittori americani, per alcuni tratti, pare scrivano all’unisono:
allineano la voce come una fuga di Bach. Si rincorrono, ricorrono uno
nell’altro. Allo stesso tempo, è la forza della tradizione, è l’avventatezza del
cercatore d’oro.
Indipendente dalla mondanità, dalle modanature ostentate dalla cronaca recente,
Eugene Marten continua a inseguire “il Grande Libro”. La sua cauta ingenuità mi
coinvolge – Eugene Marten scrive come si arma un arco e come si apre una porta –
e prendiamo a parlare.
Come è nato “Pure Life”: qual è stata, intendo, la folgore che ha dato inizio
alla narrazione, l’idea dominante, la natura incontrovertibile
dell’ispirazione?
Ho trascorso un periodo di tempo in America Centrale; volevo ambientare in
quelle terre un libro, ma non avevo tra le mani un soggetto interessante. Dopo
un po’, mi sono giunte notizie di un’ex stella del football, un giocatore che un
tempo ammiravo, la cui vita, una volta terminata la carriera, si era trasformata
in un incubo. Poi un giorno mia moglie mi ha mostrato un articolo di giornale
che suggeriva come i due elementi potessero collegarsi. Quella è stata la
scintilla.
C’è, nel romanzo, a tratti, mi sembra, un ritmo sciamanico. Forse la scrittura è
anche teurgia, un gesto di benedizione, un anatema… Che rapporto hai con le
ombre, con l’invisibile, con il regno del sogno?
Considero le frasi come delle formule magiche capaci di evocare il mondo
raccontato nel libro, quasi una transustanziazione. Da bambino ero molto
religioso. Non lo sono più, ma nutro grande rispetto per tutto ciò che è rito.
In fondo, credo di essere un realista che cerca di trasmettere in ogni opera il
senso di un’altra realtà possibile, nel bene e nel male. La scienza ci parla
dell’esistenza di altre dimensioni, di possibili universi alternativi, ma che
esistono solo nella matematica superiore. Non credo ci sia nulla oltre a noi e
al nostro mondo materiale, ma una parte di me vorrebbe che ci fosse. Credo di
essere impegnato in un utile conflitto con quella parte. Parafrasando Wallace
Stevens, la realtà è la fonte, ma solo quello.
Gordon Lish ti ha paragonato a Cormac McCarthy e a Don DeLillo: questo legame di
parentela narrativa ti inorgoglisce o ti infastidisce?
Ho letto molte opere di entrambi, e ne sono stato influenzato – è difficile
trovare romanzieri americani che sappiano costruire frasi migliori delle loro –
ma personalmente non mi ritengo al loro livello. Né sono un loro imitatore.
Naturalmente nessuno scrive nel vuoto, e mi piacerebbe pensare di aver assorbito
ed elaborato la loro influenza, tra le altre, per poi andare oltre, sviluppando
così una mia opera.
Che rapporto hai con la cultura statunitense contemporanea? Insomma, come vivi
oggi nel tuo Paese?
I miei genitori sono originari dell’Europa (Polonia, Germania) e hanno sempre
avuto un atteggiamento ambivalente verso la prospettiva di una completa
assimilazione. Credo che questo possa aver generato in me un senso di
estraneità, quel genere di distacco che è tipico di uno scrittore. (Del resto,
mi sento estraneo anche alla cultura letteraria di cui dovrei far parte). La
questione è complicata anche dall’attuale situazione politica del Paese. Un
tempo pensavo, forse ingenuamente, che la cultura avesse una sua vita a
prescindere dalla politica, e che potesse persino redimerla (per altri scrittori
è sempre stato vero il contrario). Credo di essere ancora legato a questa idea,
ma data la catastrofe delle ultime elezioni (agevolata da circa 80 milioni di
americani, una fetta considerevole di “cultura”) e dato l’incubo dell’attuale
amministrazione, dai tratti fumettistici, a volte ci si sente così contagiati
dalla palese assurdità di tutto ciò che ci circonda che reagire in modo creativo
sembra superfluo, e a tratti persino impossibile. Sottigliezze, sfumature e
immaginazione non hanno più spazio, venendo meno il buonsenso e il decoro. In
fondo, la merda è merda, cos’altro c’è da dire o da aggiungere? Ci troviamo in
un territorio inesplorato, dove l’unica risposta potrebbe essere quella di
scendere in piazza per protestare. Nel frattempo, continuo a sgobbare sulla
pagina.
Credi che, nell’era dell’IA, il romanzo sia ancora la macchina fondamentale, la
più adatta a dire l’uomo e il suo dramma, la vita, il mondo e ciò che ci sta
attorno?
Sono un po’ titubante a parlare di Intelligenza Artificiale perché non ne so
molto, a parte le allarmanti notizie che tutti leggiamo (e la possibilità che
possa essere utile per la ricerca). Non sono nemmeno sicuro che il romanzo sia
mai stato il mezzo ideale per affrontare quella che chiamiamo la condizione
umana: forse il concetto di “pertinenza” è qualcosa di cui dovremmo liberarci.
Se davvero il romanzo è stata questa macchina fondamentale, per cui si debba
considerarlo un riflesso, da una posizione separata, di ciò che accade nel
mondo, un punto sulla riva del fiume in cui contemplare il flusso della vita,
allora non vedo perché non possa continuare a esserlo, nonostante l’IA e TikTok.
La letteratura, in definitiva, esiste al di fuori della tecnologia, e quindi
potrebbe essere nella posizione ideale per comprenderla. Potrebbe persino essere
l’antidoto. Forse è più in discussione la qualità della scrittura e lo spirito
critico dei lettori.
Perché, in fondo, scrivi?
Per dare vita a qualcosa. Da giovanissimo ero ossessionato dai vecchi film di
Frankenstein (quelli interpretati da Boris Karloff, e anche altri) e alla fine
ho scoperto che il romanzo era il mio laboratorio dove dedicarmi a questa
scienza pazza. Un corpo costruito con pezzi di ricambio, alcuni riesumati, altri
trovati per caso, altri strappati con crudeltà. Un corpo animato
dall’elettricità del linguaggio, nel bene e nel male.
Come fa a tuo avviso uno scrittore a trovare una “voce” più che imporsi in uno
“stile”? Come può una futile storia, costruita con ingannevoli parole, diventare
viva, vera?
Trovo che i termini “voce” e “stile” (non in senso decorativo) siano
intercambiabili. Per me è tutta una questione di parole e di come vengono messe
insieme. Una buona scrittura ha un suono, e non c’è canzone se non sai cantare.
È una sorta di codice, il modo in cui certe molecole e proteine disposte in un
certo ordine danno origine a un organismo che si auto replica (a pensarci mette
un po’ di paura, vero?). Il soggetto/la storia/la situazione mi vengono sempre
in mente per primi, ma il processo, come un sogno, ha una sua cronologia. Credo
che tutto si riduca alla vecchia dialettica forma/contenuto,
contenitore/contenuto. Raggiungere la sintesi perfetta dei due elementi, rendere
il vino indistinguibile dalla bottiglia, è ancora il Santo Graal.
Che cosa leggi, oggi? Quali sono i libri o gli autori che hanno forgiato la tua
scrittura, che sono stati il tuo campo di addestramento?
Ho iniziato leggendo libri di genere come chiunque (in certa misura, l’horror è
ancora presente nelle mie pagine), pensavo che diventare uno scrittore di
successo sarebbe stato il mio obiettivo. Avevo una vaga idea di che cosa fosse
l’arte (ancora oggi non mi fido di questa parola), ma ho iniziato ad accorgermi
che alcuni libri erano scritti meglio di altri. Fiesta è stato il punto di
svolta, l’unico libro che ho letto tutto d’un fiato. Non proverò a elencare
tutti gli scrittori che considero fonte di ispirazione (alcuni preferisco
tenerli per me), anche se non mi considero particolarmente colto; ho una piccola
biblioteca e cerco di sfruttarla al meglio. Un paio di opere a cui torno
continuamente e che amo moltissimo (ad esempio, DeLillo/McCarthy) sono il
racconto The Pedersen Kiddi William H. Gass e The Life and Times of Captain
N. di Douglas Glover, una sorta di Meridiano di sangue canadese ma a mio parere
migliore. I guerrieri dell’inferno di Robert Stone è una specie di Grande
romanzo americano. Sono debitore verso tutti i racconti di Grace Paley e di Joy
Williams (meno verso i romanzi di Williams, anche se comunque sono di valore, e
lo stesso vale per Flannery O’Connor). Spesso ho letto un solo racconto o una
sola poesia di un autore, ma per me possono avere lo stesso peso di un’opera
completa. L’ineguagliabile rivista letteraria di Gordon Lish, “The Quarterly”, è
stata per me, a lungo, una Bibbia. Il genio di Lish nell’imporre la sua
sensibilità a una così ampia gamma di opere è stato unico (e oggetto di
polemiche) nella storia della letteratura. Forse non è stato gradito da tutti
gli autori di cui si è occupato così brillantemente (vedi Raymond Carver), ma
per me è stata una lezione magistrale sul primato della frase. Potrei elencare
altre influenze, non tutte in prosa, non tutte in narrativa, non tutte
americane, nemmeno tutte letterarie, ma cito alcune delle cose che sto leggendo
ora: La tempesta di Shakespeare; Il barone rampante di Calvino; Float, una
raccolta di opere di vario genere della poetessa/traduttrice/saggista Anne
Carson, stampate in piccoli libriccini contenuti in una custodia di plastica
trasparente e che possono essere letti in qualsiasi ordine; vari testi di
saggistica correlati al libro a cui sto lavorando attualmente.
Che rapporto hai con i libri che hai pubblicato: li guardi come figli o come
corpi ormai a te estranei?
Entrambe le cose, e anche qualcosa di più. Credo di avere un legame particolare
con ogni libro, a volte oggettivo e soggettivo allo stesso tempo. Ad
esempio, Layman’s Report non è il mio romanzo preferito, ma credo sia il più
riuscito. È anche il più ignorato.
…e ora, cosa stai scrivendo?
Senza addentrarmi troppo, il romanzo a cui sto lavorando è, per me, un libro
importante. Se ogni scrittore deve avere il suo Grande Libro, allora questo è il
mio tentativo di portarlo a termine, per quanto maldestro. A volte mi sembra il
mio Grande Errore, il che magari è la prova che ho imboccato la strada
giusta. Sono troppo avanti per non portarlo a termine comunque. Concludo sempre
quello che comincio.
L'articolo “La letteratura è ancora il Santo Graal”. Dialogo con Eugene Marten,
un outsider proviene da Pangea.
Questa storia, in cui tutto è possibile, inizia – o finisce – all’abbazia di
Pomposa, folgorante edificio del IX secolo, nel ferrarese, dove si dirama,
divorandosi, il Po. Affreschi e sculture, spesso arcani, incutono sacro terrore.
Qui pare sia stato redatto, nel XVII secolo, il De arte nihil credendi; dello
scrittore, Matteo Cnuzen, altrimenti detto Matthias Knutzen, predicatore
tedesco, ateo, si ignora la data di morte. Il testo – di cui non si ha altra
notizia – è custodito presso la Biblioteca Classense, “non è mai stato
pubblicato… ho potuto solo farne una copia a mano”, scrive l’autore. Un
fascicolo dal titolo analogo porta la firma di Geoffrey Vallée, anticlericale
estremista: in quel libello – titolato, in verità, La béatitude des Chrétiens ou
le Fléau de la foy – l’autore dimostra che la fede, fondata sull’ignoranza e sul
timore di Dio, riduce l’uomo a una bestia, a uno schiavo. Vallée fu arrestato,
impiccato e passato al rogo il 9 febbraio del 1574: aveva ventiquattro anni.
Il testo di Knutzen – che mesce, in cocktail micidiale, reminescenze di Lucrezio
e di Spinoza, di Garlandus Compotista e di Levi Smolinides, di Gregorio di Narek
e di Sabinus Serrat (faccio scoprire a voi chi di questi è un personaggio
fantomatico, fittizio) – è utilizzato dal poeta austriaco Raoul Schrott come
monito per un libro dal titolo emblematico, L’arte di non credere a nulla,
uscito in Germania, presso Hanser Verlag, dieci anni fa, tradotto ora da
Federico Italiano per Crocetti. I brani dell’incendiario pamphlet di Knutzen –
veri, verosimili, inventati? l’autore rifiuta spiegazioni – sono corrosivi,
perciò corroboranti. Ne cito alcuni:
> “sono avido se voglio tutto ciò che si può ottenere dalla vita – avere amici e
> allo stesso tempo stare solo? ciò che desidero è difficile da raggiungere –
> eppure una volta in mio possesso sono insoddisfatto come se avessi raggiunto
> nulla”;
> “sii come la neve che si scioglie: dal silenzio nascono i fiori – la lingua
> sia il loro bocciolo”;
> “tutto inizia con il sangue · inzuppati di sangue veniamo al mondo a testa in
> giù: tutto inizia con una separazione e in un mondo capovolto · avvinghiati a
> un seno non vediamo che oscurità: ora vivi amaro e cupo · da bambini
> scorrazziamo qui e là: e inquieti rimarremo · nella giovinezza ci dissolviamo
> sentendoci estranei: è solo un periodo di traviamento e confusione · con la
> vecchiaia la mente si annebbia: non aspettarti quindi la beatitudine da vecchi
> strampalati · così perplessi procediamo nelle tombe: senza riconoscere da
> nessuna parte un’anima o qualcosa di puro – solo imperfezione”
Siamo nei dintorni dell’atroce Albert Caraco più che in quelli dell’ardito
Zenone, il protagonista de L’opera al nero, il romanzo di Marguerite Yourcenar.
Nella prefazione, Schrott cita la Basilica di Sant’Apollinare Nuovo e il
Mausoleo di Galla Placidia, a Ravenna e il magnetico trattato De tribus
impostoribus, di cui si discute – senza traccia di testo – dal XIII secolo:
sarebbe piaciuto a Borges. I legami con il maestro argentino, però, finiscono
qui: le poesie di Schrott – affratellate ai violenti aforismi del fatidico
Knutzen – non hanno nulla dell’enciclopedica freddezza di Borges. Al contrario,
è la vita presente, quotidiana, quella convocata da Schrott: nei suoi testi ci
sono il pizzaiolo e lo stilita (“qualcuno disposto a stare sull’orlo del
precipizio”), la cassiera (“il mondo è fatto di cose standard/ che mangiamo ·
beviamo · trasformiamo in esistenza”), il macellaio (“siamo e diventiamo ciò che
mangiamo/ con gli occhi spalancati rivoltandoci al pungolo…/ carne trafitta in
via di macellazione verso l’assoluto”). L’arte di non credere a nulla è un libro
che dà credito alla carne, in crepitio di eros; è un libro pieno di corpi
esposti e di rapporti cannibali. In lo sguardo di dio si canta “la vita baciata
e gettata come un pezzo di pane”; in una poesia si imitano i toni di una single
– donna – fine quaranta; è bello il finale: “la dolcezza · sale tra le mie gambe
· orma d’animale selvatico”. In viaggi notturni – forse, il testo più bello –
c’è una donna “nuda sul sedile distesa/ lo sguardo rivolto verso il nord che
manca come casa”: “il compendio della nostra vaga esistenza/ tali scrupoli
appena li considera:/ nomina il desiderio · vuole vederlo divenire realtà/ ma
biasima ogni indifferenza”.
Il libro è sigillato – va da sé – dal motto riassuntivo del trattatello di
Knutzen: “l’assoluto opera nel nulla”. Quando l’autore – troppo intelligente per
cadere nella trappola del refuso – mi dice che il modello de L’arte di non
credere a nulla è la Vita nuova di Petrarca (ovviamente, è di Dante), so che mi
sta sfidando. D’altronde, Raoul Schrott è una delle menti più sfrenate e
sofisticate della letteratura tedesca: mi ricorda, per impeto, Werner Herzog.
Nato a Landeck, Tirolo, nel 1964 – ma ha detto, a volte, di essere nato a San
Paolo, in Brasile, quando non in nave – è cresciuto tra Tunisi e Zurigo; insegna
all’Università di Vienna, dopo aver insegnato a Napoli, a Berlino e a Tubinga,
insieme allo scrittore Christoph Ransmayr. Romanziere, poeta, studioso, Schrott
è a abituato alle imprese impossibili: ha scritto resoconti tratti dalle sue
esplorazioni nel deserto (Il deserto di Lop è stato pubblicato da La Grande
Illusion nel 2022); ha partecipato a una spedizione, supportata dall’Università
di Colonia, in luoghi del Ciad ancora inesplorati. Da ragazzo, ha studiato il
Dadaismo, è stato il segretario di Philippe Soupault, a Parigi; ha tradotto
Derek Walcott e Seamus Heaney, la Teogonia di Euripide e l’Epopea di Gilgamesh;
nel 2008 ha pubblicato la sua traduzione – sgargiante, a dire dei più –
dell’Iliade: la tesi secondo cui Omero fosse uno scriba greco al servizio degli
assiri, vissuto a Karatepe, in Cilicia, gli attirò critiche. Tra l’altro,
Schrott ha scritto romanzi audaci in immaginario, imprevedibili fin nel titolo
(uno di questi fa pressappoco, Racconto del vento, ovvero dell’artigliere
tedesco che circumnavigò il mondo una prima volta e poi una seconda e una terza
volta); ha vinto premi. Con Erste Erde (2016), libro di magnetica forza, ha
tentato di dire in versi la storia del mondo, dal Big Bang a oggi.
L’ultimo progetto – benché non strettamente letterario – è altrettanto
‘mostruoso’: l’“Atlante dei cieli stellati” (Atlas der Sternenhimmel),
pubblicato da Hanser lo scorso anno, raccoglie – dispiegandoli – diciassette
cieli; le costellazioni degli antichi egizi e degli aborigeni australiani, degli
Inuit, dei Tuareg e dei Boscimani. Si narra, così, la storia dell’uomo e di ogni
civiltà, a partire dal rapporto con gli astri. Quasi che il cielo sia una
bibbia, le stelle una scrittura piena di brusii, vocalizzi, grida.
Insomma, abbiamo preteso Raoul Schrott al dialogo.
Preliminari: esiste davvero il “Manuale dell’esistenza transitoria” o è frutto
della sua transitoria immaginazione?
Esiste? Tutto ciò che scriviamo e leggiamo – che sia romanzo, poesia o filosofia
– esiste: è il frutto della nostra immaginazione.
Come è nata l’idea di accostare le poesie a un trattato del XVII secolo? Qual è
stato il ‘metodo’ di costruzione del libro? Vedo, ad esempio, che le poesie non
sono disposte in ordine cronologico.
In sostanza, le poesie riferiscono di una visione atea della vita e dell’amore,
da prospettive differenti. Per me, poesia è un modo di pensare più concentrato e
compiuto: ecco perché tutti i miei libri in versi sono centrati su un tema – gli
hotel; il sublime; il sacro; l’assenza – e incorniciati da un saggio. Qui si
tratta, letteralmente, dell’arte di non credere a nulla. Per costruire un
contesto alle poesie la – sbalorditiva – breve storia dell’ateismo mi è parsa
più che appropriata.
La maggior parte delle poesie sono ritratti di individui che ostentano le loro
opinioni, plasmate dal lavoro che svolgono, dai desideri, dalle circostanze. È
una galleria di professioni (di cui ho incidentalmente dimenticato il maestro).
Sono raggruppate tematicamente, poi completate da alcuni versi tratti
dal Manuale dell’esistenza transitoria, per dare a ogni poesia un significato
ulteriore. Se crede, il modello è la Vita nuova di Petrarca (sic!).
Come costruisce le proprie poesie? Intendo: parte da un concetto, da un insieme
di parole che combaciano audacemente assieme, da una ‘scena’, da una idea
narrativa…
Tutti questi elementi concorrono: intuizione, esperienza, l’incontro con
qualcuno (il cassiere del supermercato che ho incontrato sul treno per Berlino
non smetteva più di parlare). Questi elementi consegnano, come diceva Valéry,
il vers donnés su cui poi la poesia si sviluppa in vers calculés. In queste
poesie, il calcolo provvede alle rime (comunque discrete, difficili da scovare).
Tuttavia, la parola in rima di rado ha a che fare con la parola con cui rima,
introduce un elemento imprevisto, un frammento del mondo in generale – così che
il procedere pensando deve fermarsi in stazioni diverse. Questo rende la
scrittura, almeno per me, uno stupore continuo.
Come penetra nel suo linguaggio la lingua delle origini, dei testi che ha
tradotto, Iliade, Gilgamesh, Teogonia?
La loro lingua non penetra nella mia. Tradurre quei testi, però, ha significato
comprendere la tradizione e approfondire il mestiere: per scrivere da quel
centro del presente.
Che senso ha, oggi, la poesia?
La poesia è la macchina di tutto ciò che è umano, individuale, soggettivo. Ci
pensi: i romanzi, in quanto finzione, sono menzogne realistiche (presentano una
verità in modo elegante e persuasivo, certo), narrazioni che si basano su trame
e personaggi plausibili. La poesia, invece, non può che essere veritiera;
esprime i pensieri e le emozioni più profonde: è autentica. Tutto il contrario
della plausibilità. Questo vale anche per le poesie peggiori, in cui non si
capisce un cazzo [in italiano, ndt], tanto sono autoreferenziali. Dunque:
autenticità. Inoltre: la poesia sincronizza le tre modalità cognitive
dell’essere: le immagini in cui pensiamo; il linguaggio con cui ci esprimiamo;
la musica – metro e ritmo – che corrisponde ai battiti del cuore, al ritmo del
respiro, al moto delle ciglia. Ditemi quale altra arte riesce a fare tutto
questo con così pochi mezzi!
Che rapporto esiste, a suo dire, oggi, tra poesia e storia, la poesia e
‘politica’?
Credo che la poesia sia a-storica, nella misura in cui esprime intuizioni senza
tempo (pur se fugaci), verità soggettive che nella loro individualità sono
sempre in contrasto con la storia come fenomeno di massa. La poesia è il rifugio
e l’espressione di tutto ciò che è umanamente possibile, pensabile,
sperimentabile in tutta la sua stranezza e bellezza, in tutta la sua assurdità,
in tutto il suo orrore. La letteratura è sempre a-politica e a-morale. Non si
preoccupa e non deve occuparsi delle ideologie e dell’etica di una comunità,
altrimenti diventerà agitprop, slogan, un manifesto, insomma. La letteratura – e
in particolar modo la poesia – deve esprimerci come individui, con tutte le
nostre emozioni e pensieri, positivi o negativi essi siano, senza vincoli,
liberi, per essere autenticamente veritiera. Almeno, così è sempre stato.
Mi racconti qualcosa del suo “Atlante dei cieli stellati”: come nasce il
progetto, perché, come si insinua nel suo lavoro poetico?
L’Atlante dei cieli stellati non ha a che fare con la mia scrittura. A parte la
visibile poesia che raffigurano le costellazioni, è un lavoro accademico: come
professore di letteratura comparata ho compiuto ricerche per rintracciare i
cieli stellati di diciassette diverse culture del pianeta. Benché l’Unesco li
abbia dichiarati patrimonio culturale immateriale dell’umanità, non sono mai
stati studiati in modo esauriente: le costellazioni, graficamente ricostruite;
il simbolismo e la sapienza che le accompagna; la storia della tradizione
astronomica che le spiega; i miti delle origini che narrano la creazione del
cielo e della terra, del sole, della luna, delle stelle. Ci sono voluti sette
anni di lavoro per ricostruire il cielo dei babilonesi e dei cinesi, degli inuit
e dei boscimani, degli inca e degli arabi, dei tahitiani e dei maori… ciò che
questa ricerca ha prodotto (con mio grande stupore) sono settantamila anni di
storia culturale di cui nessuno sapeva nulla.
*In copertina: Raoul Schrott in un ritratto fotografico di Barbara Seyr
L'articolo “L’assoluto opera nel nulla”. Dialogo con Raoul Schrott proviene da
Pangea.
Nel 1997 il “New Yorker” dedica un ampio servizio a Jorie Graham, “the most
celebrated American poet of her generation”. L’articolo, Big Poetry, è bello,
ardito, arioso. Stephen Schiff ha agio nel mostrarci la poetessa “vestita di
nero dalla testa ai piedi, con un numero sufficiente di bracciali, collane e
anelli da far venire l’ernia a una danzatrice del ventre”. Studenti, studiosi,
passanti le fanno spazio “con tenero riguardo e cenni di assenso”. Nella
fotografia che ingioiella l’articolo, la Graham ha uno sguardo colpevolmente
innocuo. Il giornalista la descrive così: “occhi vasti, vispi; fronte aperta,
bocca che sboccia nel broncio e dappertutto una massa di capelli scuri”. Alcuni
– compreso Mark Strand, il poeta – sussurrano, “è un genio”.
Nata a New York da Curtis Bill Pepper – inviato speciale per “Newsweek”,
scrittore, autore, tra l’altro, di un romanzo biografico centrato sulla vita di
Leonardo da Vinci – e da Beverly Pepper, scultrice, cresciuta a Roma, studi alla
Sorbona e alla New York University, la Graham è stata, da ragazza, assistente di
Michelangelo Antonioni: voleva fare la regista. Esordisce alla poesia nel 1980
con Hybrids of Plants and of Ghosts, subito elogiato dal “NY Times” – dissero di
“una poetessa di enormi ambizioni, dal ritmo spericolato” –; seguono libri
pressoché infallibili – The End of Beauty, 1987 e Region of Unlikeness, 1991, ad
esempio – fino al “Pulitzer for Poetry”, ottenuto nel 1996 con The Dream of the
Unified Field. “Poetry” la definisce “uno dei poeti statunitensi più noti e
celebrati della generazione post-bellica”: ogni suo libro è – per natura lirica
tellurica – un ‘caso’.
Jorie Graham, potremmo dire, esercita una politica attraverso la poetica. Per
dirla in modo più frugale, usando le parole del critico americano Calvin
Bedient, la Graham “è una campionessa mondiale nel porre le domande più
radicali… Ciò che le importa è la speranza insita nell’interrogativo, non la
risposta”. Anche l’ultimo libro, 2040, è un libro interrogativo, è un
libro-scavo – dacché ogni domanda prevede una zappa, una pala, il desiderio di
dissotterrare qualcosa interrando qualcos’altro. Scritto dal 2020, pubblicato
nel 2023, tradotto quest’anno da Crocetti, 2040 ha per interrogativo
l’estinzione dell’uomo e il massacro del creato. “Protagonista principale di
questa raccolta poetica è una speakerautobiografica che vaga, sola e
disorientata, in uno spazio avvolto nel silenzio, in limine fra un mondo che non
esiste più e a un passo dalla potenziale estinzione dell’umanità e della sua
storia millenaria”, scrive Antonella Francini, la traduttrice della Graham in
Italia, nella partecipe introduzione al libro, Il potere della memoria. Il libro
ruota intorno a una lettera Al 2040 – p.78 della versione italiana – di cocente
bellezza:
“Gli anni spinsero la loro durata in noi come lunghe
corde bagnate, e noi ci aggrappammo, ci tennero appesi per andare avanti, & in
alto, ci impedirono di annegare nei minuti terribili. Una volta mi sedetti &
piansi mentre guardavo sorgere il sole & i fiocchi cadere come ignara del
movimento dalla notte al giorno – ci sia almeno una differenza – altrimenti
qualsiasi cosa rimanda del desiderio se ne andrà – altrimenti non ci sarà
nulla di ciò che ho salvato – nulla da salvare – fate rifiorire il giorno in un
segmento di tempo – fa freddo – il sogno è cosa difficile da scorgere”
Il libro alterna parti in prosa a vertigini in versi, estreme cupezze ed estreme
tenerezze. Si vedono boschi, nevi, uccelli a sciami, sciabordio di bestie – e
malinconia, rapimento, rabbia. Pochi umani in giro.
> “Non ho nulla da offrire.
> Il mondo è sempre stato
> pronto per il mondo.
> Il fiume in secca.
> Vedo pesci sulle rive senza uccelli.
> Cuore umano, mi dico, cosa ci fai qui, questo è troppo
> per posarci
> lo sguardo.
> I pesciolini galleggiano nel salmastro.
> La corrente rallenta. Gridi di uccelli della sera come vetro infranto,
> un grido e hanno finito”.
Non è, fieramente, un poeta facile, Jorie Graham. Non è poeta di proclami, bensì
di rivelazioni e di affondi. È stata la prima donna, ad Harvard, ad aver coperto
la cattedra di “Rethoric and Oratory” che fu – tra gli altri – di Seamus Heaney.
Per capire il ‘personaggio’ – o meglio: l’impeto politico di una intellettuale
totale –: Jorie Graham è tra i produttori di The Voice of Hind Rajab, il film
che ha straziato la scorsa Mostra internazionale del cinema di Venezia – da cui
ha raccolto il Leone d’argento – e che racconta l’uccisione di una bambina
palestinese, Hind Rajab, appunto, da parte dell’esercito israeliano.
L’ultimo libro di Jorie Graham è previsto per il prossimo
anno. S’intitola Killing Spree. Il suo ‘metodo’ lirico mescola i modi di Wallace
Stevens ai toni del contemporaneo, i ‘modernisti’ alla modernità. I temi sono
quelli di oggi, urticanti: “devastazione ambientale, senso della perdita,
instabilità politica”. Credere nel potere della parola, nel segreto sussurrato
dal verbo, penso – dopo tutto, confidare con sciamanica ostinazione in un
qualche risveglio.
Mi pare che 2040 sia un libro, allo stesso tempo, potentemente poetico e
fortemente “politico”. Esprime una poetica della politica. Come è nato – e
perché?
La poesia è in primo luogo uno strumento in grado di mettere in moto l’intera
anima (“dell’uomo”), come ci ricorda Coleridge. Quindi, siccome vivo in un mondo
che va verso l’autodistruzione e siccome la poesia nasce dall’esperienza del
poeta – corpo, mente, anima – non c’è altra esperienza che possa guidare la mia
scrittura. Non ho altro corpo se non questo corpo mortale. Come ci ricorda
Aristotele, siamo per natura “animali politici”. Vorrei sottolineare questa
nostra caratteristica di mammiferi capaci di intuire nei minimi dettagli i
pericoli, anche lontani, come se li percepissimo attraverso i nostri pori. Siamo
attraversati da una profonda intuizione. Il nostro obiettivo è sopravvivere. La
poesia è uno dei grandi strumenti che lo spirito umano ha sviluppato per
esprimere e approfondire gli istinti della sua natura animale e spirituale.
Potremmo dire che i nostri millenni di poesia sono il nostro manuale
d’istruzioni per quanto riguarda ciò che serve a rimanere umani in mezzo a tutte
quelle forze – interne e esterne – che gravano su di noi allo scopo di
disumanizzarci o indurci a distruggere il resto del creato. Mi risulta che anche
il termine “umano” venga oggi messo in discussione. Abbiamo fatto così tanto
male, e continuiamo a farlo. Forse la nostra estinzione sarebbe una vera
benedizione per questa terra. Ma credo, tuttavia, che in noi esista ancora
l’istinto di provare a risvegliarci. Ecco dove la poesia e la politica si
incontrano.
Che rapporto c’è tra “politica” – nel senso ampio, greco del termine – e
“poesia”? Intendo dire: cosa significa per un poeta, per lei, “prendere
posizione”? Cosa significa per un poeta la parola “impegno”?
In questo momento, negli Stati Uniti – come altrove – proprio le parole che
usiamo implicano il rischio concreto di essere presi di mira politicamente dal
governo – se così possiamo chiamarlo. Per noi il cui mestiere ha a che fare
interamente con le parole – e con le attività palesi e occulte svolte dalle
parole nell’animo umano, nella coscienza, nella memoria, sulla realtà e il suo
senso – è strano vedere il loro potere (e la storia e l’immaginario che esse
evocano) andare in questa direzione. Proprio mentre ci stavano convincendo che
la nostra vita è interamente immersa in una “cultura dell’immagine”, l’uso di
una parola come “genocidio” può portare a essere licenziati, molestati,
arrestati o fatti sparire dalle nostre forze di polizia private e pubbliche.
L’effetto che tutto questo ha su ciò che abbiamo tra le mani quando si mette la
penna sulla carta è notevole. Nel mio nuovo libro, Killing Spree, che uscirà a
maggio negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ci sono momenti, ovunque in quelle
poesie, in cui le decisioni che devo prendere su quali parole usare implicano
considerazioni extra-letterarie. Questo testimonia il potere di un tale mezzo
che anche nell’era dell’intelligenza artificiale restituisce la vera forza e il
vero valore a un essere umano quando pronuncia una parola nella sua condizione
vulnerabile, precaria e mortale, al contrario di un bot. Solo attraverso il
sangue e la carne le nostre parole sono “engagé”.
Vorrei entrare, come direbbe Hawthorne, nella sua “camera stregata”. Quali
immagini l’hanno ispirata durante la scrittura di 2040? Quale immaginario
linguistico? Quali “fonti”?
Abbiamo vissuto un periodo di intensa siccità – che fa in realtà da sfondo
a 2040 – mentre io mi sottoponevo a un intervento chirurgico, alla radioterapia,
alla chemio. La popolazione aviaria ha subito drastici cambiamenti durante quei
mesi. Alcune specie di alberi sono state attaccate da malattie causate da nuovi
insetti portati dai venti degli uragani che hanno messo a rischio la
sopravvivenza del nostro bioma. Mi sono ritrovata calva e sbalordita lottando
per mantenere le mie forze e salvare i “miei” alberi. Camminavo ogni giorno per
chilometri (come mi aveva consigliato la mia oncologa) e durante quelle
passeggiate nelle nostre foreste ero determinata a sopravvivere entrando in
contatto con la forza magnetica della terra sotto i miei piedi. Quasi tutte le
poesie sono state inizialmente composte mentre camminavo, tranne quelle che
considero odi – “La quiete”, “Nebbia”, “Arco temporale”, “Il visore VR”,
“Giorno” –, sorte nell’intervallo tra una seduta di chemio e l’altra, quando ero
troppo debole per camminare.
Cosa può fare la poesia nel confronto con la Storia? Che cos’è in fondo “la
poesia”?
Ci sono molte risposte a questa domanda e mi sento un po’ sciocca nel cercare di
rispondere. Ma si potrebbe dire che, fra tutti i tipi di storie che creiamo
attraverso lo scorrere del tempo e il suo evolversi mortale, tramite le sue
catastrofiche sorprese e i suoi visibili colpi di scena, la poesia è la storia
che si impegna a rivelare la vita dell’anima. Forse l’evoluzione dell’anima.
Forse la sua permanenza. Forse le sue illusioni o le sue epifanie o i suoi
‘presagi di immortalità’. Ed è meglio, forse, se si porta dietro il minor carico
possibile. Così quel carico si affida alla musica del verso per mantenere il suo
significato rapace, da scoprire, in volo, affidabile e vivo. Ecco perché devo
lavorare così tanto sulla musica – nell’originale e poi, con Antonella Francini,
riscrivendola in quella lingua miracolosa che è l’italiano.
Ritagli un pezzo di 2040 che le sembra esemplare e mi dica perché.
Le rispondo indirettamente. Oggi, in un’epoca in cui stanno scomparendo la
capacità di leggere e comprendere (la capacità di concentrazione e la capacità
di sostenere tempi prolungati), penso molto all’idea di Wallace Stevens secondo
cui “la poesia deve resistere all’intelligenza quasi con successo”. Quel quasi è
essenziale perché costringe a usare i sensi insieme all’intelletto. Cura la
dissociazione della sensibilità di cui parlava Eliot con incredibile
lungimiranza, che oggi sta distruggendo la nostra gente.
Leggo il suo nome tra i produttori di “The Voice of Hind Rajab”: come mai?
All’inizio ho dato una mano. Sembrava davvero impossibile trovare persone
disposte a finanziare quel film. Poi ho dato consigli sulla sceneggiatura,
infine sulle diverse versioni della pellicola. Le devo ricordare che io sono una
regista inappagata. Da giovane, a Roma, ho collaborato con Antonioni come
assistente alla ricerca. Ho frequentato la scuola di cinema alla New York
University. Perciò, quando ora mi viene chiesto di fornire un feedback ad alcuni
film – specialmente documentari – nelle loro varie fasi, torno a usare la mia
immaginazione cinematografica. Alcuni critici sostengono da anni che la mia
poesia sia influenzata dal cinema, in particolare dalle tecniche dell’editing e
del montaggio che ho studiato da giovane.
E ora… quale progetto di scrittura la anima?
Come ho già accennato, ho appena finito di scrivere un nuovo libro, Killing
Spree, che uscirà a maggio. È stato composto durante questi ultimi tre anni in
cui la follia di genocidio, tirannie, fame e IA estrema – sempre presenti fra
noi – hanno raggiunto un livello tale da essere in primo piano sul
palcoscenico.
*La traduzione dell’intervista è di Antonella Francini
In copertina: Jorie Graham; photo Alvaro Almanza
L'articolo “Estinguerci sarebbe una benedizione – ma possiamo provare a
risvegliarci”. Dialogo con Jorie Graham proviene da Pangea.
Per qualche tempo abbiamo duellato a colpi di WhatsApp. La discussione,
impennata verso gli impossibili, deragliò quasi subito: gli domandai dell’anima,
dell’eternità, del senso dell’arte, di Dio e dell’addio. Cristiano Godano ha
pubblicato undici album con i Marlene Kuntz e quattro libri: il primo, I
vivi (Rizzoli, 2008) è una raccolta di racconti; l’ultimo, Il suono della
rabbia (il Saggiatore, 2024) è una raccolta di “Pensieri sulla musica e il
mondo”. Nel suo terzo libro, Nuotando nell’aria (La nave di Teseo, 2019), che
sviscera “35 canzoni dei Marlene Kuntz”, Godano racconta di aver scoperto
Vladimir Nabokov, il suo scrittore-idolo, “all’epoca di Catartica”, quell’album
memorabile – “generazionale” come dicono gli studiosi – uscito nel 1994. Godano
compiva ventotto anni, il disco era prodotto dal Consorzio Produttori
Indipendenti di Gianni Maroccolo, Zamboni+Ferretti etc. e io imparavo a giocare
a calcio guardando Roberto Baggio, il Bodhisattva del pallone, evangelizzare i
mondiali americani.
Da lì nasce il nostro incontro. Da Vladimir Nabokov – per me, il conte Vlad
della letteratura occidentale, il sommo vampiro: lo leggi e ti dissangua. Così,
con Godano ci inoltriamo nei meandri di Fuoco pallido, il libro più estremo,
estenuato di Nabokov; entrambi eleggiamo Intransigenze – la raccolta di
corrosive e corroboranti interviste nabokoviane – a libro-totem. Insomma, diamo
dimostrazione che anche WhatsApp, altrimenti umana camera degli orrori, di
sbandierate banalità, può essere qualcosa di non troppo dissimile dal Fedone o
da Macbeth. Entrambi – credo – crediamo che ogni verità vada temprata
distruggendola; che occorra il coraggio di spogliarsi di ogni convinzione. Fare
di sé il vento e il lupo, la pula e il pullulare di ululati.
Credo, piuttosto, che Cristiano Godano sia uno dei rari cantautori italiani –
per un sano senso della sprezzatura e dello snobismo – non inquadrabile in
schemi, non liquidabile in teoremi. Rifugge dai cliché della rockstar; ha in
odio le grige manie degli ‘alternativi’ che – ormai altro da sé – fanno reddito
con la malinconia, con l’epopea della giovinezza trascorsa. Gli album ‘in
solitaria’ – Mi ero perso il cuore, 2020; Stammi accanto, 2025 – dicono di un
artista che non si placa, inappagato, implacabile soprattutto verso se stesso,
che ha imparato la voluttà di non piacere ai più. Chi è cresciuto ascoltando i
Marlene Kuntz nella fetida periferia torinese, nei lividi Novanta – “Mi
piacerebbe sai, sentirti piangere/ anche una lacrima, per pochi attimi” – sa che
la sola speranza è spezzarsi, che la sola vita è precipitare.
Nel libro Nuotando nell’aria, Godano cita Borges e Rimbaud, Keats e Dostoevskij,
scrive per trenta volte la parola “poesia” (molte più volte della parola
“sesso”) e per ventisette volte la parola “poeta”; in venti circostanze appare
Nick Cave, il suo prediletto. A chi gli dà del poeta, però, Godano risponde,
perentorio, che “l’autore di testi per canzoni non è un poeta”, semmai “è
potenzialmente un poeta mancato”. Fine della discussione.
A volte, Godano sembra decorarsi con le pose da doge del nulla: gli piace
ripetere che deriviamo dai vermi e dai pesci, che l’uomo è un incidente di
percorso nell’esistenza terrena, che la vita è spietata, che l’intelligenza è un
sovrappiù di sfiga perché ci obbliga a indugiare sul dolore, che infine l’arte è
niente. Che tutto, in fondo, finirà e nessun dio ci attende a bocca aperta negli
altri mondi. Tutte cose che si sanno, che insaporiscono il discutere di
zuccherine oscurità. In fondo, si ascolta una canzone per liquefarsi in un regno
ulteriore della mente; in fondo, chi scrive una canzone è già al di là di questo
mondo – che si dica salvezza, che si dica disperazione, che importa.
Se ti dico la parola “poesia” cosa ti viene in mente?
La famosa definizione di Paul Valéry sulla poesia (“La poesia è una lunga
esitazione fra il suono e il significato”) mi è sempre piaciuta al punto da
lasciarmene condizionare irrimediabilmente. Ed è ciò che mi sovviene ora a
seguito della tua domanda. So che questo inizio di risposta è connesso alle
specifiche necessità del creatore di versi più che al lettore, e immagino che
solo un lettore molto allenato e consapevole possa avere una tale consapevolezza
raffinata comprendendo la complessità del fare poesia. Dunque il lettore attento
sa che la poesia ha un ritmo e ha un suono, e anche di questo gode leggendo,
mentre il lettore meno strutturato ed esperto basa il suo gradimento
principalmente sulle emozioni di natura sentimentale. Senza voler qua
demonizzare questo tipo di emozioni, penso che si collochino a un livello
inferiore nella scala del giudizio. Io, come lettore, dichiaro la mia non
robusta frequentazione del genere: le leggo principalmente quando sono nel
processo creativo per fare un disco nuovo, poiché in quel caso la contiguità del
mio far versi per canzone con le esigenze del poeta nel suo verseggiare mi aiuta
a connettermi con la specificità di ciò che sto per affrontare.
Penso che si è ottimi lettori di poesia quando si è dotati di immaginazione: a
volte a me sembra di non averne a sufficienza. Detto da un sedicente artista è
grave, lo so.
Nel tuo discutere e nei tuoi pezzi citi, tra i tanti, Borges (adoratissimo da
Mick Jagger, per altro…), Baudelaire, Rimbaud, Gozzano, Montale… Viene fuori una
specie di “Contro-Canone Godano” della letteratura. Proviamo a redigerlo una
volta per tutte? Citami dieci libri che in qualche modo hanno orientato la tua
vita – e perché.
Se la domanda è “i libri che hanno orientato la tua vita” sono spinto a nominare
anche le opere non di finzione che sono state per me importanti. Premettendo che
la più parte delle cose che ho letto è stata da me un po’ dimenticata, sto
guardando in questo momento i miei libri (una parte, per lo meno) per cercare la
risposta adatta; noto che molti di essi mi dicono “sì, mi leggesti tempo
addietro”, e posso nominare: Lolita di Nabokov (letto due
volte), Intransigenze di Nabokov (l’ho letto e riletto più volte), Fuoco
pallido di Nabokov (letto due volte), La cognizione del dolore di Carlo Emilio
Gadda (libro straziante), Fratello cicala di John Updike (una raccolta di
racconti: mi approcciai a lui con questo libro, non certo il suo più famoso:
rimasi incantato dalle qualità estetiche della sua scrittura), due o tre opere
di Shakespeare contenute nello stesso libro dei ‘Meridiani’ (non importa quali:
è la lettura di Shakespeare in sé che mi estasiò), Odile di Raymond Queneau (ero
catturato dalle stranezze dell’Oulipo e dai tentativi di commistione
matematica-letteratura), Scritti sull’artedi Paul Valéry (raccolta di
micro-saggi che influenzarono molto il mio pensiero in costruzione), Sulla
poesia di Eugenio Montale (raccolta di micro-saggi, idem come per Valéry),
alcuni racconti e le poesie di Borges (raccolti anch’essi nei ‘Meridiani’: mi
affascinavano i labirinti di Borges, ma anche le qualità riflessivo-filosofiche
della sua poesia), Nera schiena del tempo di Javier Marías (ricordo che mi
catturò molto: ero immerso in qualche processo creativo per un disco dei
Marlene).
C’è poi – lo abbiamo capito mentre compulsavi il tuo “canone” privato – la
conclamata passione per Nabokov. Da dove nasce e perché è per te fonte di
ispirazione?
La mia passione per lui nasce con la lettura di Lolita e, subito dopo, con
quella di Intransigenze, spassosa e serissima al contempo raccolta di interviste
che rilasciò soprattutto dopo il successo di Lolita. Intransigenze fu un
magnifico regalo che mi fece colei che sarebbe diventata la mamma di mio figlio:
se già Lolita mi aveva appassionato per via di uno stile che recepii
immediatamente e del tutto istintivamente come magnifico, con Intransigenze mi
addentrai nell’abbagliante personalità di Nabokov, innamorandomene. Penso che
Nabokov sia il classico caso di “o lo ami o lo odi”: non tutti amerebbero
sentire uno scrittore sbeffeggiare Dostoevskij o Faulkner o Thomas Mann o
Balzac, per dire… Ammetto di essere affascinato dalla forza tonitruante di certe
opinioni: ci vuole coraggio ad averle, e lui aveva coraggio da vendere. I libri
fondamentali per me, sottolineando che non ho letto Ada (lo temo!) e altri tre o
quattro, sono Lolita, Fuoco pallido, Invito a una decapitazione, Il dono, Parla
ricordo, La vera vita di Sebastian Knight. E Pnin, per ridere tanto.
Il mondo rigurgita di orrori. Un manipolo di vecchi si sta bombardando con una
violenza equiparata alla vile scaltrezza. Che senso ha fare arte, allora? Che
senso ha la ‘bellezza’?
Siamo in un momento esacerbato, e cieco, e sordo: polarizzati e sempre più
incazzati vediamo il bianco o il nero e non siamo più disposti a comprendere le
sfumature, quelle che la tanto vituperata democrazia ci aveva insegnato con la
sua inevitabile pazienza, che non c’è più. L’arte temo possa fare poco. O
perlomeno: a livello individuale può fare tantissimo (io ad esempio spero che
non manchi molto al mio rifugiarmi in essa per fuggire dallo schifo intorno), ma
a livello di possibilità di ergersi a barriera del deragliamento temo di no, che
non possa farcela. Rileggo meglio la tua domanda: “che senso ha fare arte?” Beh,
come minimo può aiutare chi la fa a sganciarsi da questo pessimo mondo: è una
condizione a cui, come ho detto qua sopra, idealmente ambisco. Non so se ci
riuscirò: è un auspicio.
Nel tuo ultimo album, Stammi accanto, intuisco, consapevole o meno, una qualche
ricerca del sacro, un andare verso l’altro, l’oltre. È così? Siamo solo pappa
per vermi? Cosa resta di ciò che abbiamo fatto, vissuto, scritto?
Ci dev’essere qualche contraddizione in me, perché spesso mi si fa notare che
nonostante tutte le mie tiritere pessimiste i miei testi palesano una
spiritualità di qualche tipo, o ricerca del sacro, come dici tu… Forse quando
solletico il mio afflato scateno qualcosa dentro di me che lotta in sottotraccia
per non farsi vessare dal raziocinio: una latenza pronta a farsi viva quando
ritiene utile… O è semplicemente la mia parte più vera, che non sa arrendersi
nonostante tutto alla dialettica stringente della ragione. Non so che dire:
in Stammi accantoc’è una canzone, peraltro la mia preferita, che si chiama Cerco
il nulla, dove mi pare di esprimere un non so che piuttosto lontano dal sacro.
Ho solo 59 anni, tempo per vederci meglio e capirmi meglio ne ho ancora…
*In copertina: Cristiano Godano nel ritratto fotografico di Antonio Viscido
L'articolo “Detto da un sedicente artista è grave…” Il Canone Godano della
letteratura universale proviene da Pangea.
Il card. José Tolentino de Mendonça (Machico, Madeira, 1965) è prefetto
del Dicastero per la cultura e l’educazione dal 2022. Ha alle spalle una lunga e
riconosciuta attività di scrittore. La sua prima raccolta di poesie, Os Dias
Contados, è uscita nel 1990, lo stesso anno in cui è stato ordinato sacerdote.
Nel 2018 fu invitato da papa Francesco a predicare il ritiro di Quaresima per la
Curia romana e nello stesso anno quelle meditazioni sono state raccolte
in Elogio della sete (Vita e pensiero). Tra i suoi titoli più recenti in lingua
italiana ricordiamo: Una grammatica semplice dell’umano (Vita e Pensiero,
2021), Il papavero e il monaco (Qiqajon 2022), Estranei alla terra, (Crocetti
2023), Amicizia. Un incontro che riempie la vita(Piemme 2023). Il prossimo anno
l’editore Crocetti pubblicherà la sua ultima raccolta di poesie, Il centro della
terra.
Quali sono i suoi primi ricordi da bambino?
La prima parte della mia infanzia è stata africana e se dovessi riassumerla in
una parola, sceglierei la parola “vastità”. I miei primi ricordi riguardano
proprio la consapevolezza di quella vastità, del territorio come del
mare. Abitavo in una casa sulla spiaggia davanti al mare, nella località di
Lobito in Angola: quell’esperienza mi ha segnato profondamente, perché era
un’iniziazione allo stupore. Se penso ai primi anni di vita, da quando ho
coscienza e memoria, è questo lo stupore che poi mi ha sempre accompagnato.
Mi ricordo per esempio la scena dell’arrivo dei pescatori al mattino, dopo una
notte passata in mare, e le donne, le donne nere del popolo, che aspettavano
senza scarpe vicino all’acqua l’arrivo di quel pesce che sarebbe poi stato loro
compito distribuire. Era una scena di grande intensità, era l’immagine di un
mondo puro. Una volta ho letto che Omero usa circa trenta espressioni per
descrivere l’azzurro del mare senza ricorrere al termine “azzurro”. Lo descrive
in tante forme, lo descrive parlando del bianco, parlando delle voci, del sole,
delle navi, della fame umana, della bellezza delle grandi ricerche. Quando
ripenso a quegli anni penso a queste immagini, che il mare era azzurro, io l’ho
visto azzurro, ma l’ho visto azzurro nel bianco, nel verde, nel giallo, nel
marrone, nel nero. E tutto questo mi ha offerto l’inizio di una visione.
Queste suggestioni mi riportano a due poeti come Derek Walcott, al
suo Omeros ambientato ai Caraibi e al premio Nobel Saint John-Perse…
Sono due voci straordinarie per raccontare l’umanità, sono grandi testimoni
dell’umano.
Saint John-Perse in Italia non è molto conosciuto, nonostante il Nobel.
In Portogallo lo abbiamo tradotto di nuovo.
Anche in Italia, è uscita una bellissima versione di Amers a cura di Nicola
Muschitiello per le Edizioni Medhelan.
Mi interessa molto.
José Tolentino è stato creato cardinale nel 2019 da Papa Francesco
Ritorniamo alla sua infanzia, cosa accadde dopo l’esperienza africana?
Dopo i primi anni in Angola, con la decolonizzazione, tornai a Madeira, in
Portogallo, nell’isola “magica” dei miei genitori, di mia nonna che era una
grande raccontatrice di storie. Per me fu interessante passare dalla vastità
dell’Africa al microcosmo dell’isola perché fu un esercizio di
“concentrazione”. Anche se sicuramente non furono anni facili per i miei
genitori, perché in quel cambiamento persero la stabilità che avevano
conquistato, la casa, la vita di prima. Non erano sicuramente anni facili per
loro, ma io vissi l’arrivo nell’isola come un’esperienza nuova. Per esempio, in
Angola conoscevo soltanto due stagioni, l’inverno e l’estate. Lì non ci sono le
stagioni intermedie. E invece arrivato nell’isola ricordo una gita scolastica
per “incontrare l’autunno”, così la professoressa chiamò quell’esperienza.
Ricordo che raccolsi una foglia di un albero e rimasi fermo a guardarla… cercavo
l’autunno… Più tardi sperimentai l’esperienza di Rilke secondo cui il poeta è
una “conseguenza dell’autunno…”.
In Ares abbiamo preparato una biografia di Rilke per il 150° anniversario della
nascita. Quali sono i suoi autori di riferimento?
Per me Rilke è una memoria importante. Tra i miei primi punti di riferimento,
c’è stata la Bibbia, che mi ha sempre incuriosito molto, per la forza, la
bellezza e la densità della parola. In una famiglia cattolica come la nostra la
Bibbia era una compagnia e per anni fu praticamente l’unico libro che vidi nella
stanza dei miei genitori. Ma ci furono altre suggestioni di natura biblica.
All’inizio dell’adolescenza avevo un quaderno, una sorta di diario, dove cercavo
di copiare gli Spirituals afro-americani, non ero interessato tanto alla musica
o alla possibilità di cantare, quanto alla forza della parola. Mi piacevano
anche i Salmi e dopo di essi, piano piano, sono passato alla poesia, alla poesia
moderna e contemporanea. Prima con i poeti portoghesi e devo dire che il
Novecento è un secolo d’oro per la poesia portoghese, perché abbiamo una decina
di nomi assolutamente illuminati.
Quali autori consiglierebbe ai lettori italiani?
Uno non ha bisogno di essere consigliato, perché è già ben conosciuto ed è
Pessoa. Un altro è Herberto Helder, che è stato tradotto anche in Italia. Helder
è un poeta orfico nato nella mia stessa isola, anche se ha vissuto tutta la vita
a Lisbona. La prima poesia che ho scritto aveva come titolo “L’infanzia di
Herberto Helder” perché il mondo che ho trovato leggendo le sue poesie era per
me come uno specchio o una polla d’acqua, emersa dopo aver scavato, dove vedere
riflesso il mio volto.
Un’altra poesia che mi ha dato molto è quella Sophia de Mello Breyner Andresen,
una grande poetessa portoghese che aveva il fascino della Grecia e di tutta la
poesia greca. Nella sua poesia sono molto importanti gli odori, la visione, i
rumori. Penso di aver fatto il primo viaggio in Grecia grazie ai suoi versi.
E poi vorrei ricordare Eugénio de Andrade che è il nostro Quasimodo, la sua
lirica è di grande purezza e trasparenza e allo stesso tempo è come il suono di
un flauto che ha qualcosa di orientale. Infatti, il poeta preferito di Andrade è
Li Bai (Li Po) che è anche uno dei miei poeti preferiti. E mi ha iniziato anche
nell’ascolto a una poesia che viene da più lontano, non soltanto della Grecia o
dal mondo biblico, ma anche di un Oriente lontano dove, inoltre, la poesia
portoghese ha radici forti, penso a Camões o un altro poeta importantissimo
della nostra tradizione come Camilo Pessanha che ha vissuto a Macao e che era
molto stimato da Pessoa.
Quasimodo è poco considerato in Italia adesso e invece è un poeta importante.
È un poeta che ha detto molto e che “ha scritto nell’acqua” perché la sua è una
poesia “liquida”; dopo la “società liquida” di Baumann il termine sembrerebbe
negativo, invece, nella tradizione lirica “liquido” vuol dire vicino alla
musica, ha una dolcezza che non è ingenua, ma che è un tocco sapienziale,
profondo. Alla fine, penso che Quasimodo sia un grande erede di una luce, di un
fulgore che si trova in alcuni poeti latini.
Sulla tomba di Keats è scritto «qui giace uno il cui nome fu scritto
nell’acqua».
Keats è un autore che ha costruito un’opera straordinaria scrivendo le sue
poesie sull’acqua. Mi piace molto il concetto che Keats sviluppa di “capacità
negativa”, concetto che possiamo avvicinare all’esperienza negativa di cui parla
la mistica, e che alla fine è quel ritrovamento fondamentale che viene più dalla
passività di quando ci lasciamo incontrare, ci lasciamo trovare da una verità
più grande di quella che noi potevamo immaginare. È una visione analoga a quella
di san Giovanni della Croce che è uno dei miei riferimenti spirituali, un autore
a cui torno molte volte; so a memoria alcune delle sue poesie e a loro ricorro
come preghiera… lì c’è tutto.
Lei ha pubblicato il suo primo libro di poesia nel 1990 che è anche l’anno della
sua ordinazione sacerdotale, sembra che queste due vocazioni siano state
parallele; quali sono stati i primi segni della chiamata?
I primi segni arrivarono molto presto nella mia vita perché sono entrato nel
seminario minore a 11 anni. Forse a quell’età non si può ancora parlare di una
vocazione matura, ma si può dire che si ha una tensione a quel mondo, a quella
“voce”, a quello speciale rapporto con Dio e con l’esperienza religiosa. Vedevo
che l’esperienza religiosa era concomitante con il processo di coscienza di me
stesso. Era come un’“apparizione” a me stesso. Avere coscienza di noi stessi
significa che siamo una vita, una storia, che abbiamo un nome, un modo di
essere. La religione è sempre stata una chiave della mia vita. Da questo punto
di vista, non fu una sorpresa, sicuramente anche per l’ambiente familiare, il
mondo dove sono cresciuto che era profondamente religioso, ma fu una scelta, un
viaggio, un “nomadismo” al quale mi sentii chiamato molto presto.
Quali sono le sue preghiere preferite?
Vorrei richiamare i miei incontri con Mario Cesarini, il poeta surrealista più
importante del Portogallo, autore di alcune delle più belle poesie del Novecento
portoghese. Era un uomo profondamente credente, ma il suo rapporto con il
cristianesimo era molto conflittuale, aveva però una passione assoluta per
la Salve Regina e quando mi incontrava mi faceva recitare la Salve Regina, una
preghiera che prima recitavo in modo ordinario… ma vedendo la profonda emozione
di quest’uomo senza pratica religiosa nei confronti della Salve Regina, ho
cambiato il mio atteggiamento di fronte a questa preghiera che è diventata
presenza quotidiana nella mia vita. Non solo perché la ripeto ogni giorno ma
perché corrisponde a una sorta di illuminazione, mi piace ripeterla in latino
come l’ho ascoltata da questo poeta. È una preghiera di straordinaria bellezza.
Ho fatto questo esempio per ribadire che i poeti, anche quelli più inaspettati,
sono dei veri maestri spirituali. Un poeta prepara sempre la nostra anima per
una grande esperienza spirituale. Sono le “levatrici” della nostra anima.
Mario Cesarini ha rivelato la Salve Regina a me che ero seminarista… Vorrei poi
ricordare un’altra poetessa, la già citata Sophia de Mello Breyner Andresen,
persona, come dicevo, affascinata dal mondo greco e senz’altro più vicina a
Atene che a Gerusalemme: lei considerava il Magnificat come la poesia più
straordinaria che lei conoscesse. Diceva che le grandi poesie, anche quelle di
Omero sono così, non hanno un autore, è come se fossero sospese nel tempo da
sempre e le possiamo cogliere e fare nostre in un modo molto più radicale di
tutti gli altri testi. Devo dire che il Magnificat è sempre una preghiera che mi
fa tremare di gioia. Perché forse ritrovo quella vastità che mi ha stupito nel
mio primo sguardo al mondo. “Entusiasmo” è una parola che descrive bene
il Magnificat, mi piace l’entusiasmo con cui Maria pronunciò quelle parole. Un
altro mio riferimento per la preghiera è il Cantico dei Cantici, un testo
bellissimo che ho anche tradotto in portoghese.
Del Cantico è uscita una bella edizione di Giuseppe Conte per Il cenacolo delle
Arti, le raffinate edizioni di Lamberto Fabbri.
Mi piacerebbe vederla, io conosco la traduzione di Guido Ceronetti, che è anche
molto interessante. Sono molto interessato a tutto quello che riguarda la
traduzione.
Ceronetti è l’uomo della parola scorticata.
Ma quella ferita che resta dopo la lettura è un dono che rimane.
Il Qoelet di Ceronetti è straordinario…
È straordinario. A me interessa molto la poesia tradotta da poeti, da scrittori,
perché c’è un corpo a corpo con la parola, che ti introduce in un’esperienza
nuova.
Tra i miei salmi preferiti c’è l’87/88 che è forse il più disperato del
Salterio… quasi un viaggio nella terra dei morti…
…Che alla fine è anche il mondo dove abitiamo. In fondo quella disperazione è un
modo di rivelarsi dell’umano nella sua verità più profonda. E questi sentimenti
estremi, sia quelli provocati da una disperazione sia da una grande gioia,
colgono l’umano nel suo stato flagrante. Per questo dobbiamo ascoltare i
disperati e gli entusiasti, tutti e due, dobbiamo in una mano accarezzare il
dolore e nell’altra sostenere la gioia.
Mi ha colpito lo splendido commento del card. Ravasi al Qoelet, quando
suggerisce l’idea che la Sacra Scrittura racconti l’abisso per dire che Dio è
consapevole di quanto profondo possa essere il dolore umano.
E quella è un’umanità vera, senza risposte facili e banali, è un’umanità davanti
al Mistero, alla notte del mondo, all’enigma di sé stesso, al senso non soltanto
penultimo che tante volte sembra esaurire la realtà, ma il senso ultimo, il
“perché”. Il perché alla fine è la nostra “sala parto” perché, quando
affrontiamo il “perché” diamo al verbo nascere un’opportunità di coniugarsi nel
presente.
C’è tanta disperazione tra i giovani e io credo che quella che Benedetto XVI una
volta chiamava via pulchritudinis può essere una via per avvicinarli a un senso
di stupore, alla vita, per non cadere nella disperazione, perché hanno bisogno
di autenticità e di fronte alla bellezza c’è autenticità.
La bellezza cambia la temperatura: è un brivido, una ferita, ci offre, anche se
in un modo limitato, un’esperienza di verità, di assoluto, che allo stesso tempo
appartiene e non appartiene a questo mondo. Nell’arte noi sperimentiamo questo.
Una vicinanza a una perfezione, che tante volte solo un’imperfezione rende
visibile, ma una vicinanza a una perfezione che è come una piccola tremula luce
che ci fa vedere il fondo della strada.
Alessandro Rivali
*L’intervista realizzata da Alessandro Rivali sarà pubblica sul prossimo numero
di “Studi Cattolici”
In copertina: Gaetano Previati, Notturno o Il silenzio, 1908
L'articolo “Un’iniziazione allo stupore”. Dialogo con José Tolentino de Mendonça
proviene da Pangea.
Entrare nella vita di Rilke, cioè: scotennare l’angelo.
C’è qualcosa di sigillato nella vita di Rilke, una vita-tabernacolo. All’uomo
‘di mondo’, capace nella persuasione, circonfuso di nobildonne, retto
nell’ambizione, fa spazio il Rilke delle feroci solitudini, dell’austerità
artica, artigiano di un io irto di pinnacoli, di picchi, di stalattiti. La
natura della volpe e quella dell’aquila. Per certi versi, l’oceano epistolare di
Rilke – specie di bulimia grafica – non aggiunge alcun dettaglio alla vita del
poeta: cancella. A volte la scrittura opera – anche quando è ispirata – per
sparizione. Le lettere – lettere-Muzot, lettere-fortezza – servono a Rilke per
celarsi, per calarsi nell’assalto del sé – per incendiarsi.
Qual è, ad ogni buon conto, l’evento autenticamente capitale nella vita di
Rilke, un poeta che capitalizzava la propria esistenza in versi di distillata
sapienza (versi, diremmo, con gli artigli)? Secondo Franco Rella – il più acuto
interprete di Rilke – l’episodio che “ha cambiato per sempre la vita di Rilke” è
stato, nel 1907, l’incontro con la poesia di Cézanne. Quella fu la vera
“svolta”: come Cézanne è stato “un redentore dalla non-realtà, il nulla in cui
sembra siano destinate a finire le cose”, ora “Rilke stesso vuole essere un
redentore, ein Rettendes scrive” (in: R. M. Rilke, Noi siamo le api
dell’invisibile. Lettere da Muzot, De Piante, 2022, p.115). Poesia che redime,
che riscatta da schiavitù di deterioramento e di morte; poesia che sana il
lebbroso che siamo, con i crismi di san Giuliano Ospitaliere. Il compito che
Rilke si prefigge tramite la poesia, come scrive a Caroline Schenk von
Stauffenberg, è quello di “rendere la morte, che mai è stata un’estranea,
nuovamente conoscibile e tangibile nella sua qualità di tacita complice di ogni
cosa viva”.
Chissà poi se è stato il fatale viaggio in Russia – dove ha conosciuto Lev
Tolstoj e la famiglia Pasternak – o quello in Spagna – dove ha scoperto l’opera
folgorante di El Greco – se è stato l’Egitto, arcano e terribile (visitato tra
il 1910 e il 1911), a ‘segnare’ il poeta; oppure, libero da elementi
‘culturali’, è stato il corpo di Lou, la nascita di Ruth, la vista degli Hôtel
Dieu, a Parigi, ricoveri di resti d’uomo, ospizio dei perduti dove le creature
“vivevano di niente, di polvere, di fuliggine e della sporcizia sulla loro
pelle, vivevano di ciò che i cani perdono di bocca, di un qualche oggetto
insensatamente rotto…”. I luoghi rilkiani – Duino, ad esempio – sono
insensatamente vuoti senza la presenza del poeta, che li ha eletti nell’ambone
suo carisma.
Secondo Leone Traverso, Rilke è tra i rarissimi poeti – insieme a Hölderlin,
Leopardi e Emily Dickinson – a “scavare da tanto silenzio improvvisa la loro
voce”. Sono poeti in grado di “un linguaggio inventato, del tutto intimo,
sciolto da ogni vincolo di costume prettamente umano, per riallacciare il filo
interrotto con le forze segrete del mondo”. Così attacca una delle Ultime
poesie (Fussi, 1946):
> “Come il vento serale alle falci sugli omeri dei mietitori,
> va l’angelo mite sul filo innocente dei dolori”.
Ancora l’angelo, mite e tremendo a un tempo – come Rilke.
Più che altro, più investighiamo la vita di Rilke più è lui a invaderci. Potenza
radicale del poeta-redentore. Così, nelle pagine finali, le più intime,
rivolte Al lettore, Marilena Garis, autrice del potente libro biografico Rainer
Maria Rilke. Luce sull’invisibile (Edizioni Ares, 2025), rivela di essere
ritornata a Rilke, alle Elegie duinesi in particolare, “nel giorno delle esequie
di mia madre”. Nel momento dell’abisso assoluto, il poeta, che non lenisce il
dolore, ma lo trasforma, lo approfondisce fino al fiore. Il poeta è sempre lì:
dove una cosa muore e per eccesso di amore un’altra nasce.
Che senso ha una biografia rilkiana? Intendo dire: fino a che punto la vita di
Rilke – che ci appare tanto elusiva, remota, segreta, così poco ‘mondana’ –
penetra nell’opera?
Nessuna vita penetra nell’opera quanto quella di Rilke giacché la sua vita è
poesia. Rilke si è assunto il compito di farsi “puro e cieco strumento”, pura
eco interiore. La poesia lo ha attraversato, superato, trasceso. Ne ha
travalicato la vita. Nessun’altro poeta, meglio di lui, ha cercato di capire,
spiegare, e portare a compimento l’opera della creazione. E dal giorno in cui
comprese che solo la solitudine poteva avvicinarlo intimamente a quella
creazione, la scelse e l’abbracciò senza più voltarsi indietro, perseguendo la
ricerca di un equilibrio spirituale che fu in ultimo conquistato a caro,
carissimo prezzo (e non solo per sé)…
Nel mio libro sono partita da una pagina del Malte, la più celebre opera in
prosa di Rilke, dove il poeta insiste sul fatto che i versi non nascono dai
sentimenti, ma dalle esperienze. Per un solo verso, scrive, si devono vedere
molte città, uomini e cose. Bisogna avere ricordi di molte notti d’amore,
nessuna uguale all’altra. Bisogna aver udito le grida delle partorienti, essere
stati presso i moribondi, aver vegliato i morti nelle camere ardenti… E anche
avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare e avere la grande pazienza
di aspettare che ritornino. Solo quando i ricordi divengono in noi sangue,
sguardo e gesto, solo allora può darsi che in una rarissima ora ne esca la prima
parola di un verso. L’arte diventa così potente perché nasce dalla vita e
dall’esperienza reale: rintracciare nelle parole di un grande poeta le tracce
del suo destino mi pare essere la chiave di lettura più autentica, l’unica che
possa dare vero accesso alla sua arte, che è appunto “sangue, sguardo,
gesto”. Percorrere i passi di Rilke significa entrare in quell’interminato
pellegrinaggio che fu la sua esistenza. Dalla difficile infanzia con le sue
scuole militari, all’incontro con Lou Andreas-Salomé, musa e guida
intellettuale, al suo brevissimo matrimonio con la scultrice Clara Westhoff,
allieva di Rodin, e all’amore “da lontano” per la sua unica figlia, Ruth, fino
al rifugio creativo nel castello di Duino e nella torre di Muzot, sulle Alpi
svizzere, tutto diventa poesia nel suo sguardo.
Camminando dentro le parole, tra il visibile e l’invisibile, Rilke ci ha
lanciato delle sfide: il suo Weltinnenraum, il suo “spazio interiore di mondo” è
una “sottile striscia di terra tra fiume e roccia”, uno spazio sottilissimo,
eppure infinito. Per addentrarsi in quello spazio interiore, bisogna mettersi in
ascolto, cercare di penetrare il suo segreto, sapendo che è appeso al mistero,
allo stesso filo della fede, potremmo dire.
Qual è l’aspetto della biografia di Rilke che ti ha ‘spiazzato’, quello davvero
inatteso?
Vi sono molte pagine della sua vita che mi hanno “spiazzato”. Molte le
corrispondenze baudelairiane che mi hanno attraversato. Ma, sopra a tutto, oggi
mi preme parlare della sua attitudine ad inchinarsi davanti all’intimità e ai
segreti di ogni essere umano. Edmond Jaloux, amico di Rilke e specialista della
sua opera, ci ha trasmesso una lettera che un giorno ricevette da una donna
sconosciuta, e che oggi voglio consegnare per estratti ai lettori:
> “…Stavamo camminando lungo i cancelli del Lussemburgo… Rilke si era avvicinato
> a me, quel giorno, tenendo in mano una splendida rosa… Su quei cancelli,
> trovavamo, quasi ogni giorno, una vecchia donna seduta, che mendicava con
> discrezione. Non chiedeva nulla e i suoi occhi non si alzavano mai sui
> passanti. Ogni volta le lasciavamo una piccola elemosina… Non avevamo mai
> visto i suoi occhi, né udito il suo ringraziamento… Quel giorno… non aveva
> ancora ricevuto niente. Vidi Rilke inchinarsi davanti a lei, con rispetto, non
> un rispetto formale, ma un rispetto alla Rilke, un rispetto totale, di tutta
> l’anima. Inchinandosi, posò la bella rosa sulle ginocchia della vecchia
> mendica. Ella allora alzò i suoi occhi su di lui, lo guardò e con un gesto
> rapido e perfetto, gli prese la mano, la baciò e se ne andò via a piccoli
> passi – senza più mendicare per quel giorno”.
E vorrei aggiungere: felice della sua grande, insolita, ricchezza.
Credo che questa testimonianza del periodo parigino di Rilke possa illuminarci
su quello che fu il suo sguardo sul mondo e sul profondo rispetto che sempre
portò al prossimo, agli ultimi e alle loro sofferenze. Una particolare
delicatezza nell’ascoltare e nel confortare gli altri, che raggiunge i vertici
nell’epistolario, un’oceanica opera d’arte: il monumentale archivio della Rilke
Gesellschaft conta, ad oggi, circa 13mila lettere. Epistolografo d’eccezione,
nelle lettere il poeta non esita a donarsi completamente e ad abbracciare intime
questioni con acuta chiaroveggenza. Risponde instancabilmente, e con vera
partecipazione, a quanti gli si rivolgono. Non li conosce neppure, eppure si
prodiga per quegli sconosciuti senza risparmiarsi. E lo fa con profonda umanità,
che affascina e consola.
Nel complesso, come possiamo descrivere il ‘carattere’ di Rilke?
Silenzioso, mite, solitario, mistico; quando occorreva, determinato, volitivo,
mondano. Chi lo conobbe non esitò a definirlo un personaggio magico.
> “Nessuno lo sentiva arrivare”, racconta Stefan Zweig, “sedeva in silenzio e in
> ascolto, alzando involontariamente le sopracciglia appena qualcosa sembrava
> interessarlo. Discuteva con la semplice naturalezza con cui una mamma racconta
> una fiaba al suo bambino, con la stessa affettuosa tenerezza”.
Nella conversazione, non gli interessava soffermarsi sui luoghi comuni della
vita quotidiana, entrava subito nei dettagli delle cose più alte, dove i suoi
occhi vedevano tracce e presagi dell’invisibile. Sono tuttavia pochi quelli che
hanno davvero conosciuto la sua vita, il suo mondo interiore, la sua più
recondita officina. Era come avvolto da un ferreo riserbo, circonfuso di un’aura
mistica. Su quell’aura si è soffermato a più riprese Edmond Jaloux, arrivando a
definirlo visionario e medianico.
Temo che Rilke sfugga a chiunque voglia afferrarlo: la sua poesia è “luce
sull’invisibile”, come ho inteso sottotitolare il libro; un “tramite” tra mondi
e regni: visibile e invisibile, vita e morte. Rilke si è spinto nel cuore della
parola per divenire pura eco interiore, per arrivare alla voce dell’angelo, al
regno delle ombre, alla grande unità, alla risonanza del silenzio. Ce l’ha
spiegato bene Marina Cvetaeva quando lo ha definito “una topografia dell’anima”
e ha aggiunto “Rilke è necessario al nostro tempo come un prete sul campo di
battaglia”, una necessità quantomai attuale…
Anomalie: il ‘recluso dell’arte’, in verità, era circondato da amici, mecenati,
nobildonne, svariate amanti… Come conciliare questo paradosso?
Forse non è un paradosso. O meglio: vi sono molte questioni aperte su Rilke. Con
lui bisogna accettare di abitare il mistero e amare le domande “simili a stanze
chiuse a chiave e a libri scritti in una lingua straniera”. Rilke seminava
attorno a sé verità rivelate, talvolta difficilmente decifrabili. Uomini e donne
erano attratti dai suoi modi e dalle sue parole, da quella sua speciale empatia.
Ciò che lo rendeva affascinante era senza dubbio quel singolare incontro tra
terreno e angelico, la sua capacità di vedere oltre la superfice delle cose.
Claire Goll scrive che era impossibile resistergli e in effetti il corteo di
donne che lo accompagnò in vita e non l’abbandonò neppure dopo la morte
(attraverso monografie e libri di ricordi) è vasto: Lou Salomé, la moglie Clara
Westhoff, la principessa Marie von Thurn und Taxis, Magda von Hattingberg, Lou
Albert-Lasard, Baladine Klossowska, Nanny Wunderly-Volkart, Marina Cvetaeva,
Nimet Eloui-Bey…Ogni donna era invero una stella nella “costellazione” della sua
anima e della sua poesia, come cerco di spiegare nel libro, percorrendo i grandi
incontri della sua vita.
Qual è la figura ‘chiave’ che ha agito più di altre nella vita di Rilke?
Lou Salomé fu la persona che più di ogni altra segnò il cammino esistenziale e
artistico di Rilke. Fu per lui un grande amore, e non solo: la grande amica,
amante, musa, confidente, maestra. Di certo, Lou fu (anche) una figura materna
per Rilke, permise la sua vera rinascita, la rottura rispetto all’ambiente
provinciale praghese, ai sentimentalismi e alla devozione esasperata di sua
madre Phia. Dopo l’incontro con Lou, la sua nuova vita fu segnata dal
cambiamento del nome di nascita René nel più sobrio e virile Rainer, che reca
un’impronta germanica e richiama la purezza (Reinheit). Lou gli offrì materiali
filosofici ed estetici, lo iniziò alla lettura di Nietzsche (che rimarrà sempre
un riferimento ineliminabile nel pensiero rilkiano), lo mise al passo con
l’intellighenzia europea. Fondamentali i due viaggi che Rilke fece con Lou in
Russia. Qui ebbe inizio la sua vera opera, la sua ricerca di assoluto e
spiritualità, di cui alle Storie del buon Dio e al Libro d’ore e oltre, fino
alle Elegie
Duinesi. Il loro legame durò per tutta la vita, come testimonia il
loro Epistolario 1897-1926, uno scambio durato quasi trent’anni, di circa
duecento lettere, dal primo incontro del 12 maggio 1897 all’ultima lettera del
13 dicembre 1926, anno della morte di Rilke, e ancora oltre, se si considerano
le memorie di Lou e il libro Rainer Maria Rilke. Un incontro, che lei gli dedicò
dopo la sua morte. La loro corrispondenza avvicina in modo profondo alla vita e
all’opera di Rilke e consente di accedere all’intimità più autentica del suo
destino esistenziale e poetico: Rilke vi esprime le sue incertezze, le sue
difficoltà; Lou, che aveva intrapreso lo studio della psicanalisi con Sigmund
Freud, riesce ogni volta a “curare” le sue ferite, riportando le misteriose vie
dell’arte nel percorso della vita.
Come è possibile amare nell’abbandono, senza ‘consumare’ l’amore?
Nei Quaderni di Malte Laurids Brigge, Rilke scrive che “Amare è: illuminare con
olio inesauribile. Divenire amati è passare. Amare è durare.” Si tratta di una
nota in margine al manoscritto, che si conclude con la celebre parabola del
figliol prodigo. Qui, Rilke ribalta completamente la parabola evangelica per
affrontare il tema del “grande compito dell’amore”, un amore che nulla chiede in
cambio e si espande all’infinito; un amore slegato dalle maglie del possesso e
inteso come direzione, come forma di libertà.
Nella concezione rilkiana dell’amore senza possesso (besitzlose Liebe, anche
identificato come “amore intransitivo” dalla critica), questa è l’unica forma
d’amore che non “consuma” il suo oggetto. Si tratta dell’amore cantato dai
trovatori medievali “che nulla temevano più dell’essere esauditi” e soprattutto
delle celebri “amanti colme di forza”, a più riprese evocate nel Malte. Per
qualche tempo Rilke accarezzò l’idea – poi accantonata anche se continuamente
ripresa nell’opera e nell’epistolario – di scrivere un libro sui profili
biografici delle grandi amanti capaci di quell’amore assoluto: Saffo, Eloisa,
Gaspara Stampa, Louise Labé, Bettina von Arnim, Eleonora Duse, Mariana
Alcoforado e altre figure di donne che, nella solitudine, compirono la suprema
metamorfosi, elevandosi da un amore ristretto (ad un determinato oggetto) verso
la pura contemplazione dell’amore. Poco tempo prima di morire, Rilke confidò a
Edmond Jaloux di aver scritto il Malte “per delucidare il proprio pensiero e
vedere limpido dentro se stesso”. Il Malte è un punto limite nella sua vicenda
creativa (dopo la sua conclusione, nel 1910, comincia infatti un lungo tempus
tacendi che durerà oltre un decennio), e la sua estrema voce è quella del
figliol prodigo, colui che si prefisse di “non amare mai, per non porre nessuno
nella situazione terribile di essere amato”.
La questione è complessa e va trattata con molta cautela, distinguendo i piani
Malte/Rilke. Bisogna ricordare che iQuaderni nascono quando la prima –
fondamentale – esperienza parigina si è da poco conclusa: nell’immensa
solitudine di una città allucinata, il poeta sperimenta la miseria, l’angoscia e
il male di vivere. Dopo la rottura con Lou Salomé, Rilke si è sposato con la
scultrice Clara Westhoff, è diventato padre di una bambina, Ruth; si è
trasferito a Parigi per lavorare alla monografia di Auguste Rodin. Nel frattempo
ha completato l’ultima parte del Libro d’ore e del Libro delle immagini,
le Nuove Poesie e il Malte. Una mole impotente di lavoro. Ma a Parigi tramonta
definitivamente il tentativo di una vita familiare e si profila un lungo cammino
di stenti fondato sull’arte, una dolorosa contraddizione che lo strappava dalla
sua famiglia e dalla sua casa, dove non riusciva a stare, e lo straziava, lo
costringeva alla solitudine.
Perché l’idea di essere amato provoca in lui angoscia? Forse è un problema che
affonda le sue radici nell’infanzia, nel complesso rapporto con la madre. Forse
nel trauma della scuola militare scelta dal padre. Rilke è persona generosa, sa
donare se stesso, tutti quelli che lo hanno conosciuto lo confermano. E se non
bastasse, sarebbe sufficiente rivolgersi all’epistolario, alle sue lettere
prodighe di attenzioni, consigli e consolazione per il prossimo. Lettere
infinite… Ma non riesce ad abbandonarsi, ad essere amato; nel ritmo di donare e
ricevere non riesce a mettere radici, nemmeno con sua figlia. Forse questo è il
destino di chi sente il fardello – e l’ebbrezza – di una missione per tutta la
vita. Nel suo caso, una missione da poeta, quale puro e cieco strumento di un
verbo assoluto; ma anche come uomo che, prima del verso, deve farsi sangue,
sguardo, gesto. Come ho voluto ricordare nell’episodio della rosa alla mendica,
la poesia nasce quando il gesto si è consumato, mentre la vita scorre, nel ritmo
alternato del movimento e della permanenza. In questo, Rilke ha avuto per tutta
la vita una necessità soprannaturale di ‘affrettarsi’ al capitolo successivo
della sua trasformazione-metamorfosi (concetto chiave nell’opera), senza potersi
fermare, né “adagiare” mai, su ciò che era già stato fatto, detto, consumato.
Rilke sa scrivere come pochi altri verità fondamentali sugli uomini e sulla
vita, ma non riesce a vivere e amare nel reale. L’amore quotidiano, quello della
“vita dei giorni”, e a maggior ragione quello in seno a una famiglia, richiede
una costante permanenza, un eterno indugiare sui capitoli da scrivere, leggere,
rileggere e correggere infinitamente, con abnegazione e resilienza nella
ripetizione dell’amore e dell’attenzione per l’altro, e questo è difficile, se
non impossibile, per chi, come Rilke, abbraccia una vita fondata sul movimento
perenne dell’essere. In tutta la sua complessità, la questione rimane aperta e
il lettore potrà attraversarla in vari punti del mio libro, sia sotto il profilo
esegetico dell’opera, sia sotto quello biografico.
Cosa significa, in fondo, un libro all’apparenza così sigillato come “Elegie
duinesi”?
Il mio incontro con le Elegie duinesi è stata una rivelazione sulla via di
Damasco. Lo spiego al lettore nelle ultime pagine del mio libro. Le Elegie sono
un compendio-talismano da tenere a portata di mano. Da leggere, rileggere,
meditare nelle varie stagioni della vita. Esse stanno in rapporto alla vita e
alla morte come il Talmud sta al rapporto tra l’uomo e la parola di Dio. Sono
uno strumento che ha bisogno dell’uomo tanto quanto l’uomo ha bisogno dello
strumento: richiedono un paziente lavoro di lettura e interiorizzazione per
restituire i loro doni, come ho cercato di spiegare nel capitolo dedicato a
questo capolavoro, che per Rilke fu un vero e proprio “uragano nello spirito”.
Ritaglia un mazzo di versi rilkiani che hanno inciso nella tua vita – e perché?
Devo nuovamente tornare sul mistero e alle ultime pagine del mio libro, per
ritagliare due frammenti della Prima e della Decima Elegia. Vorrei che questi
versi arrivassero nelle mani di quanti si trovano ad affrontare una dolorosa
perdita, con l’auspicio che possano scendere come un balsamo nei loro cuori,
come è successo a me.
Certo è strano non abitare più sulla terra,
non più seguir costumi appena appresi,
alle rose e alle altre cose che hanno in sé una promessa
non dar significanza di futuro umano;
quel che eravamo in mani tanto, tanto ansiose
non esserlo più, e infine il proprio nome
abbandonarlo, come un balocco rotto.
Strano non desiderare quel che desideravi. Strano
quel che era collegato da rapporto
vederlo fluttuare, sciolto nello spazio. Ed è faticoso
esser morti;
quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco
un po’ d’eternità. […]
Ci si divezza da ciò che è terreno, soavemente,
come dal seno materno. Ma noi, che abbiamo bisogno
di sì grandi misteri – quante volte da lutto
sboccia un progresso beato – potremmo mai essere,
noi, senza i morti? […]
Ma se i morti infinitamente dovessero mai destare un
simbolo in noi,
vedi che forse indicherebbero i penduli amenti
dei noccioli spogli, oppure
la pioggia che cade su terra scura a primavera.
E noi, che pensiamo la felicità
come un’ascesa, ne avremmo l’emozione
quasi sconcertante,
di quando cosa ch’è felice, cade.
Tra tutti gli aggettivi che poteva usare per osservare la morte, Rilke sceglie i
più semplici: strano e faticoso. Strano, scrive, non abitare più sulla terra,
strano abbandonare il proprio nome come un balocco rotto… Ed è faticoso essere
morti “quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco un po’ d’eternità.”
La morte guarda all’interno e fuori di sé, verso chi muore e chi ancora vive:
“potremmo mai essere, noi, senza i morti”? In questa domanda vi è un chiaro
invito ad accogliere – nell’ascolto del silenzio – la voce di chi è scomparso:
dal lutto può nascere un “progresso beato”, ovvero una nuova consapevolezza del
rapporto tra la vita e la morte: l’essenza delle Elegie Duinesi.
Gli ultimi versi – e con essi l’opera intera – sono raccolti intorno
all’immagine di una caduta, che non segna tuttavia una morte, una fine, quanto
una metamorfosi, un rinnovamento, secondo il moto discendente dei frutti maturi
e della pioggia che cade su terra scura a primavera. In questa celebrazione
della terra, con il suo ciclo naturale di morte e di vita, la felicità non è
dunque elevazione, non è ricerca di una trascendenza irraggiungibile, ma caduta,
inchino verso la terra, umile adesione al ciclo della natura, eterna
trasformazione.
Sulla caduta e sulla metamorfosi rilkiana, e sul perno della grande ricchezza
della povertà e della morte, ci vorrebbe un convegno a più moduli, esegetici e
biografici, per poterne parlare degnamente.
Cosa ci resta ancora da scoprire della moltitudine Rilke?
Ancora molto. È notizia del dicembre 2022 che l’archivio letterario di Marbach
in Germania ha acquisito l’archivio familiare Rilke di Gernsbach, finora in
possesso degli eredi di Rilke. Si tratta di una collezione monumentale di
manoscritti, lettere, libri, riviste, disegni e fotografie. La nuova collezione
contiene circa 10mila pagine di bozze e appunti. Comprende anche circa 2.500
lettere scritte da Rilke e circa altre 6.300 lettere scritte a lui. Tra i
corrispondenti figurano vari nomi noti nella biografia rilkiana e anche la
moglie Clara Westhoff e la figlia Ruth. Sandra Richter, direttrice dell’archivio
letterario di Marbach, ha sottolineato che i documenti acquisiti sono un
«patrimonio travolgente»: l’immagine che abbiamo di Rilke potrebbero
cambiare. L’elaborazione della nuova montagna di documentazione richiederà
tempo, ma di certo sarà foriera di nuove gemme e scoperte… A quasi cent’anni
dalla morte, Rilke continua a parlarci.
L'articolo “L’emozione sconcertante”. Viaggio nella vita di Rilke proviene da
Pangea.
Ana Blandiana nasce con il “marchio di Caino”. Figlia di un insegnante reduce
della Grande Guerra, arrestato perché “nemico del popolo”, pubblica il primo
libro, Prima persona plurale, poco più che ventenne, nel 1964. È uno shock. Il
libro, manomesso dai censori, è irriconoscibile.
> “Strofe soppresse, versi aggiunti, titoli cambiati, tantissime parole
> sostituite: questo volume per me rappresenta il simbolo dell’impotenza
> rispetto al sistema e alla sua arroganza, alla sua capacità di manipolazione”.
In una poesia, Ana Blandiana canta la pioggia, “amo la pioggia, amo la pioggia
alla follia”. Quei versi, un acquazzone di gioia, fendono il grigiore della
Romania ‘sovietica’: pur mutilato, il libro ha successo, alla figlia di un
nemico dello Stato è aperto l’accesso all’università.
Sarà l’inizio di una lotta incessante contro gli orrori del regime.
L’importanza di Ana Blandiana nella Romania comunista è pari, per aristocrazia
d’ingegno, a quella di Anna Achmatova in Unione Sovietica. I suoi versi,
proibiti, vengono imparati a memoria, spacciati clandestinamente nei sottoscala
come gesti di ribellione, come atti d’amore. La poesia di Ana Blandiana,
vertiginosa – ora raccolta da Bompiani in Raccolto d’angeli, a cura di Mauro
Barindi –, rigurgita di creature celesti. Ci sono angeli sporchi di fuliggine,
angeli “che hanno indossato abiti d’uccello” e “vecchi angeli maleodoranti/ con
puzzo di rancido nelle penne umidicce,/ nei radi capelli,/ nella pelle che si
squama in isole di psoriasi”. Ci sono angeli, in questa lirica apocalisse, che
“presto saranno processati”.
Nel 1988, già riconosciuta come uno dei più potenti poeti al mondo, la Romania
di Ceaușescu ordina che i libri di Ana Blandiana “vengano proibiti e tolti dalle
biblioteche, perfino quelli in cui è citato anche solo il suo nome” (Barindi).
In Italia, Andrea Zanzotto guida un appello contro le persecuzioni perpetrate ai
danni della poetessa rumena. In seguito al rovesciamento del regime, Ana
Blandiana viene cooptata dal Fronte di Salvezza Nazionale di Ion Iliescu; se ne
allontana appena avverte i sintomi della solita politica, deformata dal virus
della vendetta, della perversione ideologica.
In uno degli ultimi testi, raccolti in Variazioni su un tema dato (2018), Ana
Blandiana ritorna all’epoca della catastrofe comunista.
> “Se avessimo come un tempo i microfoni nascosti in casa, le spie in ascolto,
> mentre mi registrano, mi considererebbero senz’altro una pazza, mentre ti
> parlo di ogni sorta di cose… dicendoti ti amo, così, al presente, e
> augurandoti buona notte prima di spegnere la luce”.
Il potere è terrorizzato – sempre – dal poeta che, svergognatamente, ama. La
poesia, ha scritto Iosif Brodskij, il grande poeta ribelle ai diktat sovietici,
“sollecita nella persona il senso della propria individualità, unicità,
separatezza”, trasforma ogni volto – perfino il più perfido, il più infido – in
qualcosa di umano. Già. Il poeta ha l’audacia di amare, di aprire uno spazio di
bellezza – per quanto angusto, per quanto modesto – mentre tutto intorno è
orrore.
Che rapporto c’è tra la poesia e il potere? O meglio: il potere della parola
poetica che cosa può contro i potenti?
Stranamente, mentre nelle democrazie il potere politico è in maniera assoluta
indifferente alla poesia e alla letteratura, come pure ai loro autori, i
dittatori hanno dimostrato in numerose occasioni di essere addirittura
ossessionati dal potere della parola e di coloro che lo detengono. Come si è
visto nell’incredibile conversazione tra Putin e il leader cinese, i dittatori
sono preoccupati dall’immortalità e dalla posterità, di cui i poeti sono per
tradizione i detentori. Da qui deriva la testardaggine dei dittatori di volerli
assoggettare, comprandoli o mettendoli in prigione, al fine di ottenere qualche
buona referenza nell’eternità. In questo senso il comportamento di Stalin è ben
noto e la dice lunga sulla sua paura riguardo al potere dei poeti che non
possono essere prezzolati, perché la loro protesta non è riferita solo al
presente ma anche al futuro.
Che rapporto c’è tra la poesia e il potere?
Stranamente, mentre nelle democrazie il potere politico è in maniera assoluta
indifferente alla poesia e alla letteratura, come pure ai suoi autori, i
dittatori hanno dimostrato di essere ossessionati dal potere della parola e da
coloro che lo detengono. Come si è visto nell’incredibile conversazione tra
Putin e il leader cinese, i dittatori sono preoccupati dall’immortalità e dalla
posterità, di cui i poeti sono per tradizione i detentori. Da qui deriva la
testardaggine dei dittatori di volerli assoggettare, comprandoli o mettendoli in
prigione, al fine di ottenere qualche buona referenza nell’eternità. In questo
senso il comportamento di Stalin è ben noto e la dice lunga sulla sua paura
riguardo al potere dei poeti che non possono essere prezzolati, perché la loro
protesta non è riferita solo al presente ma anche al futuro.
Cosa significa scrivere sotto le cesoie della censura?
La differenza tra la parola ‘libera’ e la parola che riesce a essere pronunciata
sotto censura è che quest’ultima ha un’importanza molto maggiore per coloro ai
quali arriva. La prima grande scoperta che ho fatto dopo il 1989 è stata che la
libertà di parola ha diminuito l’importanza della parola stessa. Quando è
libero, l’orecchio di chi ascolta è disattento, indifferente; sotto censura chi
ascolta affila l’udito per cogliere la minima allusione, la più sottile tendenza
alla resistenza. Non erano le parole a spaventare il regime, ma la solidarietà
degli uomini legati ad esse.
Perché ha scelto la poesia (o è stata scelta dalla poesia)?
Ho iniziato a disporre e ad abbinare tra loro le parole fin dalla prima
infanzia, prima ancora di saper leggere e scrivere; poi, dopo aver scoperto la
lettura, ho composto versi ispirandomi a ogni poeta di cui mi innamoravo, e
così, durante l’adolescenza, ho scalato i gradini della storia letteraria fino
ad arrivare a me stessa. Ovviamente, non può trattarsi della scelta di un
destino, ma sono troppo modesta per affermare che sia stato lui a scegliere me.
Cosa significa per un poeta “prendere posizione”? Il poeta è sempre un ribelle:
alle norme del mondo come a quelle del linguaggio?
Vorrei che non si esagerasse il carattere di protesta della mia poesia. È vero
che è accaduto in alcuni casi, diventati celebri (sotto forma di samizdat), ma
in generale, nonostante la mia costante tendenza a ribellarmi come essere umano,
come cittadino, la mia poesia ha sempre posseduto degli anticorpi che hanno
fatto da scudo al coinvolgimento politico, all’impegno legato a un preciso
momento. La prova risiede nel fatto che ha superato le barriere della storia.
Ci sono tanti angeli nella sua poesia: perché?
Se accetta l’idea che la poesia è ostinazione nell’esprimere l’inesprimibile,
allora capirà e sentirà che gli angeli sono strumenti, a volte disperati, di
questa ostinazione.
In cosa crede? Insomma, esiste qualcosa dopo la morte oppure non è che il
niente?
Per me non esiste prova più semplice e chiara dell’esistenza di Dio del non
sentirmi mai sola. Sì, credo che ci sia qualcosa dopo la morte, qualcosa che fa
parte del mistero scoperto dai grandi fisici che hanno studiato la struttura
della materia e dell’universo, diventando quasi mistici. Del resto, Einstein
parlava quasi come Dante dell’«Amor che move il sole e l’altre stelle» e si
considerava scientificamente irrealizzato, perché non era stato in grado di
trovare la formula matematica di questa forza.
Che senso ha la poesia oggi, in un’epoca lacerata dall’orrore, dalla violenza
senza mediazioni?
Il senso della speranza. Una volta ho tenuto una conferenza dal titolo “La
poesia può salvare il mondo?”. La mia risposta era sì e raccontavo delle
migliaia di poesie composte e trasmesse tramite l’alfabeto Morse (senza carta né
penna, oggetti proibiti) nelle prigioni comuniste della Romania degli anni
Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, a dimostrazione del fatto che quando
sentono minacciata la loro stessa essenza, gli uomini ricorrono alla resistenza
attraverso la poesia.
A cosa serve la poesia: a vivere, a sopravvivere, a morire, a restare felici, a
trovare se stessi (o a perdere il senso del sé)?
A tutto questo e, oltre a questo, alla certezza che, essendo così difficile da
capire e da definire, la poesia fa parte di quella realtà in cui gli antichi
greci riponevano la loro fiducia e che chiamavano “kalokagathìa”, una parte che
non potrà mai essere sconfitta perché fondata sul masochismo dei buoni. Del
resto, questo è anche il punto di continuità con il cristianesimo.
Ritagli una manciata di versi dalla sua opera che, in modo delicato e feroce
assieme, la descrivono.
“Perché sono in grado di capire,
e sono colpevole di tutto ciò che capisco”*
«Pentru că sunt în stare să înțeleg,
De tot ce înțeleg sunt vinovată»
* versi tratti dalla poesia Fără un gest (“Senza un gesto”) contenuta nella
raccolta Arhitectura valurilor (“L’architettura delle onde”) del 1990.
*In copertina: Ana Blandiana fotografata da Emilio Fraile
L'articolo “Ostinata nell’esprimere l’inesprimibile”. Dialogo con Ana Blandiana
proviene da Pangea.
> “Non credo ci sia alcuna filosofia morale nella narrativa oltre
> all’eccellenza.”
>
> John Cheever
Con il suo ultimo libro – Ogni maledetta mattina. Cinque lezioni sul vizio dello
scrivere (Mondadori, 2025) – Alessandro Piperno, romanziere, direttore dei
‘Meridiani’, docente di francesistica e saggista, realizza una immersione nelle
ragioni e nei moventi dell’attività letteraria. Tramite un saggio che indaga con
uno stile chiaro ed elegante quel ‘brivido’ che accompagna il rito e la prassi
della scrittura, alternando spunti autobiografici e l’analisi critica delle
sismografie letterarie grazie al confronto con i grandi del passato. Cinque
lezioni (“Ambizione”, “Odio”, “Responsabilità”, “Piacere” e “Conoscenza”) sui
motivi dello scrivere che danno così vita a un racconto corale che va da Proust
e Kafka a Céline e Primo Levi, passando per Flaubert, Balzac e tanti
altri,capace di delineare una galleria di ritratti e studi d’autore ricca di
dettagli e fascino. Ne emerge, soprattutto, un testo che quando parla
dell’attività letteraria più che prescrivere vuole mostrare, più che spiegare
vuole osservare e capire, senza giudicare. Piperno, infatti, privo di retoriche
militanti o di misticismi autocompiacenti, realizza un’opera capace di rivelare
della scrittura le verità concrete e l’intrinseca magia. Portando il lettore
nelle botteghe, nelle quinte e nei cantieri delle parole, in modo da mostrare i
tanti volti di quel “vizio assurdo” che porta a impugnare una penna o ad armare
una tastiera ogni maledetta mattina.
Prof. Piperno come è nato Ogni maledetta domenica. Cinque lezioni sul vizio
dello scrivere?
La genesi di questo libro è più semplice di quanto non sembri. Da un lato un
contratto da onorare con il mio editore per un’opera saggistica, dall’altro
l’esigenza di decantare e di fare il punto. Una necessità, quest’ultima, che mi
prende ogni volta che finito un romanzo mi preparo a scriverne un altro. Forse
volevo verificare il modo in cui con il passare degli anni è cambiato il mio
approccio alla scrittura. Ciò che da giovane mi sembrava una fatica superiore
alle mie forze oggi è un piacere quotidiano e ineludibile, un vizio. Da qui la
domanda: come lo si contrae? Come lo si gestisce? Ecco, per rispondere a queste
domande ho interrogato gli scrittori che amo e che frequento da sempre. Di me (a
petto di questi giganti, una nullità trascurabile) ho parlato lo stretto
indispensabile.
E che cos’è, secondo lei, il vizio dello scrivere?
Per dirla con Cioran, tutto inizia con un estenuante esercizio di ammirazione.
Sei un adolescente pieno di passioni e di inutili idee in testa. Leggi Stendhal,
Tolstoj, Broch e ti dici: che bello sarebbe potersi esprimere in modo
altrettanto netto, essenziale ed elegante. Sei fregato. Quello è il momento in
cui passi dall’ammirazione all’emulazione. Una battaglia persa in partenza. Per
quanto tu possa provarci, infatti, non riesci a scrivere niente che non ti
sembri scadente, riciclato, di terz’ordine. Le confesso che per me non è stato
facile togliermi dalle spalle il peso di modelli così irraggiungibili. Certe
volte credo che ad avermi reso uno scrittore sia stata una certa dimestichezza
con il fallimento. Il paradosso è che il mio primo romanzo fu un successo,
almeno da un punto di vista commerciale. A me invece non piaceva quasi per
niente. Lo avevo scritto spinto dalla rabbia e dal risentimento. Lo avevo
scritto senza esercitare il dovuto controllo. Poi grazie al cielo le cose sono
cambiate.
Cosa è cambiato?
D’un tratto ho capito che il tormento è come la nevrosi: fa male ma non serve a
niente.Anzi, peggio, ti danneggia limitandoti. Ho capito che la scrittura non è
pura ispirazione, o non solo, ma soprattutto disciplina, indagine, riflessione.
Oggi mi sento molto diverso da allora.
Quale fu il libro della svolta nel suo rapporto con la scrittura?
Fu il mio romanzo più sfortunato: Dove la storia finisce (2016). Più mi ci
immergevo piùpercepivo il cambiamento in atto: il tormento si
faceva spontaneità, l’ansia cedeva il passo all’abbandono, ogni seduta era un
po’ più piacevole. Da allora il lavoro è diventato naturale, proficuo e meno
ansiogeno.
Cosa ha determinato questo cambiamento?
Messe da parte tutte le pompose ambizioni di grandezza e di gloria, ho preso
atto che lo scrittore è un tizio che ogni mattina (almeno per me) affronta una
serie di problemi e cerca di risolverli. Solo così un libro prende forma. In un
attimo sono svanite le ubbie con cui mi ero sempre tormentato.
Dopo la pubblicazione, si rilegge?
Mai. Un libro pubblicato per me è un libro morto. Tanto sono ossessivo nella
stesura infliggendomi mesi e mesi di riletture, tanto sono leggero e infedele
nella fase successiva alla pubblicazione. Per questo mi costa così tanto
promuoverlo. È giusto che un libro faccia la sua strada senza di me. Le rare
volte in cui durante una presentazione qualcuno legge un passo di un mio libro
in pubblico avverto un profondo imbarazzo. Con ciò non intendo dire che non
provi affetto per i libri pubblicati. Ne provo eccome, soprattutto per i più
“sfortunati”. Me lo lasci ripetere: per me Dove la storia finiscerappresenta
una cesura virtuosa.
Parliamo del suo ultimo testo narrativo: Aria di famiglia. Un romanzo che mostra
epoche e contesti senza pretese storiografiche o ideologiche, offrendo uno
sguardo critico sul presente. Specie su quella sorta di maccartismo
(trasversale e bigotto) che stiamo vivendo…
Giudicare un’opera attraverso la vita o le idee dell’autore è un atto critico
capzioso, moralmente disonesto ed esteticamente aberrante. Non c’è esercizio più
esecrabile. Quando nella valutazione di un manufatto artistico il giudizio
morale sostituisce quello formale l’arte muore. Ecco, ho il sospetto che oggi
molti concepiscano la letteratura come un concorso di bellezza morale. Temo che
alcuni vogliano trasformare lo spazio letterario in un tribunale speciale in cui
all’autore spetta il ruolo dell’imputato. Proprio così, certa critica vuole
tramutare la storia della letteratura in una specie di Norimberga permanente.
Del resto, sarebbe sciocco considerare il politically correct o il settarismo
puritano un male dei nostri tempi. Per certi versi è sempre stato così.
Anche Flaubert,anche Baudelaire, anche Stendhal incorsero nella scomunica
dei puritani, degli ipocriti, dei filistei. La cosa davvero preoccupante oggi è
come certe idee aberranti seducano anche chi dovrebbe detestarle: parlo degli
scrittori e degli accademici, soprattutto in ambito anglosassone. Li ha visti
no? Non vedono l’ora di denunciare, marciare, boicottare, firmare appelli e
petizioni. Un po’ imbonitori, un po’ ciarlatani, se ne stanno lì sul loro
scranno a distribuire patenti morali. Non credo che Flaubert lo avrebbe fatto. A
lui la letteratura offriva uno spazio privilegiato di libertà e di osservazione.
Nel libro parla anche di responsabilità e impegno.
Sì, distinguo l’impegno virtuoso da quello frivolo e mondano. Distinguo gli
scrittori che hanno rischiato la pelle da quelli che hanno ottenuto un invito in
talk show. Prenda Primo Levi. Lui per me incarna un modello irraggiungibile. È
come se avesse trovato un equilibrio perfetto tra responsabilità e stile. Un
altro impegno virtuoso è quello prestato da Zola alla causa di Dreyfus. A non
piacermi sono gli epigoni di Sartre, quelli che potremmo chiamare i
“professionisti dell’impegno”. Non c’è causa per cui non si mobilitino o non si
espongano e di solito lo fanno nel modo più conformista lisciando il pelo al
mainstream. Io non ho mai firmato petizioni né partecipato a manifestazioni: il
mio mestiere è un altro. Non ho autorità per esprimermi su niente se non sulle
due o tre cose che conosco. A chi mi chiede del clima, dell’atomica,
dell’Ucraina rispondo come Parise: “Non lo so, non me ne intendo”.
Il confronto con il “male” quanto è centrale per uno scrittore?
Devo confessarglielo. Faccio fatica a prendere sul serio certe categorie
oracolari: il “bene”, il “male”, il “giusto”, l’“Ingiusto”. Ciò non significa
che eluda il problema. So che il male è l’argomento letterario per antonomasia e
ritengo che il solo modo onesto di affrontarlo è provare a comprenderlo. Ricordo
che André Glucksmann nel suo libro L’undicesimo comandamento diceva che al
Decalogo biblico mancava un ulteriore, ma fondamentale, comandamento: “Conosci
il male”.
Conoscere il male, per gli scrittori che amo ha significato farsene carico,
affrontarlo, non sanzionarlo. Penso a scrittori per molti versi
antitetici come Proust e Céline. La moralità di un romanzo, come diceva Milan
Kundera, non risiede, infatti, nel giudizio, ma nella sospensione del giudizio.
È questa la sfida della letteratura: mostrare la complessità dell’umano senza
ridurla a virtù o colpa. Nulla di grande è stato scritto con ipocrite pretese
moraliste. Adolphe, Guerra e pace, L’età dell’innocenza, Madame Bovary,
la “Recherche”. Sono romanzi in cui trionfa l’ambiguità. Per questo immaginare
una letteratura orientata solo dalla virtù è semplicemente folle.
La quinta lezione del suo libro si chiama “Conoscenza”: parlando di questo tema
lei accosta Proust e Kafka. Perché?
Il paragone tra i due non è mio. Il primo ad averlo formulato è stato Elias
Canetti. Naturalmente Proust e Kafka sono scrittori diversissimi, ma
profondamente sintonici e complementari. Entrambi, infatti, hanno trasformato la
vita in scrittura. Entrambi hanno intrattenuto un rapporto simbiotico con la
scrittura. Mi commuove l’idea che siano morti con il grosso della loro opera
ancora inedito. Mi pare un ottimo monito per quel genere di scrittori a cui
scappa sempre di pubblicare.
Lei dedica una lezione anche all’“Odio”. Quanto l’odio è importante in
letteratura?
Nel libro distinguo tra risentimento e odio. Il primo è gretto e inutile, il
secondo è nobile e proficuo. Pensiamo all’odio di Flaubert per la stupidità, o a
quello di Ibsen per le convenzioni borghesi. Osservare il mondo con ironia
critica, provare indiginazione creativa: senza questo sguardo, non si può
davvero scrivere. Io non ci riuscirei.
Cosa odia in maniera “nobile” Alessandro Piperno?
La malafede, l’ipocrisia dei Tartuffi e degli imbonitori dei social, tutto ciò
che è melenso e pletorico. Detesto le dietrologie, chi vede il marcio ovunque,
le cospirazioni, i piagnistei, ma anche le grandi adunate di piazza, le frasi in
libertà, le mozioni degli affetti. E dal disgusto per questa roba
che spesso ho tratto la materia per i miei testi.
Un aspetto centrale nella sua opera è la complessa ambiguità dei personaggi. In
questo senso in Aria di famiglia essi sono spesso contraddittori o mai
completamente virtuosi.
Nei suoi diari Tolstoj (il migliore di tutti) parla spesso di come rendere vivo
un personaggio. Per lui è necessario farne una creatura contraddittoria, in
bilico tra passioni oneste e piccole malvagità. Il caso più emblematico è quello
del Dolochov di Guerra e Pace. Se da un lato è un dissoluto, un libertino, un
attaccabrighe, dall’altro coltiva commoventi sentimenti filiali. Così si
costruisce un personaggio, mescolando la miseria alla grandezza, la malvagità
all’altruismo. In Aria di famiglia ho cercato di seguire questo insegnamento: la
famiglia Sacerdoti è composta da persone contraddittorie, in cui si intrecciano
generosità e durezza, meschinità e candore. La verità dei personaggi si
manifesta attraverso queste tensioni e sfumature: solo così possono apparire
vivi, credibili, umani.
Più che un romanzo “a tesi”, il suo è allora un romanzo “ad antitesi”. È un modo
di contraddire e capire le cose?
Philip Roth affermava di non avere idee quasi su niente. A questo gli serviva
scrivere: per capirci qualcosa. Io sono d’accordo con lui. Credo che in realtà
la scrittura, se trattata con la giusta grazia e la dovuta abnegazione, riesce a
rivelare qualcosa che prima ti era sconosciuto. La scrittura non deve dimostrare
alcunché. Deve limitarsi a scandagliare. Tu non scrivi perché hai capito come
funziona il mondo ma perché non sei ancora riuscito a capirlo.
In questo quadro centrale più che il messaggio nei suoi testi vince il
romanzesco…
È una mia debolezza, lo so, ma sono fatto così: mi piace il romanzesco. E in
effetti inAria di famiglia mi sono divertito a disseminare un mucchio di
robaccia romanzesca: vendette, orfani, eredità contese, tutori
malintenzionati. Insomma ho esibito il classico armamentario dei vittoriani che
amo: Dickens e George Eliot su tutti. La narrativa, come hanno insegnato questi
autori, usa la finzione e l’esagerazione per giungere alla verità.
Il prossimo libro?
Si chiamerà In trappola. Lo sto scrivendo con alacrità da quasi un
anno. È l’ultimo capitolo della trilogia iniziata con Di chi è la colpa e Aria
di famiglia. Però sarà molto diverso dai precedenti, per via di una
caratteristica che preferisco non confessarle.
Francesco Subiaco
L'articolo “Non sopporto i professionisti dell’impegno, gli scrittori che
firmano appelli. L’odio? Un sentimento nobile e proficuo”. Dialogo con
Alessandro Piperno proviene da Pangea.