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Tra ascetismo e latitanza, contro gli scrittori “impegnati”, verso l’impossibile. Dialogo con Tom Buron
Tom Buron pare un corsaro. Giovane – classe 1992 –, gioviale, ha esordito con Gallimard con un poema, Les Cinquantièmes hurlants, che va in direzione opposta ai toni dominanti del nostro tempo: lo stile sifilitico, il pallore da confessionale, una scrittura senza febbre, senza sbalzi, spesso anemica, utile al post sui social, gradevole alla lettura pubblica. In una intervista pubblicata di recente su “Zone Critique”, Tom Buron ha detto che “questa è un’epoca che necessita di miti”; si è detto portavoce di “una sorta di lirismo in lotta, di un lirismo violento”; disprezza la “poesia del quotidiano e quella che esiste per rivendicare qualcosa”, come “l’anti-poesia, cioè la poesia ‘che non sembra poesia’”. Nei suoi versi, la foga di Melville e di Lord Byron si mescola al rock, l’epica dilagante di Saint-John Perse dialoga con sonorità elettriche contemporanee. Il mito di Tom Buron è Velimir Chlebnikov, uno dei più prodigiosi inventori di linguaggio del secolo: non credo sia sul comodino di molti scrittori di oggi, in verità, spettri viventi. Come Chlebnikov, anche Tom Buron veste ampie pellicce, indossa uno sguardo spiritato, confida nel neologismo.  Tra i romanzi, preferisce Sotto il vulcano, l’epopea alcolica di Malcolm Lowry, ambientata a Cuernavaca, Messico. Proprio il Messico è uno dei luoghi-totem di Tom Buron – lo fu anche per Antonin Artaud, che laggiù tentava di ritrovare l’origine magica, glossolalica della parola poetica.  Nonostante il gargantuesco, granguignolesco entusiasmo – che è già oro in un’era di palestrati e di depressi – Tom Buron non è un poseur. Ha vissuto a lungo in Ucraina, dove ha terminato Les Cinquantièmes hurlants – ha combattuto, ha sofferto, ma ne sussurra, senza i laboriosi sofismi del retore e del neofita. Esige il rischio, proclama l’avventura come sale per la letteratura, eppure non gioca all’esteta armato. Resta, nonostante tutto, un ragazzo sfuggente – più René Char che André Malraux, per intenderci. Non ama i proclami, sa cos’è l’ispirazione e cosa significhi perdere l’ispirazione – conosce la veglia, la ferita in ambone, l’acquasantiera degli insonni.  Les Cinquantièmes hurlants, a una prima lettura, ha due grandi precedenti: Le bateau ivre di Rimbaud e The Bridge, il poema di Hart Crane, il poeta che ha scelto di morire gettandosi nel golfo del Messico. In ogni caso, è l’elemento marino a dominare il libro di Tom Buron, il disorientamento, la rottura di tutti gli ormeggi del linguaggio – un Antartide tutto attorno, che è poi pari a Minotauro, e venti che scuoiano la pelle fino al sillabario.  Non è stato difficile raggiungerlo – la generosità è parte dell’estro di un poeta; gli altri, quelli che non si imbarcano nelle imprese disperate, continuino a fare le vittime.  Perché la poesia in questo tempo impoetico?  Non è forse questa l’unica arte della nostra epoca a non essere diventata industria? Quali sono i tuoi maestri, i poeti che ritieni decisivi alla tua crescita? Citami una poesia-amuleto, un libro-totem, un lotto di versi che tieni sempre con te.  Velimir Chlebnikov, Conrad Aiken, Roger Gilbert-Lecomte, Hart Crane, T.S. Eliot e Pound, Dylan Thomas, Matthieu Messagier, Saint-John Perse, Cendrars, Majakovskij sono molto importanti per me: il mio amore per loro dura dall’adolescenza. Potrei citare altri poeti dell’Era d’argento russa come Marina Cvetaeva e Anna Achmatova. A questi dovrei aggiungere il sommo Derek Walcott, o ancora Basil Bunting e John Ashbery. Dei francofoni, devo citare Arthur Cravan, un autentico selvaggio, un autentico modello di vita e di energia vivente, ma anche Stanislav Rodanski e Marcel Moureau. Non amo distinguere tra poeti e romanzieri, dunque voglio dirti anche Nikos Kazantzakis, Ernesto Sábato, William Faulkner, Dostoevskij, Melville, Bolaño, Thomas Wolfe (non ho detto Tom…), Joyce… Cormac McCarthy e la sua cavalcata nell’orrore, quel tremebondo poema in prosa faulkneriana che è Meridiano di sangue… A noi più prossimo, devo citare Laszlo Krasznahorkai, uno dei più grandi romanzieri viventi. Amo la lingua francese di Pierre Michon, quella di Albert Cohen, di Drieu e di Morand, di Blondin – amo le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. L’opera che apprezzo di più è quella di Malcolm Lowry. Potremmo dire del desiderio contro il senso di colpa, dell’ossessione per il paradiso perduto, della cerca e della devastazione nell’alcol, di una sublime vulnerabilità e di uno stile che combatte tutti gli stili, ma ciò che ricordo meglio di Lowry è la sua presenza, ovunque, nell’opera, è il rapporto conflittuale con la scrittura, frammentario e doloroso, questo rapporto con l’opera in corso, in corsa, che commenta costantemente e da cui dipende la salvezza dell’uomo, senza condizioni.  Detto questo, è difficile scegliere l’unico libro, il libro-totemico, come dici tu, ma sono disposto al gioco: se dovessi andare in qualche luogo per sei mesi e potessi portare con me un solo libro, beh, allora opterei per le opere degli ultimi anni di vita di Velimir Chlebnikov. Amo la dismisura e le imprese eccessive, la chiave di una soluzione che deve essere ancora trovata, e lui ha tentato di trovarla più di chiunque altro: credo, come Chlebnikov, che il poeta debba essere anche un pensatore – Chlebnikov è il grande poeta dell’impossibile. D’altronde, un grande amore, quando tentiamo di spiegarlo, ci sfugge sempre, non è forse vero? Mi viene in mente quell’aneddoto in cui Caitlin racconta che il marito, Dylan Thomas, di fronte agli amici, cercando di spiegare alcuni suoi versi, si gettò a terra, d’improvviso, rotolandosi sul tappeto, grattandosi come una bestia… Che rapporto esiste tra ‘vita’ e ‘poesia’? O meglio: qual è la tua ‘poetica’ dell’esistere? Mi dirai banale: l’incontro con Rimbaud, a dodici anni, mi ha fatto credere, allora e per sempre, che l’avventura sia legata alla scrittura poetica. Il mio desiderio di scrivere si è sempre manifestato con il gusto per l’avventura e per il rischio: credo, come Hemingway, che bisogna far scontrare il corpo e la mente con la realtà, credo nella viva carne, nel sangue che ribolle. Non riesco a distinguere una dimensione dall’altra, è una sorta di rivelazione ontologica. Già a quel tempo vedevo il poeta come una creatura che scrive e agisce al medesimo tempo, una canaglia capace nel metodo, un essere che oscilla tra ascetismo e latitanza. Byroniani, rimbaudiani, insomma. Credo che occorra andare e ‘vedere’, sperimentare con i nervi e con le ossa. Ci sono cose che non si possono trasmettere né ripetere se non dopo averle vissute, se non dopo l’avventura, quella autentica. L’avventura, come la poesia, è una forma di eccedenza, si tratta di dimensioni che comunicano. Insomma, è una visione un po’ nietzschiana del poeta. La vita non basta – la letteratura neppure. Il mio caro Zorba direbbe: “Vivere, sai cosa significa? Slacciare le cinture e attaccar briga”.  Come nasce “Les cinquantièmes hurlants”, da quale ispirazione? Mi pare che il linguaggio che usi sia diametralmente opposto al minimalismo, alla poesia ‘orizzontale’ in voga in Francia come in Italia. Da dove arriva la tua lingua? Non so dirti da dove arrivi questa lingua: passo il tempo a cercarla, a tentarla. Certamente, deriva in gran parte, oltre che dal mio inesauribile interesse verso la lingua francese, da una preoccupazione per il ritmo, la melodia, l’armonia.  Les cinquantièmes hurlants è un poema che ho portato dentro di me per sei anni. Detto questo, l’ho lavorato a lungo tra il 2020 e il 2022. Volevo terminarlo entro il mio trentesimo compleanno, come mi è riuscito, per poi smettere tutto, certo che sia la migliore delle cose che abbia tentato di fare finora. Due anni dopo, ecco che appare. È un poema che nasce dal desiderio di spiazzare i temi che mi sono cari, di spostarli dalla città all’oceano, lo spazio di ogni rischio. Nasce anche dalla prospettiva di una traversata, una traversata mutila. Tuttavia, ho dato inizio a un movimento, lungo i porti d’Europa, raccogliendo appunti, cercando di dar loro un corpo; sono andato in giro per un anno e mezzo circa, prima di mettere tutto da parte perché non riuscivo a giungere a ciò che volevo da quella distanza. Quando a Est è scoppiata la guerra, sono partito. Prima presso la frontiera polacca, poi in Ucraina, verso il fronte meridionale e orientale, a Charkiv, Zaporižžja, Cherson, Mykolaiv, Pokrovsk… Prima nei ranghi umanitari, la logistica, poi, di recente, dal 2024, nell’esercito. Di questi tre anni, un anno e mezzo è stato consacrato alla guerra. Se ciò non è direttamente ravvisabile nel libro, ciò che ho vissuto lo ha inevitabilmente intriso: di ritorno da una missione, a Ochota, un quartiere di Varsavia dove ho vissuto per alcuni mesi, sono riuscito a sedermi al tavolo, a riprendere il lavoro e a completarlo, nell’autunno del 2022. Finalmente, avevo trovato un’architettura per i miei versi, una lingua per la storia del mio navigatore, un ritmo oceanico e cavalleresco da imprimere a quella traversata, un ordine e una disciplina per tale furia. Poi ho nascosto il manoscritto, ho fatto la valigia, sono ripartito per l’Ucraina.  Riguardo al termine che usi, la poesia ‘orizzontale’: Les cinquantièmes hurlants è l’esatto opposto, è un poema della verticalità. Questa sorta di ‘orizzontalità’ permanente di cui dici, non riguarda soltanto la Francia, ma il mondo occidentale in sé – non riguarda soltanto l’arte letteraria, ma molto di più. Non me ne occupo, ma se vuoi sapere cosa ne penso, dirò soltanto che trovo la ‘produzione’ attuale per lo più deplorevole, perché va di pari passo con il disprezzo per la verticalità, la ricerca incessante, l’opera. Ma non ho tempo per reagire, mi preoccupo di lavorare, mi occupa l’azione. Tutto cambierà in fretta, sono fiducioso.  La poesia è sempre eversiva, sempre ha in sé un linguaggio anarcoide, contro la necrosi linguistica odierna: è davvero così? Quali sono i confini tra la poesia autentica e la falsa poesia, il ‘poetume’ (pattume) di cui è intriso il nostro tempo? Insomma: dove ci porta la poesia?   Mi avventuro di rado nei meandri della teoria letteraria, ma penso che la poesia non abbia nulla a che fare con una forma di ‘comunicazione’. Meglio: poesia è comunicazione suprema. Mi pare che la poesia sia in un certo modo estranea a queste considerazioni. È terra d’invenzione, superamento del linguaggio, significato e pensiero rinnovati. Credo che un poeta autentico debba necessariamente condurre il lettore in una lingua estranea. Nel passato – ma accade ancora oggi – venivo accusato di essere un poeta per poeti. È un modo per squalificarti, per evitare l’ingaggio col pensiero… Allo stesso tempo, credo che in letteratura non si possa che fallire. Questo è ciò che mi spinge a continuare, che mi fa desiderare di andare oltre. Sbagliamo e sbagliamo ancora e torniamo alla battaglia: “Ancora una volta sulla breccia, amici cari, ancora una volta”. Non so se sarò mai in grado di cogliere il segno. Siamo sempre opere incompiute, incomplete. E quando ti concentri sul poema, come nel mio caso, una gara di fondo composta da quindici round, devi stare lì, devi essere sempre vigile riguardo ai tuoi errori, devi arrivare fino alla fine. Penso che il poema sia la forma più completa e sofisticata: non ha nulla a che vedere, mi si perdoni, con una bellissima lirica di quattro strofe. Esiste a tuo avviso un rapporto – di complicità o di avversità – tra ‘poesia’ e ‘politica’? In Les cinquantièmes hurlants, pur in forma remota, c’è la presenza della guerra e delle armi nucleari, riecheggia in forma escatologica ciò che stiamo vivendo oggi. Comprendo dunque la ragione di questa domanda. Detto questo, nonostante il mio interesse per la geopolitica e la storia, non mi addentro in modo frontale in questo tema, ho orrore per quelli che si definiscono “scrittori impegnati”. Trovo che tale atteggiamento manchi di classe e corrompa il lavoro lirico. I poeti non servono alcuna causa. Bob Dylan, che ha dovuto difendersi da molte tentazioni in questo senso, diceva, fin da giovanissimo, “Non esiste il bianco e il nero… Esistono solo l’alto e il basso… E io cerco di andare in alto senza pensare a cose triviali come la politica”. Tornare alla verticalità di cui dicevamo prima: ecco la mia risposta.  Hai viaggiato tanto. Quale viaggio e quale incontro ti hanno formato? È vero. Ho viaggiato in Africa, nelle Americhe, in Asia, poi ho deciso di concentrarmi sul nostro continente e ho girato l’Europa in autostop, con l’autobus, sui treni, come quando ero ragazzo. Mi sento uno scrittore europeo che si esprime in lingua francese e proviene da Omero, Dante, Blake, Nietzsche e Rimbaud. Da giovane alternavo lavori part-time, scrittura e lunghi viaggi con pochi mezzi per il continente.  Tre anni fa avrei risposto a questa domanda in modo diverso. Avrei detto che il Messico mi ha cambiato profondamente. È stato un viaggio che ho scelto nel momento giusto e in cui – cosa rara – tutto è andato per il verso giusto. Potrei parlare dell’Africa, in particolare del Senegal. Tuttavia, è l’Ucraina che occupa ormai un posto enorme nella mia vita. Ciò che ho condiviso lì con alcuni esseri umani, non lo vivrò con nessun altro. Ciò che ho vissuto con certi amici, nel lavoro umanitario come nell’esercito, non sarò mai in grado di raccontarlo come si deve – sono racconti che infine mettono a disagio chi li ascolta, al ritorno, quindi, semplicemente, smetto di parlarne, anche alle persone a me prossime. Almeno, questo vale per me: ne parlo poco, racconto poco, non condivido quasi nulla, ne scrivo, per me solo, però. Penso che tutto questo troverà, col tempo, un suo equilibrio, ma è certo che gli ultimi tre anni mi hanno invaso, hanno mutato in profondità l’uomo che ero.  E adesso… cosa fai? Ho ancora qualche lettura prima dell’estate. Intanto, a Parigi, attorno a una antologia su jazz e poesia che ho curato insieme allo scrittore di jazz Franck Médioni, s’intitola Le nom du son. È la prima antologia in francese su questo tema. Riunisce un centinaio di autori, dunque un centinaio di testi scritti tra il 1917 e il 2024. Leggerò una selezione di testi che comprende poesie di Mina Loy, Michel Bulteau e Bob Kaufman, accompagnato da un musicista, Antoine Berjeaut. Porterò Les cinquantièmes hurlants nel sud della Francia, a Sète, poi a un festival parigino, con un adattamento musicale creato insieme a Fred Aubin dei “La Maison Tellier”, un mio amico trombettista. Abbiamo alcune date da qui a settembre. Da poco, ho ricominciato a scrivere. Come dicevo, dopo aver finito Les cinquantièmes hurlants, alla fine del 2022, ho pensato di smettere con la scrittura. Il silenzio è durato due anni.  ** Da Les cinquantièmes hurlants Alimentiamo questa caduta mercuriale, la magnolia in un concerto di vertigini, una volta soltanto – sole di rame –  tra i flutti di un mandolino catartico ci ha reso vulnerabili. L’odore della meccanica i ronfi dell’Olandese Volante ci lordavano i sandali: “Strano, il babbuino, puah… sublime assillo” Sento lo stesso, di lontano, lo stesso sciaguattare di chiatta, un’ambiguità ontologica e le corde che vibrano lacerando straniere plaghe, strani pelasgi.  Perché occorre dirlo abbiamo dormito poco in quest’ultimo secolo: le radici dissennate divennero torce e ancora recludono lo spasmo delle montagne russe tossicologiche. Non ho detto troppi addio perché sono marchiato dai sigilli, ma, fiacchi di guerra, hanno assolto gli idoli cavi, la vite, un amuleto occulto, l’esca e l’acciarino nell’avventura dello squallore, dello squarcio: tutto spira, l’alba si perde in caricature carminio. La parata d’oro impone trasalimenti i colori si rinnovano come folgorazioni dall’acquarello che popoliamo tra il bronzo e il piombo, convergendo instancabili verso queste tessere del domino che cadono una dopo l’altra nel culto del ricordo.  Così, così, mai l’oblio fu incontrato ma questo vivere se non da mutilati, seguaci di frammenti eremitici, di un deliberato disordine, lo specchio semovente, l’arena regina il combattimento intangibile: Mare, dunque e lì, Mare, e là, la plenitudine del Sud – il pieno Sud.  Tom Buron L'articolo Tra ascetismo e latitanza, contro gli scrittori “impegnati”, verso l’impossibile. Dialogo con Tom Buron proviene da Pangea.
May 16, 2025 / Pangea
Italia, una Repubblica fondata sulla vendetta. Dialogo con Giampiero Mughini
È una straordinaria resa dei conti con il nostro passato e la nostra Storia (politica, culturale e sociale), quella che Giampiero Mughini, regala ai lettori con il suo Controstoria dell’Italia. Dalla morte di Mussolini all’era Berlusconi (Bompiani, 2024). Un viaggio a ritroso in oltre settant’anni di vita politica e culturale – mischiando storia e memoria, critica e indagine – tra libri, immaginari e personaggi che hanno cambiato e condizionato la storia italiana. Dagli aneliti fratricidi e i camaleontismi che hanno accompagnato il dopoguerra alle guerriglie ideologiche degli anni Settanta passando per i linciaggi mediatici della Seconda Repubblica. Tra Pasolini, Bilenchi, Ramelli, Craxi e Berlusconi. Un testo in cui Mughini, intellettuale, scrittore, giornalista e grande maestro di gusto e di pensiero, ha ricostruito  la storia d’Italia oltre ataviche ripartizioni e lottizzazioni, mostrandone le complessità e profondità aldilà di pregiudizi atavici e ancestrali antagonismi. Mostrando i fenomeni più complessi e le figure più discusse del nostro patrimonio storico culturale attraverso la lente non dell’ideologia o del moralismo, bensì tramite un approccio capace di restituire ad essi la loro irriducibile complessità e la loro ineludibile umanità. Ne emerge un documento personale e collettivo, fatto di tanti voci e personaggi che in qualche modo pone finalmente le condizioni fondamentali per una vera pacificazione (senza giustificazionismi o strumentalizzazioni) per la nostra storia nazionale.  Questo 25 aprile sono caduti gli ottant’anni dalla Liberazione. Secondo lei come è stato affrontato nel nostro Paese il tema della “guerra civile”?  L’ondata di speranze portate dalla Liberazione aveva favorito l’idea che con la fine del ventennio fascista ci sarebbe stata una palingenesi che avrebbe costruito una sorta di paradiso terrestre. Tanto che io stesso mi portai dietro per molti anni l’idea che l’antifascismo ci avrebbe condotto verso un futuro radioso e perfetto. Però con gli anni capii che la storia è fatta di ambiguità, di complessità, di esperienze e persone. Tutti fattori che non possono essere riassunti nella logica bene/male, luce/ombra, buoni/cattivi, uomini e no. Ci sono, infatti, troppe sfumature intermedie nella realtà e ridurre tale complessità a questi facili dualismi è un gravissimo errore. Un errore che spesso ci ha impedito di comprendere la storia del nostro Paese a causa di vecchie nostalgie e deleterie sacralizzazioni. A distanza di ottant’anni credo, infatti, che possiamo convenire che con il 25 aprile del 1945 non iniziò nessuno paradiso terrestre, ma finì per fortuna una tragica e sanguinosa guerra civile in cui ci furono tanti morti e tante ragioni diverse, alcune giuste altre sbagliate, che però a distanza di ottant’anni non bisogna strumentalizzare, bensì studiare e capire. Credo, infatti, che non serva più continuare a dividersi e a rievocare, con troppa retorica, i fantasmi della Storia. Servirebbe, invece,solo cercare di affrontarli senza pregiudizi e preconcetti. Cercando di confrontarci finalmente con le numerose sfumature del nostro passato. Ma… c’è ancora nel nostro Paese un anelito fratricida? No, io credo che non ci sia (per fortuna) un anelito fratricida nella società italiana. C’è però molta gente che, purtroppo, ancora si avvantaggia di quella divisione, e che appena può cerca di avvalersi di essa per i propri scopi. Cercando di sfruttare una polarizzazione, fascismo-antifascismo, che nel 2025 non esiste e non conta niente, per fini strumentali. Purtroppo, la Repubblica Italiana pur lasciandosi alle spalle un ventennio maledetto e nefasto quanto a sopraffazioni e violenze, è nata, infatti, nel peggiore dei modi. Marchiata a sua volta dal gusto del sangue, dalla vendetta, dall’odio reciproco delle fazioni, dall’esaltazione che della guerra civile facevano quelli che l’avevano vinta (e per fortuna) grazie agli aerei da bombardamento e ai carri armati degli americani. E del resto a tutt’oggi, quanti di quelli che nel linguaggio pubblico diffuso cianciano di “fascismo” e di “anti-fascismo” sanno di che cosa stanno parlando? Essi ignorano, infatti, quanto fosse stato intricato e complesso il reticolato della storia politica e morale dell’Italia del Novecento.  A proposito di tale ambiguità mi ha colpito l’episodio del cameriere e di suo padre che compare nel libro, indicativo delle contraddizioni del dopoguerra. Può raccontarcelo? E che insegnamento ci dà quell’aneddoto? Ma sa, i miei genitori erano separati e io andavo a pranzo da mio padre un paio di volte al mese. Papà parlava poco, pochissimo, giusto l’indispensabile. Con il passare degli anni diventai uno studente della sinistra radicale nella versione propria degli anni Sessanta. E sebbene tale visione fosse agli antipodi della ideologia di mio padre mai, mai una volta, lui obiettò qualcosa alle mie sfuriate di sinistra radicale, che pure erano ben note nella città in cui vivevo. Lo fece solo una volta. E qui veniamo alla sua domanda. In quella occasione eravamo andati a pranzare con mio padre in un ristorante dove i camerieri erano entrati in sciopero contro il loro datore di lavoro, e il capo cameriere (leader degli scioperanti) era venuto a salutare mio padre. Nel momento in cui lui venne al nostro tavolo io giovane studente di sinistra guardai con estasi quello che mi appariva come un vero ribelle. Quando lui si allontanò mio padre mi disse, però, poche parole: “Sei un settario. Quel cameriere che ti piaceva così tanto perché in sciopero era stato a suo tempo un manganellatore, e io l’ho espulso dal Partito Nazionale Fascista.” Parole che, a ripetermele oggi che sono passati circa sessant’anni, mi trafiggono ancora come mi trafissero allora per quanto erano inappellabili. Del resto, sempre le poche parole che pronunziava mio padre mi trafiggevano.  Com’era suo padre? Era una brava persona. E posso dire che oggi a distanza di tanti anni solo a questo tengo, anche io: ad essere una brava persona. Tutto il resto (destra e sinistra incluse) è cianfrusaglia.  Perché dice che la cultura degli anni del dopoguerra era solo illusoriamente fatta di uomini nuovi e costruita ex novo?  L’idea che noi ventenni bevemmo a gran sorsate negli anni Sessanta, ossia che a guerra conclusa e a Liberazione avvenuta si fosse manifestata in Italia una cultura radicalmente nuova, animata da uomini che avevano poco se non niente a che vedere con la storia culturale del ventennio, era un’idea che non valeva nulla. Né più né meno dell’idea, sussurrata una volta nientedimeno che dal nostro maestro, Norberto Bobbio, che affermava che il fascismo non avesse avuto una sua “cultura”. Una tesi che sembrava volesse dire che durante il ventennio non ci fosse stata in Italia una vita culturale degna di questo nome, non ci fossero stati scrittori, pittori, architetti, riviste di cultura che avessero lasciato delle tracce. E lo dico senza nulla togliere a quello che rappresentò per tutti noi ventenni la lettura dei Quaderni che Antonio Gramsci era andato stilando in una cella fascista e che l’editore torinese Giulio Einaudi aveva pubblicato dal 1948 al 1951. Certo che era un uomo nuovo l’Antonio Gramsci i cui scritti potevamo finalmente leggere perché il Tribunale speciale fascista aveva sì racchiuso il suo corpo, ma non era riuscito a spegnere il suo cervello. Solo che non tutto della cultura italiana dell’immediato secondo dopoguerra cominciava e finiva con Gramsci. Anzi. Non erano uomini nuovi o comunque radicalmente diversi da quel che erano stati nel ventennio dei creatori dal gran risalto quali l’architetto e designer Giò Ponti, il prodigioso scrittore Alberto Savinio nonché il suo imponente fratello Giorgio De Chirico, il giornalista e editore Leo Longanesi, e Mino Maccari. Non lo era Romano Bilenchi o Elio Vittorini, e neppure quel Bruno Munari che fin dal 1930 era andato trasformando in oro tutto quel che creava. Come non lo erano l’architetto Luigi Moretti, il cui genio per essere lui rimasto fascista sino all’ultimo (è morto a sessantasei anni nel 1973) viene ricordato una volta sì e cinque no. Persino Vitaliano Brancati che già durante il ventennio aveva preso a scrostare da sé l’iniziale sua venerazione di Mussolini non lo era; come non lo erano Rossellini e Visconti. Oppure pensiamo, sempre in questo senso, ai Longhi, ai Praz, agli Ungaretti. Ciò deve farci riflettere. La storia, specie quella della cultura, è sempre più complessa di quanto la immaginiamo o di come vorremmo che fosse. Poi non parliamo del delitto più torvo compiuto dalle ricostruzioni culturali in auge nell’immediato secondo dopoguerra. Quale? Quello per cui si spiegava tutto e ogni cosa in nome della partizione avversante tra l’Italia dei tempi dominati dal fascismo e l’Italia sopravvenuta dopo la Liberazione. Una partizione talmente secca da aver cancellato d’un colpo solo una delle avanguardie più frastornanti e geniali dell’intero Novecento europeo, quel futurismo marinettiano che per trent’anni s’era completamente avviluppato con il fascismo e con la sua topografia ideale.Furono, infatti, così cancellati i libri creativamente strepitosi di Fortunato Depero (un altro che rimase fascistissimo fino all’ultimo), i quadri di Mario Sironi, il succulento libro di esaltazione della “cucina futurista” a firma di Marinetti e Fillia. Per fortuna qualcosa sta cambiando e le ragioni dell’arte possono essere riscoperte. Quale è l’orgoglio e il fondale che accompagna questa controstoria di cui parla nel libro? E perché ha scritto questo testo? Quello di cui sono più orgoglioso e che costituisce il vero significato della “controstoria” che ho scritto è il tentativo di rimuovere via via i presupposti di quella guerra civile che aveva insanguinato l’Italia tra il 1943 e il 1945, e di cui sono stati in molti ad avere nel dopoguerra come una sorta di nostalgia. E dunque darsi ad affrontare ciascun personaggio rilevante, ciascun momento politico della nostra storia, ciascun comparto della nostra scena culturale non con l’aria di chi ha già etichettato tutto, ma con la volontà di andare scoprendone ogni volta un versante rimasto nascosto e offrirlo a un lettore che non sia accecato dalle sue convinzioni. Tutto l’opposto della cancel culture che ripete ad ogni riga ossessivamente le stesse prosopopee e sempre quelle, e cioè fondamentalmente che il Bene è meglio del Male. E questo tanto più oggi che le topografie del Novecento cui ci eravamo abituati sono saltate tutte. Solo che questo darsi addosso reciproco è divenuto per molti una necessità ossessiva, incuranti come sono che da tempo siamo entrati in un nuovo millennio della storia umana. Anzi tale condizione è divenuta, quasi, una mania nell’attuale sistema politico-partitico italiano, dove in mancanza di meglio le parti contrapposte (quali parti poi esattamente?) non la smettono di alimentare ogni volta inesauribili litigi su questioni emotive e insignificanti. Tutte questioni che ti sbattono addosso se entri in uno studio televisivo a commentare il presente e che mi fanno appisolare al solo rievocarle. Uno degli ultimi capitoli è quello su Silvio Berlusconi. Le volevo chiedere come Silvio Berlusconi ha cambiato la politica italiana, la politica dei partiti, e l’immaginario italiano? Nei primi anni Novanta i partiti ansimavano e allora la figura di quest’uomo talmente ricco, talmente potente e se non anche talmente abile ha preso il sopravvento.  Lei crede che ormai i partiti non esistano più? Avevano cominciato a non esistere già allora. Un partito, del resto, per esistere deve essere fatto da uomini che hanno delle certezze assolute e che sulla base di quelle certezze assolute si comportano e agiscono giorno per giorno seguendo una determinata visione. Tutto questooggi non esiste. Da Berlusconi in poi la scena politica italiana sarebbe divenuta, invece, il teatro di un unico e asfissiante referendum politico e morale pro o contro Berlusconi, il teatro di una inesausta e rabbiosa colluttazione permanente tra berlusconiani estatici e antiberlusconiani ostinatissimi.  Secondo lei, dal ricordo che sta emergendo della figura di Sergio Ramelli allo sdoganamento dei pregiudizi su Bettino Craxi, si sta cercando di costruire una narrazione unificante nella società italiana? Purtroppo, prima il nome di Sergio Ramelli non veniva neppure pronunciato, tanto che per alcuni era uno che era morto quasi per un’infezione sconosciuta. Invece, adesso onestamente sono contento di notare che il nome di Ramelli viene pronunciato… e questa è una grande fortuna. Per quanto riguarda Craxi, vorrei sottolineare che è morto da esule della nostra patria, mentre qualcuno diceva che era un latitante… Anche se non sfugge, o almeno non sfugge a chi ha un occhio minimamente esercitato, che sia stato uno dei grandi uomini politici della nostra epoca. Per tale motivo sono soddisfatto che finalmente gli stiano tributando l’attenzione e il rispetto che merita e che avrebbe meritato soprattutto nell’ultima fase della sua vita.  In questo senso, quali sono stati, gli eventi che hanno accompagnato questa sua presa di coscienza, questa sua evoluzione oltre la logica dello scontro frontale degli anni Sessanta e Settanta? Moltissimi. Lei ha citato giustamente un evento come  la morte di Ramelli, ma in quegli anni furono troppi gli episodi che mi fecero prendere coscienza di quella situazione insostenibile che si stava sviluppando in Italia. Iniziai a sentire, col passare degli anni, sempre di più la cognizione di quest’aria fratricida di cui abbiamo parlato e che volevo superare. Ed anche da questa cognizione nacque Compagni addio. Un testo che in tale ottica segnò uno spartiacque tanto nella mia vita quanto nei miei libri. Ci sono varie personalità in questa Controstoria dell’Italia, descritte anche con toni letterari, ma quali sono stati, dei personaggi citati nel testo, quelli che l’hanno più colpita, che l’hanno più cambiata? Tanti, talmente tanti, che non riuscirei ad elencarli tutti. Certamente non posso non citare una figura come Norberto Bobbio, che è stato per un lungo momento un personaggio nel quale io ho visto un mio riferimento. Ma ce ne sono tanti altri. Nella politica, forse, le direi Ugo La Malfa, una figura che stimavo molto. Però è estremamente difficile scegliere. Lei ha detto che la morte di Giovanni Gentile non è così diversa dall’omicidio di Matteotti. Perché? Mi pare evidente, anche perché non riesco a comprendere in che cosa tali morti dovrebbero essere diverse. Giovanni Gentile non aveva fatto nulla di male, semplicemente è stato un filosofo e un intellettuale che ha continuato ad essere dalla parte che aveva sostenuto per oltre vent’anni. Matteotti, allo stesso modo, aveva semplicemente fatto un discorso alla Camera, presentando la sua coerente e intransigente visione politica. Entrambi sono stati uccisi da una violenza cieca, fratricida, crudele solo perché erano visti come dei simboli da distruggere. Ma dietro quei simboli c’erano grandi uomini che avevano cercato di cambiare il loro paese e che sono stati uccisi da innocenti. Quindi sono due morti che si somigliano, che si somigliano pazzescamente. Pertanto porto a queste due figure il medesimo profondo rispetto che meritano. Francesco Subiaco L'articolo Italia, una Repubblica fondata sulla vendetta. Dialogo con Giampiero Mughini proviene da Pangea.
May 16, 2025 / Pangea
“Buon proseguimento”. Chiacchiere intorno a Caproni, un maestro
Tra le varie testimonianze utili a perimetrare la vita – e dunque, l’opera, sempre ‘battesimale’ – di Caproni, ne preferisco due. La prima è la lunga intervista concessa a Ferdinando Camon, raccolta in Il mestiere di poeta (Lerici Editori, 1965; magistrale ovvietà: un’intervista funziona, al di là dell’intervistato, se c’è del genio nell’intervistatore). Caproni – che ha sempre quel “viso affilato e severo” – è già l’autore di Stanze della funicolare e de Il passaggio di Enea; con Il seme di piangere ha vinto un ‘Viareggio’, ha da poco pubblicato Congedo del viaggiatore cerimonioso. Tra le tante cose – necessarie a designare una poetica; ad esempio, l’importanza dello “studio del violino, uno studio duro, egoistico, che richiede otto, dieci ore giornaliere d’applicazione”, che significa, “lenta conquista” e assidua dedizione all’arte, sempre artigiana – scelgo questa: > “L’unica certezza che c’è nei miei versi è quella della vita e della morte. > Oggi come oggi, sento che tutte le strutture (le ‘istituzioni’) classiche e > ottocentesche non reggono più. Oggi non viviamo più in un mondo > geometricamente perfetto, anche se pieno d’orrende ingiustizie, come all’età > di Pericle o nel Medioevo o nel positivista e progressista Ottocento. Oggi > dobbiamo rifare tutto da capo, oserei dire Dio stesso, se questa non fosse, > per credenti e miscredenti, una boutade. La mancanza di una certezza, più che > mia, mi sembra dell’epoca”.  L’intervista termina con un coup di quelli di Caproni: il poeta si augura la venuta del “poeta nuovo capace di farci invecchiar tutti quanti d’un colpo… con la sola forza della sua poesia”. Che meraviglia questa fede nella sempiterna giovinezza – cioè: nella sempiterna violenza – della poesia. Va detto che la novità della poesia di Caproni continua, da anni, a far invecchiare d’un colpo poeti ben più giovani di lui, ignari di cosa sia la giovinezza, il suo sentore di animale in sangue.  Forse perché era ossessionato da Dio – o dalla sua eco, o dalla sua eminente assenza, o dalla sua carnivora presenza – credo che il più arguto esegeta di Caproni sia stato Cesare Cavalleri. Erano amici, legati dallo spudorato pudore proprio ai maestri, ai grandi: lo testimonia un epistolario cominciato nel 1972, di cui Cavalleri ha svelato, sorvolando, alcuni brani (trovate il tutto alla voce “Caproni” in: Cesare Cavalleri, Letture 1967-2022, Edizioni Ares, 2023, libro necessario quant’altri mai per orientarsi tra eden e paludi della letteratura italiana e non). I due si sfiorarono nel 1982, alla ‘Piccola Scala’: Caproni, “visibilmente frastornato”, vinceva il Premio Montale; Cavalleri gli chiedeva “il testo della poesia che aveva letto in quell’occasione” (Oh cari, per la cronaca). In un’intervista pubblicata su “Studi Cattolici” l’anno dopo, in ottobre, Caproni gioca a spezzare tutti i vetri.  > “Io ho sempre pensato che nella vita ci sono tante cose da fare, oltre ai > versi. Poi, se vengono i versi, uno li scrive. Ora come ora vorrei non averne > mai scritti. Vorrei aver speso meglio quella che Machado chiamava la monedita > del alma”.  Aveva da poco pubblicato Il franco cacciatore. Poesie gnomiche, profezie incise in acciaio. Palingenesi, per dire: Resteremo in pochi. Raccatteremo le pietre e ricominceremo.                            A voi, portare ora a finimento distruzione e abominio. Saremo nuovi. Non saremo noi. Saremo altri, e punto per punto riedificheremo il guasto che ora imputiamo a voi. Non credo sia un caso che per le Edizioni Ares, consustanziali all’intelligenza ferina di Cesare Cavalleri, sia uscito uno ‘strumento’ importante per capire Caproni. Lo ha firmato Francesco Napoli, critico di implacabile acume, s’intitola Giorgio Caproni. Scrittore in versi (2025). Tra le altre cose, Napoli parla in quel libro di un incontro organizzato dall’Università di Salerno: Caproni fumava, scavato, segaligno, lucido. Esatto come un endecasillabo. Si dice – va da sé – degli anni della Resistenza, dell’amicizia con Pasolini e con Betocchi, di Sbarbaro e Ungaretti. Poeti importanti, è vero, ma che si riconoscono per piccole cose, per baluginii e reticenze, per inciampi; si odorano, preferiscono la macchia. Anche il corpo di Caproni è epigrafico, è un petroglifo – ambone di un’opera autentica.  Insomma, ho contattato Napoli.  Qual è l’evento centrale – o gli eventi – nella vita di Caproni, quello che forgia il suo dire? Non è facile, a mio avviso, individuare uno o più eventi che hanno forgiato un dire che è stato costantemente in ascesa verso un fare poetico e di pensiero sempre più affinato e incisivo. Mi piace indicare però due fatti, che avvengono durante la sua formazione, di natura diversa. Il primo è l’incontro con la poesia di Ungaretti. E ce lo racconta molto bene lo stesso Caproni quando ne parla come di una illuminazione. Frequenta già la poesia, è andato a pescare Carducci da qualche parte per saltare D’Annunzio e lo stesso Pascoli, forse anche per una vicinanza sanguigna e toscana. Ebbene: viveva a Genova e lavorava come fattorino presso l’avvocato Ambrogio Colli. Nella biblioteca dello studio, nella centralissima via XX Settembre, scova una copia dell’Allegria di Ungaretti. Il suo “sillabario” poetico lo definì sin da subito e questo incontro segna il suo dire una parola poetica adeguata, nella ricerca del “sapore perduto della parola” per dirla come l’ha detta lui. “Perduta”, amissa. L’altro episodio, anche questo raccontato da lui, è l’abbandono ‘fisico’ e ‘violento’ del violino. A 18 anni, sempre a Genova, dopo aver suonato per balere e dintorni, gli tocca sostituire un primo violino in un concerto con musiche di Massenet. Nonostante si fosse ben preparato e avesse studiato la parte, la tensione dell’esibizione pubblica lo stravolge. Non vive be­nissimo questo passaggio e il confessato “fallimento” si concretizza d’improvviso, seguendo quasi le sue spigolosità caratteriali, quando una sera, dopo tanto studiare, abbandona trauma­ticamente il violino, spezzandolo di ritorno a casa. Da lì un continuo seguire la musica nella parola. Pur al centro del canone della letteratura italiana, Caproni mi sembra un poeta defilato, uno che ha percorso una sorta di ‘via oscura’ della lirica, totalmente propria. È davvero così a suo giudizio? Qual è il libro emblematico di questo percorso? Una via lirica tutta sua senz’altro, una parola originale in una tramatura musicale di straordinario equilibro metrico-ritmico e sonoro. Ma aggiungo, un percorso intellettuale unico. Eppure, proprio lui, traendo forza e ispirazione anche dalla lirica duecentesca, non petrarchesca, e vivendo nell’imperante verbo ermetico (a prevalenza petrarchesca peraltro) degli anni Trenta, amico fraterno di Alfonso Gatto, rompe con questa linea provando a ricondurre la poesia verso l’Allegoria allontanandola dal Simbolo (proprio dell’ermetismo). Libro emblematico credo sia a questo proposito Il passaggio di Enea del 1952. Qualche anno prima, nel 1948, descrive in un articolo sull’“Avanti!” l’eroe virgiliano come se parlasse di sé e del suo lavoro poetico:  > “Non potendo più appoggiarsi a nessuno (nemmeno al pa­dre, vale a dire alla > tradizione ch’ormai cadente grava fra­gilissima sulle sue spalle) egli deve > operare, del tutto solo, non soltanto per sostenere sé stesso ma anche per chi > l’ha sostenuto fino a ieri (il padre e la tradizione) e chi al suo fianco lo > segue.” Perfeziono: “Res amissa” è secondo lei il culmine della poesia di Caproni o piuttosto una ‘deviazione’? La pubblicazione postuma di questo libro è stata curata da Giorgio Agamben e dai figli davvero al meglio, restituendo pressoché pienamente il lavoro di Giorgio Caproni. Questo capita di rado. In genere frettolosi eredi e ben più animati editori rovistano a man bassa nei cassetti e curiosano sulle scrivanie degli autori e sui loro lavori in corso finendo per lo più per tradirli. Per fortuna con Res amissa questo non è accaduto. Detto questo voglio ricordare come l’intero lavoro poetico di Caproni si contraddistingue per riprese e ricuciture, di plaquette come di versi pubblicati in rivista, ricomponendosi poi in un libro (non una raccolta, attenzione) coerente e coeso. Ora non so bene se Res amissa sia un “culmine” o una “deviazione”, quello che so è che è capronianamente in continuità di pensiero poetico e poetante, con variazioni sui temi già sviluppati, con rinnovati congedi che sembravano già definitivamente esauriti, per giungere all’estremo del “congedo dal congedo stesso, per inoltrarsi in regioni di sempre più estrema disappropriazione fra l’uomo e il Dio” come ha scritto Giorgio Agamben. Il pensiero di una cosa perduta, che per Caproni sembra, azzardo un paradosso, essere una sensazione che si prova sin dalla nascita, mi sembra molto pertinente alla condizione dell’Essere. Il poeta ha subito per questo suo nuovo libro le idee molto chiare. Infatti, la poesia eponima della nuova opera, Res amissa appare su “Lengua” (gennaio-giugno 1987), la rivista di Gianni d’Elia e Katia Migliori, accompa­gnata da una illuminante nota del poeta che attacca così: “Questa poesia sarà il tema del mio nuovo libro (se ce la farò a comporlo)”. Credo che mai Caproni abbia iniziato con le idee così chiare. Mi sembra inoltre che l’intero cammino poetico di Giorgio Caproni si svolga secondo una linearità fatta anche di scarti e deviazioni. Sembra un ossimoro, ma a ben vedere non lo è. Basta solo ricordare il suo metodo di costruzione dei libri pubblicati, basato su un continuo riesame e ravvicinamento dei testi. Per Res amissa vale lo stesso discorso: il libro prosegue il pensiero del Conte di Kevenhüller e da questo se ne discosta e poi si riavvicina.  Quali sono state le amicizie decisive, autenticamente feconde per Caproni? Sono diverse e in diversi momenti della vita e con gradienti differenti d’intensità. Certo, dalle patrie storie letterarie Pier Paolo Pasolini, Attilio Bertolucci e Vittorio Sereni, tra i poeti, e Giuseppe De Robertis tra la critica sono stati i suoi amici più vicini. Ma c’è un altro poeta, oggi poco frequentato anche da noi critici, sbagliando, che più sembra consuonare con Caproni e di cui in qualche modo il poeta di Livorno riconosce un magistero umano e di pensiero: parlo di Carlo Betocchi. Invito ad andare a leggerlo con attenzione, e io per primo lo farò, provando a liberarlo dall’ombra imponente e importante di Mario Luzi. Ritagli dalla sua memoria i versi memorabili di Caproni, quelli che a suo dire ne distinguono la poetica.  Tre citazioni, senza commento.  > “Tutti riceviamo un dono. > Poi, non ricordiamo pi > né da chi né che sia. > Soltanto, ne conserviamo > – pungente e senza condono – > la spina della nostalgia.”   > > (Generalizzando in Res amissa) > “Ho provato a parlare. > Forse, ignoro la lingua. > Tutte frasi sbagliate. > Le risposte: sassate.”   > > (Sassate in Il muro della terra) > “Ora che più forte sento > stridere il freno, vi lascio > davvero, amici. Addio.  > ( Di questo, sono certo: io > son giunto alla disperazione > calma, senza sgomento. > > Scendo. Buon proseguimento.” > > (chiusa del Congedo del viaggiatore cerimonioso, nell’eponima raccolta) Che rapporto esiste, a suo avviso, tra la vita di Caproni e l’opera, tra il ‘corpo’ fisico e il ‘corpo’ lirico? Ho avuto un incontro, folgorante, all’Università di Salerno con il poeta, e lo racconto nel libro. E se vado con la memoria a quell’incontro, a quando ci ha detto che l’italiano ha il suo naturale respiro nell’endecasillabo, a quando fumava e non poco anche in aula, ebbene più come una sensazione che come certezza, secondo me, l’identità tra corpo fisico e lirico in Caproni è molto stretta. Chi si muove nei solchi di Caproni? Intendo dire: Caproni ha aperto una via lirica percorsa da altri o è un inascoltato pioniere? Molti hanno letto e amato, incontrato e frequentato Caproni, anche tra i viventi. E penso a Cucchi come a Mussapi, i primi che mi vengono in mente. Ma non sono stati i soli. È un poeta di spessore, con un pensiero intenso anche quando sembra facile da leggerlo o quando pensiamo di averlo capito. E tra le due opzioni che chiudono la sua domanda penso che dobbiamo averlo sul nostro comodino, accanto al letto, come lui aveva Dante. Un maestro. *In copertina: Giorgio Caproni in un ritratto fotografico di Dino Ignani L'articolo “Buon proseguimento”. Chiacchiere intorno a Caproni, un maestro proviene da Pangea.
May 13, 2025 / Pangea
“È l’ardere del cuore per l’intera creazione”. Dialoghi intorno a Isacco di Ninive
Ho avuto il piacere, qualche giorno fa, di avere una lunga conversazione con Valentina Duca. Era da tempo che desideravo incontrarla, ma raramente fa ritorno in Italia da Gerusalemme, dove ora si trova. Sono stati i suoi studi nell’ambito della mistica cristiana, e in particolare lo studio sul mistico siro-orientale Isacco di Ninive e dei suoi autori di riferimento, a condurla lì, a lavorare come ricercatrice presso l’Università Ebraica. Su Isacco ha recentemente pubblicato, per Peeters di Lovanio, uno studio, frutto del suo lavoro di dottorato all’Università di Oxford: “Exploring Finitude”: Weakness and Integrity in Isaac of Nineveh (per ora accessibile solo in inglese). Degli scritti inediti di Isacco sta attualmente curando l’edizione critica (testo siriaco e traduzione inglese). Oltre ad articoli prevalentemente in inglese, si segnala, in italiano, il contributo “La grazia della debolezza e il limite della morte”, all’interno degli atti del convegno internazionale Isacco di Ninive e il suo insegnamento spirituale tenutosi al monastero di Bose nel 2022, recentemente pubblicati da Qiqajon. Un giorno, durante un incontro sul mondo siriaco a cui partecipavamo entrambe presso il monastero di Bose, sono rimasta a lungo a osservarla: ho avuto la sensazione che fosse una di quelle rare persone che si aggirano come “in punta di piedi” nel mondo, i cui gesti sono segnati da una sorta di nobile discrezione e di cura. Mi è parso che in lei la “dimensione spirituale” non fosse una porzione dell’esistenza, bensì il fondamento. Nel leggere i suoi lavori, così come nel sentirla parlare, insieme all’attenzione scientifica non si può non notare questa sensibilità, che mi pare le abbia dato strumenti essenziali per occuparsi di un autore come Isacco di Ninive.   Chi era Isacco di Ninive?  Isacco di Ninive era un solitario (termine usato qui per coloro che scelgono una vita semi-eremitica) del VII secolo e dell’area siriaca. Quest’area non fa riferimento solo a parte dell’attuale Siria, ma a un territorio più vasto: Isacco, in particolare, era nato nella regione del Qatar, dove nella sua epoca c’era una fiorente comunità cristiana, e visse in terra mesopotamica. Per breve tempo divenne vescovo di Ninive: rinunciò a questo incarico per andare a vivere sulle montagne, vicino a insediamenti monastici. Apparteneva a una chiesa, quella siro-orientale che, guardata a partire dal mondo latino e greco, poteva considerarsi marginale poiché “nestoriana” e quindi ritenuta eretica. E tuttavia era una cultura nient’affatto marginale, che ebbe una grande espansione in oriente, come in Asia Centrale e in Cina. Isacco è erede di una tradizione monastica composita, dove ci sono sia autori siriaci, come Giovanni il Solitario, sia della tradizione greca, con la quale intendiamo soprattutto autori monastici e mistici di lingua greca, con una forte presenza del mondo dei padri del deserto e di Evagrio Pontico.  Isacco poi non scrive trattati teologici, ma testi che intendono guidare i discepoli nell’esperienza. Quando parliamo di lui come “solitario” non ci riferiamo a una persona isolata, in tutto e per tutto solitaria: veniva da un contesto di relazioni e letture comuni, apparteneva a una corrente, quella della mistica siro-orientale, che include vari autori: alcuni a lui contemporanei, come Simone di Ṭaybuteh e Dadišo‘ Qaṭraya, e altri del secolo successivo, come Giuseppe Ḥazzaya e Giovanni di Dalyatha. Era un universo quindi, che impedisce di pensare il solitario come una persona completamente slegata da un contesto di riferimento.  Caravaggio, San Girolamo in meditazione, 1605 ca. Nei suoi scritti, parla dell’analisi che Isacco dà della condizione umana: in cosa consiste?  Isacco colpisce per come è in grado di tracciare una fenomenologia delle dinamiche interiori: all’interno di queste –  come l’incontro con le passioni, con situazioni di tentazione, o di malattia – l’uomo incontra una condizione di limitatezza, che Isacco chiama “debolezza” (mḥilutā). Isacco la interpreta come una condizione ontologica: nei suoi scritti si riferisce ad essa come una caratteristica della “debole schiera degli uomini” (III 7,6), condivisa con Adamo, di cui, dice, “portiamo l’odore” (I 5). Questa condizione non è legata solamente al peccato, quindi a una debolezza di tipo morale, ma è una condizione di fragilità originaria, non trascendibile. Questa condizione di debolezza ontologica include anche la soggezione alla morte, che è il problema principale per le creature assieme alla sofferenza. C’è quindi una precedenza, in Isacco, del problema ontologico su quello morale. Nella lettera ai Romani Paolo dice, in riferimento ad Adamo, che il peccato entrò con lui nel mondo e con esso, di conseguenza, la morte (Rom 5:12). Quindi in qualche modo per Paolo, e per la maggior parte della tradizione cristiana, è dal peccato che deriva la morte. In Isacco invece è il contrario: è dalla morte che deriva il problema del peccato (questa concezione proviene da un autore importante per i siro-orientali, Teodoro di Mopsuestia). E non si tratta per Isacco di un rapporto così diretto: non è dalla morte che deriva, quasi necessariamente, l’essere peccatori, ma è per paura di questa mortalità, di questo limite costitutivo, che avviene la caduta, che porta a una condizione di limitazione anche morale.  Quindi, è come se il peccato sorgesse da un tentativo di fuga. Le stesse passioni, in questa prospettiva, possono essere lette come meccanismi difensivi ed elusivi dell’incontro con questa dimensione di limitatezza creaturale. Isacco invece delinea un percorso in cui è possibile cercare di relazionarsi con questa condizione mortale, senza cercare di superarla, perché è insuperabile così come insuperabile è la nostra condizione creaturale. Nella stessa creazione per lui è inscritto che l’uomo sia mortale. Se mai ci potrà essere un trascendimento di questa condizione questo avverrà solo per grazia. Non si tratta di qualcosa di originario a cui tornare, come se dovessimo ritrovare una condizione edenica, ma di qualcosa che sta davanti a sé, come dono possibile. Perché, secondo Isacco, l’uomo è stato creato con questa strutturale mancanza?  Isacco non parla tanto del perché, riflette più che altro su una condizione che c’è. La sua scrittura è sempre innanzitutto esperienziale e parte dalla necessità dell’altro, dalla domanda che pone il discepolo. Sul perché di questa condizione, però, si possono chiamare in causa due elementi. In 2Cor 12 7-10 Paolo dice che “gli è stata data una spina nella carne”, e chiede che questa gli sia tolta, ma “il Signore” gli risponde: no, “ti basta la mia grazia, la mia forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Isacco riprende questo passo paolino per esprimere l’idea che in qualche forma, e grazie a una certa relazione con la debolezza, si può scoprire l’alterità della grazia.  Oltre a questo, però, c’è l’idea che tramite questa relazione con la debolezza, non solo si scopre Dio, ma la propria condizione di uomini. Questo secondo elemento è centrale: l’assunzione di sé come uomo. Il percorso non è: ho la debolezza e quindi mi merito la grazia, che mi libera da questo problema; ma: ho la debolezza e me ne faccio carico. Mi relaziono dunque con me stesso, con il mondo delle passioni, con il mondo del dolore fisico. Ed è solo grazie a questo scoprirsi uomini, e prendere in carico la propria condizione, che si può anche entrare in relazione con l’alterità di Dio. Isacco ha un forte senso di questa alterità, del mistero verticale di Dio. Io credo provenga proprio dalla percezione di sé come creatura. Anche per questo Isacco può stupirsi della venuta del Cristo, che discende fin qui. Se non si avesse il senso di questa trascendenza di Dio non si potrebbe neppure percepire la meraviglia dell’avvenimento della venuta del Cristo. Hieronymus Bosch, San Girolamo in preghiera, 1482 ca. È a questo relazionarsi che Isacco si riferisce quando dice che si deve “portare” la propria debolezza?  “Portare” (sbal, ṭ‘en, saibar) è un termine che in Isacco indica il “permanere dentro” a una situazione che può mettere alla prova, il “dimorarvi”. Può essere una situazione di dubbio, di tensione, di negatività. E questo avviene mettendosi “sotto” questo elemento negativo, portandolo appunto, nel senso del sostenerne il peso. In questo sostenere “dimorando a contatto” si sviluppa una relazione con l’elemento negativo, lo si abita, ed è in questo “abitare” che poi è possibile una trasformazione. Anche se è vero che per Isacco questa trasformazione avviene sempre per grazia. Quello che noi come uomini possiamo fare è appunto abitare, permanere, anche nella contraddizione, nel dubbio. A fronte di molte narrazioni che bonificano la realtà, credo che Isacco ci aiuti a mettere al centro la questione del negativo. Come qualcosa che però stimola una posizione attiva, e non succube, dell’umano. È da questa postazione e da questa azione, che poi può scaturire una trasformazione.  Isacco dice che il fatto “che una persona possa rimanere nella calunnia senza tristezza [è] perché il [suo] cuore inizia a vedere la verità” (I 5). In questo “rimanere in”, “abitare” e “permanere sotto” qualcosa avviene, ed è qualcosa che non ha a che fare con la nostra volontà: esso accade, si manifesta, “sorge” (dnaḥ), come Isacco spesso scrive, e noi allora lo riconosciamo come verità, e lo accogliamo. Per riferirsi a questo Isacco usa, in un passaggio, il termine “germinare” (II 34,2), che non parla di un atto di volontà, o di possesso, ma di un misterioso accadere. Quello che noi possiamo fare è portare, sostenere il negativo, rimanendo aperti. Tanto è vero che Isacco nelle sue Centurie di conoscenza (II 29) parla di un dolore che viene da Dio ed è per Dio, e un dolore che invece non viene da lui, come quando ci si sente solo colpevoli del proprio peccato, e chiusi al suo interno. Questo non è per lui un portare, ma un soccombere. Il portare, già in sé, mantiene l’apertura alla possibilità di ciò che con esso può venire. Quindi attraverso questo “portare” il proprio limite si entra in relazione con ciò che è altro da sé?  Non solo, anche con quella parte altra di sé, limitata e sofferente, con cui normalmente non si vorrebbe avere nessuna relazione. Solo dopo che si è fatto questo si entra in relazione con l’Altro di Dio, che si manifesta come grazia; e anche con l’altro nel senso dell’altra creatura, anch’essa limitata e sofferente. In Isacco è nota questa dimensione di amore radicale. In un passaggio molto conosciuto, alla domanda “che cos’è un cuore misericordioso”, risponde:  > “È l’ardere del cuore per l’intera creazione: per gli uomini, gli uccelli, gli > animali selvatici, i demoni e per tutto ciò che esiste. […] Il cuore […] non > può sopportare di sentire o vedere un danno o una piccola sofferenza di una > qualche creatura. Per questo, [l’uomo] prega in ogni tempo con lacrime anche > per gli animali irrazionali, per i nemici della verità, e pure per coloro che > gli fanno del male, affinché siano protetti e rafforzati – [prega] addirittura > per i rettili, a causa della grande compassione che si riversa nel suo cuore > senza misura, a somiglianza di Dio” (I 74). E come si può, nel concreto, relazionarsi con il limite senza fuggirlo? In Isacco c’è un’intensa descrizione dell’incontro col negativo. Si può fare un esempio, che si riferisce alla sua forma più estrema, che Isacco chiama “tenebra” o “oscurità” (ḥeškā; ḥešōkā;‘amṭānā). Indica uno stato in cui ci si sente completamente persi, e si perde anche la possibilità della fiducia in Dio. È “un’ora”, scrive, “piena di disperazione e paura”, in cui “la speranza in Dio” e “la consolazione della fede”, completamente nascoste all’uomo, vengono meno, e si è avvolti dal dubbio (pligutā)” (I 48), una parola siriaca che significa anche “divisione”. Davanti a questo venir meno della fede Isacco ha indicazioni varie. La prima è gettarsi in ginocchio e pregare, per cercare relazione, nell’umiltà dell’inginocchiarsi. Ma poi, se la preghiera non basta e viene meno, scrive: “Se non hai la forza di controllare te stesso e di cadere sul tuo volto in preghiera, avvolgi il tuo capo nel mantello e dormi, fino a quando l’ora dell’oscurità non sia passata da te, ma non uscire dalla tua cella” (I 48).  Questo semplice gettarsi a terra ed attendere, questa “azione muta”, in cui non è tematizzato ciò che si cerca e neppure più si è in grado di cercare, ma si sceglie tuttavia di “stare”, può veicolare, misteriosamente, un’attesa, e la speranza che qualcosa in esso possa manifestarsi. Ma in primo luogo è un “permanere dentro”, un “abitare”, appunto uno “stare”. Si tratta di parole che trovo interessanti per un contesto contemporaneo, che non necessariamente include la fede, o la preghiera. L’analisi che dà Isacco è interessante per due aspetti. Da un lato egli tenta di tenere aperto, nel lettore, un canale, dicendo che lui stesso più volte ha sperimentato questi stati, e che quel momento passerà. Ed è importante che il lettore ricordi questa cosa: che passerà. D’altro canto però dice che, passargli in mezzo, è una “Gehenna noetica” (I 65). Dunque non bonifica, riconosce il negativo come negativo: dire che passerà non toglie nulla all’intensità e alla problematicità del passaggio, poiché per colui che lo attraversa quella è l’unica realtà. In questo modo Isacco onora il vissuto del sofferente. Però la tradizione cristiana è stata spesso accusata di aver esaltato questa dimensione della croce e del patimento. Che differenza c’è invece tra il portare di cui parla Isacco e un servile sottomettersi al potere? È vero che un certo tipo di discorso sul dolore può portare a una dimensione che schiaccia e avvilisce. La differenza però la fa il soggetto che si confronta con esso, e qui torniamo al tema della relazione, presente in Isacco, e che lo rende così moderno. C’è una relazione che l’uomo può sviluppare con il proprio dolore. Il portare in Isacco non è un essere schiacciato dal dolore e neppure solo un “sopportare”, ma un cercare costantemente di sostenere la relazione con la prova, e così questo portare forgia la forza del soggetto e veicola in lui un’apertura e una trasformazione. C’è sicuramente una linea della tradizione cristiana giustamente criticabile, ma c’è anche una linea che io credo essere valida e vitale e che ha cercato una relazione con la sofferenza. Quella posizione attiva e di ricerca di vita chiama l’elemento trasformativo. Molte persone, non solo i mistici, hanno raccontato di questo: penso a quanto alcuni hanno scritto di fronte ai drammi del Novecento. Non credo quindi che il cristianesimo sia il problema, penso che il problema sia la rimozione del soffrire. La croce, come il Getsemani, sono momenti fondamentali nella nostra vita di tutti i giorni, centrali nella tradizione cristiana: non possono essere rimossi. La resurrezione stessa, e la grazia, non sono comprensibili senza quell’altro aspetto. La sofferenza ci interroga, e facendo ciò è qualcosa che ci evoca come soggetti, perché se siamo messi alla prova ci chiediamo chi siamo, cosa desideriamo, dove vogliamo andare. Isacco, in proposito, riprendendo un passaggio di Macario sui mutamenti, dice che è come il tempo atmosferico: c’è la pioggia e poi il sole, la grandine e poi il sereno, così è la vita di noi umani (I 72). È impensabile che ci sia solo il sole. Isacco è coerente con questo quando dice: “non pensare che io ti possa nutrire solo di miele” (II 28). Il che non vuol dire che non si deve godere della bellezza e del sereno, non è un’esaltazione del dolore. Isacco in proposito ha delle pagine bellissime sull’amore di Dio, sull’amore radicale per la creazione e per gli altri uomini. C’è in lui, come in molti altri mistici, tutto un lato di positività e di luce. Ma insieme c’è il tenere conto che la vita umana è complessa e contraddittoria: accanto alla luce ha il dubbio, ha l’assenza di fede, ha la sofferenza, e noi non possiamo pensare che la vita umana non abbia anche questo. O comunque se si tenta di pensare così si perde tanto.  È in questo che consiste l’ascesi?  Sì, anche. Per Isacco in essa il percepire questa sofferenza e questa mancanza è un elemento centrale. E questo percepire il dolore si deve sostenere, perché si può essere feriti, ma poi ritrovarsi distrutti. Invece, si deve sostenere la ferita. Quindi sì, percezione del dolore, ma anche forza. Il discorso di Isacco sul portare la debolezza non elude mai il fatto che il soggetto debba esercitare una forza per portare questa condizione ontologica, uno sforzo di tenuta. In questo senso l’ascesi è una via, per Isacco, di formazione di sé. Si tratta anche di tecniche, di modalità, che hanno lo scopo di insegnare a sostenere la difficoltà, o di relazionarti con i pensieri. L’elemento della pratica, della disciplina, dell’esercizio è importante, anche se non va sopravvalutato, perché poi l’incontro con l’inatteso non può essere disciplinato.  Isacco traccia questa distinzione anche nella preghiera. Da un lato parla di tecniche della preghiera, sia corporee, come le prostrazioni in ginocchio, simili alle metanie ancora oggi praticate nella tradizione ortodossa, sia mentali. C’è poi, però, un momento in cui tutto questo, queste tecniche, anche quelle mentali, cessano, e si entra nella “non-preghiera”: è quando la grazia si dà, e la tua tecnica finisce. Viene anzi interrotta, e Isacco dice più volte che se in quel momento tu cerchi di applicarla fai un errore. La tecnica può quindi sì, diventare una gabbia. Nel momento in cui accade il mistero, e vieni toccato dal mistero, devi lasciarti andare ad esso. Cosmè Tura, San Girolamo penitente, 1470 ca. E in cosa consiste questa dimensione di “non-preghiera”?  Sul tema della “non-preghiera” hanno scritto molti studiosi di Isacco. Si tratta di quell’oltre in cui l’agire umano si fa da parte, e subentra quello di Dio. In quel momento si è, per citare il titolo di un articolo di Paolo Bettiolo, “prigionieri dello Spirito”, cioè si è in un luogo dove l’azione umana, anche la più nobile, il portare stesso di cui si diceva, cessa, e Dio si dà. Sono luoghi misteriosi, che proviamo a nominare, ma di cui possiamo capire poco cognitivamente, però sappiamo che è un oltre l’azione, un oltre il cognitivo, un oltre il discorsivo, e sappiamo che lì si dà un bene. È interessante che il pensiero e il comprendere abbiano un limite, oltre il quale si dà qualcosa che è al di là del soggetto, e che però il soggetto ha preparato, ha cercato in modo molto attivo. È un po’ la comunione contraddittoria di grazia e libero arbitrio. L’interazione tra queste due dimensioni esiste ed è indagata da Isacco, nella consapevolezza però che non c’è tra la grazia e l’esercizio di sé un rapporto causa effetto: c’è sempre un aspetto di mistero e di non sapere nel venire di Dio, non programmabile attraverso l’uso di tecniche. L’uomo rimane sempre su un crinale, dove non sa, e con questo non sapere deve fare i conti. Questo è anche parte della vita quotidiana: il capire che la vita ha dei ritmi, ha dei misteri, ha degli arenarsi, delle cose che non si possono controllare. Ma quando, e perché, questo rapporto col limite e con la morte è venuto meno?  Come studiosa delle fonti spirituali posso dire quello che vedo in questi testi. C’è stata la perdita di un duplice rapporto: con sé come creatura, e poi con una dimensione trascendente, altra da sé. Di sicuro nella modernità abbiamo perso il rapporto col materico, col fisico, che di certo questi autori avevano. Però, più che capire il come e il perché questa nozione di limite sia andata perduta, mi pare interessante notare il fatto che, eludendola, essa torni indietro di rimando nell’esperienza. Dovremmo interrogarla, e interrogare il limite e noi stessi, ciascuno nel suo intimo. Io non mi sento attratta dai discorsi ampi sulla società, mi viene invece da chiedere: nel momento in cui incontro il limite, come individuo, nella mia vita, che ne faccio? Sarò pronto ad ascoltarlo? A sostenerlo e farne qualcosa, e usare questa prova come apertura? A usarla come via per vedere me stesso e l’altro? Credo che i percorsi individuali che cominciano a ragionare così potranno trovare vie nuove di attraversamento per le difficoltà di oggi. Oltre la pressione del collettivo e le sue dinamiche di oblio. Secondo me non è tramite il tentativo di ristabilire la centralità del trascendente che si ritroverà il rapporto con esso e con il limite, sebbene comprenda questo tentativo, ma è tramite l’attraversamento dell’esperienza del limite che ci scontreremo con la necessità di interrogazione sul trascendente. Lì ognuno di noi sarà solo di fronte al mistero, al cercare una via di fronte al mistero. Credo, e grazie a Isacco, che solo portando il negativo si entra in relazione con il proprio limite, con la propria condizione creaturale, e di conseguenza anche con ciò che è altro da sé. Isacco usa spesso un termine, argeš, che significa “percepire”. E lo usa in riferimento alla debolezza, dicendo:  > “beato l’uomo che ha conosciuto la sua debolezza! Questa conoscenza sarà per > lui fondamento e inizio di ogni cosa buona e bella. Quando un uomo ha > conosciuto e percepito (argeš) che esattamente e in verità è debole, allora > trattiene la sua anima dal divagare” (I 8). C’è quindi un percepire e un conoscere, ed è solo percependo la propria debolezza, stando dunque in contatto con sé, che è possibile una conoscenza, e con essa una trasformazione. Credo che questo sia molto moderno, e trascende il fatto che qualcuno sia un solitario, un monaco o altro; ciascuno nella sua individualità è chiamato, credo, a fare questo, se gli interessa tentare di vivere con verità, cercando la verità.  Bianca Cesari * Fonti Prima Collezione P. BETTIOLO, M. GALLO (trad.), Isacco di Ninive. Discorsi ascetici 1, Roma: Città Nuova, 1984. S. CHIALÀ (trad.), Discorsi ascetici. Prima collezione, Magnano: Qiqajon, 2021. Seconda Collezione S. BROCK (ed.), Isaac of Nineveh (Isaac the Syrian).“The Second Part”, Chapters IV-XLI (CSCO, 554-555; Scr. Syri, 224-225), Louvain: Peeters, 1995. P. BETTIOLO (trad.), Isacco di Ninive. Discorsi spirituali: Capitoli sulla conoscenza, Preghiere, Contemplazione sull’argomento della gehenna, altri opuscoli, Magnano: Qiqajon, 1985 (ristampa 1990). Terza Collezione S. CHIALÀ (ed.), Isacco di Ninive. Terza Collezione (CSCO, 637-638; Scr. Syri, 246-247), Leuven: Peeters, 2011. Studio principale: V. DUCA, “Exploring Finitude”: Weakness and Integrity in Isaac of Nineveh (OLA, 309; Bibliothèque de Byzantion, 28), Leuven: Peeters, 2022. *In copertina: Maestro dell’Emmaus di Pau, San Girolamo, XVII sec. L'articolo “È l’ardere del cuore per l’intera creazione”. Dialoghi intorno a Isacco di Ninive proviene da Pangea.
May 8, 2025 / Pangea
Vivere per l’arte. Irène Némirovsky, la scrittrice infinita. Dialogo con Cinzia Bigliosi
Oggi sarebbe assurdo compilare una storia della letteratura francese senza considerare Irène Némirovsky, scrittrice che, pur sorvolandone superficialmente la biografia, porta in sé i traumi di sempre, di un allucinato oggi. Nata a Kiev, educata in Russia, cresciuta in Francia, morì troppo giovane, troppo brava, a trentanove anni, ad Auschwitz, nell’agosto del 1942. Ebrea accusata di essere antisemita, amata da Paul Morand e da Robert Brasillach, pur notissima ai suoi tempi è stata murata nell’oblio: oggi è notissima, soprattutto, per il romanzo postumo, Suite francese, pubblicato da Denoël nel 2004, tradotto l’anno dopo da Adelphi. Insomma: la sua storia – contraddizione topografica, salvezza e dannazione, amore e morte, successo postumo – sembra assembrare anche la nostra. Attaccando un pezzo pubblicato su “Avvenire” nell’aprile del 2014 (La folgorante vendetta di Irène Némirovsky), Cesare Cavalleri – da sempre, lettore affascinato e partecipe di I.N. – scrisse: “Non si finisce di domandarsi come mai una scrittrice come Irène Némirovsky (1903-1942) notissima in Francia e conosciuta anche in Italia negli anni ’20-’30 sia stata riscoperta solo nel 2004”.  Aveva, come sempre, ragione.  Per puro gioco, ho sfogliato i quattro tomi de “I contemporanei. Letteratura francese” editi da Lucarini nel 1981. L’impresa – straordinariamente completa – registra autori necessari, ma ormai pressoché scomparsi dal panorama editoriale come Alain e Barrès, Paul Fort e René Ghil (il suo profilo è firmato da Daria Galateria), Jules Romains e Francis Carco, Jean Giraudoux e Marcel Pagnol. Il consesso è quasi integralmente di maschi, tranne le solite note (Colette, Duras, Yourcenar, de Beauvoir…).  Oggi, appunto, sarebbe tutto diverso: Irène – assieme alle donne citate sopra – sarebbe al centro del canone francese, in compagnia di Céline, Malraux, Camus & Co. “Ristampata in tutto il mondo, il lettore rimane incantato dalla qualità pur disomogenea, ma sempre alta, dei molti romanzi” (Cavalleri). Merito – questo è ancora Cavalleri, in una aurorale recensione del 2010 – della “ossidianica penetrazione psicologica” dell’autrice. Da tempo, i suoi libri sono trasmutati in film. C’è dunque, in fondo all’oblio subito dalla Némirovsky – durato decenni – non soltanto il torbido gioco della torre del fato (grandi di ieri sono oggi misconosciuti; autori allora fraintesi sono finalmente celebrati), bensì il sortilegio della malignità, qualcosa di pervicacemente enigmatico, come di bicchieri spaccati in faccia al padrone di casa. Per questo, leggere la biografia Irène Némirovsky. La scrittrice che visse due volte (Edizioni Ares, 2025, nell’ormai efficacissima collana ‘Profili’) è un esercizio di onestà: la vita – votata agli incantesimi dell’arte, agli approdi di una solitudine incessante – di Némirovsky è, infine, lo specchio rovesciato dei suoi romanzi, ha i carati della tragedia europea. La biografia, poi, si legge come un romanzo (anche le note riservano sorprese), in virtù della penna, felice, audace (che bello, da pagina 108, scoprire analogie tra Philip Roth e Némirovsky in merito alla ‘morale’ dello scrittore, a un’etica che coincide con l’estetica) di Cinzia Bigliosi, francesista di spiccato talento – ha tradotto Stendhal, Maupassant, Laclos – che ha lavorato a lungo nell’opera di Némirovsky (traducendo, per Feltrinelli, Suite francese e per Ares, nel 2021, come Re di un’ora, alcuni “testi inediti” e il “capitolo ritrovato di Suite francese”).  Tutto comincia dall’incontro di Cinzia Bigliosi con la figlia di Iréne, Denise Epstein; non credo un caso, dunque, la dedica, in esergo alla biografia, ai “miei genitori”. La storia della letteratura è anche un lavoro di scavo tra gli scritti degli avi; è la suprema pubertà della reticenza e dell’inganno; l’uscita dalla cerchia felice dei primi affetti; la febbre del verbo – comunque, una questione di parentele, il ritorno al padre – o alla madre –, e così sia.  Qual è il romanzo della svolta della Némirovsky? Quale il romanzo tramite il quale penetrare nel mondo della Némirovsky? Penso che nella vita di scrittrice di Irène Némirovsky si possa parlare di due romanzi, di conseguenza, di due svolte in momenti capitali precisi. Riprendendo il sottotitolo del mio saggio, Irène visse almeno due vite editoriali ben distinte: David Golder è il romanzo che determinò la prima svolta e che, nel 1929, le diede immediata notorietà tra pubblico e critica. Quello che in assoluto resta il suo best seller non era la sua prima pubblicazione, ma ne segnò la carriera con un successo fulminante. L’editore Bernard Grasset, che sei anni prima aveva pubblicato il clamoroso Il diavolo in corpo di Raymond Radiguet e che il “New York Times” aveva battezzato come “il più grande tra gli editori”, se ne innamorò e organizzò un eccezionale lancio pubblicitario. Da quel momento, fino alla deportazione ad Auschwitz nel luglio 1942, Irène fu una prolifica scrittrice. Corteggiata dalla stampa, dalla radio e dal cinema, non restò a lungo estranea a polemiche che riguardarono, ad esempio, le accuse di antisemitismo mossele dagli stessi ambienti ebraici. Oltre a David Golder, il romanzo che permette di immergersi nel mondo némirovskyano è anche quello che ha determinato la seconda vita di Irène, vale a dire Suite francese.Pubblicato nel 2004, esplose in un successo mondiale che tuttora perdura e che l’ha definitivamente disseppellita dall’oblio in cui il suo nome era colpevolmente finito. È un testo unico, non solo in quanto incompiuto e postumo, ma anche perché le sole due parti che Irène ebbe tempo di concludere raccolgono in una certa misura la summa della sua poetica più matura, in primis il tema dell’esilio, rappresentato per esempio dalla polverosa confusione che avvolge l’esodo di milioni di parigini, la gerarchia sociale che si scardina sotto l’istintivo peso del più forte, il tutto governato con uno stile severo e un tono lirico.   Come entra la ‘russità’ nei romanzi francesi di Irène?  Vi entra in modo molto naturale, prima di tutto perché, nonostante parlasse, scrivesse e, come ricordava lei stessa, addirittura sognasse in francese, Irène Némirovsky, nata a Kiev nel 1903, vissuta a Mosca e Pietroburgo, era russa a tutti gli effetti, così come lo era la sua cultura di formazione (che crebbe insieme a lei parallelamente a quella francese incarnata dalla tata che la affiancò fin dai primi giorni di vita). Nella sua opera il mondo russo, anche se forse sarebbe più opportuno parlare di un mondo cosmopolita, è rappresentato da personaggi molto affini alla famiglia d’appartenenza della scrittrice, legati all’ambiente della finanza ebraica. Inoltre, Irène non dimenticò i poveri esuli, gli spodestati, gli ultimi della terra e per rappresentarli si rifece per cominciare alla figura della njanja, la vecchia balia russa, simbolo dell’esilio direttamente mutuato dall’opera dell’amato Aleksandr Puškin e alla quale dedicherà un omonimo racconto agli albori della carriera.  Quali sono i suoi scrittori prediletti, i suoi lari nella ricerca letteraria? Le passioni letterarie di Irène si fondavano su un immenso repertorio soprattutto classico di testi russi e francesi. Normalmente leggeva la domenica pomeriggio, il solo momento della settimana in cui servitù e genitori la lasciavano sola a casa. Gli autori più amati erano Stendhal, Balzac, Huysmans, Maupassant, Jean e Jérôme Tharaud, Dostoevskij, Puškin – al quale aveva intenzione di dedicare uno studio se non fosse stata uccisa prima, così come avrebbe voluto lavorare intorno alla vecchiaia di Rimbaud. Altri amati erano Byron, Wilde e Čechov al quale dedicò una biografia e all’origine di una grande influenza soprattutto nello stile dei racconti. Da adulta restò una lettrice famelica, scrisse anche recensioni di autori a lei contemporanei, con una predilezione per gli americani, come James M. Cain. Gli scrittori che tornano più di frequente negli ultimi mesi di vita, nella sua “nona ora”, quando era ormai divorata da depressione e angoscia, furono Tolstoj, al quale si rifaceva mentre scriveva Suite francese in un ipotetico parallelo con Guerra e pace, e Baudelaire di cui per esempio poteva citare a memoria i drammatici versi dedicati a Sisifo della poesia La scarogna. …e i suoi amici? Intendo, di quale considerazione godeva Irène ai suoi tempi?  Avere amici veri nel mondo editoriale credo che fosse cosa rara allora come lo è oggi. La considerazione di cui godeva Irène era sicuramente molto alta. Con il successo di David Golder Irène Némirovsky mise piede in un ambiente culturale che, tolta l’ingombrante presenza di Colette, era a impronta strettamente maschile. L’Académie française, così come l’Académie Goncourt, riviste importanti come “Toute l’édition” o “La NRF” erano tutte guidate da uomini. L’editore Grasset, che aveva per vocazione dichiarata quella di scoprire nuovi talenti (a spese dello stesso Proust fu il solo a raccogliere la sfida di pubblicare per primo Dalla parte di Swann), permise a Irène di occupare uno spazio inusuale per una giovane scrittrice fino a quel momento pressoché sconosciuta. Cresciuta nel lusso e in un mondo lontano da quello culturale, Irène coltivava l’ambizione di essere riconosciuta come scrittrice e quando, nel gennaio 1930, Frédéric Lefèvre, redattore capo di “Les Nouvelles littéraires”, le chiese di partecipare alla sua rubrica “Une heure avec… (Un’ora con…)”, ne ebbe un’importante conferma. L’intervista aveva toni condiscendenti e a tratti suonava piuttosto sospetta. Lefèvre vi definisce Irène “un bel tipo di israelita”, presentandola come “un accordo raro e perfetto, l’intellettuale slava, nota ai frequentatori della Sorbona, e donna di mondo”. Henri de Reigner firmò un’importante recensione di David Golder per le pagine di “Le Figaro”, ma la vera e propria consacrazione avvenne pochi anni dopo, nel 1936, quando l’importante “Revue des Deux Mondes” pubblicò un approfondimento della sua opera. Da quel momento Irène ne divenne collaboratrice, pubblicandovi racconti e romanzi a puntate. In quegli anni si tenne lontana dagli ambienti dell’avanguardia di sinistra dei surrealisti, così come dai circoli internazionali con sede a Parigi ai quali afferivano personalità come James Joyce, Gertrude Stein o Anaïs Nin, mentre i suoi libri venivano costantemente recensiti da critici come Robert Brasillach che nutriva per l’opera di Irène una passione costante anche se di intensità altalenante. Per concludere vorrei però ricordare soprattutto quello che fu senz’altro un amico fedele e fidato di Irène e che le restò vicino anche nei momenti più bui: l’editore Albin Michel che la aiutò finanziandola regolarmente, anche nei difficili anni della guerra, e che dopo la morte della scrittrice non abbandonò mai le due figlie.  Irène Némirovsky (1903-1942) Qual è l’aspetto della vita di Irène a suo dire esemplare, un monito a designare un destino? L’essersi illusa fiduciosamente. Dopo essersi salvata dalla rivoluzione bolscevica, Irène si convinse di aver trovato nella Francia una seconda patria, una vera terra-madre. Fin da piccola parlò solo francese, conosceva a memoria il Cyrano de Bergerac, le poesie di Baudelaire, passava le vacanze in Costa Azzurra, si orientava per le vie di Parigi meglio che in quelle di Kiev o di Mosca, aveva frequentato i salotti più chic, era stata corteggiata e celebrata dal mondo culturale. Le figlie erano nate a Parigi, frequentavano le scuole della capitale. Io credo che ad un certo punto, presa nelle maglie dell’illusione di una perfetta integrazione, Irène smise di ricordarsi di essere ebrea e di non essere francese. Pensava di essere semplicemente una scrittrice di successo con una vita sufficientemente felice. Sconcerta lo sgomento che traspare dalla lettera che indirizzò al generale Pétain il 13 settembre 1940, incredula di fronte all’applicazione indistinta delle leggi razziali a tutti gli stranieri, una cittadina seria e riguardosa, residente da tanti anni in Francia come lei si sarebbe aspettata la presunzione di innocenza, con la distinzione tra gli stranieri integrati – gente per bene, in regola con le tasse e dedita a rispettare e a onorare lo Stato ospite – e quelli indesiderati, dei bassifondi, malfamati e disonesti truffatori. Forse Irène ancora non aveva capito che per il governo collaborazionista lei non era che una ebrea e perdipiù straniera. Che idea di donna, del femminile proviene dai romanzi della Némirovsky? Un’idea di donna molto complessa e conflittuale, spesso scissa tra due tentazioni il più delle volte fallimentari: il vecchio modello borghese di madre e moglie e la spinta delle più giovani a rovesciare tale paradigma, cadendo il più delle volte sotto il peso della stessa atavica condanna. Le figure femminili nell’opera di Irène Némirovsky si muovono a coppia, come le madri (o le balie) e le figlie – dove il tema del tempo e dell’invecchiamento è preponderante, insieme alla mancanza di amore materno così come di riconoscenza filiale. Le donne descritte da Irène sono, con rare eccezioni, personaggi drammatici, ma di grande soddisfazione per la scrittrice che quando riusciva finalmente a inventarsi ad esempio una madre cattiva provava pura gioia.    La ‘morale’ dell’arte. Irène pare badare a una propria estetica più che a una sorta di cautela ‘politica’. I romanzi devono essere belli, non ‘buoni’. È così? Che conseguenze ha questa coerente sprezzatura nella vita di Irène? Quando fin dalle prime pubblicazioni fu accusata di antisemitismo, Irène spiegò che non si trattava di una posizione politica ma estetica e necessaria, e continuò a descrivere gli ebrei così come li aveva conosciuti, fino a quando poté farlo almeno. Si dichiarò antipolitica e si mosse senza troppo far caso al mondo che le stava bruciando intorno, agli ebrei che sparivano né alle recensioni nelle quali ci si riferiva a lei sempre più spesso dandole della slava. Vivere per la propria arte è pericoloso. Irène restò assorta e immersa nella scrittura fino alla fine. Anche quando era ormai certo che non avesse più tempo, scelse di correggere e di riscrivere lunghe pagine di Suite francese, investì le ultime ore di vita in quello che sarebbe rimasto il suo libro incompiuto e postumo. Era incauto, così come lo era stato scrivere di ebrei con nasi adunchi e un’inestinguibile brama di denaro, ma era ormai necessario morire per e nell’opera, un’immagine quanto mai proustiana. Tra il salvarsi e lo scrivere, Irène non ebbe dubbi e scrisse fino a poche ore prima di essere deportata.   Perché i romanzi di Némirovsky continuano ad affascinare, secondo lei? Cosa c’è in quella scrittura di allora che ci comprende, che ci prende, ora? È la stessa Irène che può rispondere a questa domanda con l’ultimo appunto che scrisse sul quaderno di lavoro l’11 luglio 1942, due giorni prima dell’arresto. Riflettendo sul senso della scrittura e, in generale, sul rapporto tra destino collettivo e destino individuale, annotò che la cosa più importante per lei era quella di ricordarsi che  > “i fatti storici, rivoluzionari, ecc. devono essere solo sfiorati, mentre > quella che viene approfondita è la vita quotidiana, affettiva, e soprattutto > la commedia che è specchio della realtà di tutti i giorni”.  Solo questo resiste nel corso dei secoli: la commedia di tutti i giorni, uguale ed eterna per l’individuo, come per noi e come per il lettore di Apuleio o di Rabelais. Un secolo prima di Irène Némirovsky Charles Baudelaire si rivolgeva al lettore chiamandolo mon semblable, mon frère. Io credo che l’irresistibile senso di familiarità che si prova leggendo Suite francese o Il ballo o Jezabel dipenda dall’eco inconfondibile che risuona nell’animo di ogni lettore di emozioni e sentimenti eterni, come la solitudine, l’estraneità, il tradimento, l’arrivismo, le promesse mancate, l’opportunismo, il terrore del tempo che fugge. È in fondo lo stesso motivo per il quale l’orrore di Amleto di fronte al letto paterno spodestato è anche un po’ il nostro, così come tutti ci troviamo quotidianamente posti di fronte a scelte etiche, dolorose e punitive, tra giusto e ingiusto, interrogandoci su se sia meglio essere o non essere.  L'articolo Vivere per l’arte. Irène Némirovsky, la scrittrice infinita. Dialogo con Cinzia Bigliosi proviene da Pangea.
May 2, 2025 / Pangea
Miracolo contro Necessità. Dialogo con Giancarlo Pontiggia
Qualche tempo fa, sfogliando il primo numero di “niebo”, la rivista in rivolta, ordita da Milo De Angelis. La copertina – nero su bianco – diceva “giugno 77”, si diceva – è vero – di Omero e di Paul Celan, di Hölderlin e di Gottfried Benn. Giancarlo Pontiggia compiva venticinque anni e in quel primo numero di “niebo” è il poeta più rappresentato. È difficile, per chi strologa tra fenditure di superficie, riconoscere nel poeta di allora, quello che scrive “Ah divaricata e ora dentro/ nella pietra lupestre sotto il luno/ le labbra/ il tuo stridere vento e strina la/ bocca”, il Pontiggia di oggi. Non è un caso se l’esordio di questo poeta antico e dunque perennemente giovane accada nel 1998 (Con parole remote, Guanda), vent’anni dopo quelle audacie, quelle ragazzate in versi. Eppure. Io trovo una continuità, rintraccio lo stesso discorso tra il ragazzo del “bestiario frigido e/ inquieto”, fitto di “animaletti e bestioline”, di “cielo e stelle”, e il poeta che oggi, nel suo libro più compiuto, ultimo, La materia del contendere (Garzanti, 2025), fa dire a Marco Aurelio, l’imperatore imperituro nel filosofare: > “Quando il tempo viene meno,  > e la ragione ci implora: ‘non interpellarmi più’,  > quando > nemmeno tu che hai governato il mondo,  > puoi più credere in quel mondo,  > onora la maestà del pensiero, sii fedele,  > sii > come uno che accende il fuoco,  > entra nella notte  > fa ssst,  > con il dito poggiato sulla bocca”. Quello che fa ssst, nel tempo senza tempo della poesia, è il Pontiggia ragazzo – il Pontiggia ragazzo che lancia un assist al Pontiggia di oggi – uno apre il fuoco, l’altro lo protegge: che ne imbiondiscano i sassi. Il Pontiggia ragazzo parlava di un “luogo delle fate”, scriveva – in un saggetto sgargiante per screziature grammaticali –: “Le bestioline lo azzannano, lo rodono, con la scienza del ghigno. È una corda senza nodi. Si straripa”. Io credo che La materia del contendere – titolo tratto da un passo di una poesia dall’attacco fulminante: “Tutto è pieno di dèi, di vita che pullula./ Oppure: non c’è un bel niente,/ ma un niente che pullula di sogni” – sia il punto in cui straripa la poesia di Pontiggia. Una corda senza nodi, cioè: un serpente; una corda che si fa parete di ghiaccio.  Pieno di fuoco, di fuchi del fuoco, questo libro, che ha per guardiani Eraclito e Virgilio, e diversi altri numi, numerosissimi, fatti melma, però, in un linguaggio che ha l’austerità di chi scruta gli astri, di chi fa affiorare presagi e precordi tra i dadi. A chi piace il gioco delle risonanze (un giogo, infine): veda, in controluce, il Pavese di “Leucò” (in Cos’è bene e cos’è male, ad esempio), qualche latino di fronte a un’Arcadia di rovine, frantumi di Borges, forse, i bagliori di un epigrammista, Ovidio meditato da Mandel’štam. Tuttavia, Pontiggia non è poeta di stucchi né di ‘mestiere’: è poeta avventato (cioè, che ha il vento dentro, non gli stagni odierni, artificiali), che si sporge nell’avvenire, è un poeta inattuale, del tutto, che traduce i ‘segni’ in versi.  Alcuni brani hanno il cataclisma della rivelazione; Il mondo nuovo, ad esempio: > “Chi se li ricorda, i tempi > di un tempo che fu, remoto, inaccessibile, > che compare, ogni tanto, in sogno, per chi sogna, > ancora. > Ma nessuno più sogna, credimi, > e questo è per voi, che venite di lontano, > l’ostacolo più grande: resistere > al sonno che vi invade, e annienta > la mente che ragiona. Dai sonni, lunghi e ramosi, > discendono i popoli dei sogni, che vi si appiccicano addosso, > come ragne liquorose nella cella > della mente. > Ma nessuno più sogna, qui, dal tempo > dei tempi che furono, e chi ci arriva, come voi, di lontano, > si abitua a non farne, > e così diviene simile a noi, ombra > come tutti” L’impeccabile equilibrio di Pontiggia è tale perché sempre sul punto del crollo, della brocca che non regge, del futuro in pezzi. In questo libro – così pieno di ombre, le frasche del fuoco, i suoi vessilli – il poeta s’intride nei primordi dell’uomo, dice l’uomo prima dell’uomo (“Qualcuno scende dal Pleistocene,/ appena dopo la grande glaciazione,/ dice/ che sta per giungere uno,/ un uomo, un mortale/ che aspira all’ordine dei cieli,/ cammina come se volasse…”), per scongiurarne l’incendio, forse, per un soprassalto d’assoluto.  Libro da studiare come si sondano i petroglifi, certi che oltre la pietra è carne ciò che ci artiglia, che il primate non ha il primato del linguaggio – e tutto, atrocemente, docilmente, ci parla.  La ricorrente brocca di Pontiggia fa pensare in effetti all’annaffiatoio del Lord Chandos di Hofmannsthal; anche il poeta, come quell’altro, può dire, “sento un gioco di corrispondenze entusiasmante, davvero infinito dentro e attorno a me… non v’è alcuna cosa in cui io non sia in grado di trasfondermi. Allora è come se il mio corpo fosse composto di vere cifre che dischiudono ogni cosa”. Questa continuità tra il poeta e il creato impone un continuo esilio dal dono: si è a sentinella, a protezione. È “la vita che ci assale”, scrive Pontiggia – porre un telaio nel caos, farne fuggire il filo come si rifugge da un fuoco troppo netto, dalla lama troppo tesa.  Insomma, a far tonsura di questo vagabondaggio per enigmi pretendo Pontiggia al dialogo. Da dove arriva questo libro, di ombre e di fuochi, del fiume e dell’ibisco, dell’allarme e del sussurro? Ne ricavo una via, bifronte, dalle epigrafi: si parte con Eraclito, l’oscuro, si chiude nel candore di Virgilio, ecloga decima. Insomma, dimmi.  Hai colto meravigliosamente, caro Davide, il senso delle due epigrafi, che devono essere considerate parte integrante del testo: due immagini-pensiero, due sentenze, entro le quali il libro si trova come raccolto. Il frammento eracliteo ci parla del moto incessante delle cose, e della contesa che lo governa: quello virgiliano della dimensione statica e utopica di un mondo pastorale, quasi una memoria dell’età aurea di cui aveva scritto Esiodo. Moto e quiete: due stazioni dell’animo umano, due modi della nostra percezione del mondo e del vivere. E il canestro che il pastore sta intessendo con il suo «ibisco sottile», è in fondo il libro che ho scritto: i poeti tessono da sempre i loro libri, li tessono e ritessono, e a volte anche li disfano, come una tela perenne, che è come una metafora della grande tela del mondo.  Parlano le ombre, in questo libro, “anime, stridono”, diresti. Mi viene da chiederti, allora, dove sono i morti, chi sono queste ombre che ci fanno visita e dimorano in noi, che cos’è, dunque, la morte… Sì, quante ombre, e quante visite, in questo libro. Molte affondano nella materia della mia infanzia, quasi uscissero da quel secchio che accoglie la pioggia della vita, e sta alle origini di ogni nostro sentire. A volte solo nomi, come quelli che compaiono alla fine della poesia intitolata In viaggio (Altre ombre, sogni, vento): compagni di giochi dell’infanzia, per i quali la vita fu così breve, ma colti in un momento di tregua, forse di splendore. E l’ombra di mio padre, che popola diverse delle poesie del libro, a cominciare da Una piuma d’oro, tutta intessuta intorno ad alcuni emblemi del mito – classico e poi cristiano – della Fenice. Ma ci sono anche ombre fantastiche, come quelle che vengono dalla grotta di Lascaux, o come la misteriosa voce che parla dietro la porta dell’Istmo, e racconta in pochi versi l’intera sua vita. E ombre di grandi, come Marco e Giuliano, che governarono il mondo, e si trovano all’improvviso a contemplare qualcosa che non avevano previsto. Ma questo è un libro di voci, ognuna delle quali porta con sé il proprio destino: voci che parlano, gemono, stridono, sognano, a seconda della loro natura, e del vivere che fu loro dato. Ciascuna con la sua sporta di gioie e di dolori, che s’insaccano nel gran bulicame delle cose del mondo. Ma cos’è morte, nessuno di noi lo può dire, anche se in una delle ultime poesie del libro si osa parlarne con l’unica logica possibile, che è quella del paradosso:  > «un salto  > che nessuno ha mai fatto,  > e tutti fanno». Vado a tentoni. Mi sembra che il tuo libro vada sfogliato come si sfibrano le braci del fuoco, in attesa, cioè, quasi, di una ‘rivelazione’: che sia cenere o abbaglio o bisbiglio. Già… ma quale rivelazione? Cosa insegui in questo peregrinare di fuochi, di catabasi, di sogni? Su questo libro hanno aleggiato, a lungo, le potenti immagini di un film come Ordet di Dreyer. Lo dico piano, quasi temendo di essere equivocato, ma questo è un libro traversato dai soffi dell’impensato, dove una brocca che s’infrange può tornare a ricomporsi, così come una foglia strappata dal vento tornare al suo ramo. Epifanie della speranza, mi piacerebbe chiamare queste immagini, che sembrano fare da argine al potere buio delle cose che devono seguire il loro corso. Miracolo contro Necessità. E così la morte, come nel Settimo sigillo di Bergman – un altro nume, da sempre, della mia immaginazione poetica – può anche essere distratta dal canto di nenia di una madre. Parlo della poesia intitolata A un passo da ieri, dove la Morte si posa  > «su una forcina di bimba,  > si assopisce per un po’ al dondolio di una cuna,  > di una nenia  > che sembra soffiata dentro un vetro  > una bolla  > di voce che ha il suono del vento, la luce  > della neve che scende».  Questa poesia è come la risposta alla crudele ninna nanna tratta (ma con molta libertà) da un frammento di Simonide: una ninna nanna per un bimbo che non è più, e che riposa «sotto un cielo di chiodi di bronzo». Ma questo è tutto un libro che procede per disgiunzioni e opposizioni: ed è questo il senso del contendere che il titolo esprime. Una contesa di forze che abitano il mondo come il nostro cuore. Penso alle anime che stridono, sì, ma sanno a volte parlarci con immagini di vita e di rinascita, sovvertendo ogni principio:  > «è > come essere in un nero  > che abbaglia, come  > scendere una scala, aprire una porta, trovarsi  > all’improvviso in alto»…  E anche qui, nella seconda parte della poesia, la Morte incespica, e cade (Anime, stridono). Sembri il più antico – e il più giovane, dunque – dei poeti italiani viventi, per quel dire che sa di Antologia Palatina, di stare al desco coi lirici antichi. Quali sono, in questa tua ricerca, in questa poetica, i tuoi lari, le letture, i maestri? Tantissimi, come puoi immaginare: la poesia, per me, non è mai stata un atto individuale, semmai un processo collettivo, che si stratifica nel corso dei secoli, insieme alla lingua che evolve, cambia, eppure è sempre la stessa, con le sue procedure, che sono logiche e analogiche insieme. Mi verrebbe da dire che in ogni verso di questo libro la contesa è tra immaginazione e pensiero, densità fisica e molecolare del mondo e impennate del cuore che non ci sta, e un po’ stride, un po’ canta. E i suoi lari, i lari che in una poesia compaiono per ripristinare – nella forma simbolica di una brocca – un ordine del vivere e del sentire che sta per andare in pezzi, sono soprattutto i filosofi morali che rileggo ciclicamente dagli anni della mia adolescenza: Seneca, Epitteto, Marco Aurelio, Montaigne, perfino il Nietzsche della Gaia scienza, con tutti i suoi dolorosi paradossi, i suoi patti mancati con la vita. E naturalmente i grandi tragici, che irrompono nell’età classica di Pericle mantenendo ancora intatte le energie immaginative di quella arcaica: parlo di Eschilo e di Sofocle, naturalmente, con le loro parole intinte di destino e di pietà, sorrette da una logica così inconfutabile, da poter affondare nelle acque del mistero. Mi sorprende leggere poesie che registrano le voci di Lascaux, voci pleistoceniche: quasi a cercare il punto in cui l’uomo diventò umano, il punto in cui iniziò la caduta, l’ascesa. Da dove provengono quei versi? Tocchi forse il punto decisivo del libro, che è tutto, dall’inizio alla fine, una meditazione sull’uomo e sulla sua storia. Il cuore del discorso sta, per quel che posso dire, alle pp. 63-68, dove si danno, nell’ordine, le seguenti quattro poesie: Lascaux, voce; Telai, gnomoni, yo-yo; Il mondo nuovo; Dal Pleistocene. Il mondo nuovo è quello che sta arrivando, e di cui ben poco, in realtà, sappiamo; e certo porta in sé i segni dell’infero. È un mondo laborioso e insonne, che si erge però su un vuoto inquietante, privo di desideri: un grande apiario umano disertato anche dal sogno e dalla parola. La poesia che parla di telai, gnomoni e yo-yo (un gioco dei miei anni Cinquanta, che molto fa pensare alle leggi della quantistica) è una meditazione sul tempo. Le altre due retrocedono nella misteriosa, profondissima fessura del preistorico, quasi una sorta di Rift Valley del tempo e della vita da cui salgono gemiti, voci, visioni. Poi succede che qualcuno, dal Pleistocene, scorga il futuro dell’uomo senza sapere «se è il caso di essere contento». O che un basolo della via Appia, dalla sua prospettiva, senta la fragile vanità dei processi storici, che si dissolve nella rete profonda della Natura. Ma un po’ tutto, in questo libro, parla di origini, di sacre acque, di disordini cosmici:  > «Ed è un bivacco di ere,  > che tumultuano, conglomerano. Padri  > che rotolano in altri padri. Materia  > che s’impenna, delira  > in vortici di fuoco».  > > (Dillo tu) La materia che delira è l’uomo: e in quel delirare – che etimologicamente indica semplicemente un uscire dal seminato, un contraddire delle forze in atto – è tutta la sua grandezza e la sua vanagloria. A un certo punto, l’intuire i pensieri estremi di Marco Aurelio. Perché proprio lui, l’imperatore pensatore che visse quasi sempre in guerra? A che quell’estrema rivelazione, dove pare “che il tempo non sia mai stato”? «Visse quasi sempre in guerra»: eppure volle persistere nel pensare. E non solo pensieri astratti, ma pensieri che nascevano da volti, luoghi, affetti. Il primo dei dodici libri dei suoi Ricordi è tutto composto di dediche: diciassette in tutto, e l’ultima è agli dèi. Diciassette, che in numeri romani significava morte: VIXI. Gli ho voluto prestare pensieri che nascono dalla disgregazione e dalla rovina della filosofia in cui aveva sempre creduto, che era poi lo Stoicismo nuovo di Epitteto, integralmente fondato sui valori etici. Eppure, nel penultimo di questi frammenti, Marco sente che proprio per questo bisogna continuare a onorare la maestà di una dottrina, restare fedeli a qualcosa che fu grande. L’epoca di Marco è molto simile alla nostra: un mondo sembra finire, la mente umana sembra precipitare in forme che lasciano perplesse le menti migliori, e le riempiono di una misteriosa inquietudine, ma anche di uno strano senso di attesa, come si dice nei primi due frammenti della poesia, che andranno letti congiuntamente. Come se il secondo completasse, nella mente di chi pensa, il primo, ma dopo un certo lasso di tempo. E in mezzo a quel vuoto, è tutto lo stupore dell’inaudito, lo stupore che secondo Aristotele stava all’inizio di ogni forma di conoscenza: > «Inseguendo il fruscio del vento una sera mi persi  > in un anfratto di vita nascosta»…  > «E vidi stelle che non brillano per noi, eppure brillano, > e nomi di popoli che non conosciamo».  Quale il distico, il cuneo di versi che meglio ti distingue, in questo libro, e perché? Tra le tante, scelgo una sequenza che sta proprio all’inizio del libro, ed è la strofe conclusiva della poesia intitolata Un secchio (Origini).  > C’è un cuore austero > prima di ogni verso > e sogni, e cieli, e intonaci > e tutta la vita del mondo > che stride, gorgoglia > come un ranocchio di fiume > al suo primo salto Dentro questa poesia ci sono le mie origini, che affondano in un mondo rurale: quel secchio è un secchio vero, come tutte le brocche, le scodelle, i chiodi, le stoffe, i bicchieri, le anfore che popolano il libro: oggetti primi del vivere, un po’ come le lettere e i suoni dell’alfabeto per la nostra lingua. Dentro quel secchio ci pioveva l’acqua del mondo, vera e simbolica insieme, come sempre dev’essere ciò che entra in un verso.  E dentro quell’acqua, ci sono anche le mie origini poetiche. Se parlo di un prima della scrittura, è perché credo che la poesia non sia un mero esercizio di lingua: occorre una lingua per fare poesia, ma prima ancora una visione, che viene da lontano, cioè da ben prima di noi, da una genealogia di padri e di madri, di storie e di luoghi che sono ancora qui, e popolano il nostro immaginario.  Ma questo, per come è stato scritto e mi si è mostrato a un certo punto del suo tragitto, è tutto un libro di cose prime: quelle che contano per davvero, che designano una forma del nostro essere, e trovano il loro senso – starei per dire un compimento, se la parola non rischiasse discorsi fuorvianti – nella piccola cella del nostro cuore. Di cose prime, ma anche ultime: perché ultimo non è altro che l’anello che si aggancia al primo. Bisogna mantenere la purezza prima, austera del cuore, per scrivere un verso, e lo slancio di quel ranocchio che gorgoglia al suo primo salto.  Lui è Giancarlo Pontiggia E ora? Dove cerchi? Ancora sto seguendo l’onda di questo libro, che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere il mio libro più limpido e leggibile, e che invece mi sta apparendo, dopo la pubblicazione, come il più labirintico, forse il più enigmatico fra quelli che ho scritto.  C’è qualcosa di pauroso e di luttuoso nella storia dell’uomo, che ben conosciamo, ma che le nuove forme della tecnologia stanno liberando da ogni senso di pudore e di rimorso: il futuro che ci attende sarà probabilmente un mondo feroce e anestetizzato, dominato dalla sofistica delle nuove macchine, e da una sorta di devitalizzazione dei sentimenti. Ma questa è solo una previsione, confortata dal fatto che di solito le previsioni umane non sono mai all’altezza dei fatti: e questo ci riempie di sollievo. Vorrei ricordare al lettore giovane, inevitabilmente fuorviato dal poco che ancora conosce del tempo e delle sue infinite accensioni, che i processi della storia sono soltanto una fortuita accozzaglia di possibili, alcuni dei quali entrano nel presente come se fossero più veri degli altri: ma lo diventano, non lo erano.  Come scriveva Baudelaire, L’imagination est la reine du vrai, et le possible est une des provinces du vrai(«L’immaginazione è la regina del vero, e il possibile una delle province del vero»), che è un’osservazione stupefacente, quasi una definizione di ciò che la poesia dovrebbe sempre essere, indipendentemente dal tema che assume: non puoi escludere il vero dalla tua riflessione, né fingere che la storia non ti modelli, ma neanche puoi arrenderti all’idea che il mondo sia soltanto quello che vedi. E mi viene in mente la prima parte di un frammento di Eraclito:  > «La vita è un fanciullo che gioca, che muove i suoi pezzi sulla scacchiera».  Sì, la poesia porta in sé questa energia vitale, danzante, che alla fine vince ogni malinconia: per dirla con Esiodo, sono i piedi delle Muse che battono sull’Olimpo.  *In copertina: Georgia O’Keeffe, Starlight Night, 1917 L'articolo Miracolo contro Necessità. Dialogo con Giancarlo Pontiggia proviene da Pangea.
April 24, 2025 / Pangea
Augusto Del Noce: elogio di un pensatore “inattuale”. Dialogo con Luciano Lanna
Augusto Del Noce, fu tra i più notevoli e “inattuali” interpreti tanto del XX secolo, quanto di quella tradizione filosofica italiana che nasce sotto gli auspici e la lezione di Giambattista Vico. Un pensatore cristiano (anche se tale categoria è estremamente riduttiva) che oltre le facili categorie gramsciazioniste, storiciste e reazionarie dell’epoca cercò una via alternativa (ispirata alla tradizione filosofica italiana e cristiana) per pensare il Novecento e l’Italia. Delineando una filosofia che decodifica i veri nodi della modernità e profetizza con lucida contezza i tanti sviluppi e le tante derive del panorama politico e culturale italiano ed europeo. In questo senso la lettura di Augusto del Noce si prefigura come una tappa obbligata, per laici e cristiani, razionalisti e irrazionalisti, e lettori delle più varie famiglie culturali e politiche, per confrontarsi con le vertigini della modernità e i nodi del pensiero e della politica contemporanea. Per tale ragione non può non essere letto il nuovo saggio sul pensatore torinese scritto da Luciano Lanna (attualmente direttore del Centro per il libro e la lettura del Ministero della cultura):  Attraversare la modernità. Il pensiero inattuale di Augusto Del Noce, edito da Cantagalli con una densa prefazione di Giacomo Marramao e un inedito testo delnociano del 1961. Lanna, studioso irregolare, lettore infaticabile ancor prima che giornalista (professione che ha svolto per tanti anni), ha dedicato al pensiero e alla cultura la sua nutrita attività saggistica. Dottore di ricerca in scienze filosofiche e sociali, si è sempre interessato del pensiero del Novecento e delle ricadute del movimento delle idee sul piano politico. Per meglio comprendere le idee e il pensiero delnociano abbiamo, quindi, intervistato il direttore Luciano Lanna. Quali sono i tratti caratteristici della figura e del pensiero di Augusto del Noce e quanto è attuale la riflessione delnociana? La riflessione del filosofo torinese si colloca per intero all’interno di quello che Hobsbawm definì il “secolo breve”, non fosse per il fatto che Del Noce nacque nel 1910 e ha lasciato questa vita alla fine del 1989. Dico questo per spiegare come il suo pensiero si è subito modulato come una interpretazione filosofica del presente storico. Per Del Noce una filosofia che non fornisca risposte agli interrogativi che il proprio tempo presenta si annulla di valore. E anche per questa attitudine, per la sua natura di filosofare attraverso la storia, definisce una inevitabile valenza di attualità. Rileggendo bene alcune profezie delnociane successive al 1963 si rilevano molti dei tratti caratteristici del nostro presente, soprattutto quelli più inquietanti. Tanto che paradossalmente, nel sottotitolo del mio libro, parlo di “pensiero inattuale”. Ovvero? Proprio nel senso di una capacità di saper guardare oltre i limiti del presentismo anticipando scenari a venire.   Perché la filosofia di Del Noce è metapolitica?  Perché, sin dall’inizio, si prospetta come una filosofia in presa diretta con il presente storico e con la storicità in generale. È uno stile filosofico che conduce inevitabilmente a un percorso metapolitico in cui la riflessione teoretica si contamina con la storia e con gli eventi politici e il pensatore esce consapevolmente dall’accademia per confrontarsi con tutte le forze in campo nel processo storico in cui si è coinvolti. Ogni autentica battaglia politica è anche, per Del Noce, una battaglia filosofico-culturale, e dietro ogni vero dibattito politico non può non soggiacere, e quindi essere elaborata, una interpretazione della storia contemporanea che tenga uniti principi filosofici e lettura del processo storico. Sarà un pensatore postmarxista come Costanzo Preve a attestare la lungimiranza di questa attitudine delnociana spiegando che  > “quando il momento politico propriamente detto appare bloccato è > indispensabile una deviazione verso un momento metapolitico, perché solo > all’interno di una conversione metapolitica preliminare può avvenire una > rinascita su nuove basi del momento politico propriamente detto”. Come si colloca Augusto del Noce nel Novecento italiano ed europeo? Si colloca nel cuore di quel dramma ed esperimento filosofico-politico che è stato il Novecento, sia italiano sia europeo. Per quanto riguarda in particolare il nostro paese, Del Noce era infatti convinto della centralità e della paradigmaticità della esperienza italiana sulla interpretazione transpolitica dell’intera storia contemporanea. E questo, va precisato, non arbitrariamente o per partito preso, ma anzi con argomentazioni fortemente stringenti e motivate. Quando parliamo di esperienza italiana ci si riferisce alle specificità politica e culturale dell’Italia quale campo sperimentale dell’intelligenza politica e filosofica nell’approccio alla modernità. Per dirla tutta: Del Noce coglie nella via italiana alla modernità una serie di percorsi – da Vico alla filosofia del Risorgimento, passando per Dante, Gramsci e Gentile – in grado a suo dire di comprendere il Moderno in tutte le sue sfaccettature. Di individuarne gli scacchi e gli esiti nichilistici ma, anche, di prospettarne uno sbocco diverso. Quello di una modernità con l’anima e aperta alla trascendenza. Stabilito che Gentile con l’attualismo perveniva allo stesso esito immanentistico di Heidegger, solo rovesciandone il pessimismo nichilismo in un futurismo ottimistico, Del Noce affronta – sino al suo ultimo libro, uscito postumo – la riflessione gentiliana che, a suo dire, obbligava a un ripensamento dell’intera storia della filosofia moderna. Al punto che “per affrontare la questione della modernità, l’attualismo è davvero un documento decisivo”. Ecco, l’opera principale di Del Noce, Il problema dell’ateismo, va intesa in questo senso come uno dei testi chiave, al pari delle opere di Heidegger o di Löwith, della riflessione novecentesca europea. Come si pone Del Noce rispetto al tema della “organizzazione della cultura” e nello specifico dell’egemonia culturale?  E qua arriviamo a Gramsci, che fu il teorico della cosiddetta organizzazione della cultura e del concetto di egemonia culturale. Autore al quale Del Noce dedica un suo importante lavoro del 1978, Il suicidio della rivoluzione. Ma sul tema Del Noce fu chiaro come pochi. Il pensiero dello studioso sardo conobbe, dopo varie alternanze, un periodo di successo in Italia nel periodo che va dalla seconda metà del ’74 all’autunno del ’76. La sua riscoperta si imponeva nell’ambito marxista dopo il declino di Lukàcs e il fallimento della scuola di Francoforte. Quando tutto sembrava mettere in luce come la via gramsciana fosse l’unica attraverso cui il marxismo e l’eurocomunismo potessero affermarsi in Occidente. È una riscoperta che condusse a una nuova contrapposizione nell’Italia degli anni Settanta: non più quella classista tra capitalismo e proletariato ma tra un “risorgente fascismo” e un “rinnovato antifascismo”, tanto da trasformare il fascismo in una categoria – come sottolineava Del Noce – “metastorica”. Il risultato è stata una ricomprensione italiana del marxismo attraverso una sua declinazione storicistica e illuministica che coincide con il compromesso con la borghesia in funzione antifascista. Scompare del tutta l’anima rivoluzionaria, messianica e soprattutto antiborghese del comunismo e si finisce in una declinazione, per così dire, laica, democratica e antifascista. È l’eurocomunismo. Per cui il gramscismo, secondo Del Noce, conduce dritto dritto al “suicidio della rivoluzione”, alla sua eutanasia, al suo cedimento alle logiche della società borghese e tecnocratica. La via nuova al socialismo, conclude il filosofo torinese, diventa transizione dal vecchio al nuovo capitalismo. Altro è il discorso delnociano sulla formulazione di una via metapolitica verso una egemonia diversa da quella neomarxista, illuminista o azionista. Tanto che tutto il suo impegno si mosse in questa direzione, a cominciare dal suo supporto decisivo a case editrici come Borla o Rusconi, guidate dal suo allievo Alfredo Cattabiani. Sino al suo collaborare con le riviste cielline come “Il Sabato” e “30Giorni”… Nel mio libro parlo esplicitante di “via editoriale alla metapolitica”. Che tipo di interpretazione dà il filosofo del Sessantotto? Non banale né scontata. Come egli stesso spiegherà in Appunti per una filosofia dei giovani, la contestazione se interpretata nel suo significato etimologico, era una messa alla prova della cultura immanentistica moderna. Se, nonostante il suo esaurirsi, l’immanentismo rimaneva attivo come mentalità dominante negli anni Sessanta, il cristianesimo e le culture sapienziali sopravvivevano solo come perbenismo borghese e come ricordo di un mondo consegnato al passato. Ed è proprio a questo compromesso di facciata che il ’68, secondo Del Noce, pose le domande necessarie e radicali da parte di giovani generazioni insoddisfatte dal compromesso. Poi, Del Noce, che troverà sintonia con la scuola di Francoforte e gli autori del primo ’68, contesterà la successiva deriva gramsciana e barricadera che il movimento intraprenderà. Così come Del Noce contesterà gli accenti surrealisti espressi da alcuni leader sessantottini. Mentre, in positivo, si ritroverà con la declinazione che della contestazione daranno don Giussani e i suoi amici.  Quale continuità c’è tra Del Noce e la migliore traduzione filosofica italiana (da Vico a Machiavelli, da Gioberti a Gentile)? Del Noce, ricordiamolo, è un filosofo cattolico che non si forma nell’alveo del tomismo o dell’università cattolica. Ha sempre avuto fede ma il suo percorso si delinea nell’ambito della cultura laica, di cui tenta di evidenziare le contraddizioni, le aporie, gli scacchi. Studia nello stesso liceo di Leone Ginzburg, Norberto Bobbio e Cesare Pavese. All’università studia con pensatori laici. Ma individua da subito una via alternativa rispetto al filone Bruno, Spaventa, Croce, Gobetti, Gramsci… In lui il filo è quello che parte da Vico, si innesta nel pensiero cattolico del Risorgimento, incrocia pensatori irregolari come Tilgher, Rensi, Martinetti… E si precisa nell’incontro col suo maestro Carlo Mazzantini.  Cosa intende per approccio ucronico alla dimensione storica e come mai tale paradigma è la chiave del pensiero delnociano? La storia, per Del Noce, non è come per tutti gli immanentisti, siano essi illuministi, idealisti, storicisti, marxisti o positivisti, un percorso lineare e deterministicamente inteso. La storia è aperta. Del Noce riprende un concetto coniato da Charles Renouvier, secondo il quale la storia non va vista come una freccia ma come un albero con tante ramificazioni possibili e dalle quali è sempre possibili ripartire. La modernità non è a una sola dimensione. Nessun determinismo potrà mai ingabbiare la storia. Ecco perché Del Noce è fuori del binomio tradizionalismo/progressismo. E la sua fiducia nella storia come continua e aperta esegesi è attestato da alcune parole del suo ultimo scritto:  > “Ora che è in via di esaurimento, il ciclo rivoluzionario si svela non un > processo irreversibile, come avevano ritenuto sia i progressisti che i > tradizionalisti, ma un processo storico reversibile, contro cui è dunque > possibile combattere”.  Del Noce negli anni della sua formazione scopre l’ucronia tramite Adriano Tilgher, un pensatore che mutuando il concetto da Renouvier lo utilizzò contro lo storicismo crociano. E in qualche modo, anche attraverso la meditazione del maestro di Renouvier (Jules Lequier), Del Noce ne adotterà l’ispirazione di fondo nel suo superamento di qualsiasi filosofia della storia.  Augusto Del Noce (1910-1989) Come nasce questo libro e come è evoluto nel tempo la sua stesura e anche il suo autore? Il libro riprende una mia tesi di dottorato proprio dal titolo “Attraversare la modernità. La filosofia di Augusto Del Noce”, ma di fatto è il risultato di un work in progress iniziato sui banchi dell’università, proseguito con il mio continuo confrontarmi con i saggi che Del Noce pubblicava sui quotidiani e su riviste. Ricordiamoci che Del Noce scriveva editoriali sul quotidiano “Il Tempo” nella stessa fase in cui Pier Paolo Pasolini scriveva i suoi sul “Corriere della Sera”. Tra l’altro il poeta di Casarsa era stato invitato a farlo dal vicedirettore del giornale di via Solferino che poi era Gaspare Barbiellini Amidei, un delnociano. Infine, per quanto mi riguarda, ho voluto comparare l’opera di Del Noce con quella di altri autori da me studiati negli anni, a cominciare da Gentile, Jünger, Zolla e Heidegger… Un lavoro che, nel tempo, ha affinato e approfondito la mia stessa prospettiva di pensiero, in particolare nella interpretazione della modernità. A quale frase e citazione di Del Noce è più legato? Senz’altro a questa:  > “Riflettere oggi sull’attualità storica non è affatto un sostituire alla > ricerca intorno all’eterno una ricerca intorno all’effimero: corrisponde > invece al senso preciso di una frase spesso ripetuta, che il compito che oggi > resta al filosofo è quello della decifrazione di una crisi. Perché, oggi, la > scommessa, ci è imposta dalla realtà storica stessa”. Francesco Subiaco *In copertina: un’opera di Nicolas De Staël L'articolo Augusto Del Noce: elogio di un pensatore “inattuale”. Dialogo con Luciano Lanna proviene da Pangea.
April 23, 2025 / Pangea
La vita come magia: Attilio Bertolucci, il poeta del batticuore. Dialogo con Paolo Lagazzi
La lucertola di Casarola è il titolo della poesia che battezza l’ultimo libro di Attilio Bertolucci, uscito nel 1997 per Garzanti. La scena ha la luce olimpica dell’infanzia, una specie di celestiale crudeltà. “Ricordo che bambino m’incitavano/ a mozzar loro la coda – non temere,/ rinasce, non temere – e io a rifiutare, caparbio, silenzioso”. La poesia parla, in forme sotterranee, di ciò che permane e di ciò che va, della cenere e dell’indomito. Nella caparbietà, nel vello del silenzio, si intravede – come l’autoritratto di un pittore del Rinascimento, viso che fissa lo spettatore dall’angolo tra la massa degli altri – la firma del poeta. Un gatto fissa la scena, la figura rettile che appare e scompare. L’ultima lassa sfiora l’oracolo, una forma verminosa della luce: > “Sciocca felina, ignara > dei cunicoli cui torna, non fugge, > l’abitatrice avanti te e me > di questa verde plaga occidentale”. Secondo Paolo Lagazzi – in un libro, La casa del poeta, di leggiadra magia, ora edito da La Nave di Teseo, che assembla “Ventiquattro estati a Casarola con Attilio Bertolucci” – si tratta di una poesia-rivelazione: “la lucertola appenninica, ricca di cunicoli in cui nascondersi per tornare, di sortilegi per riemergere dalle proprie ferite, racchiude in sé la forza di ciò che dura e durerà sempre, attraverso e oltre i dubbi e i dolori la vita – e la poesia che in essa si cerca e riflette”. Forse quel rettile – figura di una vita non rettilinea – simboleggia la poesia stessa di Bertolucci: all’apparenza comune, sorgiva, come l’erba e le lucertole; in verità, retrattile, sapiente al mezzogiorno, edotta nei meandri dell’oscurità. Così, nel suo discorrere – come di chi è uso ad abusare della pazienza dei morti, come chi sa imbonire il miraggio, disperdere l’inganno in una fiaba: si legga l’insuperabile Per un ritratto dello scrittore da mago, Diabasis, 1994, poi Moretti & Vitali, 2006 –, Lagazzi dice della luce frontale di Bertolucci, gioviale Giove, principesco nell’avita Casarola, conficcata nell’Appennino parmense; non ne cela le aspre ombre. La crisi-catabasi del 1958, ad esempio – gli anni in cui il poeta comincia la lunghissima elaborazione del poema familiare La camera da letto –, in cui Bertolucci sperimenta ‘il terribile’, il mostro interiore; il gemellaggio, spiazzante, tra allegria e desiderio di isolamento; amicizia e reticenza.  Con nobile andare, da patriarca, Bertolucci ha attraversato tutti i tempi della cultura italiana: negli anni Trenta dirige per Guanda la collana “La Fenice”; vent’anni dopo guida “Il gatto selvatico”, la rivista dell’ENI; sarà alla direzione di “Nuovi Argomenti”. Amico di Vittorio Sereni e di Pier Paolo Pasolini, fu consulente per Garzanti; con Viaggio d’inverno (1971), tra l’altro, ottenne l’“Etna-Taormina”, nell’anno in cui presidente di giuria era Eugène Ionesco. In calce a La casa del poeta, Bernardo Bertolucci, primogenito di Attilio, appunta, “Continuo a chiedermi: e io dove ero?”. A significare, credo, la placida inafferrabilità del padre; il talento di un padre di ‘liberare’ i figli, che sappiano librarsi da sé. Chissà fino a che punto i grandi film di Bernardo – Ultimo tango a Parigi, Novecento, L’ultimo imperatore… – sono debitori dello sguardo di Attilio. Nei ricordi di Pietro Citati – riferiti da Lagazzi – “Appena parlava c’era odore di prati emiliani, di Tasso, di letteratura inglese, di famiglia, di mucche, di dolcezza e di infinita saggezza”.  Bertolucci amava Thomas Hardy e William Wordsworth; amava Proust – ha tradotto Baudelaire. Certo, la sua opera può avvicinarsi a quella pittorica di Vermeer: una luce fiamminga, esatta, non priva di enigma. Nel Ritratto di giovane gentiluomo di Lorenzo Lotto, una lucertola sfida l’uomo che ci guarda, drappeggiato da un’insanabile mestizia, mentre sfoglia un libro. Creatura a sangue freddo che si nutre di luce, ne fa scorta per i suoi viaggi sotterranei – sapersi nascondere, disgustati dalle mode, è il tono del poeta. Luce-lucertola, nostra verde torcia.  Nella sua ultima intervista, concessa nel gennaio del 1977 alla Radiotelevisione Svizzera, Cristina Campo parla della lucertola come emblema della vita, al contempo solare e terribile: > “Non mi sono mai posta il problema, perché si vive? Per me è un miracolo… > Avere visto una lucertola che prendeva la buccia di una pera, stando sopra il > mio piede, e la portava alla femmina, come un dono, mentre il sole tramontava. > Ecco, che bello essere creati… o che cosa spaventosa in altri momenti”. > > (in: Ottanta poetesse per Cristina Campo, Magog, 2023)  La nuda vita, la mera vita – una fredda incandescenza, come la spada che fa lo scalpo al sole. Nella prefazione alle Operedi Bertolucci, inscatolate nei ‘Meridiani’ (Mondadori, 1997), Lagazzi dà forma al concetto così: > “Non molte sono le opere del secolo in grado di procurarci un così intenso e > nutritivo batticuore perché assai rara è la capacità di restituire la vita > nella sua struggente evidenza, e non solo come onda del tempo, fino al > mormorio più segreto (il fruscìo d’una tenda che sbatte, il brivido d’una > clessidra), o come brusìo di voci prima del silenzio finale, ma anche come > verità di colori, di corpi e di tracce irriducibili alla corrosione del > tempo”.  Quando sento Lagazzi, la sua gioia è già presagio di un gioco di prestigio. “Andremo a Casarola… ti porterò a Casarola… e sarà una giornata memorabile”. E s’intuisce già, nel fondo, il mormorio dei prati, le lucertole che guizzano, quei rettili delfini, un dio aprico, con l’ascia e l’aratro, e il mormorio della parola memorabile fa di questo mondo, immediatamente, una ventura. Che la cosa, poi, accada, o rimandi all’assalto dell’impossibile, poco importa. Il grigio non esiste.  Bertolucci, ancora: descrivimelo in tre aggettivi. Potrei dirti che era seducente, vero e imprendibile.  Col primo aggettivo voglio dire che aveva quel dono molto raro, forse concesso dagli dèi solo ai maestri, che è il fascino personale nel senso più profondo, psichico, magico, sciamanico. Avvicinarlo davvero era impossibile senza lasciarsi sedurre, incantare, plagiare.  Col secondo aggettivo voglio sottolineare che il suo modo d’essere, per quanto tendente all’affabulazione nel quotidiano e alla rêverie nella scrittura, non era mai astratto, non fuggiva mai per la tangente, non si perdeva in discorsi vacui o retorici: c’era in lui, vivissimo, un bisogno di chiarezza, concretezza, fisicità, un bisogno di muoversi con un passo e un respiro giusto che era anche una necessità etica, e che nasceva dalle sue radici contadine e cristiane.   Nonostante la sua concretezza era a suo modo imprendibile, e dicendo questo alludo al fondo mercuriale del suo spirito, alla sua intima mobilità, al continuo trascolorare delle sue parole e delle sue fantasie tra le apparenze e i segreti della vita, ai suoi andirivieni fra naturalezza e malizia, agli spostamenti velocissimi del suo sguardo sul mondo, alla sua refrattarietà a essere incasellato in categorie, al suo grande bisogno di libertà, al suo sentimento della vita come avventura feriale, come magia e grazia, come radicamento delle parole e delle cose anche più umili e comuni nel mistero. Esiste, per tua esperienza, una consustanzialità tra il corpo del poeta e il suo corpus lirico, tra la tempra etica e quella estetica? Mi riferisco, va da sé, a Bertolucci: fino a che punto l’uomo combaciava con il poeta – e viceversa? Ha scritto Pietro Citati che sentirsi un poeta era per Bertolucci come essere “un bollito o una patata al forno”: una realtà naturale, accettata con assoluta innocenza. A mia volta ho ricordato nella Casa del poeta una lirica in cui Paolo Bertolani dice che Attilio sapeva trasformare in poesia qualunque gesto, fosse pure passare un giornale dalle proprie mani a quelle dell’ospite o versare il vino a tavola. Anch’io ho sempre avvertito una continuità essenziale fra la vita e la poesia nel carattere e nel destino di Attilio. Ciò non significa affatto che covasse il seme dell’estetismo. La fonte prima e necessaria della poesia era per lui la vita: la poesia non era vera se non si nutriva di vita, ma a sua volta “sentire” la vita nelle sue risonanze profonde non gli era concesso se non nella luce della poesia. Poiché era impossibile sbrogliare questo nodo con le forbici del pensiero, ho letto e riletto per mezzo secolo la sua poesia e ho camminato fianco a fianco con lui, ho respirato i suoi soffi lirico-epici e ho condiviso molti suoi momenti umani, soprattutto a Casarola. Mi sono lasciato intridere dal batticuore aritmico dei suoi giorni e dei suoi versi, ho cercato di accogliere e di lasciare che si muovessero dentro di me la luce e la pazienza, i lati umbratili e la joie de vivre che percorrevano il tempo della sua esistenza e le pieghe mobili della sua opera. Amava il jazz, il cinema, Verdi e Proust, è vero, ma qual è la vera ‘miccia’ culturale di Bertolucci, quella che lo animava? Forse il “la” alla creazione poetica di Attilio lo ha impresso la pittura, perché la sua poesia è anzitutto immagine, sguardo, visione. L’immagine è per lui il modo che ha il mistero vitale di manifestarsi nella luce. Guardare non è mai un esercizio “teorico”: è invece pura esperienza d’immersione nelle forme dell’essere, nei colori vivi e cangianti delle cose nel flusso del tempo. L’amore del poeta per la pittura precede l’incontro con Roberto Longhi (avvenuto nel ’35); già Sirio (del ’29) e Fuochi in novembre (del ’34) vibrano e brillano di riferimenti pittorici impliciti o dichiarati, da Monet a Bonnard, dal liberty a Modigliani, da Picasso a De Chirico. L’insieme delle scoperte della modernità pittorica è stato per il primissimo Bertolucci un crogiolo d’impareggiabile vitalità, una trama screziata di possibilità sperimentali, un invito al viaggio della poesia tra i sortilegi della luce e dell’ombra. Naturalmente la pittura (e subito dopo il cinema, sorta di pittura in movimento) è stata solo il “la” della sua avventura poetica: nel tempo l’amore per i maestri moderni e antichi della visione si è intrecciato sempre più fittamente con la passione per Proust, per Verdi e per altri poeti, soprattutto inglesi e americani. Ma è significativo che, ancora nel ’43, alla richiesta di Luciano Anceschi a tutti i poeti dell’antologia Lirici nuovi di fornirgli uno scritto di poetica, Attilio abbia risposto con quelle celebri righe sulla propria poesia come ricerca di “un po’ di luce vera” orientata verso fari della pittura quali gli impressionisti e Vermeer. Sul senso dell’amicizia e della famiglia in Bertolucci. Dimmi. Benché nel carattere di Attilio fosse esplicita la componente narcisistica, in lui era altrettanto viva è vera la capacità di amare, il calore dei sentimenti. A parte quello per i genitori e il fratello, l’amore fondamentale della sua vita era quello per Ninetta. Lei era tutto per lui: donna “dolce e pericolosa” e tenerissima compagna, musa e anima tutelare, regista degli spazi domestici e fonte, fino agli ultimi anni, di turbative scintille d’eros… L’amore per lei e con lei era un’esperienza privatissima, qualcosa come un sogno da sognare in due, eppure da quel sogno, da quel nocciolo irriducibile di bellezza erano nati i figli. L’amore si era rivelato una forza espansiva: la solitudine di coppia si era trasformata in una famiglia… In questo movimento di apertura continuava a irradiarsi un calore intimo, simile alle tante rêveries di fiamme e di fuochi che attraversano la poesia di Attilio; eppure né l’amore per Ninetta né quello per i figli ha mai assunto nello spirito e nell’opera del poeta i tratti dell’idillio. Il bisogno di essere amato e di amare è sempre percorso in quest’opera poetica da tremori, brividi, lievi sussulti, ombre, timori, ansie, fantasmi…  Quando lei si allontana, anche di poco, in lui sale una fitta d’angoscia; a loro volta i figli saranno presto risucchiati dal “fuori”, dall’altrove, dal lontano, e vani saranno gli esorcismi messi in atto dal padre (come nella struggente lirica I pescatori) per trattenerli, per rendere eterno e inattaccabile dal tempo il cerchio incantato della famiglia. Tutto questo non va inteso alla lettera. Attilio non era quel “ragno” vischioso di cui si è favoleggiato, dedito solo a intrappolare moglie e figli in una ragnatela nutrita d’ansia, senso del possesso, gelosia, ossessione, egoismo. Ninetta è sempre stata una donna intimamente libera, e lui l’amava proprio per questo. A loro volta i figli non sono mai stati tanto condizionati dal padre da non poter lanciarsi in tutte le avventure, verso tutti gli orizzonti. Attilio stesso desiderava che questo avvenisse: non è forse stato lui a propiziare l’incontro fra Bernardo e il Pasolini regista, incontro decisivo per la vita e la straordinaria carriera del primo? Attilio era uno spirito “di soglia”: se cercava di preservare dalle ombre i suoi spazi intimi – le sue dimore, la sua famiglia – era altrettanto portato a uscirne, a respirare i soffi del mondo. Questo secondo lato del suo essere non riguardava solo il rapporto con la natura ma anche quello con la società. Era curioso come Proust, gli piacevano i nuovi incontri, amava esplorare ambienti diversi. Fin da giovanissimo aveva amici che nutrivano le sue giornate di parole scambiate passeggiando o nelle lunghe soste in qualche caffè. Anche la scoperta precoce del cinema non sarebbe stata un’occasione di tale vitalità se non fosse stata da lui condivisa con amici quali Pietrino Bianchi e Cesare Zavattini. Certo questa sete di amicizie non era priva di un retroterra amaro e nevrotico. L’allegra disposizione al confronto, alla chiacchiera e anche al gioco si alternava con momenti in cui prevaleva il lato schivo e ombroso, il desiderio di solitudine, la voglia di fuggire “via dalla pazza folla”. Eppure prima o poi riemergeva sempre in lui il bisogno di aprirsi agli altri, di condividere i momenti, di gustare il piacere dell’incontro, perfino di “perdere il tempo” per poterlo magari, un giorno, ritrovare. Il nostro incontro durato ventisette anni è stato – non ho timore di dirlo – una grande amicizia. Nello scritto che accompagna il mio libro La casa del poeta (nella prima edizione era la prefazione), Bernardo dice che l’espressione “grande amicizia” riferita al rapporto tra suo padre e me “suona riduttiva e semplificatoria”. Senza dubbio lui era per me non solo un amico ma anzitutto un maestro e in un certo senso anche un secondo padre (questo l’ha capito e detto molto bene Emanuele Trevi nella prefazione alla nuova edizione del libro). Eppure se torno a sottolineare la grande amicizia fra noi è in primo luogo perché mi sembra che riuscire a essere veramente amici sia sempre più difficile nei nostri anni. Da alcune persone che ho ritenuto a lungo grandi amici sono stato, infine, tradito. Questo non è mai successo con Attilio. Non potrò mai dimenticare il suo sguardo l’ultima volta che lo vidi. Eravamo a Roma nel suo appartamento. Era tanto malato che sarebbe vissuto solo altri due mesi, eppure ne suoi occhi resisteva qualcosa – una luce, il segno di una specie di letizia – che non so esprimere ma in cui mi parve di riconoscere il senso del nostro incontro come dono reciproco, come destino. …gli hai fatto qualche gioco di prestigio? Sì, ho offerto diverse volte dei giochi di prestigio a lui, a Ninetta e anche ai loro ospiti di passaggio. Una volta a Casarola io e mio fratello gemello Corrado (da giovanissimi ci eravamo esibiti in varie occasioni, anche in alcuni teatri, come prestigiatori dilettanti in coppia) abbiamo portato da Parma una gran quantità di attrezzi magici e nella locanda Tramaloni abbiamo allestito un vero e proprio show invitando tutti gli abitanti del paese, specialmente i bambini. Ricordo la felicità di Attilio in quell’occasione. Era lo spettatore perfetto: sapeva benissimo che il solo atteggiamento giusto di fronte a un prestigiatore è stare al gioco, abbandonarsi al piacere dell’illusione senza cercare di capire il trucco. Secondo me è lo stesso atteggiamento che occorrerebbe a ogni critico di fronte a un testo letterario in grado di suscitare incanto. Il buon critico non cerca di smascherare il testo, di rivelarne i congegni o i doppifondi, di smontarlo come un meccanismo o di dissezionarlo come un cadavere utilizzando i bisturi della scienza (dalla psicanalisi alla linguistica alla semiotica): accetta, invece, di lasciarsi sedurre, di lasciarsi invadere dalle sue vibrazioni magiche, dalla trama mobile delle sue illusioni per restituirne almeno una parte ai lettori con le proprie parole. Ultima. Una poesia-emblema di Bertolucci, quella a cui sei più legato – e perché. Forse Il tempo si consuma, collocata al centro esatto di Viaggio d’inverno. Scritta nel 1957, in un momento di grave crisi psichica dell’autore, questa poesia sa illimpidire lo strazio trasfigurandolo “in stupore e in contemplazione”, per riprendere parole dedicate da Montale a Saba. Un padre (il poeta) entra in una chiesa romana all’ora della messa festiva, in cerca del giovane figlio; non vedendolo è assalito dall’ansia; ma un quadro che rappresenta Gesù mentre, bambino, aiuta Giuseppe nel suo lavoro di falegname, lo rincuora – e proprio dal ritorno del coraggio scocca l’abbandono giusto, quello che lo porta finalmente a individuare il figlio nell’“agitazione terrena/ delle ragazze e dei ragazzi tenuti/ lontani dal bel sole di domenica”. > Così, d’improvviso, in un angolo vicino > alla porta, t’ ho ritrovato, quieto > e solo, m’hai visto, ti sei > accostato timidamente, ho baciato > i tuoi capelli, figlio ritrovato > nel tempo doloroso che per me e te > e tutti noi con pena si consuma. Sul piano della visione il testo si sviluppa come una scena filmica scandita in tre momenti: l’ingresso del poeta nella chiesa e la panoramica inutile del suo sguardo sui banchi; la zoomata verso il quadro sul fondo; l’incontro col figlio. Attraverso i passaggi ottici, è una complessa vicenda spirituale a dipanarsi nell’anima del protagonista fra il suo improvviso inabissarsi in un vuoto generante terrore, il conforto che nasce dalla bellezza colta nella sua natura più semplice e sacra (il “garzone/ di falegname, Gesù”) e il ritrovamento del figlio insieme al riaffiorare della fiducia. Con una pregnanza e limpidezza davvero evangeliche (penso alle parabole del figliol prodigo e della pecorella smarrita), la poesia si squaderna come dramma di un tempo sospeso e ondeggiante fra la perdita e il ritorno del calore vitale, tra la piccola morte della distanza e la “resurrezione” dell’incontro, tra il brivido dell’assenza e la luce dell’amore ancora possibile.  Per quanto mi riguarda, non credo d’aver incontrato molte volte, nel Novecento, una voce tanto vibrante nella sua forza umile e salvifica, nel suo soffio capace di lenire le ferite profonde dei nostri cuori. 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April 15, 2025 / Pangea
“Siamo in una scorreggioteca. Si deve ricominciare da zero”. Ovvero: sulla poesia come destino. Dialogo con Aldo Nove
Comunque, è un trafficare tra le ombre – è un cenacolo. Oh, sì: spalancare le briciole sul palmo, fino al bruciore, e vedere i morti che vengono a becchettare. Morti con il volto da ghepardo, morti immortali e morti morituri. Morti che stanno in tasca, come un fiammifero.  Da un po’, inseguo le tracce fantasmatiche di Ivano Fermini. Ho letto alcuni versi folgoranti; ho ricostruito alcuni percorsi. Milo De Angelis ne fu il sulfureo, il negromante. Mi accenna ad Aldo Nove. Gli scrivo. Risposta secca, a tagliagole – più tardi verrà il bene, viene dopo, al calor bianco, al netto di tutto. Leggi questo. Inabissarsi. In quel libro, uscito per il Saggiatore – che “ha in corso di pubblicazione la sua intera opera” – Aldo Nove parla di poeti, di poesia, di un sé nell’Illiria lirica. Questa frase è a pagina 103: > “Lo portavo sempre con me, negli anni terribili e salvifici del liceo, Georg > Trakl. Fino a che non scelsi di suicidarmi con la stessa dose di cocaina con > cui Trakl si tolse la vita”.  Poco prima, Nove ha ricalcato Grodek, la poesia suprema e terribile di Trakl, “La sera risuonano i boschi autunnali/ di armi mortali…”. Inabissarsi è anche un libro pieno di poesie – poesie che sono un allarme, poesie disarmate.  Inabissarsi significa anche catapultarsi in una catabasi. Che faccia male è certo. I morti fanno le capriole. A volte, hanno una cresta di aculei sulla schiena. In Inabissarsi si parla di Ivano Fermini. Si parla anche di Milo De Angelis e di Nicola Crocetti, di Franco Buffoni e di Silvio Raffo. Si parla di Elio Pagliarani che compra le arance. Qualcuno – forse Cesare Cavalleri – mi ha parlato di come Eugenio Montale comprava i carciofi. Ecco. “La consapevolezza di un’arancia”. Così scrive Aldo Nove per farci capire cos’è un poeta. Attraversare la crosta del frutto, “intuirne le proprietà, quasi fosse un pianeta”. Come le arance di Cézanne, come la melità delle mele di Cézanne che tanto affascinò Rilke.  Un capitolo di Inabissarsi è dedicato a Ivano Fermini. Nato a Bolzano, trasferitosi a Milano, fece, a moti ondivaghi, l’operaio, “aveva degli enormi baffi neri”. Fermini è morto vent’anni fa. Un giorno Fermini chiede a Nove se può vivere con lui e Tiziana, “una ragazza a cui volevo molto bene, ovviamente fino a che non ci siamo detestati a vicenda”. La cosa “non era possibile né aveva senso”. Il poeta si dilegua. “Da quel giorno non lo vedemmo più”.  I poeti fanno così. A volte si disintegrano davanti ai nostri occhi per eccesso di prossimità. A volte i poeti fanno la crisalide. A volte i poeti sono come l’acqua in un secchio. Devi annaffiare le piante prima che si affollino, a carapace, le zanzare.  Aldo Nove ha scritto che nella poesia di Fermini “tutto è primordiale. E succede per la prima volta”. Abbiamo deciso di ripubblicare, dopo troppi anni, le sue poesie, scollegate da ogni oggi, impossibili, bellissime.  Inabissarsi è dedicato a Federica Fracassi, l’attrice, e inizia con “lo schifo assoluto di questo momento storico, la vergogna quotidiana di essere passati alla forma più sofisticata ed efficace di dittatura, quella delle nostre menti…”. Questo scrive a pagina 10 Aldo Nove: > “Una poesia senza vita è nulla, oppure uno degli ennesimi giochi imperanti > della finanza globale, cioè il fantasma mortale di qualcosa che non ha altro > scopo che rapinare energia all’umano tradito, quasi ormai estinto. > > Una vita senza poesia è la trasformazione in atto dei «cittadini», o meglio > degli umani, in automi obbedienti e non pensanti, quasi non più senzienti per > la propria acquisita organicità a un gioco astratto di cifre appresso alle > quali correre affannosamente per mantenere in piedi il nostro puro dato > biologico”. Il libro è costellato da fotografie di poeti – poeti fanciulli, eterni puer. Amelia Rosselli bambina sulle spalle del papà, ad esempio.  Si parla – con ampiezza d’aquila – di Lorenzo Calogero, l’abbagliante poeta di Melicuccà, Calabria.  Che libro superbamente eversivo, questo. Eversione perfino dal verso, dal fare il verso a se stessi – c’è qualcosa di messianico nel poeta (quello vero, non supino all’oggi, suino, alieno alla biada della fama, sfamato dai cieli) messo alla gogna, insinuato nell’insulto, solitamente sputato, che spunta dove meno credi.  Un giorno mi scrive “sono 8+3-2”; un giorno mi chiama “brillo” – brillio, dico. Di Nicola Crocetti ricorda, “mi ha insegnato una fedeltà assoluta, nella totale incuria verso il misero interesse personale”; ricorda che è stato “spesso tradito da personaggi infami che ne hanno intuito e sfruttato biecamente la sprezzante indifferenza verso il denaro”.  Insomma, parte un dialogo – all’incirca. Accerchiati da questo continuo crollo. Come se il crepitio fosse uno scrivere a crepapelle – i volti posti all’azzurro e congioire dei fiori, un rogo.   Scrivi: “La poesia è un destino. Il destino di chi libera tutti”. Cosa significa? La poesia (e il poeta, che ne è “l’umile messaggero”, per citare Nanni Balestrini) esiste proprio in quanto destino, il che, mi sembra, indica una sorta di escatologia empirica, immediata: “adesso”. Provo a dirlo diversamente: la poesia disvela che non c’è nulla da svelare se non la trappola del  linguaggio, che il poeta sbroglia nell’atto della scrittura. Quell’attimo di attività paradossale è il destino (di libertà, di autenticità) della poesia. Che rapporto c’è tra il poeta è la Storia? Il poeta è nel mondo o è fuori dal mondo – è mondo o immondo? Come diceva Borges a proposito di Dante, entrambe le cose. “Movimento dello spirito nel tempo”, a inaugurarne le stagioni e gli abissi. La Storia del resto è fare narrazione… i fatti… esistono? Esiste a tuo dire un rapporto consustanziale tra il poeta, l’uomo poeta, e la sua poesia? Intendo, tra estetica ed etica? Credo di sì ma è una questione talmente personale da sfuggire a qualunque etichetta. Poeti si è se si vive la poesia. Altrimenti, come diceva Rilke in Lettere a un giovane poeta, è davvero meglio lasciare perdere e guardare San Remo. Qual è il poeta che ti ha affascinato, la poesia che ti ha folgorato? Ora c’è la disadorna di Milo De Angelis e Invece della rivoluzione di Nanni Balestrini. Due scarti, nella mia vita, improvvisi e totali. Che cos’è lo ‘spirito’? Qual è la tua poetica dell’esistere? “Trasumanar per verba non si poria”. Scrivi, in sostanza, che la poesia è una liberazione dalla “trappola” del quotidiano? Poesia, allora, sempre sovversiva, eversiva? Ma a cosa serve infine la poesia? La poesia serve a distruggere lo squallore del quotidiano per riportarlo alla sua materialità e ricostruirlo. Dura poco… è un gioioso, o se non è gioioso ne vale la pena, mito tra Sisifo e Ulisse incantato dalle Sirene. Nel tuo canone portatile quali sono i poeti primari, i poeti re? Tanti, troppi. I già citati Balestrini e De Angelis, tra i contemporanei, insieme a Valduga e Lamarque. Nella seconda metà del Novecento Giudici e Zanzotto. E poi la triade Carducci Pascoli D’Annunzio. E indietro Tasso e ovviamente Dante. E i Salmi…  La poesia a scuola: come si fa, cosa bisogna fare? Escluderla. La scuola attualmente non ha nulla a che fare con la poesia. La si conosce altrove. Chi ne ha bisogno la trova. Parlano di Scurati, oscurando Georg Trakl: perché? Cos’è questa cosa detta ‘cultura’? Si segue chi “ave del suo cul fatto trombetta” (Dante, nelle Malebolge). Siamo in una scorreggioteca. La cultura è nelle catacombe. È nelle catacombe che si dipanò nel mondo e nei secoli il messaggio cristiano. Tutto ciò che si propone come ‘culturale’, oggi, è merda che crea hype: più puzza, più se ne parla. Si deve ricominciare da zero. Anzi da tre, come diceva il grande Troisi. E pochi ma buoni lo stanno facendo. Tra tutti, immenso, Nicola Crocetti. L'articolo “Siamo in una scorreggioteca. Si deve ricominciare da zero”. Ovvero: sulla poesia come destino. Dialogo con Aldo Nove  proviene da Pangea.
April 7, 2025 / Pangea
“La poesia porta il caos nella società del controllo”. Dialogo con Nikola Madzirov
Nikola Madzirov è un segugio degli spiragli, si fa ispirare dalle strettoie, entra, con il coltellino, nel corpo dell’assente. Così, in una città, fotografa la camera d’albergo in cui è ospitato: in quel luogo anonimo resistono le tracce di chi vi ha soggiornato, di chi vi abiterà, anche soltanto per una notte. Ogni stanza è un bosco. Della sua vita riferisce dettagli che frugano nell’incredibile: il nonno, profugo dalle infinite guerre balcaniche, che scava per costruire la nuova casa; le antiche armi degli Ottomani bendate da vortici di vermi, necessari alla pesca, esche per sopravvivere. Un Omero frugale giace interrato tra i dedali di questa storia.  In una poesia tra le più belle raccolte in Ciò che abbiamo detto ci perseguiterà (Crocetti, 2025), Silenzio, Madzirov scrive: > “Non esiste il silenzio nel mondo. > Lo hanno inventato i monaci > per ascoltare ogni giorno i cavalli > e le piume che cadono dalle ali”.  Nato a Strumica, Macedonia, al confine tra Grecia e Bulgaria, profugo al proprio tempo, espatriato dalla Storia, classe 1973, Nikola Madzirov è un vagabondo della poesia. Charles Simić, il grande poeta serbo che fu premio Pulitzer, ha detto che leggere Madzirov “è come scoprire un nuovo pianeta nel sistema solare dell’immaginazione”. Piuttosto, Madzirov ti mostra le cose da un’angolatura inattesa, pone le cose in un candore che le fa nuove. Così, mi racconta della madre che conservava gli spazzolini da denti usati, certa “che custodissero ancora al loro interno un granello dell’anima di chi li aveva usati”; del padre che con uno spazzolino da denti usurato, ora, pulisce la lapide della moglie, “con la stessa cura di un archeologo”.  Madzirov parla come scrive: poeta la cui infanzia è stata bendata da destino di guerra, poeta post-sovietico, totalmente europeo, che non si interessa dei ‘massimi sistemi’, ma delle cose minute, dimenticate, smunte, che in sé nascondono un cosmo. Non gli importa scoprire la chiave che squaderna i mondi, ma la chiave sepolta nel comodino della nonna, di una casa che non sarà mai aperta, apparentata a distruzione e fuga.  Piero Salabè, il traduttore di Madzirov – lavora in Germania, per la Hanser Verlag, i suoi libri sono editi da La Nave di Teseo –, ha riconosciuto in lui un lignaggio che, oltre a Simić, tiene insieme Lucian Blaga e Nichita Stanescu, Vasko Popa e Zbigniew Herbert. Il titolo del libro di Madzirov mi ricorda un versetto dal Vangelo di Matteo, il tremendo imperare di Cristo: “di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno rendere contro nel giorno del giudizio”. Eppure, nella poesia di Madzirov si parla di nomi inauditi, di interdetti al dire, di “parole/ sotto le pietre assieme alle ombre sepolte”. Nei suoi toni – confessionali, ‘vegetali’, in esubero – riconosco l’andare per fiumi di Álvaro Mutis, gi acquazzoni musicali di Bregović.  Grazie a una serie di borse di studio internazionali, Madzirov gira il mondo, scrive con l’estro dell’istrione e del lottatore; coordina il network di poesia “Lyrikline”, che ha sede a Berlino. Quando parla – a identificare una poetica – cita Octavio Paz e Hannah Arendt, Walter Benjamin, le “Filter Yugoslavia”, le guerre nei Balcani, Arvo Pärt; alcuni suoi versi sono stati messi in musica da Oliver Lake, sassofonista statunitense che ha lavorato, tra gli altri, con Lou Reed e Björk. Il 4 aprile prossimo, Madzirov sarà in Italia, a Venezia, tra i protagonisti del Festival Internazionale di Letteratura “Incroci di civiltà”. In alcuni suoi versi si fa il ritratto: > “Mi sono distanziato da ogni verità sull’origine  > degli alberi, dei fiumi e delle città. > Il mio nome sarà una via degli addii > e il cuore apparirà sulle radiografie”.  E poi ti dice che il poeta è una foglia sull’albero dell’imprevedibile, che bisogna confidare nella solitudine. C’è qualcosa di cavalleresco e antico in Madzirov, poeta prode, pronto al cammino – così diverso da chi deterge una carriera sul lamento e sulla litania, da chi crede, allevato all’aia, di essere alloro, di avere l’oro a fior di dita. No: bisogna sentire l’urlo del fiume, le grida scheggiate della gente – e dire della poesia la sua natura di zappa, di torcia, di scettro.  Che rapporto esiste, a tuo dire, tra il poeta e la Storia? Il poeta è una sentinella ai confini della Storia, ne è un avventato avventuriero, è un espulso? Può cambiare la Storia, il poeta, o subisce gli eventi storici? Responsabilità del poeta è rispondere alle storie “ufficiali”, sia che si tratti di una revisione emotiva dei libri di storia, sia che si tratti di costruire una storia personale che parta non dal giorno della propria nascita, ma dal giorno in cui si inizia a ricordare. Il poeta deve essere abbastanza forte da delineare un confine distintivo tra storia e ricordo, così come è necessario che il poeta faccia una distinzione tra menzogna e immaginazione, o tra globale e universale, poiché il globale è più una categoria geografica, mentre l’universalità è umana e temporale.  Quando i miei antenati, profughi dalle guerre balcaniche dell’inizio del secolo scorso, iniziarono a scavare la nuova terra per costruire la loro nuova casa, si imbatterono in antiche spade risalenti all’epoca dell’Impero Ottomano, che dominò su questi territori per cinquecento anni; mio nonno era più interessato ai vermi che trovava mentre scavava: li usava per pescare, per sopravvivere in tempi di povertà. Stava creando una storia di sopravvivenza e non era interessato all’importanza archeologica degli oggetti che non gli portavano cibo.  Sono nato al crocevia tra le battaglie storiche che sono state combattute nel cortile dove vivo e il mistero della terra che copre gli oggetti perduti, appartenuti a persone vissute qui prima di me. Hannah Arendt dice che nulla di ciò che è, nella misura in cui appare, esiste al singolare; tutto ciò che è, è destinato a essere percepito da qualcuno. La pluralità è la legge della terra. Vivo nei Balcani, dove tutte le guerre iniziano con le battaglie per un passato migliore. La guerra ha il suo plurale – le guerre vanno e tornano come cani affamati davanti a una macelleria chiusa. Solo la poesia esiste al singolare. Eppure, se la poesia esistesse al solo scopo di affermare “verità” storiche, sarebbe già diventata storia da tempo. La storia è il primo confine che voglio attraversare. Che rapporto esiste, nella tua esperienza, tra il poeta e l’esilio, l’esultante espulso, l’inerme esule? Oggi siamo nomadi della paura. La solitudine è una forma di “esilio statico”. Il mondo oggi vive i suoi nuovi localismi e le sue nuove lontananze: al posto dei chilometri, gli orizzonti della nostra presenza si misurano in kilobyte. Quella che un tempo era considerata un’introversione patologica sta diventando una qualità di vita. Tuttavia, esiste un enorme divario tra la solitudine come decisione collettiva e la solitudine come impulso personale. Centinaia di anni fa, in Europa, la nostalgia era considerata una malattia e le persone con l’irrequieta voglia di tornare a casa venivano curate con oppio, sanguisughe o lunghi soggiorni in montagna. Oggi le montagne e gli oceani sono nelle nostre case, insieme alla voglia di nuotare oltre il confine delle malattie e delle guerre. La nostalgia è una ribellione contro l’idea moderna del tempo. L’infanzia è la casa più sicura dei nostri ricordi. Solo dopo la nascita di un bambino ci rendiamo conto di quanti oggetti taglienti abbiamo in casa. Forse la nascita di un nuovo riflesso di sopravvivenza ci aiuterà a fare piazza pulita di tutti i coltelli affilati che abbiamo in casa. Da Wittgenstein a Czesław Miłosz si parla del linguaggio come della nostra vera e unica casa. Io vorrei parlare della casa come di un linguaggio, e immaginare le pareti come punteggiature alla fine del sentimento di (essere) desiderio. La finestra aperta della realtà mi permette di toccare i miei sogni e le mie paure, di sentire le dinamiche del mondo anche quando inizio a credere nelle radici invisibili dell’appartenenza. Il mio cognome significa “migrante”: l’ho scoperto solo dopo aver iniziato a viaggiare intensamente. Questa consapevolezza mi ha messo paura, così ho iniziato a dare un nome alle cose che vedo, che tocco, che riscopro… Mi chiedo sempre se le strade in cui vivo hanno nomi presi dai libri di storia o nomi che appartengono alle storie personali della città. Fotografo le stanze che lascio, invece di fotografare i monumenti intorno all’hotel. Ogni grinza sul lenzuolo nelle sterili camere d’albergo o ogni traccia profonda della gamba della sedia nella spessa moquette è una presenza di qualcuno che potrebbe tornare. La struttura degli oggetti nella stanza è il flusso sanguigno delle case che abito e che lascio. Quando vado da qualche parte sembra che sia di ritorno. Di solito sono i lavoratori edili che vivono in cabine temporanee intorno all’edificio che rimarrà lì per sempre.  Da bambino fuggivo da casa, in pigiama e con le scarpe di mio padre, tre volte più grandi. Viaggiare è l’atto più sicuro finché non lo chiamiamo “abbandono”. Michael Krüger nella poesia Migrazione scrive: “Ora le stanze sono vuote, le valigie/ allineano il corridoio accanto a scatole lunatiche/ in cui i libri lottano con i giornali”. I libri da leggere mantengono la mia fiducia nel ritorno. La lettura è sempre stata il mio carburante per spostarmi, quando ero circondata da guerre e regolamenti sui visti. Ricordo che sognavo di dimenticare tutto, per poter leggere sempre gli stessi libri. Quando ho sentito che l’oblio non sarebbe mai arrivato, ho iniziato a scrivere. Questo è anche il modo in cui vivo intorno alle cose di cui scrivo, cercando di costruire una casa con le parole e gli spostamenti. Quando gli uccelli lasciano i loro nidi, volano via; quando le persone lasciano le loro case, ricordano. Ti chiedo di commentare (come vuoi, anche esulando dal tema) questo tuo verso: “Da tempo ormai non appartengo più a nessuno”.  Mi sento al sicuro nella caverna aperta della non appartenenza. L’appartenenza è spesso nemica del radicamento. Simone Weil dice: “Essere radicati è forse il bisogno più importante e meno riconosciuto dell’anima umana”. Un essere umano appartiene anche agli spazi intermedi, alle case che rimangono incompiute. Vivo a Strumica, una città vicina al confine tra Grecia e Bulgaria, e mi sono sempre sentito più al sicuro in quella striscia di cento metri tra due confini, uno spazio senza monumenti o condizioni per la memoria storica. Questi spazi, chiamati giustamente terra di nessuno, ti dicono che non sei nessuno se li senti tuoi. I sistemi ideologici tendono sempre a creare un Nessuno da un corpo e da una mente, ma “chi crea un Nessuno negando l’esistenza di Qualcuno diventerà egli stesso un Nessuno”, scrive Octavio Paz ne Il labirinto della solitudine. Così è per le città. Sentiamo che una città comincia ad appartenerci quando troviamo un angolo, una piazzetta o un ponte senza nome per ciascuno dei nostri stati interiori, e uno comincia a riferirsi ad essa con un frammento della sua routine di vita o della sua storia personale. Credo che l’appartenenza sia una risposta naturale, ma anche auto-ingannevole, al ritorno in una città. Apparteniamo al luogo in cui torniamo o solo a quello in cui moriamo? Le città in cui si sente di appartenere sono porti della propria impercettibilità, dove, alienati dalle realtà ereditate, si comincia a costruire le verità del proprio mondo. Il titolo del mio primo libro, pubblicato più di vent’anni fa, era Locked in the City, e si riferiva soprattutto allo stato mentale di confinamento, plasmato anche dalla logica politica delle restrizioni attraverso i visti e i muri concettuali. L’appartenenza ai Balcani, volontaria o forzata, è allo stesso tempo una benedizione e una maledizione. Significa nascere nello spazio geografico della colpa: tua madre ha aperto le gambe per darti alla luce sulla sedia vuota di un tribunale penale. Ma chiudersi nella gabbia dell’eterno senso di colpa è tutto tranne che un’appartenenza. Nella nostra infanzia, le prime cose che impariamo sono le solite costanti dell’appartenenza: i nomi dei genitori, il nome della strada in cui abitiamo, il numero della classe… E poi passiamo la vita a imparare ad appartenere solo all’infanzia. Ti chiedo di spiegarmi questo verso: “Sono i resti di un’altra epoca”. Tutti vaghiamo nel cerchio del tempo per trovare il museo dell’innocenza del mondo. E il vagabondaggio è il primo passo per tornare da qualche parte: nella stanza o nella nostra infanzia. L’ombra più grande della nostra realtà nei Balcani è la fame del viaggio temporale di ritorno. Le persone lasciano le case e i ricordi a causa delle guerre e della povertà imposta, e ogni oggetto che hanno portato con sé diventa un manufatto o un simbolo, una voce offuscata di un rituale personale. Le cose diventano resti anche prima di essere perse o distrutte. Mia nonna conservava la chiave della sua casa abbandonata nello stesso armadietto dove teneva le medicine, pensando che questa chiave un giorno avrebbe potuto aprire quella porta che non esiste più e guarirla dalla nostalgia. Tutti, nelle nostre stanze, abbiamo oggetti che rimandano alla nostra morte. Per i Balcani la fuga è più una questione di misurazione del tempo che un calendario dell’assenza. La mitologia dell’infanzia è stata il mio primo rifugio dalla paura di una realtà prevedibile. Mia madre ha conservato i vestiti della mia infanzia, dicendomi che vuole diventare nonna e dare al mio bambino non ancora nato gli abiti con cui mi vestiva. Mia madre conservava tutti gli spazzolini da denti usati in casa, pensando che custodissero ancora al loro interno un granello dell’anima di chi li aveva usati. È morta sei anni fa e ora vedo mio padre che pulisce la sua foto in bianco e nero sulla lapide con uno spazzolino usato, con la stessa cura di un archeologo prima di una scoperta. Ho scritto un saggio sull’ossessione delle persone per gli oggetti e sulla loro metamorfosi utilitaristica durante la crisi del comunismo. Gli oggetti superavano i confini di tutte le scale e i sistemi simbolici conosciuti. L’immaginazione empirica della banalità della vita, acquisita con forza e senza volerlo, ha creato innovatori autoctoni tra le persone che ancora si fidavano del sistema in cui vivevano. La scoperta del pragmatismo polisemantico fu una rivelazione non meno importante dell’estetica della “vita segreta degli oggetti” di Giorgio de Chirico. La mancanza di denaro spingeva le persone a ricavare un vaso per far crescere i limoni dal grande secchio di latta vuoto in cui tenevano il formaggio; a trasformare le lattine vuote delle bibite in portapenne; a costruire coni di carta per i semi di zucca e le arachidi dei venditori ambulanti con le carte dei commercialisti e di altri uffici burocratici; i tappi delle bottiglie di birra e di Coca Cola danno un ottimo sostegno alle gambe di tavoli e a sedie instabili; le scatole delle scarpe sono ripostigli per libri e cassette. Sembra un paradosso, ma si scopre che il nostro surrealismo riproduceva pragmaticamente i disegni di Magritte: Ceci n’est pas une pipe.  Quando parlo di resti di un’altra epoca, non penso al passato, ma a una realtà diversa, alla nostra voglia di calpestare l’asfalto fresco e di tornare a vedere questa traccia innocente del tuo piedino ogni volta che ti senti stanco della realtà. “Uno dei primi istinti dei genitori, dopo aver messo al mondo un bambino, è quello di fotografarlo”, afferma Calvino ne L’avventura del fotografo e prosegue: “L’album fotografico rimane l’unico luogo in cui tutte queste fugaci perfezioni vengono salvate e giustapposte, aspirando ciascuna a una propria incomparabile assolutezza”. Ancora oggi fisso gli spazi vuoti degli album fotografici cercando di indovinare dove sono le foto che mancano, cercando di ricostruire una memoria che non mi appartiene. Le fotografie e le parole non sono residui di un’altra epoca; residuo diventa colui che scrive di tutto o colui che fotografa tutto ciò che vede, per dimenticare tutto.  Di cosa è testimone il poeta? Se volessi romanticizzare o ironizzare, direi: il poeta è qui per testimoniare il candore della neve. Eppure, credo che il poeta sia testimone dell’imperfezione degli oggetti che dormono sotto quei perfetti fiocchi di neve o forse delle gocce di sangue di un animale o di un soldato ferito sulla neve. Avevo diciotto anni quando iniziarono le nuove guerre in Jugoslavia. Sul mio letto, i politici al potere misero uniformi al pigiama dell’innocenza. Un sistema politico fu sostituito da un altro. Entrambi i cambiamenti avvennero nello stesso momento, distruggendo le pareti di vetro della mia infanzia e le spesse tende della certezza promessa. Improvvisamente, gli autori che erano nelle liste di lettura delle scuole furono dichiarati nemici dello Stato o classici, che significava soltanto una cosa: nessuno li leggeva più. Ho dovuto tagliare io stesso il cordone ombelicale, integrandomi nell’ampio quadro della letteratura europea. Da allora, tutta la mia vita si è trasformata in una fuga – ma non una fuga da qualcosa, bensì verso qualcosa. Mi fido più delle cicatrici del tempo sulla nostra pelle che degli ornamenti sopra le uniformi. Quando il soldato viene ucciso, qualcun altro prende la sua uniforme e butta via tutte le foto di famiglia e le lettere dalle tasche. Io ripeto solo la storia dei miei antenati che hanno dovuto lasciare le loro case a causa della guerra, ma hanno anche portato con sé la chiave, una chiave che avrebbe aperto solo i cancelli della memoria. Non porto con me le chiavi quando viaggio. La lingua è rimasta la mia unica soglia di certezza. Ricordo spesso le parole di Charles Simic, nato in una Jugoslavia diversa da quella in cui sono cresciuto, che diceva che essere un rifugiato non lo ha reso un poeta, ma lo ha reso il tipo di poeta che è. La caduta della Jugoslavia e l’indipendenza della Macedonia mi hanno insegnato che nessun simbolo di Stato è eterno – che tutti i leoni, le aquile, le stelle, i soli, le foglie possono volare via dalla bandiera come un sacchetto di plastica in cerca di un vento più forte. Tra le sigarette più popolari della classe operaia dell’ex Jugoslavia c’erano quelle denominate “Filter Yugoslavia”, mentre chi era “più uguale degli altri” fumava “Lord Extra”. Come se Edward Said avesse previsto il crollo della Jugoslavia: dopo la rottura dello Stato, le sigarette “Filter Yugoslavia” furono chiamate “Filter Oriental”. Lo stesso fumo viaggiava ora da Sud (Yug) a Est (Oriente), con gli occhi dei fumatori rivolti a Ovest. I Balcani sono pieni di varie verità ufficiali con un’intensità tale di singolare dolore, al di là di qualsiasi confine tracciato. La poesia, come testimonianza dolorosa e tagliente, viaggia lentamente e silenziosamente, ma vaga lontano nello spazio e nel tempo, come una lettera senza indirizzo sulla busta. Alain Bosquet diceva che il poeta è nella città solo per testimoniare che la città si trova altrove. Il poeta deve essere testimone dello spostamento dei confini delle sue perdite e delle sue aspettative. La poesia non cambia i mondi, li costruisce. Ti piace questo mondo, questo tempo, il tempo che ti è dato? Mi sento un auto-rifugiato in un periodo di falsa pace. La poesia può cambiare la distanza con cui guardiamo alle ferite aperte del mondo. La poesia può piantare un seme nelle cicatrici del mondo e aspettare la nascita di una storia che non si ripeta. Viaggio costantemente da più di vent’anni ormai, probabilmente per sfuggire alle trappole del tempo. Voglio abitare tutti i mondi di cui sono testimone, voglio nascere nello stesso tempo, così potrei provare a creare un calendario diverso. Scrivi una poesia sul Silenzio. Che valore ha il silenzio nella tua singolare ricerca poetica? Solo nel silenzio si può sentire il proprio sangue e la voce degli assenti. Eppure, è difficile trovare il silenzio perfino ai funerali o dietro le finestre sfocate delle biblioteche cittadine, come in tutti i rituali del sonno. In alcune regioni dell’America Latina, quando nasce un bambino, la prima cosa che gli dicono mentre piange è: “Preparati a tacere in questo mondo, a essere paziente”. Vivevo in una casa dove le parole di tre diverse generazioni lottavano per il loro status di importanza: mentre alcune parlavano di ricordi, la voce dall’altra parte del muro era piena di aspettative. In quella guerra quotidiana con le baionette delle parole, soltanto ascoltare la musica di Arvo Pärt o di Coltrane con il volume alzato mi ha aperto uno spazio sonoro per il silenzio del pensiero. Le mie case temporanee continuano attraversando i confini di paesi le cui lingue non capisco, sviluppando ricordi in cui non tornerò mai. Tutte le cartoline delle città trasmettono il silenzio dei monumenti delle piazze e il silenzio del postino che conosce le strade della sua città natale. “Tutti gli angoli deserti delle città, tutti i suoni e le cose hanno ancora i loro silenzi, proprio come, a mezzogiorno in montagna, c’è il silenzio delle galline, dell’ascia, delle cicale”, dice Walter Benjamin. Non accetto la definizione semplificata del silenzio come assenza di parole o suoni, perché all’inizio non era la parola, ma il respiro. Stockhausen diceva che non esiste un silenzio assoluto nel mondo, cercava di ampliare il rapporto tra il suono che è assente e il suono che si sente. Quando vedo un’ombra, non penso alla luce perduta, ma alla bella forma del corpo che produce quell’ombra. Il silenzio è la luce che dà forma al corpo delle mie parole. Il poeta rende visibili i suoni e li trasforma di nuovo in quiete attraverso l’atto del creare. Deleuze dice che il problema non è far sì che le persone si esprimano, ma fornire piccoli spazi di solitudine e silenzio in cui possano eventualmente trovare qualcosa da dire. Scrivere poesie significa viaggiare attraverso le oscure vene delle imperfezioni delle parole, scoprendo che il silenzio e l’oscurità sono le due metà del nucleo del codice universale della comprensione. Nel silenzio tutti i suoni sono uguali, nell’oscurità tutti gli oggetti sono uguali. Esiste un’etica oltre alla poetica? In cosa credi? Vivi secondo una tua personale ‘regola’? L’etica consiste nel non tradire la poetica del proprio essere, nel non diventare un mercante del dolore altrui, nel non fidarsi dei monumenti nel cortile sul retro del palazzo del governo. Scrivo di cose riscoperte e mondi assenti non per lodarli, ma per demistificare l’aureola di storia che li circonda. Vivo in una piccola città vicino a tre confini: macedone, bulgaro e greco; attraversare un confine per me è come attraversare la strada con i semafori che non funzionano. A volte penso che ogni ruga sul mio corpo sia solo un riflesso dei confini che ho attraversato. La sfida più grande per me è stata attraversare il confine del tempo, poiché tutte le guerre balcaniche iniziano conquistando prima il passato: soltanto dopo si parla di territori. Storico e isterico: un’unità perfetta per uccidere! In questo senso, mi considero un archeologo illegittimo che, scrivendo poesie o saggi, cerca di demistificare la mitomania ereditata e tutte le grandi narrazioni, mettendole in una prospettiva diversa, più luminosa o più oscura. Raccontare storie di luoghi o oggetti dimenticati è più importante di tutte le lettere e gli ordini segreti firmati da capi di guerra desiderosi di diventare un giorno dei monumenti. Ho fiducia nell’architettura della solitudine e voglio credere che il poeta sia la voce della foglia tremante sull’albero dell’imprevedibile. Che rapporti hai con l’invisibile? Non essere visti è il sogno di ogni osservatore dietro la porta socchiusa del mondo, è il desiderio di ogni poeta perso nel labirinto fatto dei ricordi altrui. La finestra aperta della realtà mi permette di toccare i miei sogni e le mie paure, di sentire le dinamiche del mondo anche quando inizio a credere nelle radici invisibili dell’appartenenza.  Vedo la poesia come un corpo intoccabile che si disloca a ogni nuova lettura. Nonostante la sua fragilità, la poesia può portare il caos all’interno di società altamente controllate. I dittatori hanno paura del significato invisibile delle parole, perché a loro piace creare cose assolute e visibili. Mi considero un fragile testimone della dura realtà e dell’aldilà, che ruba momenti invisibili o verità non dette, piuttosto che uno che ruba storie o fotografie dagli album di famiglia. Alejandra Pizarnik scrive: “temo di non sapere come nominare/ ciò che non esiste”. Gli scienziati potrebbero facilmente dare un nome ai pianeti o ai minerali che non sono ancora stati scoperti, ma la poetessa vuole credere che il silenzio sia il nome perfetto per tutte le cose invisibili e assenti. Scrivere è solo un modo per rimandare la mia assenza. Ritaglia un verso, un distico dalla tua opera che ti rappresenta – e dimmi perché. “Lontane sono tutte le capanne in cui ci riparavamo dalla pioggia e dalla pena dei cervi che morivano davanti a cacciatori più soli che affamati.” La distanza non può essere un rifugio dalla sofferenza del mondo. ** Ciò che abbiamo detto ci perseguiterà Abbiamo dato un nome alle piante selvatiche che crescono dietro agli edifici in costruzione, e a tutti i monumenti dei nostri invasori. Abbiamo battezzato i bambini con i nomi affettuosi trovati nelle lettere lette una sola volta. Abbiamo poi, di nascosto, decifrato le firme in fondo alle ricette per le malattie incurabili e col binocolo abbiamo ravvicinato le mani che ci salutavano dalle finestre. Abbiamo lasciato le parole sotto le pietre assieme alle ombre sepolte, sulla collina che conserva l’eco di antenati che non compaiono nell’albero genealogico. Ciò che abbiamo detto senza testimoni ci perseguiterà per molto tempo. In noi si sono stipati molti inverni che nessuno ha mai menzionato. * Quando il tempo si fermerà Siamo i resti di un’altra epoca. Ecco perché non posso parlare della casa o della morte o di dolori prevedibili. Finora nessun ladro di tombe ha scovato le mura tra di noi, né il freddo calato nelle ossa fra i resti di tutte le epoche. Quando il tempo si fermerà, discuteremo della verità e sulle nostre fronti le lucciole formeranno una costellazione. Nessun falso profeta aveva previsto che il bicchiere si sarebbe rotto e neppure che si sarebbero toccati i palmi – due grandi verità da cui sgorga acqua pura. Siamo i resti di un’altra epoca. Ci ritiriamo nei paesaggi della solitudine addomesticata come lupi che contemplano la colpa eterna. * Da ogni mia cicatrice Sono un mendicante senza il coraggio di chiedere l’elemosina a me stesso. Sui miei palmi si incrociano le linee e le ferite di tutte le carezze mancate, di tutte le febbri non misurate sulla fronte, dell’amore scavato abusivamente. Da ogni mia cicatrice emerge una verità. Cresco e svanisco con il giorno, mi addentro senza paura nell’origine, e intorno a me tutto si muove: la pietra diviene casa, la roccia granello di sabbia. Quando smetto di respirare, il cuore batte più forte. * Loro e noi Probabilmente gli angeli hanno uomini tatuati sulle spalle, e custodiscono le proprie ombre nello scrigno dei ricordi. A volte appaiono come una voce che annuncia l’alba o come una luce soffusa sotto un letto d’ospedale. Noi esistiamo perché loro esistono, loro volano perché noi camminiamo. Siamo così vicini e lontani come i protoni e i neutroni nel nucleo di tutti i mondi. Traduzione di Piero Salabè Da Nikola Madzirov, Ciò che abbiamo detto ci perseguiterà, Crocetti Editore, Milano, 2025. *In copertina: Nikola Madzirov in un ritratto fotografico di Sophie Kandaouroff L'articolo “La poesia porta il caos nella società del controllo”. Dialogo con Nikola Madzirov proviene da Pangea.
March 31, 2025 / Pangea