Ho avuto il piacere, qualche giorno fa, di avere una lunga conversazione
con Valentina Duca. Era da tempo che desideravo incontrarla, ma raramente fa
ritorno in Italia da Gerusalemme, dove ora si trova. Sono stati i suoi studi
nell’ambito della mistica cristiana, e in particolare lo studio sul mistico
siro-orientale Isacco di Ninive e dei suoi autori di riferimento, a condurla lì,
a lavorare come ricercatrice presso l’Università Ebraica.
Su Isacco ha recentemente pubblicato, per Peeters di Lovanio, uno studio, frutto
del suo lavoro di dottorato all’Università di Oxford: “Exploring Finitude”:
Weakness and Integrity in Isaac of Nineveh (per ora accessibile solo in
inglese). Degli scritti inediti di Isacco sta attualmente curando l’edizione
critica (testo siriaco e traduzione inglese). Oltre ad articoli prevalentemente
in inglese, si segnala, in italiano, il contributo “La grazia della debolezza e
il limite della morte”, all’interno degli atti del convegno
internazionale Isacco di Ninive e il suo insegnamento spirituale tenutosi al
monastero di Bose nel 2022, recentemente pubblicati da Qiqajon.
Un giorno, durante un incontro sul mondo siriaco a cui partecipavamo entrambe
presso il monastero di Bose, sono rimasta a lungo a osservarla: ho avuto la
sensazione che fosse una di quelle rare persone che si aggirano come “in punta
di piedi” nel mondo, i cui gesti sono segnati da una sorta di nobile discrezione
e di cura. Mi è parso che in lei la “dimensione spirituale” non fosse una
porzione dell’esistenza, bensì il fondamento. Nel leggere i suoi lavori, così
come nel sentirla parlare, insieme all’attenzione scientifica non si può non
notare questa sensibilità, che mi pare le abbia dato strumenti essenziali per
occuparsi di un autore come Isacco di Ninive.
Chi era Isacco di Ninive?
Isacco di Ninive era un solitario (termine usato qui per coloro che scelgono una
vita semi-eremitica) del VII secolo e dell’area siriaca. Quest’area non fa
riferimento solo a parte dell’attuale Siria, ma a un territorio più vasto:
Isacco, in particolare, era nato nella regione del Qatar, dove nella sua epoca
c’era una fiorente comunità cristiana, e visse in terra mesopotamica. Per breve
tempo divenne vescovo di Ninive: rinunciò a questo incarico per andare a vivere
sulle montagne, vicino a insediamenti monastici. Apparteneva a una chiesa,
quella siro-orientale che, guardata a partire dal mondo latino e greco, poteva
considerarsi marginale poiché “nestoriana” e quindi ritenuta eretica. E tuttavia
era una cultura nient’affatto marginale, che ebbe una grande espansione in
oriente, come in Asia Centrale e in Cina. Isacco è erede di una tradizione
monastica composita, dove ci sono sia autori siriaci, come Giovanni il
Solitario, sia della tradizione greca, con la quale intendiamo soprattutto
autori monastici e mistici di lingua greca, con una forte presenza del mondo dei
padri del deserto e di Evagrio Pontico.
Isacco poi non scrive trattati teologici, ma testi che intendono guidare i
discepoli nell’esperienza. Quando parliamo di lui come “solitario” non ci
riferiamo a una persona isolata, in tutto e per tutto solitaria: veniva da un
contesto di relazioni e letture comuni, apparteneva a una corrente, quella della
mistica siro-orientale, che include vari autori: alcuni a lui contemporanei,
come Simone di Ṭaybuteh e Dadišo‘ Qaṭraya, e altri del secolo successivo, come
Giuseppe Ḥazzaya e Giovanni di Dalyatha. Era un universo quindi, che impedisce
di pensare il solitario come una persona completamente slegata da un contesto di
riferimento.
Caravaggio, San Girolamo in meditazione, 1605 ca.
Nei suoi scritti, parla dell’analisi che Isacco dà della condizione umana: in
cosa consiste?
Isacco colpisce per come è in grado di tracciare una fenomenologia delle
dinamiche interiori: all’interno di queste – come l’incontro con le passioni,
con situazioni di tentazione, o di malattia – l’uomo incontra una condizione di
limitatezza, che Isacco chiama “debolezza” (mḥilutā). Isacco la interpreta come
una condizione ontologica: nei suoi scritti si riferisce ad essa come una
caratteristica della “debole schiera degli uomini” (III 7,6), condivisa con
Adamo, di cui, dice, “portiamo l’odore” (I 5). Questa condizione non è legata
solamente al peccato, quindi a una debolezza di tipo morale, ma è una condizione
di fragilità originaria, non trascendibile. Questa condizione di debolezza
ontologica include anche la soggezione alla morte, che è il problema principale
per le creature assieme alla sofferenza. C’è quindi una precedenza, in Isacco,
del problema ontologico su quello morale. Nella lettera ai Romani Paolo dice, in
riferimento ad Adamo, che il peccato entrò con lui nel mondo e con esso, di
conseguenza, la morte (Rom 5:12). Quindi in qualche modo per Paolo, e per la
maggior parte della tradizione cristiana, è dal peccato che deriva la morte. In
Isacco invece è il contrario: è dalla morte che deriva il problema del peccato
(questa concezione proviene da un autore importante per i siro-orientali,
Teodoro di Mopsuestia). E non si tratta per Isacco di un rapporto così diretto:
non è dalla morte che deriva, quasi necessariamente, l’essere peccatori, ma è
per paura di questa mortalità, di questo limite costitutivo, che avviene la
caduta, che porta a una condizione di limitazione anche morale.
Quindi, è come se il peccato sorgesse da un tentativo di fuga. Le stesse
passioni, in questa prospettiva, possono essere lette come meccanismi difensivi
ed elusivi dell’incontro con questa dimensione di limitatezza creaturale. Isacco
invece delinea un percorso in cui è possibile cercare di relazionarsi con questa
condizione mortale, senza cercare di superarla, perché è insuperabile così come
insuperabile è la nostra condizione creaturale. Nella stessa creazione per lui è
inscritto che l’uomo sia mortale. Se mai ci potrà essere un trascendimento di
questa condizione questo avverrà solo per grazia. Non si tratta di qualcosa di
originario a cui tornare, come se dovessimo ritrovare una condizione edenica, ma
di qualcosa che sta davanti a sé, come dono possibile.
Perché, secondo Isacco, l’uomo è stato creato con questa strutturale mancanza?
Isacco non parla tanto del perché, riflette più che altro su una condizione che
c’è. La sua scrittura è sempre innanzitutto esperienziale e parte dalla
necessità dell’altro, dalla domanda che pone il discepolo. Sul perché di questa
condizione, però, si possono chiamare in causa due elementi. In 2Cor 12 7-10
Paolo dice che “gli è stata data una spina nella carne”, e chiede che questa gli
sia tolta, ma “il Signore” gli risponde: no, “ti basta la mia grazia, la mia
forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Isacco riprende questo
passo paolino per esprimere l’idea che in qualche forma, e grazie a una certa
relazione con la debolezza, si può scoprire l’alterità della grazia.
Oltre a questo, però, c’è l’idea che tramite questa relazione con la debolezza,
non solo si scopre Dio, ma la propria condizione di uomini. Questo secondo
elemento è centrale: l’assunzione di sé come uomo. Il percorso non è: ho la
debolezza e quindi mi merito la grazia, che mi libera da questo problema; ma: ho
la debolezza e me ne faccio carico. Mi relaziono dunque con me stesso, con il
mondo delle passioni, con il mondo del dolore fisico. Ed è solo grazie a questo
scoprirsi uomini, e prendere in carico la propria condizione, che si può anche
entrare in relazione con l’alterità di Dio. Isacco ha un forte senso di questa
alterità, del mistero verticale di Dio. Io credo provenga proprio dalla
percezione di sé come creatura. Anche per questo Isacco può stupirsi della
venuta del Cristo, che discende fin qui. Se non si avesse il senso di questa
trascendenza di Dio non si potrebbe neppure percepire la meraviglia
dell’avvenimento della venuta del Cristo.
Hieronymus Bosch, San Girolamo in preghiera, 1482 ca.
È a questo relazionarsi che Isacco si riferisce quando dice che si deve
“portare” la propria debolezza?
“Portare” (sbal, ṭ‘en, saibar) è un termine che in Isacco indica il “permanere
dentro” a una situazione che può mettere alla prova, il “dimorarvi”. Può essere
una situazione di dubbio, di tensione, di negatività. E questo avviene
mettendosi “sotto” questo elemento negativo, portandolo appunto, nel senso del
sostenerne il peso. In questo sostenere “dimorando a contatto” si sviluppa una
relazione con l’elemento negativo, lo si abita, ed è in questo “abitare” che poi
è possibile una trasformazione. Anche se è vero che per Isacco questa
trasformazione avviene sempre per grazia. Quello che noi come uomini possiamo
fare è appunto abitare, permanere, anche nella contraddizione, nel dubbio. A
fronte di molte narrazioni che bonificano la realtà, credo che Isacco ci aiuti a
mettere al centro la questione del negativo. Come qualcosa che però stimola una
posizione attiva, e non succube, dell’umano. È da questa postazione e da questa
azione, che poi può scaturire una trasformazione.
Isacco dice che il fatto “che una persona possa rimanere nella calunnia senza
tristezza [è] perché il [suo] cuore inizia a vedere la verità” (I 5). In questo
“rimanere in”, “abitare” e “permanere sotto” qualcosa avviene, ed è qualcosa che
non ha a che fare con la nostra volontà: esso accade, si manifesta, “sorge”
(dnaḥ), come Isacco spesso scrive, e noi allora lo riconosciamo come verità, e
lo accogliamo. Per riferirsi a questo Isacco usa, in un passaggio, il termine
“germinare” (II 34,2), che non parla di un atto di volontà, o di possesso, ma di
un misterioso accadere. Quello che noi possiamo fare è portare, sostenere il
negativo, rimanendo aperti. Tanto è vero che Isacco nelle sue Centurie di
conoscenza (II 29) parla di un dolore che viene da Dio ed è per Dio, e un dolore
che invece non viene da lui, come quando ci si sente solo colpevoli del proprio
peccato, e chiusi al suo interno. Questo non è per lui un portare, ma un
soccombere. Il portare, già in sé, mantiene l’apertura alla possibilità di ciò
che con esso può venire.
Quindi attraverso questo “portare” il proprio limite si entra in relazione con
ciò che è altro da sé?
Non solo, anche con quella parte altra di sé, limitata e sofferente, con cui
normalmente non si vorrebbe avere nessuna relazione. Solo dopo che si è fatto
questo si entra in relazione con l’Altro di Dio, che si manifesta come grazia; e
anche con l’altro nel senso dell’altra creatura, anch’essa limitata e
sofferente. In Isacco è nota questa dimensione di amore radicale. In un
passaggio molto conosciuto, alla domanda “che cos’è un cuore misericordioso”,
risponde:
> “È l’ardere del cuore per l’intera creazione: per gli uomini, gli uccelli, gli
> animali selvatici, i demoni e per tutto ciò che esiste. […] Il cuore […] non
> può sopportare di sentire o vedere un danno o una piccola sofferenza di una
> qualche creatura. Per questo, [l’uomo] prega in ogni tempo con lacrime anche
> per gli animali irrazionali, per i nemici della verità, e pure per coloro che
> gli fanno del male, affinché siano protetti e rafforzati – [prega] addirittura
> per i rettili, a causa della grande compassione che si riversa nel suo cuore
> senza misura, a somiglianza di Dio” (I 74).
E come si può, nel concreto, relazionarsi con il limite senza fuggirlo?
In Isacco c’è un’intensa descrizione dell’incontro col negativo. Si può fare un
esempio, che si riferisce alla sua forma più estrema, che Isacco chiama
“tenebra” o “oscurità” (ḥeškā; ḥešōkā;‘amṭānā). Indica uno stato in cui ci si
sente completamente persi, e si perde anche la possibilità della fiducia in Dio.
È “un’ora”, scrive, “piena di disperazione e paura”, in cui “la speranza in Dio”
e “la consolazione della fede”, completamente nascoste all’uomo, vengono meno, e
si è avvolti dal dubbio (pligutā)” (I 48), una parola siriaca che significa
anche “divisione”. Davanti a questo venir meno della fede Isacco ha indicazioni
varie. La prima è gettarsi in ginocchio e pregare, per cercare relazione,
nell’umiltà dell’inginocchiarsi. Ma poi, se la preghiera non basta e viene meno,
scrive: “Se non hai la forza di controllare te stesso e di cadere sul tuo volto
in preghiera, avvolgi il tuo capo nel mantello e dormi, fino a quando l’ora
dell’oscurità non sia passata da te, ma non uscire dalla tua cella” (I 48).
Questo semplice gettarsi a terra ed attendere, questa “azione muta”, in cui non
è tematizzato ciò che si cerca e neppure più si è in grado di cercare, ma si
sceglie tuttavia di “stare”, può veicolare, misteriosamente, un’attesa, e la
speranza che qualcosa in esso possa manifestarsi. Ma in primo luogo è un
“permanere dentro”, un “abitare”, appunto uno “stare”. Si tratta di parole che
trovo interessanti per un contesto contemporaneo, che non necessariamente
include la fede, o la preghiera. L’analisi che dà Isacco è interessante per due
aspetti. Da un lato egli tenta di tenere aperto, nel lettore, un canale, dicendo
che lui stesso più volte ha sperimentato questi stati, e che quel momento
passerà. Ed è importante che il lettore ricordi questa cosa: che passerà.
D’altro canto però dice che, passargli in mezzo, è una “Gehenna noetica” (I 65).
Dunque non bonifica, riconosce il negativo come negativo: dire che passerà non
toglie nulla all’intensità e alla problematicità del passaggio, poiché per colui
che lo attraversa quella è l’unica realtà. In questo modo Isacco onora il
vissuto del sofferente.
Però la tradizione cristiana è stata spesso accusata di aver esaltato questa
dimensione della croce e del patimento. Che differenza c’è invece tra il portare
di cui parla Isacco e un servile sottomettersi al potere?
È vero che un certo tipo di discorso sul dolore può portare a una dimensione che
schiaccia e avvilisce. La differenza però la fa il soggetto che si confronta con
esso, e qui torniamo al tema della relazione, presente in Isacco, e che lo rende
così moderno. C’è una relazione che l’uomo può sviluppare con il proprio dolore.
Il portare in Isacco non è un essere schiacciato dal dolore e neppure solo un
“sopportare”, ma un cercare costantemente di sostenere la relazione con la
prova, e così questo portare forgia la forza del soggetto e veicola in lui
un’apertura e una trasformazione. C’è sicuramente una linea della tradizione
cristiana giustamente criticabile, ma c’è anche una linea che io credo essere
valida e vitale e che ha cercato una relazione con la sofferenza. Quella
posizione attiva e di ricerca di vita chiama l’elemento trasformativo. Molte
persone, non solo i mistici, hanno raccontato di questo: penso a quanto alcuni
hanno scritto di fronte ai drammi del Novecento. Non credo quindi che il
cristianesimo sia il problema, penso che il problema sia la rimozione del
soffrire. La croce, come il Getsemani, sono momenti fondamentali nella nostra
vita di tutti i giorni, centrali nella tradizione cristiana: non possono essere
rimossi. La resurrezione stessa, e la grazia, non sono comprensibili senza
quell’altro aspetto. La sofferenza ci interroga, e facendo ciò è qualcosa che ci
evoca come soggetti, perché se siamo messi alla prova ci chiediamo chi siamo,
cosa desideriamo, dove vogliamo andare.
Isacco, in proposito, riprendendo un passaggio di Macario sui mutamenti, dice
che è come il tempo atmosferico: c’è la pioggia e poi il sole, la grandine e poi
il sereno, così è la vita di noi umani (I 72). È impensabile che ci sia solo il
sole. Isacco è coerente con questo quando dice: “non pensare che io ti possa
nutrire solo di miele” (II 28). Il che non vuol dire che non si deve godere
della bellezza e del sereno, non è un’esaltazione del dolore. Isacco in
proposito ha delle pagine bellissime sull’amore di Dio, sull’amore radicale per
la creazione e per gli altri uomini. C’è in lui, come in molti altri mistici,
tutto un lato di positività e di luce. Ma insieme c’è il tenere conto che la
vita umana è complessa e contraddittoria: accanto alla luce ha il dubbio, ha
l’assenza di fede, ha la sofferenza, e noi non possiamo pensare che la vita
umana non abbia anche questo. O comunque se si tenta di pensare così si perde
tanto.
È in questo che consiste l’ascesi?
Sì, anche. Per Isacco in essa il percepire questa sofferenza e questa mancanza è
un elemento centrale. E questo percepire il dolore si deve sostenere, perché si
può essere feriti, ma poi ritrovarsi distrutti. Invece, si deve sostenere la
ferita. Quindi sì, percezione del dolore, ma anche forza. Il discorso di Isacco
sul portare la debolezza non elude mai il fatto che il soggetto debba esercitare
una forza per portare questa condizione ontologica, uno sforzo di tenuta. In
questo senso l’ascesi è una via, per Isacco, di formazione di sé. Si tratta
anche di tecniche, di modalità, che hanno lo scopo di insegnare a sostenere la
difficoltà, o di relazionarti con i pensieri. L’elemento della pratica, della
disciplina, dell’esercizio è importante, anche se non va sopravvalutato, perché
poi l’incontro con l’inatteso non può essere disciplinato.
Isacco traccia questa distinzione anche nella preghiera. Da un lato parla di
tecniche della preghiera, sia corporee, come le prostrazioni in ginocchio,
simili alle metanie ancora oggi praticate nella tradizione ortodossa, sia
mentali. C’è poi, però, un momento in cui tutto questo, queste tecniche, anche
quelle mentali, cessano, e si entra nella “non-preghiera”: è quando la grazia si
dà, e la tua tecnica finisce. Viene anzi interrotta, e Isacco dice più volte che
se in quel momento tu cerchi di applicarla fai un errore. La tecnica può quindi
sì, diventare una gabbia. Nel momento in cui accade il mistero, e vieni toccato
dal mistero, devi lasciarti andare ad esso.
Cosmè Tura, San Girolamo penitente, 1470 ca.
E in cosa consiste questa dimensione di “non-preghiera”?
Sul tema della “non-preghiera” hanno scritto molti studiosi di Isacco. Si tratta
di quell’oltre in cui l’agire umano si fa da parte, e subentra quello di Dio. In
quel momento si è, per citare il titolo di un articolo di Paolo Bettiolo,
“prigionieri dello Spirito”, cioè si è in un luogo dove l’azione umana, anche la
più nobile, il portare stesso di cui si diceva, cessa, e Dio si dà. Sono luoghi
misteriosi, che proviamo a nominare, ma di cui possiamo capire poco
cognitivamente, però sappiamo che è un oltre l’azione, un oltre il cognitivo, un
oltre il discorsivo, e sappiamo che lì si dà un bene. È interessante che il
pensiero e il comprendere abbiano un limite, oltre il quale si dà qualcosa che è
al di là del soggetto, e che però il soggetto ha preparato, ha cercato in modo
molto attivo. È un po’ la comunione contraddittoria di grazia e libero arbitrio.
L’interazione tra queste due dimensioni esiste ed è indagata da Isacco, nella
consapevolezza però che non c’è tra la grazia e l’esercizio di sé un rapporto
causa effetto: c’è sempre un aspetto di mistero e di non sapere nel venire
di Dio, non programmabile attraverso l’uso di tecniche. L’uomo rimane sempre su
un crinale, dove non sa, e con questo non sapere deve fare i conti. Questo è
anche parte della vita quotidiana: il capire che la vita ha dei ritmi, ha dei
misteri, ha degli arenarsi, delle cose che non si possono controllare.
Ma quando, e perché, questo rapporto col limite e con la morte è venuto meno?
Come studiosa delle fonti spirituali posso dire quello che vedo in questi testi.
C’è stata la perdita di un duplice rapporto: con sé come creatura, e poi con una
dimensione trascendente, altra da sé. Di sicuro nella modernità abbiamo perso il
rapporto col materico, col fisico, che di certo questi autori avevano.
Però, più che capire il come e il perché questa nozione di limite sia andata
perduta, mi pare interessante notare il fatto che, eludendola, essa torni
indietro di rimando nell’esperienza. Dovremmo interrogarla, e interrogare il
limite e noi stessi, ciascuno nel suo intimo. Io non mi sento attratta dai
discorsi ampi sulla società, mi viene invece da chiedere: nel momento in cui
incontro il limite, come individuo, nella mia vita, che ne faccio? Sarò pronto
ad ascoltarlo? A sostenerlo e farne qualcosa, e usare questa prova come
apertura? A usarla come via per vedere me stesso e l’altro? Credo che i percorsi
individuali che cominciano a ragionare così potranno trovare vie nuove di
attraversamento per le difficoltà di oggi. Oltre la pressione del collettivo e
le sue dinamiche di oblio.
Secondo me non è tramite il tentativo di ristabilire la centralità del
trascendente che si ritroverà il rapporto con esso e con il limite, sebbene
comprenda questo tentativo, ma è tramite l’attraversamento dell’esperienza del
limite che ci scontreremo con la necessità di interrogazione sul trascendente.
Lì ognuno di noi sarà solo di fronte al mistero, al cercare una via di fronte al
mistero. Credo, e grazie a Isacco, che solo portando il negativo si entra in
relazione con il proprio limite, con la propria condizione creaturale, e di
conseguenza anche con ciò che è altro da sé. Isacco usa spesso un
termine, argeš, che significa “percepire”. E lo usa in riferimento alla
debolezza, dicendo:
> “beato l’uomo che ha conosciuto la sua debolezza! Questa conoscenza sarà per
> lui fondamento e inizio di ogni cosa buona e bella. Quando un uomo ha
> conosciuto e percepito (argeš) che esattamente e in verità è debole, allora
> trattiene la sua anima dal divagare” (I 8).
C’è quindi un percepire e un conoscere, ed è solo percependo la propria
debolezza, stando dunque in contatto con sé, che è possibile una conoscenza, e
con essa una trasformazione. Credo che questo sia molto moderno, e trascende il
fatto che qualcuno sia un solitario, un monaco o altro; ciascuno nella sua
individualità è chiamato, credo, a fare questo, se gli interessa tentare di
vivere con verità, cercando la verità.
Bianca Cesari
*
Fonti
Prima Collezione
P. BETTIOLO, M. GALLO (trad.), Isacco di Ninive. Discorsi ascetici 1, Roma:
Città Nuova, 1984.
S. CHIALÀ (trad.), Discorsi ascetici. Prima collezione, Magnano: Qiqajon, 2021.
Seconda Collezione
S. BROCK (ed.), Isaac of Nineveh (Isaac the Syrian).“The Second Part”, Chapters
IV-XLI (CSCO, 554-555; Scr. Syri, 224-225), Louvain: Peeters, 1995.
P. BETTIOLO (trad.), Isacco di Ninive. Discorsi spirituali: Capitoli sulla
conoscenza, Preghiere, Contemplazione sull’argomento della gehenna, altri
opuscoli, Magnano: Qiqajon, 1985 (ristampa 1990).
Terza Collezione
S. CHIALÀ (ed.), Isacco di Ninive. Terza Collezione (CSCO, 637-638; Scr. Syri,
246-247), Leuven: Peeters, 2011.
Studio principale:
V. DUCA, “Exploring Finitude”: Weakness and Integrity in Isaac of Nineveh (OLA,
309; Bibliothèque de Byzantion, 28), Leuven: Peeters, 2022.
*In copertina: Maestro dell’Emmaus di Pau, San Girolamo, XVII sec.
L'articolo “È l’ardere del cuore per l’intera creazione”. Dialoghi intorno a
Isacco di Ninive proviene da Pangea.
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Oggi sarebbe assurdo compilare una storia della letteratura francese senza
considerare Irène Némirovsky, scrittrice che, pur sorvolandone superficialmente
la biografia, porta in sé i traumi di sempre, di un allucinato oggi. Nata a
Kiev, educata in Russia, cresciuta in Francia, morì troppo giovane, troppo
brava, a trentanove anni, ad Auschwitz, nell’agosto del 1942. Ebrea accusata di
essere antisemita, amata da Paul Morand e da Robert Brasillach, pur notissima ai
suoi tempi è stata murata nell’oblio: oggi è notissima, soprattutto, per il
romanzo postumo, Suite francese, pubblicato da Denoël nel 2004, tradotto l’anno
dopo da Adelphi. Insomma: la sua storia – contraddizione topografica, salvezza e
dannazione, amore e morte, successo postumo – sembra assembrare anche la nostra.
Attaccando un pezzo pubblicato su “Avvenire” nell’aprile del 2014 (La folgorante
vendetta di Irène Némirovsky), Cesare Cavalleri – da sempre, lettore affascinato
e partecipe di I.N. – scrisse: “Non si finisce di domandarsi come mai una
scrittrice come Irène Némirovsky (1903-1942) notissima in Francia e conosciuta
anche in Italia negli anni ’20-’30 sia stata riscoperta solo nel 2004”.
Aveva, come sempre, ragione.
Per puro gioco, ho sfogliato i quattro tomi de “I contemporanei. Letteratura
francese” editi da Lucarini nel 1981. L’impresa – straordinariamente completa –
registra autori necessari, ma ormai pressoché scomparsi dal panorama editoriale
come Alain e Barrès, Paul Fort e René Ghil (il suo profilo è firmato da Daria
Galateria), Jules Romains e Francis Carco, Jean Giraudoux e Marcel Pagnol. Il
consesso è quasi integralmente di maschi, tranne le solite note (Colette, Duras,
Yourcenar, de Beauvoir…).
Oggi, appunto, sarebbe tutto diverso: Irène – assieme alle donne citate sopra –
sarebbe al centro del canone francese, in compagnia di Céline, Malraux, Camus &
Co. “Ristampata in tutto il mondo, il lettore rimane incantato dalla qualità pur
disomogenea, ma sempre alta, dei molti romanzi” (Cavalleri). Merito – questo è
ancora Cavalleri, in una aurorale recensione del 2010 – della “ossidianica
penetrazione psicologica” dell’autrice. Da tempo, i suoi libri sono trasmutati
in film. C’è dunque, in fondo all’oblio subito dalla Némirovsky – durato decenni
– non soltanto il torbido gioco della torre del fato (grandi di ieri sono oggi
misconosciuti; autori allora fraintesi sono finalmente celebrati), bensì il
sortilegio della malignità, qualcosa di pervicacemente enigmatico, come di
bicchieri spaccati in faccia al padrone di casa. Per questo, leggere la
biografia Irène Némirovsky. La scrittrice che visse due volte (Edizioni Ares,
2025, nell’ormai efficacissima collana ‘Profili’) è un esercizio di onestà: la
vita – votata agli incantesimi dell’arte, agli approdi di una solitudine
incessante – di Némirovsky è, infine, lo specchio rovesciato dei suoi romanzi,
ha i carati della tragedia europea. La biografia, poi, si legge come un romanzo
(anche le note riservano sorprese), in virtù della penna, felice, audace (che
bello, da pagina 108, scoprire analogie tra Philip Roth e Némirovsky in merito
alla ‘morale’ dello scrittore, a un’etica che coincide con l’estetica) di Cinzia
Bigliosi, francesista di spiccato talento – ha tradotto Stendhal, Maupassant,
Laclos – che ha lavorato a lungo nell’opera di Némirovsky (traducendo, per
Feltrinelli, Suite francese e per Ares, nel 2021, come Re di un’ora, alcuni
“testi inediti” e il “capitolo ritrovato di Suite francese”).
Tutto comincia dall’incontro di Cinzia Bigliosi con la figlia di Iréne, Denise
Epstein; non credo un caso, dunque, la dedica, in esergo alla biografia, ai
“miei genitori”. La storia della letteratura è anche un lavoro di scavo tra gli
scritti degli avi; è la suprema pubertà della reticenza e dell’inganno; l’uscita
dalla cerchia felice dei primi affetti; la febbre del verbo – comunque, una
questione di parentele, il ritorno al padre – o alla madre –, e così sia.
Qual è il romanzo della svolta della Némirovsky? Quale il romanzo tramite il
quale penetrare nel mondo della Némirovsky?
Penso che nella vita di scrittrice di Irène Némirovsky si possa parlare di due
romanzi, di conseguenza, di due svolte in momenti capitali precisi. Riprendendo
il sottotitolo del mio saggio, Irène visse almeno due vite editoriali ben
distinte: David Golder è il romanzo che determinò la prima svolta e che, nel
1929, le diede immediata notorietà tra pubblico e critica. Quello che in
assoluto resta il suo best seller non era la sua prima pubblicazione, ma ne
segnò la carriera con un successo fulminante. L’editore Bernard Grasset, che sei
anni prima aveva pubblicato il clamoroso Il diavolo in corpo di Raymond Radiguet
e che il “New York Times” aveva battezzato come “il più grande tra gli editori”,
se ne innamorò e organizzò un eccezionale lancio pubblicitario. Da quel momento,
fino alla deportazione ad Auschwitz nel luglio 1942, Irène fu una prolifica
scrittrice. Corteggiata dalla stampa, dalla radio e dal cinema, non restò a
lungo estranea a polemiche che riguardarono, ad esempio, le accuse di
antisemitismo mossele dagli stessi ambienti ebraici. Oltre a David Golder, il
romanzo che permette di immergersi nel mondo némirovskyano è anche quello che ha
determinato la seconda vita di Irène, vale a dire Suite francese.Pubblicato nel
2004, esplose in un successo mondiale che tuttora perdura e che l’ha
definitivamente disseppellita dall’oblio in cui il suo nome era colpevolmente
finito. È un testo unico, non solo in quanto incompiuto e postumo, ma anche
perché le sole due parti che Irène ebbe tempo di concludere raccolgono in una
certa misura la summa della sua poetica più matura, in primis il tema
dell’esilio, rappresentato per esempio dalla polverosa confusione che avvolge
l’esodo di milioni di parigini, la gerarchia sociale che si scardina sotto
l’istintivo peso del più forte, il tutto governato con uno stile severo e un
tono lirico.
Come entra la ‘russità’ nei romanzi francesi di Irène?
Vi entra in modo molto naturale, prima di tutto perché, nonostante parlasse,
scrivesse e, come ricordava lei stessa, addirittura sognasse in francese, Irène
Némirovsky, nata a Kiev nel 1903, vissuta a Mosca e Pietroburgo, era russa a
tutti gli effetti, così come lo era la sua cultura di formazione (che crebbe
insieme a lei parallelamente a quella francese incarnata dalla tata che la
affiancò fin dai primi giorni di vita). Nella sua opera il mondo russo, anche se
forse sarebbe più opportuno parlare di un mondo cosmopolita, è rappresentato da
personaggi molto affini alla famiglia d’appartenenza della scrittrice, legati
all’ambiente della finanza ebraica. Inoltre, Irène non dimenticò i poveri esuli,
gli spodestati, gli ultimi della terra e per rappresentarli si rifece per
cominciare alla figura della njanja, la vecchia balia russa, simbolo dell’esilio
direttamente mutuato dall’opera dell’amato Aleksandr Puškin e alla quale
dedicherà un omonimo racconto agli albori della carriera.
Quali sono i suoi scrittori prediletti, i suoi lari nella ricerca letteraria?
Le passioni letterarie di Irène si fondavano su un immenso repertorio
soprattutto classico di testi russi e francesi. Normalmente leggeva la domenica
pomeriggio, il solo momento della settimana in cui servitù e genitori la
lasciavano sola a casa. Gli autori più amati erano Stendhal, Balzac, Huysmans,
Maupassant, Jean e Jérôme Tharaud, Dostoevskij, Puškin – al quale aveva
intenzione di dedicare uno studio se non fosse stata uccisa prima, così come
avrebbe voluto lavorare intorno alla vecchiaia di Rimbaud. Altri amati erano
Byron, Wilde e Čechov al quale dedicò una biografia e all’origine di una grande
influenza soprattutto nello stile dei racconti. Da adulta restò una lettrice
famelica, scrisse anche recensioni di autori a lei contemporanei, con una
predilezione per gli americani, come James M. Cain. Gli scrittori che tornano
più di frequente negli ultimi mesi di vita, nella sua “nona ora”, quando era
ormai divorata da depressione e angoscia, furono Tolstoj, al quale si rifaceva
mentre scriveva Suite francese in un ipotetico parallelo con Guerra e pace, e
Baudelaire di cui per esempio poteva citare a memoria i drammatici versi
dedicati a Sisifo della poesia La scarogna.
…e i suoi amici? Intendo, di quale considerazione godeva Irène ai suoi tempi?
Avere amici veri nel mondo editoriale credo che fosse cosa rara allora come lo è
oggi. La considerazione di cui godeva Irène era sicuramente molto alta. Con il
successo di David Golder Irène Némirovsky mise piede in un ambiente culturale
che, tolta l’ingombrante presenza di Colette, era a impronta strettamente
maschile. L’Académie française, così come l’Académie Goncourt, riviste
importanti come “Toute l’édition” o “La NRF” erano tutte guidate da uomini.
L’editore Grasset, che aveva per vocazione dichiarata quella di scoprire nuovi
talenti (a spese dello stesso Proust fu il solo a raccogliere la sfida di
pubblicare per primo Dalla parte di Swann), permise a Irène di occupare uno
spazio inusuale per una giovane scrittrice fino a quel momento pressoché
sconosciuta. Cresciuta nel lusso e in un mondo lontano da quello culturale,
Irène coltivava l’ambizione di essere riconosciuta come scrittrice e quando, nel
gennaio 1930, Frédéric Lefèvre, redattore capo di “Les Nouvelles littéraires”,
le chiese di partecipare alla sua rubrica “Une heure avec… (Un’ora con…)”, ne
ebbe un’importante conferma. L’intervista aveva toni condiscendenti e a tratti
suonava piuttosto sospetta. Lefèvre vi definisce Irène “un bel tipo di
israelita”, presentandola come “un accordo raro e perfetto, l’intellettuale
slava, nota ai frequentatori della Sorbona, e donna di mondo”. Henri de Reigner
firmò un’importante recensione di David Golder per le pagine di “Le Figaro”, ma
la vera e propria consacrazione avvenne pochi anni dopo, nel 1936, quando
l’importante “Revue des Deux Mondes” pubblicò un approfondimento della sua
opera. Da quel momento Irène ne divenne collaboratrice, pubblicandovi racconti e
romanzi a puntate. In quegli anni si tenne lontana dagli ambienti
dell’avanguardia di sinistra dei surrealisti, così come dai circoli
internazionali con sede a Parigi ai quali afferivano personalità come James
Joyce, Gertrude Stein o Anaïs Nin, mentre i suoi libri venivano costantemente
recensiti da critici come Robert Brasillach che nutriva per l’opera di Irène una
passione costante anche se di intensità altalenante. Per concludere vorrei però
ricordare soprattutto quello che fu senz’altro un amico fedele e fidato di Irène
e che le restò vicino anche nei momenti più bui: l’editore Albin Michel che la
aiutò finanziandola regolarmente, anche nei difficili anni della guerra, e che
dopo la morte della scrittrice non abbandonò mai le due figlie.
Irène Némirovsky (1903-1942)
Qual è l’aspetto della vita di Irène a suo dire esemplare, un monito a designare
un destino?
L’essersi illusa fiduciosamente. Dopo essersi salvata dalla rivoluzione
bolscevica, Irène si convinse di aver trovato nella Francia una seconda patria,
una vera terra-madre. Fin da piccola parlò solo francese, conosceva a memoria
il Cyrano de Bergerac, le poesie di Baudelaire, passava le vacanze in Costa
Azzurra, si orientava per le vie di Parigi meglio che in quelle di Kiev o di
Mosca, aveva frequentato i salotti più chic, era stata corteggiata e celebrata
dal mondo culturale. Le figlie erano nate a Parigi, frequentavano le scuole
della capitale. Io credo che ad un certo punto, presa nelle maglie
dell’illusione di una perfetta integrazione, Irène smise di ricordarsi di essere
ebrea e di non essere francese. Pensava di essere semplicemente una scrittrice
di successo con una vita sufficientemente felice. Sconcerta lo sgomento che
traspare dalla lettera che indirizzò al generale Pétain il 13 settembre 1940,
incredula di fronte all’applicazione indistinta delle leggi razziali a tutti gli
stranieri, una cittadina seria e riguardosa, residente da tanti anni in Francia
come lei si sarebbe aspettata la presunzione di innocenza, con la distinzione
tra gli stranieri integrati – gente per bene, in regola con le tasse e dedita a
rispettare e a onorare lo Stato ospite – e quelli indesiderati, dei bassifondi,
malfamati e disonesti truffatori. Forse Irène ancora non aveva capito che per il
governo collaborazionista lei non era che una ebrea e perdipiù straniera.
Che idea di donna, del femminile proviene dai romanzi della Némirovsky?
Un’idea di donna molto complessa e conflittuale, spesso scissa tra due
tentazioni il più delle volte fallimentari: il vecchio modello borghese di madre
e moglie e la spinta delle più giovani a rovesciare tale paradigma, cadendo il
più delle volte sotto il peso della stessa atavica condanna. Le figure femminili
nell’opera di Irène Némirovsky si muovono a coppia, come le madri (o le balie) e
le figlie – dove il tema del tempo e dell’invecchiamento è preponderante,
insieme alla mancanza di amore materno così come di riconoscenza filiale. Le
donne descritte da Irène sono, con rare eccezioni, personaggi drammatici, ma di
grande soddisfazione per la scrittrice che quando riusciva finalmente a
inventarsi ad esempio una madre cattiva provava pura gioia.
La ‘morale’ dell’arte. Irène pare badare a una propria estetica più che a una
sorta di cautela ‘politica’. I romanzi devono essere belli, non ‘buoni’. È così?
Che conseguenze ha questa coerente sprezzatura nella vita di Irène?
Quando fin dalle prime pubblicazioni fu accusata di antisemitismo, Irène spiegò
che non si trattava di una posizione politica ma estetica e necessaria, e
continuò a descrivere gli ebrei così come li aveva conosciuti, fino a quando
poté farlo almeno. Si dichiarò antipolitica e si mosse senza troppo far caso al
mondo che le stava bruciando intorno, agli ebrei che sparivano né alle
recensioni nelle quali ci si riferiva a lei sempre più spesso dandole della
slava. Vivere per la propria arte è pericoloso. Irène restò assorta e immersa
nella scrittura fino alla fine. Anche quando era ormai certo che non avesse più
tempo, scelse di correggere e di riscrivere lunghe pagine di Suite francese,
investì le ultime ore di vita in quello che sarebbe rimasto il suo libro
incompiuto e postumo. Era incauto, così come lo era stato scrivere di ebrei con
nasi adunchi e un’inestinguibile brama di denaro, ma era ormai necessario morire
per e nell’opera, un’immagine quanto mai proustiana. Tra il salvarsi e lo
scrivere, Irène non ebbe dubbi e scrisse fino a poche ore prima di essere
deportata.
Perché i romanzi di Némirovsky continuano ad affascinare, secondo lei? Cosa c’è
in quella scrittura di allora che ci comprende, che ci prende, ora?
È la stessa Irène che può rispondere a questa domanda con l’ultimo appunto che
scrisse sul quaderno di lavoro l’11 luglio 1942, due giorni prima dell’arresto.
Riflettendo sul senso della scrittura e, in generale, sul rapporto tra destino
collettivo e destino individuale, annotò che la cosa più importante per lei era
quella di ricordarsi che
> “i fatti storici, rivoluzionari, ecc. devono essere solo sfiorati, mentre
> quella che viene approfondita è la vita quotidiana, affettiva, e soprattutto
> la commedia che è specchio della realtà di tutti i giorni”.
Solo questo resiste nel corso dei secoli: la commedia di tutti i giorni, uguale
ed eterna per l’individuo, come per noi e come per il lettore di Apuleio o di
Rabelais. Un secolo prima di Irène Némirovsky Charles Baudelaire si rivolgeva al
lettore chiamandolo mon semblable, mon frère. Io credo che l’irresistibile senso
di familiarità che si prova leggendo Suite francese o Il ballo o Jezabel dipenda
dall’eco inconfondibile che risuona nell’animo di ogni lettore di emozioni e
sentimenti eterni, come la solitudine, l’estraneità, il tradimento, l’arrivismo,
le promesse mancate, l’opportunismo, il terrore del tempo che fugge. È in fondo
lo stesso motivo per il quale l’orrore di Amleto di fronte al letto paterno
spodestato è anche un po’ il nostro, così come tutti ci troviamo quotidianamente
posti di fronte a scelte etiche, dolorose e punitive, tra giusto e ingiusto,
interrogandoci su se sia meglio essere o non essere.
L'articolo Vivere per l’arte. Irène Némirovsky, la scrittrice infinita. Dialogo
con Cinzia Bigliosi proviene da Pangea.
Qualche tempo fa, sfogliando il primo numero di “niebo”, la rivista in rivolta,
ordita da Milo De Angelis. La copertina – nero su bianco – diceva “giugno 77”,
si diceva – è vero – di Omero e di Paul Celan, di Hölderlin e di Gottfried
Benn. Giancarlo Pontiggia compiva venticinque anni e in quel primo numero di
“niebo” è il poeta più rappresentato. È difficile, per chi strologa tra
fenditure di superficie, riconoscere nel poeta di allora, quello che scrive “Ah
divaricata e ora dentro/ nella pietra lupestre sotto il luno/ le labbra/ il tuo
stridere vento e strina la/ bocca”, il Pontiggia di oggi. Non è un caso se
l’esordio di questo poeta antico e dunque perennemente giovane accada nel 1998
(Con parole remote, Guanda), vent’anni dopo quelle audacie, quelle ragazzate in
versi. Eppure. Io trovo una continuità, rintraccio lo stesso discorso tra il
ragazzo del “bestiario frigido e/ inquieto”, fitto di “animaletti e bestioline”,
di “cielo e stelle”, e il poeta che oggi, nel suo libro più compiuto, ultimo, La
materia del contendere (Garzanti, 2025), fa dire a Marco Aurelio, l’imperatore
imperituro nel filosofare:
> “Quando il tempo viene meno,
> e la ragione ci implora: ‘non interpellarmi più’,
> quando
> nemmeno tu che hai governato il mondo,
> puoi più credere in quel mondo,
> onora la maestà del pensiero, sii fedele,
> sii
> come uno che accende il fuoco,
> entra nella notte
> fa ssst,
> con il dito poggiato sulla bocca”.
Quello che fa ssst, nel tempo senza tempo della poesia, è il Pontiggia ragazzo –
il Pontiggia ragazzo che lancia un assist al Pontiggia di oggi – uno apre il
fuoco, l’altro lo protegge: che ne imbiondiscano i sassi. Il Pontiggia ragazzo
parlava di un “luogo delle fate”, scriveva – in un saggetto sgargiante per
screziature grammaticali –: “Le bestioline lo azzannano, lo rodono, con la
scienza del ghigno. È una corda senza nodi. Si straripa”. Io credo che La
materia del contendere – titolo tratto da un passo di una poesia dall’attacco
fulminante: “Tutto è pieno di dèi, di vita che pullula./ Oppure: non c’è un bel
niente,/ ma un niente che pullula di sogni” – sia il punto in cui straripa la
poesia di Pontiggia. Una corda senza nodi, cioè: un serpente; una corda che si
fa parete di ghiaccio.
Pieno di fuoco, di fuchi del fuoco, questo libro, che ha per guardiani Eraclito
e Virgilio, e diversi altri numi, numerosissimi, fatti melma, però, in un
linguaggio che ha l’austerità di chi scruta gli astri, di chi fa affiorare
presagi e precordi tra i dadi. A chi piace il gioco delle risonanze (un giogo,
infine): veda, in controluce, il Pavese di “Leucò” (in Cos’è bene e cos’è male,
ad esempio), qualche latino di fronte a un’Arcadia di rovine, frantumi di
Borges, forse, i bagliori di un epigrammista, Ovidio meditato da Mandel’štam.
Tuttavia, Pontiggia non è poeta di stucchi né di ‘mestiere’: è poeta avventato
(cioè, che ha il vento dentro, non gli stagni odierni, artificiali), che si
sporge nell’avvenire, è un poeta inattuale, del tutto, che traduce i ‘segni’ in
versi.
Alcuni brani hanno il cataclisma della rivelazione; Il mondo nuovo, ad esempio:
> “Chi se li ricorda, i tempi
> di un tempo che fu, remoto, inaccessibile,
> che compare, ogni tanto, in sogno, per chi sogna,
> ancora.
> Ma nessuno più sogna, credimi,
> e questo è per voi, che venite di lontano,
> l’ostacolo più grande: resistere
> al sonno che vi invade, e annienta
> la mente che ragiona. Dai sonni, lunghi e ramosi,
> discendono i popoli dei sogni, che vi si appiccicano addosso,
> come ragne liquorose nella cella
> della mente.
> Ma nessuno più sogna, qui, dal tempo
> dei tempi che furono, e chi ci arriva, come voi, di lontano,
> si abitua a non farne,
> e così diviene simile a noi, ombra
> come tutti”
L’impeccabile equilibrio di Pontiggia è tale perché sempre sul punto del crollo,
della brocca che non regge, del futuro in pezzi. In questo libro – così pieno di
ombre, le frasche del fuoco, i suoi vessilli – il poeta s’intride nei primordi
dell’uomo, dice l’uomo prima dell’uomo (“Qualcuno scende dal Pleistocene,/
appena dopo la grande glaciazione,/ dice/ che sta per giungere uno,/ un uomo, un
mortale/ che aspira all’ordine dei cieli,/ cammina come se volasse…”), per
scongiurarne l’incendio, forse, per un soprassalto d’assoluto.
Libro da studiare come si sondano i petroglifi, certi che oltre la pietra è
carne ciò che ci artiglia, che il primate non ha il primato del linguaggio – e
tutto, atrocemente, docilmente, ci parla.
La ricorrente brocca di Pontiggia fa pensare in effetti all’annaffiatoio del
Lord Chandos di Hofmannsthal; anche il poeta, come quell’altro, può dire, “sento
un gioco di corrispondenze entusiasmante, davvero infinito dentro e attorno a
me… non v’è alcuna cosa in cui io non sia in grado di trasfondermi. Allora è
come se il mio corpo fosse composto di vere cifre che dischiudono ogni cosa”.
Questa continuità tra il poeta e il creato impone un continuo esilio dal dono:
si è a sentinella, a protezione. È “la vita che ci assale”, scrive Pontiggia –
porre un telaio nel caos, farne fuggire il filo come si rifugge da un fuoco
troppo netto, dalla lama troppo tesa.
Insomma, a far tonsura di questo vagabondaggio per enigmi pretendo Pontiggia al
dialogo.
Da dove arriva questo libro, di ombre e di fuochi, del fiume e dell’ibisco,
dell’allarme e del sussurro? Ne ricavo una via, bifronte, dalle epigrafi: si
parte con Eraclito, l’oscuro, si chiude nel candore di Virgilio, ecloga decima.
Insomma, dimmi.
Hai colto meravigliosamente, caro Davide, il senso delle due epigrafi, che
devono essere considerate parte integrante del testo: due immagini-pensiero, due
sentenze, entro le quali il libro si trova come raccolto. Il frammento eracliteo
ci parla del moto incessante delle cose, e della contesa che lo governa: quello
virgiliano della dimensione statica e utopica di un mondo pastorale, quasi una
memoria dell’età aurea di cui aveva scritto Esiodo. Moto e quiete: due stazioni
dell’animo umano, due modi della nostra percezione del mondo e del vivere. E il
canestro che il pastore sta intessendo con il suo «ibisco sottile», è in fondo
il libro che ho scritto: i poeti tessono da sempre i loro libri, li tessono e
ritessono, e a volte anche li disfano, come una tela perenne, che è come una
metafora della grande tela del mondo.
Parlano le ombre, in questo libro, “anime, stridono”, diresti. Mi viene da
chiederti, allora, dove sono i morti, chi sono queste ombre che ci fanno visita
e dimorano in noi, che cos’è, dunque, la morte…
Sì, quante ombre, e quante visite, in questo libro. Molte affondano nella
materia della mia infanzia, quasi uscissero da quel secchio che accoglie la
pioggia della vita, e sta alle origini di ogni nostro sentire. A volte solo
nomi, come quelli che compaiono alla fine della poesia intitolata In viaggio
(Altre ombre, sogni, vento): compagni di giochi dell’infanzia, per i quali la
vita fu così breve, ma colti in un momento di tregua, forse di splendore. E
l’ombra di mio padre, che popola diverse delle poesie del libro, a cominciare
da Una piuma d’oro, tutta intessuta intorno ad alcuni emblemi del mito –
classico e poi cristiano – della Fenice. Ma ci sono anche ombre fantastiche,
come quelle che vengono dalla grotta di Lascaux, o come la misteriosa voce che
parla dietro la porta dell’Istmo, e racconta in pochi versi l’intera sua vita. E
ombre di grandi, come Marco e Giuliano, che governarono il mondo, e si trovano
all’improvviso a contemplare qualcosa che non avevano previsto. Ma questo è un
libro di voci, ognuna delle quali porta con sé il proprio destino: voci che
parlano, gemono, stridono, sognano, a seconda della loro natura, e del vivere
che fu loro dato. Ciascuna con la sua sporta di gioie e di dolori, che
s’insaccano nel gran bulicame delle cose del mondo. Ma cos’è morte, nessuno di
noi lo può dire, anche se in una delle ultime poesie del libro si osa parlarne
con l’unica logica possibile, che è quella del paradosso:
> «un salto
> che nessuno ha mai fatto,
> e tutti fanno».
Vado a tentoni. Mi sembra che il tuo libro vada sfogliato come si sfibrano le
braci del fuoco, in attesa, cioè, quasi, di una ‘rivelazione’: che sia cenere o
abbaglio o bisbiglio. Già… ma quale rivelazione? Cosa insegui in questo
peregrinare di fuochi, di catabasi, di sogni?
Su questo libro hanno aleggiato, a lungo, le potenti immagini di un film
come Ordet di Dreyer. Lo dico piano, quasi temendo di essere equivocato, ma
questo è un libro traversato dai soffi dell’impensato, dove una brocca che
s’infrange può tornare a ricomporsi, così come una foglia strappata dal vento
tornare al suo ramo. Epifanie della speranza, mi piacerebbe chiamare queste
immagini, che sembrano fare da argine al potere buio delle cose che devono
seguire il loro corso. Miracolo contro Necessità. E così la morte, come
nel Settimo sigillo di Bergman – un altro nume, da sempre, della mia
immaginazione poetica – può anche essere distratta dal canto di nenia di una
madre. Parlo della poesia intitolata A un passo da ieri, dove la Morte si posa
> «su una forcina di bimba,
> si assopisce per un po’ al dondolio di una cuna,
> di una nenia
> che sembra soffiata dentro un vetro
> una bolla
> di voce che ha il suono del vento, la luce
> della neve che scende».
Questa poesia è come la risposta alla crudele ninna nanna tratta (ma con molta
libertà) da un frammento di Simonide: una ninna nanna per un bimbo che non è
più, e che riposa «sotto un cielo di chiodi di bronzo». Ma questo è tutto un
libro che procede per disgiunzioni e opposizioni: ed è questo il senso del
contendere che il titolo esprime. Una contesa di forze che abitano il mondo come
il nostro cuore. Penso alle anime che stridono, sì, ma sanno a volte parlarci
con immagini di vita e di rinascita, sovvertendo ogni principio:
> «è
> come essere in un nero
> che abbaglia, come
> scendere una scala, aprire una porta, trovarsi
> all’improvviso in alto»…
E anche qui, nella seconda parte della poesia, la Morte incespica, e cade
(Anime, stridono).
Sembri il più antico – e il più giovane, dunque – dei poeti italiani viventi,
per quel dire che sa di Antologia Palatina, di stare al desco coi lirici
antichi. Quali sono, in questa tua ricerca, in questa poetica, i tuoi lari, le
letture, i maestri?
Tantissimi, come puoi immaginare: la poesia, per me, non è mai stata un atto
individuale, semmai un processo collettivo, che si stratifica nel corso dei
secoli, insieme alla lingua che evolve, cambia, eppure è sempre la stessa, con
le sue procedure, che sono logiche e analogiche insieme. Mi verrebbe da dire che
in ogni verso di questo libro la contesa è tra immaginazione e pensiero, densità
fisica e molecolare del mondo e impennate del cuore che non ci sta, e un po’
stride, un po’ canta. E i suoi lari, i lari che in una poesia compaiono per
ripristinare – nella forma simbolica di una brocca – un ordine del vivere e del
sentire che sta per andare in pezzi, sono soprattutto i filosofi morali che
rileggo ciclicamente dagli anni della mia adolescenza: Seneca, Epitteto, Marco
Aurelio, Montaigne, perfino il Nietzsche della Gaia scienza, con tutti i suoi
dolorosi paradossi, i suoi patti mancati con la vita. E naturalmente i grandi
tragici, che irrompono nell’età classica di Pericle mantenendo ancora intatte le
energie immaginative di quella arcaica: parlo di Eschilo e di Sofocle,
naturalmente, con le loro parole intinte di destino e di pietà, sorrette da una
logica così inconfutabile, da poter affondare nelle acque del mistero.
Mi sorprende leggere poesie che registrano le voci di Lascaux, voci
pleistoceniche: quasi a cercare il punto in cui l’uomo diventò umano, il punto
in cui iniziò la caduta, l’ascesa. Da dove provengono quei versi?
Tocchi forse il punto decisivo del libro, che è tutto, dall’inizio alla fine,
una meditazione sull’uomo e sulla sua storia. Il cuore del discorso sta, per
quel che posso dire, alle pp. 63-68, dove si danno, nell’ordine, le seguenti
quattro poesie: Lascaux, voce; Telai, gnomoni, yo-yo; Il mondo nuovo; Dal
Pleistocene. Il mondo nuovo è quello che sta arrivando, e di cui ben poco, in
realtà, sappiamo; e certo porta in sé i segni dell’infero. È un mondo laborioso
e insonne, che si erge però su un vuoto inquietante, privo di desideri: un
grande apiario umano disertato anche dal sogno e dalla parola. La poesia che
parla di telai, gnomoni e yo-yo (un gioco dei miei anni Cinquanta, che molto fa
pensare alle leggi della quantistica) è una meditazione sul tempo. Le altre due
retrocedono nella misteriosa, profondissima fessura del preistorico, quasi una
sorta di Rift Valley del tempo e della vita da cui salgono gemiti, voci,
visioni. Poi succede che qualcuno, dal Pleistocene, scorga il futuro dell’uomo
senza sapere «se è il caso di essere contento». O che un basolo della via Appia,
dalla sua prospettiva, senta la fragile vanità dei processi storici, che si
dissolve nella rete profonda della Natura. Ma un po’ tutto, in questo libro,
parla di origini, di sacre acque, di disordini cosmici:
> «Ed è un bivacco di ere,
> che tumultuano, conglomerano. Padri
> che rotolano in altri padri. Materia
> che s’impenna, delira
> in vortici di fuoco».
>
> (Dillo tu)
La materia che delira è l’uomo: e in quel delirare – che etimologicamente indica
semplicemente un uscire dal seminato, un contraddire delle forze in atto – è
tutta la sua grandezza e la sua vanagloria.
A un certo punto, l’intuire i pensieri estremi di Marco Aurelio. Perché proprio
lui, l’imperatore pensatore che visse quasi sempre in guerra? A che
quell’estrema rivelazione, dove pare “che il tempo non sia mai stato”?
«Visse quasi sempre in guerra»: eppure volle persistere nel pensare. E non solo
pensieri astratti, ma pensieri che nascevano da volti, luoghi, affetti. Il primo
dei dodici libri dei suoi Ricordi è tutto composto di dediche: diciassette in
tutto, e l’ultima è agli dèi. Diciassette, che in numeri romani significava
morte: VIXI. Gli ho voluto prestare pensieri che nascono dalla disgregazione e
dalla rovina della filosofia in cui aveva sempre creduto, che era poi lo
Stoicismo nuovo di Epitteto, integralmente fondato sui valori etici. Eppure, nel
penultimo di questi frammenti, Marco sente che proprio per questo bisogna
continuare a onorare la maestà di una dottrina, restare fedeli a qualcosa che fu
grande. L’epoca di Marco è molto simile alla nostra: un mondo sembra finire, la
mente umana sembra precipitare in forme che lasciano perplesse le menti
migliori, e le riempiono di una misteriosa inquietudine, ma anche di uno strano
senso di attesa, come si dice nei primi due frammenti della poesia, che andranno
letti congiuntamente. Come se il secondo completasse, nella mente di chi pensa,
il primo, ma dopo un certo lasso di tempo. E in mezzo a quel vuoto, è tutto lo
stupore dell’inaudito, lo stupore che secondo Aristotele stava all’inizio di
ogni forma di conoscenza:
> «Inseguendo il fruscio del vento una sera mi persi
> in un anfratto di vita nascosta»…
> «E vidi stelle che non brillano per noi, eppure brillano,
> e nomi di popoli che non conosciamo».
Quale il distico, il cuneo di versi che meglio ti distingue, in questo libro, e
perché?
Tra le tante, scelgo una sequenza che sta proprio all’inizio del libro, ed è la
strofe conclusiva della poesia intitolata Un secchio (Origini).
> C’è un cuore austero
> prima di ogni verso
> e sogni, e cieli, e intonaci
> e tutta la vita del mondo
> che stride, gorgoglia
> come un ranocchio di fiume
> al suo primo salto
Dentro questa poesia ci sono le mie origini, che affondano in un mondo rurale:
quel secchio è un secchio vero, come tutte le brocche, le scodelle, i chiodi, le
stoffe, i bicchieri, le anfore che popolano il libro: oggetti primi del vivere,
un po’ come le lettere e i suoni dell’alfabeto per la nostra lingua. Dentro quel
secchio ci pioveva l’acqua del mondo, vera e simbolica insieme, come sempre
dev’essere ciò che entra in un verso.
E dentro quell’acqua, ci sono anche le mie origini poetiche. Se parlo di un
prima della scrittura, è perché credo che la poesia non sia un mero esercizio di
lingua: occorre una lingua per fare poesia, ma prima ancora una visione, che
viene da lontano, cioè da ben prima di noi, da una genealogia di padri e di
madri, di storie e di luoghi che sono ancora qui, e popolano il nostro
immaginario.
Ma questo, per come è stato scritto e mi si è mostrato a un certo punto del suo
tragitto, è tutto un libro di cose prime: quelle che contano per davvero, che
designano una forma del nostro essere, e trovano il loro senso – starei per dire
un compimento, se la parola non rischiasse discorsi fuorvianti – nella piccola
cella del nostro cuore. Di cose prime, ma anche ultime: perché ultimo non è
altro che l’anello che si aggancia al primo. Bisogna mantenere la purezza prima,
austera del cuore, per scrivere un verso, e lo slancio di quel ranocchio che
gorgoglia al suo primo salto.
Lui è Giancarlo Pontiggia
E ora? Dove cerchi?
Ancora sto seguendo l’onda di questo libro, che nelle intenzioni avrebbe dovuto
essere il mio libro più limpido e leggibile, e che invece mi sta apparendo, dopo
la pubblicazione, come il più labirintico, forse il più enigmatico fra quelli
che ho scritto.
C’è qualcosa di pauroso e di luttuoso nella storia dell’uomo, che ben
conosciamo, ma che le nuove forme della tecnologia stanno liberando da ogni
senso di pudore e di rimorso: il futuro che ci attende sarà probabilmente un
mondo feroce e anestetizzato, dominato dalla sofistica delle nuove macchine, e
da una sorta di devitalizzazione dei sentimenti. Ma questa è solo una
previsione, confortata dal fatto che di solito le previsioni umane non sono mai
all’altezza dei fatti: e questo ci riempie di sollievo. Vorrei ricordare al
lettore giovane, inevitabilmente fuorviato dal poco che ancora conosce del tempo
e delle sue infinite accensioni, che i processi della storia sono soltanto una
fortuita accozzaglia di possibili, alcuni dei quali entrano nel presente come se
fossero più veri degli altri: ma lo diventano, non lo erano.
Come scriveva Baudelaire, L’imagination est la reine du vrai, et le possible est
une des provinces du vrai(«L’immaginazione è la regina del vero, e il possibile
una delle province del vero»), che è un’osservazione stupefacente, quasi una
definizione di ciò che la poesia dovrebbe sempre essere, indipendentemente dal
tema che assume: non puoi escludere il vero dalla tua riflessione, né fingere
che la storia non ti modelli, ma neanche puoi arrenderti all’idea che il mondo
sia soltanto quello che vedi. E mi viene in mente la prima parte di un frammento
di Eraclito:
> «La vita è un fanciullo che gioca, che muove i suoi pezzi sulla scacchiera».
Sì, la poesia porta in sé questa energia vitale, danzante, che alla fine vince
ogni malinconia: per dirla con Esiodo, sono i piedi delle Muse che battono
sull’Olimpo.
*In copertina: Georgia O’Keeffe, Starlight Night, 1917
L'articolo Miracolo contro Necessità. Dialogo con Giancarlo Pontiggia proviene
da Pangea.
Augusto Del Noce, fu tra i più notevoli e “inattuali” interpreti tanto del XX
secolo, quanto di quella tradizione filosofica italiana che nasce sotto gli
auspici e la lezione di Giambattista Vico. Un pensatore cristiano (anche se tale
categoria è estremamente riduttiva) che oltre le facili categorie
gramsciazioniste, storiciste e reazionarie dell’epoca cercò una via alternativa
(ispirata alla tradizione filosofica italiana e cristiana) per pensare il
Novecento e l’Italia. Delineando una filosofia che decodifica i veri nodi della
modernità e profetizza con lucida contezza i tanti sviluppi e le tante derive
del panorama politico e culturale italiano ed europeo. In questo senso la
lettura di Augusto del Noce si prefigura come una tappa obbligata, per laici e
cristiani, razionalisti e irrazionalisti, e lettori delle più varie famiglie
culturali e politiche, per confrontarsi con le vertigini della modernità e i
nodi del pensiero e della politica contemporanea. Per tale ragione non può non
essere letto il nuovo saggio sul pensatore torinese scritto da Luciano
Lanna (attualmente direttore del Centro per il libro e la lettura del Ministero
della cultura): Attraversare la modernità. Il pensiero inattuale di Augusto Del
Noce, edito da Cantagalli con una densa prefazione di Giacomo Marramao e un
inedito testo delnociano del 1961. Lanna, studioso irregolare, lettore
infaticabile ancor prima che giornalista (professione che ha svolto per tanti
anni), ha dedicato al pensiero e alla cultura la sua nutrita attività
saggistica. Dottore di ricerca in scienze filosofiche e sociali, si è sempre
interessato del pensiero del Novecento e delle ricadute del movimento delle idee
sul piano politico. Per meglio comprendere le idee e il pensiero delnociano
abbiamo, quindi, intervistato il direttore Luciano Lanna.
Quali sono i tratti caratteristici della figura e del pensiero di Augusto del
Noce e quanto è attuale la riflessione delnociana?
La riflessione del filosofo torinese si colloca per intero all’interno di quello
che Hobsbawm definì il “secolo breve”, non fosse per il fatto che Del Noce
nacque nel 1910 e ha lasciato questa vita alla fine del 1989. Dico questo per
spiegare come il suo pensiero si è subito modulato come una interpretazione
filosofica del presente storico. Per Del Noce una filosofia che non fornisca
risposte agli interrogativi che il proprio tempo presenta si annulla di valore.
E anche per questa attitudine, per la sua natura di filosofare attraverso la
storia, definisce una inevitabile valenza di attualità. Rileggendo bene alcune
profezie delnociane successive al 1963 si rilevano molti dei tratti
caratteristici del nostro presente, soprattutto quelli più inquietanti. Tanto
che paradossalmente, nel sottotitolo del mio libro, parlo di “pensiero
inattuale”.
Ovvero?
Proprio nel senso di una capacità di saper guardare oltre i limiti del
presentismo anticipando scenari a venire.
Perché la filosofia di Del Noce è metapolitica?
Perché, sin dall’inizio, si prospetta come una filosofia in presa diretta con il
presente storico e con la storicità in generale. È uno stile filosofico che
conduce inevitabilmente a un percorso metapolitico in cui la riflessione
teoretica si contamina con la storia e con gli eventi politici e il pensatore
esce consapevolmente dall’accademia per confrontarsi con tutte le forze in campo
nel processo storico in cui si è coinvolti. Ogni autentica battaglia politica è
anche, per Del Noce, una battaglia filosofico-culturale, e dietro ogni vero
dibattito politico non può non soggiacere, e quindi essere elaborata, una
interpretazione della storia contemporanea che tenga uniti principi filosofici e
lettura del processo storico. Sarà un pensatore postmarxista come Costanzo Preve
a attestare la lungimiranza di questa attitudine delnociana spiegando che
> “quando il momento politico propriamente detto appare bloccato è
> indispensabile una deviazione verso un momento metapolitico, perché solo
> all’interno di una conversione metapolitica preliminare può avvenire una
> rinascita su nuove basi del momento politico propriamente detto”.
Come si colloca Augusto del Noce nel Novecento italiano ed europeo?
Si colloca nel cuore di quel dramma ed esperimento filosofico-politico che è
stato il Novecento, sia italiano sia europeo. Per quanto riguarda in particolare
il nostro paese, Del Noce era infatti convinto della centralità e della
paradigmaticità della esperienza italiana sulla interpretazione transpolitica
dell’intera storia contemporanea. E questo, va precisato, non arbitrariamente o
per partito preso, ma anzi con argomentazioni fortemente stringenti e motivate.
Quando parliamo di esperienza italiana ci si riferisce alle specificità politica
e culturale dell’Italia quale campo sperimentale dell’intelligenza politica e
filosofica nell’approccio alla modernità. Per dirla tutta: Del Noce coglie nella
via italiana alla modernità una serie di percorsi – da Vico alla filosofia del
Risorgimento, passando per Dante, Gramsci e Gentile – in grado a suo dire di
comprendere il Moderno in tutte le sue sfaccettature. Di individuarne gli
scacchi e gli esiti nichilistici ma, anche, di prospettarne uno sbocco diverso.
Quello di una modernità con l’anima e aperta alla trascendenza. Stabilito che
Gentile con l’attualismo perveniva allo stesso esito immanentistico di
Heidegger, solo rovesciandone il pessimismo nichilismo in un futurismo
ottimistico, Del Noce affronta – sino al suo ultimo libro, uscito postumo – la
riflessione gentiliana che, a suo dire, obbligava a un ripensamento dell’intera
storia della filosofia moderna. Al punto che “per affrontare la questione della
modernità, l’attualismo è davvero un documento decisivo”. Ecco, l’opera
principale di Del Noce, Il problema dell’ateismo, va intesa in questo senso come
uno dei testi chiave, al pari delle opere di Heidegger o di Löwith, della
riflessione novecentesca europea.
Come si pone Del Noce rispetto al tema della “organizzazione della cultura” e
nello specifico dell’egemonia culturale?
E qua arriviamo a Gramsci, che fu il teorico della cosiddetta organizzazione
della cultura e del concetto di egemonia culturale. Autore al quale Del Noce
dedica un suo importante lavoro del 1978, Il suicidio della rivoluzione. Ma sul
tema Del Noce fu chiaro come pochi. Il pensiero dello studioso sardo conobbe,
dopo varie alternanze, un periodo di successo in Italia nel periodo che va dalla
seconda metà del ’74 all’autunno del ’76. La sua riscoperta si imponeva
nell’ambito marxista dopo il declino di Lukàcs e il fallimento della scuola di
Francoforte. Quando tutto sembrava mettere in luce come la via gramsciana fosse
l’unica attraverso cui il marxismo e l’eurocomunismo potessero affermarsi in
Occidente. È una riscoperta che condusse a una nuova contrapposizione
nell’Italia degli anni Settanta: non più quella classista tra capitalismo e
proletariato ma tra un “risorgente fascismo” e un “rinnovato antifascismo”,
tanto da trasformare il fascismo in una categoria – come sottolineava Del Noce –
“metastorica”. Il risultato è stata una ricomprensione italiana del marxismo
attraverso una sua declinazione storicistica e illuministica che coincide con il
compromesso con la borghesia in funzione antifascista. Scompare del tutta
l’anima rivoluzionaria, messianica e soprattutto antiborghese del comunismo e si
finisce in una declinazione, per così dire, laica, democratica e antifascista. È
l’eurocomunismo. Per cui il gramscismo, secondo Del Noce, conduce dritto dritto
al “suicidio della rivoluzione”, alla sua eutanasia, al suo cedimento alle
logiche della società borghese e tecnocratica. La via nuova al socialismo,
conclude il filosofo torinese, diventa transizione dal vecchio al nuovo
capitalismo. Altro è il discorso delnociano sulla formulazione di una via
metapolitica verso una egemonia diversa da quella neomarxista, illuminista o
azionista. Tanto che tutto il suo impegno si mosse in questa direzione, a
cominciare dal suo supporto decisivo a case editrici come Borla o Rusconi,
guidate dal suo allievo Alfredo Cattabiani. Sino al suo collaborare con le
riviste cielline come “Il Sabato” e “30Giorni”… Nel mio libro parlo esplicitante
di “via editoriale alla metapolitica”.
Che tipo di interpretazione dà il filosofo del Sessantotto?
Non banale né scontata. Come egli stesso spiegherà in Appunti per una filosofia
dei giovani, la contestazione se interpretata nel suo significato etimologico,
era una messa alla prova della cultura immanentistica moderna. Se, nonostante il
suo esaurirsi, l’immanentismo rimaneva attivo come mentalità dominante negli
anni Sessanta, il cristianesimo e le culture sapienziali sopravvivevano solo
come perbenismo borghese e come ricordo di un mondo consegnato al passato. Ed è
proprio a questo compromesso di facciata che il ’68, secondo Del Noce, pose le
domande necessarie e radicali da parte di giovani generazioni insoddisfatte dal
compromesso. Poi, Del Noce, che troverà sintonia con la scuola di Francoforte e
gli autori del primo ’68, contesterà la successiva deriva gramsciana e
barricadera che il movimento intraprenderà. Così come Del Noce contesterà gli
accenti surrealisti espressi da alcuni leader sessantottini. Mentre, in
positivo, si ritroverà con la declinazione che della contestazione daranno don
Giussani e i suoi amici.
Quale continuità c’è tra Del Noce e la migliore traduzione filosofica italiana
(da Vico a Machiavelli, da Gioberti a Gentile)?
Del Noce, ricordiamolo, è un filosofo cattolico che non si forma nell’alveo del
tomismo o dell’università cattolica. Ha sempre avuto fede ma il suo percorso si
delinea nell’ambito della cultura laica, di cui tenta di evidenziare le
contraddizioni, le aporie, gli scacchi. Studia nello stesso liceo di Leone
Ginzburg, Norberto Bobbio e Cesare Pavese. All’università studia con pensatori
laici. Ma individua da subito una via alternativa rispetto al filone Bruno,
Spaventa, Croce, Gobetti, Gramsci… In lui il filo è quello che parte da Vico, si
innesta nel pensiero cattolico del Risorgimento, incrocia pensatori irregolari
come Tilgher, Rensi, Martinetti… E si precisa nell’incontro col suo maestro
Carlo Mazzantini.
Cosa intende per approccio ucronico alla dimensione storica e come mai tale
paradigma è la chiave del pensiero delnociano?
La storia, per Del Noce, non è come per tutti gli immanentisti, siano essi
illuministi, idealisti, storicisti, marxisti o positivisti, un percorso lineare
e deterministicamente inteso. La storia è aperta. Del Noce riprende un concetto
coniato da Charles Renouvier, secondo il quale la storia non va vista come una
freccia ma come un albero con tante ramificazioni possibili e dalle quali è
sempre possibili ripartire. La modernità non è a una sola dimensione. Nessun
determinismo potrà mai ingabbiare la storia. Ecco perché Del Noce è fuori del
binomio tradizionalismo/progressismo. E la sua fiducia nella storia come
continua e aperta esegesi è attestato da alcune parole del suo ultimo scritto:
> “Ora che è in via di esaurimento, il ciclo rivoluzionario si svela non un
> processo irreversibile, come avevano ritenuto sia i progressisti che i
> tradizionalisti, ma un processo storico reversibile, contro cui è dunque
> possibile combattere”.
Del Noce negli anni della sua formazione scopre l’ucronia tramite Adriano
Tilgher, un pensatore che mutuando il concetto da Renouvier lo utilizzò contro
lo storicismo crociano. E in qualche modo, anche attraverso la meditazione del
maestro di Renouvier (Jules Lequier), Del Noce ne adotterà l’ispirazione di
fondo nel suo superamento di qualsiasi filosofia della storia.
Augusto Del Noce (1910-1989)
Come nasce questo libro e come è evoluto nel tempo la sua stesura e anche il suo
autore?
Il libro riprende una mia tesi di dottorato proprio dal titolo “Attraversare la
modernità. La filosofia di Augusto Del Noce”, ma di fatto è il risultato di un
work in progress iniziato sui banchi dell’università, proseguito con il mio
continuo confrontarmi con i saggi che Del Noce pubblicava sui quotidiani e su
riviste. Ricordiamoci che Del Noce scriveva editoriali sul quotidiano “Il Tempo”
nella stessa fase in cui Pier Paolo Pasolini scriveva i suoi sul “Corriere della
Sera”. Tra l’altro il poeta di Casarsa era stato invitato a farlo dal
vicedirettore del giornale di via Solferino che poi era Gaspare Barbiellini
Amidei, un delnociano. Infine, per quanto mi riguarda, ho voluto comparare
l’opera di Del Noce con quella di altri autori da me studiati negli anni, a
cominciare da Gentile, Jünger, Zolla e Heidegger… Un lavoro che, nel tempo, ha
affinato e approfondito la mia stessa prospettiva di pensiero, in particolare
nella interpretazione della modernità.
A quale frase e citazione di Del Noce è più legato?
Senz’altro a questa:
> “Riflettere oggi sull’attualità storica non è affatto un sostituire alla
> ricerca intorno all’eterno una ricerca intorno all’effimero: corrisponde
> invece al senso preciso di una frase spesso ripetuta, che il compito che oggi
> resta al filosofo è quello della decifrazione di una crisi. Perché, oggi, la
> scommessa, ci è imposta dalla realtà storica stessa”.
Francesco Subiaco
*In copertina: un’opera di Nicolas De Staël
L'articolo Augusto Del Noce: elogio di un pensatore “inattuale”. Dialogo con
Luciano Lanna proviene da Pangea.
La lucertola di Casarola è il titolo della poesia che battezza l’ultimo libro di
Attilio Bertolucci, uscito nel 1997 per Garzanti. La scena ha la luce olimpica
dell’infanzia, una specie di celestiale crudeltà. “Ricordo che bambino
m’incitavano/ a mozzar loro la coda – non temere,/ rinasce, non temere – e io a
rifiutare, caparbio, silenzioso”. La poesia parla, in forme sotterranee, di ciò
che permane e di ciò che va, della cenere e dell’indomito. Nella caparbietà, nel
vello del silenzio, si intravede – come l’autoritratto di un pittore del
Rinascimento, viso che fissa lo spettatore dall’angolo tra la massa
degli altri – la firma del poeta. Un gatto fissa la scena, la figura rettile che
appare e scompare. L’ultima lassa sfiora l’oracolo, una forma verminosa della
luce:
> “Sciocca felina, ignara
> dei cunicoli cui torna, non fugge,
> l’abitatrice avanti te e me
> di questa verde plaga occidentale”.
Secondo Paolo Lagazzi – in un libro, La casa del poeta, di leggiadra magia, ora
edito da La Nave di Teseo, che assembla “Ventiquattro estati a Casarola con
Attilio Bertolucci” – si tratta di una poesia-rivelazione: “la lucertola
appenninica, ricca di cunicoli in cui nascondersi per tornare, di sortilegi per
riemergere dalle proprie ferite, racchiude in sé la forza di ciò che dura e
durerà sempre, attraverso e oltre i dubbi e i dolori la vita – e la poesia che
in essa si cerca e riflette”. Forse quel rettile – figura di una vita non
rettilinea – simboleggia la poesia stessa di Bertolucci: all’apparenza comune,
sorgiva, come l’erba e le lucertole; in verità, retrattile, sapiente al
mezzogiorno, edotta nei meandri dell’oscurità. Così, nel suo discorrere – come
di chi è uso ad abusare della pazienza dei morti, come chi sa imbonire il
miraggio, disperdere l’inganno in una fiaba: si legga l’insuperabile Per un
ritratto dello scrittore da mago, Diabasis, 1994, poi Moretti & Vitali, 2006 –,
Lagazzi dice della luce frontale di Bertolucci, gioviale Giove, principesco
nell’avita Casarola, conficcata nell’Appennino parmense; non ne cela le aspre
ombre. La crisi-catabasi del 1958, ad esempio – gli anni in cui il poeta
comincia la lunghissima elaborazione del poema familiare La camera da letto –,
in cui Bertolucci sperimenta ‘il terribile’, il mostro interiore; il
gemellaggio, spiazzante, tra allegria e desiderio di isolamento; amicizia e
reticenza.
Con nobile andare, da patriarca, Bertolucci ha attraversato tutti i tempi della
cultura italiana: negli anni Trenta dirige per Guanda la collana “La Fenice”;
vent’anni dopo guida “Il gatto selvatico”, la rivista dell’ENI; sarà alla
direzione di “Nuovi Argomenti”. Amico di Vittorio Sereni e di Pier Paolo
Pasolini, fu consulente per Garzanti; con Viaggio d’inverno (1971), tra l’altro,
ottenne l’“Etna-Taormina”, nell’anno in cui presidente di giuria era Eugène
Ionesco. In calce a La casa del poeta, Bernardo Bertolucci, primogenito di
Attilio, appunta, “Continuo a chiedermi: e io dove ero?”. A significare, credo,
la placida inafferrabilità del padre; il talento di un padre di ‘liberare’ i
figli, che sappiano librarsi da sé. Chissà fino a che punto i grandi film di
Bernardo – Ultimo tango a Parigi, Novecento, L’ultimo imperatore… – sono
debitori dello sguardo di Attilio. Nei ricordi di Pietro Citati – riferiti da
Lagazzi – “Appena parlava c’era odore di prati emiliani, di Tasso, di
letteratura inglese, di famiglia, di mucche, di dolcezza e di infinita
saggezza”.
Bertolucci amava Thomas Hardy e William Wordsworth; amava Proust – ha tradotto
Baudelaire. Certo, la sua opera può avvicinarsi a quella pittorica di Vermeer:
una luce fiamminga, esatta, non priva di enigma. Nel Ritratto di giovane
gentiluomo di Lorenzo Lotto, una lucertola sfida l’uomo che ci guarda,
drappeggiato da un’insanabile mestizia, mentre sfoglia un libro. Creatura a
sangue freddo che si nutre di luce, ne fa scorta per i suoi viaggi sotterranei –
sapersi nascondere, disgustati dalle mode, è il tono del poeta. Luce-lucertola,
nostra verde torcia.
Nella sua ultima intervista, concessa nel gennaio del 1977 alla Radiotelevisione
Svizzera, Cristina Campo parla della lucertola come emblema della vita, al
contempo solare e terribile:
> “Non mi sono mai posta il problema, perché si vive? Per me è un miracolo…
> Avere visto una lucertola che prendeva la buccia di una pera, stando sopra il
> mio piede, e la portava alla femmina, come un dono, mentre il sole tramontava.
> Ecco, che bello essere creati… o che cosa spaventosa in altri momenti”.
>
> (in: Ottanta poetesse per Cristina Campo, Magog, 2023)
La nuda vita, la mera vita – una fredda incandescenza, come la spada che fa lo
scalpo al sole. Nella prefazione alle Operedi Bertolucci, inscatolate nei
‘Meridiani’ (Mondadori, 1997), Lagazzi dà forma al concetto così:
> “Non molte sono le opere del secolo in grado di procurarci un così intenso e
> nutritivo batticuore perché assai rara è la capacità di restituire la vita
> nella sua struggente evidenza, e non solo come onda del tempo, fino al
> mormorio più segreto (il fruscìo d’una tenda che sbatte, il brivido d’una
> clessidra), o come brusìo di voci prima del silenzio finale, ma anche come
> verità di colori, di corpi e di tracce irriducibili alla corrosione del
> tempo”.
Quando sento Lagazzi, la sua gioia è già presagio di un gioco di prestigio.
“Andremo a Casarola… ti porterò a Casarola… e sarà una giornata memorabile”. E
s’intuisce già, nel fondo, il mormorio dei prati, le lucertole che guizzano,
quei rettili delfini, un dio aprico, con l’ascia e l’aratro, e il mormorio della
parola memorabile fa di questo mondo, immediatamente, una ventura. Che la cosa,
poi, accada, o rimandi all’assalto dell’impossibile, poco importa. Il grigio non
esiste.
Bertolucci, ancora: descrivimelo in tre aggettivi.
Potrei dirti che era seducente, vero e imprendibile.
Col primo aggettivo voglio dire che aveva quel dono molto raro, forse concesso
dagli dèi solo ai maestri, che è il fascino personale nel senso più profondo,
psichico, magico, sciamanico. Avvicinarlo davvero era impossibile senza
lasciarsi sedurre, incantare, plagiare.
Col secondo aggettivo voglio sottolineare che il suo modo d’essere, per quanto
tendente all’affabulazione nel quotidiano e alla rêverie nella scrittura, non
era mai astratto, non fuggiva mai per la tangente, non si perdeva in discorsi
vacui o retorici: c’era in lui, vivissimo, un bisogno di chiarezza, concretezza,
fisicità, un bisogno di muoversi con un passo e un respiro giusto che era anche
una necessità etica, e che nasceva dalle sue radici contadine e cristiane.
Nonostante la sua concretezza era a suo modo imprendibile, e dicendo questo
alludo al fondo mercuriale del suo spirito, alla sua intima mobilità, al
continuo trascolorare delle sue parole e delle sue fantasie tra le apparenze e i
segreti della vita, ai suoi andirivieni fra naturalezza e malizia, agli
spostamenti velocissimi del suo sguardo sul mondo, alla sua refrattarietà a
essere incasellato in categorie, al suo grande bisogno di libertà, al suo
sentimento della vita come avventura feriale, come magia e grazia, come
radicamento delle parole e delle cose anche più umili e comuni nel mistero.
Esiste, per tua esperienza, una consustanzialità tra il corpo del poeta e il suo
corpus lirico, tra la tempra etica e quella estetica? Mi riferisco, va da sé, a
Bertolucci: fino a che punto l’uomo combaciava con il poeta – e viceversa?
Ha scritto Pietro Citati che sentirsi un poeta era per Bertolucci come essere
“un bollito o una patata al forno”: una realtà naturale, accettata con assoluta
innocenza. A mia volta ho ricordato nella Casa del poeta una lirica in cui Paolo
Bertolani dice che Attilio sapeva trasformare in poesia qualunque gesto, fosse
pure passare un giornale dalle proprie mani a quelle dell’ospite o versare il
vino a tavola. Anch’io ho sempre avvertito una continuità essenziale fra la vita
e la poesia nel carattere e nel destino di Attilio.
Ciò non significa affatto che covasse il seme dell’estetismo. La fonte prima e
necessaria della poesia era per lui la vita: la poesia non era vera se non si
nutriva di vita, ma a sua volta “sentire” la vita nelle sue risonanze profonde
non gli era concesso se non nella luce della poesia. Poiché era impossibile
sbrogliare questo nodo con le forbici del pensiero, ho letto e riletto per mezzo
secolo la sua poesia e ho camminato fianco a fianco con lui, ho respirato i suoi
soffi lirico-epici e ho condiviso molti suoi momenti umani, soprattutto a
Casarola. Mi sono lasciato intridere dal batticuore aritmico dei suoi giorni e
dei suoi versi, ho cercato di accogliere e di lasciare che si muovessero dentro
di me la luce e la pazienza, i lati umbratili e la joie de vivre che
percorrevano il tempo della sua esistenza e le pieghe mobili della sua opera.
Amava il jazz, il cinema, Verdi e Proust, è vero, ma qual è la vera ‘miccia’
culturale di Bertolucci, quella che lo animava?
Forse il “la” alla creazione poetica di Attilio lo ha impresso la pittura,
perché la sua poesia è anzitutto immagine, sguardo, visione. L’immagine è per
lui il modo che ha il mistero vitale di manifestarsi nella luce. Guardare non è
mai un esercizio “teorico”: è invece pura esperienza d’immersione nelle forme
dell’essere, nei colori vivi e cangianti delle cose nel flusso del tempo.
L’amore del poeta per la pittura precede l’incontro con Roberto Longhi (avvenuto
nel ’35); già Sirio (del ’29) e Fuochi in novembre (del ’34) vibrano e brillano
di riferimenti pittorici impliciti o dichiarati, da Monet a Bonnard, dal liberty
a Modigliani, da Picasso a De Chirico. L’insieme delle scoperte della modernità
pittorica è stato per il primissimo Bertolucci un crogiolo d’impareggiabile
vitalità, una trama screziata di possibilità sperimentali, un invito al viaggio
della poesia tra i sortilegi della luce e dell’ombra. Naturalmente la pittura (e
subito dopo il cinema, sorta di pittura in movimento) è stata solo il “la” della
sua avventura poetica: nel tempo l’amore per i maestri moderni e antichi della
visione si è intrecciato sempre più fittamente con la passione per Proust, per
Verdi e per altri poeti, soprattutto inglesi e americani. Ma è significativo
che, ancora nel ’43, alla richiesta di Luciano Anceschi a tutti i poeti
dell’antologia Lirici nuovi di fornirgli uno scritto di poetica, Attilio abbia
risposto con quelle celebri righe sulla propria poesia come ricerca di “un po’
di luce vera” orientata verso fari della pittura quali gli impressionisti e
Vermeer.
Sul senso dell’amicizia e della famiglia in Bertolucci. Dimmi.
Benché nel carattere di Attilio fosse esplicita la componente narcisistica, in
lui era altrettanto viva è vera la capacità di amare, il calore dei sentimenti.
A parte quello per i genitori e il fratello, l’amore fondamentale della sua vita
era quello per Ninetta. Lei era tutto per lui: donna “dolce e pericolosa” e
tenerissima compagna, musa e anima tutelare, regista degli spazi domestici e
fonte, fino agli ultimi anni, di turbative scintille d’eros… L’amore per lei e
con lei era un’esperienza privatissima, qualcosa come un sogno da sognare in
due, eppure da quel sogno, da quel nocciolo irriducibile di bellezza erano nati
i figli. L’amore si era rivelato una forza espansiva: la solitudine di coppia si
era trasformata in una famiglia… In questo movimento di apertura continuava a
irradiarsi un calore intimo, simile alle tante rêveries di fiamme e di fuochi
che attraversano la poesia di Attilio; eppure né l’amore per Ninetta né quello
per i figli ha mai assunto nello spirito e nell’opera del poeta i tratti
dell’idillio. Il bisogno di essere amato e di amare è sempre percorso in
quest’opera poetica da tremori, brividi, lievi sussulti, ombre, timori, ansie,
fantasmi… Quando lei si allontana, anche di poco, in lui sale una fitta
d’angoscia; a loro volta i figli saranno presto risucchiati dal “fuori”,
dall’altrove, dal lontano, e vani saranno gli esorcismi messi in atto dal padre
(come nella struggente lirica I pescatori) per trattenerli, per rendere eterno e
inattaccabile dal tempo il cerchio incantato della famiglia. Tutto questo non va
inteso alla lettera. Attilio non era quel “ragno” vischioso di cui si è
favoleggiato, dedito solo a intrappolare moglie e figli in una ragnatela nutrita
d’ansia, senso del possesso, gelosia, ossessione, egoismo. Ninetta è sempre
stata una donna intimamente libera, e lui l’amava proprio per questo. A loro
volta i figli non sono mai stati tanto condizionati dal padre da non poter
lanciarsi in tutte le avventure, verso tutti gli orizzonti. Attilio stesso
desiderava che questo avvenisse: non è forse stato lui a propiziare l’incontro
fra Bernardo e il Pasolini regista, incontro decisivo per la vita e la
straordinaria carriera del primo?
Attilio era uno spirito “di soglia”: se cercava di preservare dalle ombre i suoi
spazi intimi – le sue dimore, la sua famiglia – era altrettanto portato a
uscirne, a respirare i soffi del mondo. Questo secondo lato del suo essere non
riguardava solo il rapporto con la natura ma anche quello con la società. Era
curioso come Proust, gli piacevano i nuovi incontri, amava esplorare ambienti
diversi. Fin da giovanissimo aveva amici che nutrivano le sue giornate di parole
scambiate passeggiando o nelle lunghe soste in qualche caffè. Anche la scoperta
precoce del cinema non sarebbe stata un’occasione di tale vitalità se non fosse
stata da lui condivisa con amici quali Pietrino Bianchi e Cesare Zavattini.
Certo questa sete di amicizie non era priva di un retroterra amaro e nevrotico.
L’allegra disposizione al confronto, alla chiacchiera e anche al gioco si
alternava con momenti in cui prevaleva il lato schivo e ombroso, il desiderio di
solitudine, la voglia di fuggire “via dalla pazza folla”. Eppure prima o poi
riemergeva sempre in lui il bisogno di aprirsi agli altri, di condividere i
momenti, di gustare il piacere dell’incontro, perfino di “perdere il tempo” per
poterlo magari, un giorno, ritrovare.
Il nostro incontro durato ventisette anni è stato – non ho timore di dirlo – una
grande amicizia. Nello scritto che accompagna il mio libro La casa del
poeta (nella prima edizione era la prefazione), Bernardo dice che l’espressione
“grande amicizia” riferita al rapporto tra suo padre e me “suona riduttiva e
semplificatoria”. Senza dubbio lui era per me non solo un amico ma anzitutto un
maestro e in un certo senso anche un secondo padre (questo l’ha capito e detto
molto bene Emanuele Trevi nella prefazione alla nuova edizione del libro).
Eppure se torno a sottolineare la grande amicizia fra noi è in primo luogo
perché mi sembra che riuscire a essere veramente amici sia sempre più difficile
nei nostri anni. Da alcune persone che ho ritenuto a lungo grandi amici sono
stato, infine, tradito. Questo non è mai successo con Attilio. Non potrò mai
dimenticare il suo sguardo l’ultima volta che lo vidi. Eravamo a Roma nel suo
appartamento. Era tanto malato che sarebbe vissuto solo altri due mesi, eppure
ne suoi occhi resisteva qualcosa – una luce, il segno di una specie di letizia –
che non so esprimere ma in cui mi parve di riconoscere il senso del nostro
incontro come dono reciproco, come destino.
…gli hai fatto qualche gioco di prestigio?
Sì, ho offerto diverse volte dei giochi di prestigio a lui, a Ninetta e anche ai
loro ospiti di passaggio. Una volta a Casarola io e mio fratello gemello Corrado
(da giovanissimi ci eravamo esibiti in varie occasioni, anche in alcuni teatri,
come prestigiatori dilettanti in coppia) abbiamo portato da Parma una gran
quantità di attrezzi magici e nella locanda Tramaloni abbiamo allestito un vero
e proprio show invitando tutti gli abitanti del paese, specialmente i
bambini. Ricordo la felicità di Attilio in quell’occasione. Era lo spettatore
perfetto: sapeva benissimo che il solo atteggiamento giusto di fronte a un
prestigiatore è stare al gioco, abbandonarsi al piacere dell’illusione senza
cercare di capire il trucco. Secondo me è lo stesso atteggiamento che
occorrerebbe a ogni critico di fronte a un testo letterario in grado di
suscitare incanto. Il buon critico non cerca di smascherare il testo, di
rivelarne i congegni o i doppifondi, di smontarlo come un meccanismo o di
dissezionarlo come un cadavere utilizzando i bisturi della scienza (dalla
psicanalisi alla linguistica alla semiotica): accetta, invece, di lasciarsi
sedurre, di lasciarsi invadere dalle sue vibrazioni magiche, dalla trama mobile
delle sue illusioni per restituirne almeno una parte ai lettori con le proprie
parole.
Ultima. Una poesia-emblema di Bertolucci, quella a cui sei più legato – e
perché.
Forse Il tempo si consuma, collocata al centro esatto di Viaggio d’inverno.
Scritta nel 1957, in un momento di grave crisi psichica dell’autore, questa
poesia sa illimpidire lo strazio trasfigurandolo “in stupore e in
contemplazione”, per riprendere parole dedicate da Montale a Saba. Un padre (il
poeta) entra in una chiesa romana all’ora della messa festiva, in cerca del
giovane figlio; non vedendolo è assalito dall’ansia; ma un quadro che
rappresenta Gesù mentre, bambino, aiuta Giuseppe nel suo lavoro di falegname, lo
rincuora – e proprio dal ritorno del coraggio scocca l’abbandono giusto, quello
che lo porta finalmente a individuare il figlio nell’“agitazione terrena/ delle
ragazze e dei ragazzi tenuti/ lontani dal bel sole di domenica”.
> Così, d’improvviso, in un angolo vicino
> alla porta, t’ ho ritrovato, quieto
> e solo, m’hai visto, ti sei
> accostato timidamente, ho baciato
> i tuoi capelli, figlio ritrovato
> nel tempo doloroso che per me e te
> e tutti noi con pena si consuma.
Sul piano della visione il testo si sviluppa come una scena filmica scandita in
tre momenti: l’ingresso del poeta nella chiesa e la panoramica inutile del suo
sguardo sui banchi; la zoomata verso il quadro sul fondo; l’incontro col figlio.
Attraverso i passaggi ottici, è una complessa vicenda spirituale a dipanarsi
nell’anima del protagonista fra il suo improvviso inabissarsi in un vuoto
generante terrore, il conforto che nasce dalla bellezza colta nella sua natura
più semplice e sacra (il “garzone/ di falegname, Gesù”) e il ritrovamento del
figlio insieme al riaffiorare della fiducia. Con una pregnanza e limpidezza
davvero evangeliche (penso alle parabole del figliol prodigo e della pecorella
smarrita), la poesia si squaderna come dramma di un tempo sospeso e ondeggiante
fra la perdita e il ritorno del calore vitale, tra la piccola morte della
distanza e la “resurrezione” dell’incontro, tra il brivido dell’assenza e la
luce dell’amore ancora possibile.
Per quanto mi riguarda, non credo d’aver incontrato molte volte, nel Novecento,
una voce tanto vibrante nella sua forza umile e salvifica, nel suo soffio capace
di lenire le ferite profonde dei nostri cuori.
L'articolo La vita come magia: Attilio Bertolucci, il poeta del batticuore.
Dialogo con Paolo Lagazzi proviene da Pangea.
Comunque, è un trafficare tra le ombre – è un cenacolo. Oh, sì: spalancare le
briciole sul palmo, fino al bruciore, e vedere i morti che vengono a
becchettare. Morti con il volto da ghepardo, morti immortali e morti morituri.
Morti che stanno in tasca, come un fiammifero.
Da un po’, inseguo le tracce fantasmatiche di Ivano Fermini. Ho letto alcuni
versi folgoranti; ho ricostruito alcuni percorsi. Milo De Angelis ne fu il
sulfureo, il negromante. Mi accenna ad Aldo Nove. Gli scrivo. Risposta secca, a
tagliagole – più tardi verrà il bene, viene dopo, al calor bianco, al netto di
tutto. Leggi questo. Inabissarsi. In quel libro, uscito per il Saggiatore – che
“ha in corso di pubblicazione la sua intera opera” – Aldo Nove parla di poeti,
di poesia, di un sé nell’Illiria lirica. Questa frase è a pagina 103:
> “Lo portavo sempre con me, negli anni terribili e salvifici del liceo, Georg
> Trakl. Fino a che non scelsi di suicidarmi con la stessa dose di cocaina con
> cui Trakl si tolse la vita”.
Poco prima, Nove ha ricalcato Grodek, la poesia suprema e terribile di Trakl,
“La sera risuonano i boschi autunnali/ di armi mortali…”. Inabissarsi è anche un
libro pieno di poesie – poesie che sono un allarme, poesie disarmate.
Inabissarsi significa anche catapultarsi in una catabasi. Che faccia male è
certo. I morti fanno le capriole. A volte, hanno una cresta di aculei sulla
schiena.
In Inabissarsi si parla di Ivano Fermini. Si parla anche di Milo De Angelis e di
Nicola Crocetti, di Franco Buffoni e di Silvio Raffo. Si parla di Elio
Pagliarani che compra le arance. Qualcuno – forse Cesare Cavalleri – mi ha
parlato di come Eugenio Montale comprava i carciofi. Ecco. “La consapevolezza di
un’arancia”. Così scrive Aldo Nove per farci capire cos’è un poeta. Attraversare
la crosta del frutto, “intuirne le proprietà, quasi fosse un pianeta”. Come le
arance di Cézanne, come la melità delle mele di Cézanne che tanto affascinò
Rilke.
Un capitolo di Inabissarsi è dedicato a Ivano Fermini. Nato a Bolzano,
trasferitosi a Milano, fece, a moti ondivaghi, l’operaio, “aveva degli enormi
baffi neri”. Fermini è morto vent’anni fa. Un giorno Fermini chiede a Nove se
può vivere con lui e Tiziana, “una ragazza a cui volevo molto bene, ovviamente
fino a che non ci siamo detestati a vicenda”. La cosa “non era possibile né
aveva senso”. Il poeta si dilegua. “Da quel giorno non lo vedemmo più”.
I poeti fanno così. A volte si disintegrano davanti ai nostri occhi per eccesso
di prossimità. A volte i poeti fanno la crisalide. A volte i poeti sono come
l’acqua in un secchio. Devi annaffiare le piante prima che si affollino, a
carapace, le zanzare.
Aldo Nove ha scritto che nella poesia di Fermini “tutto è primordiale. E succede
per la prima volta”. Abbiamo deciso di ripubblicare, dopo troppi anni, le sue
poesie, scollegate da ogni oggi, impossibili, bellissime.
Inabissarsi è dedicato a Federica Fracassi, l’attrice, e inizia con “lo schifo
assoluto di questo momento storico, la vergogna quotidiana di essere passati
alla forma più sofisticata ed efficace di dittatura, quella delle nostre
menti…”. Questo scrive a pagina 10 Aldo Nove:
> “Una poesia senza vita è nulla, oppure uno degli ennesimi giochi imperanti
> della finanza globale, cioè il fantasma mortale di qualcosa che non ha altro
> scopo che rapinare energia all’umano tradito, quasi ormai estinto.
>
> Una vita senza poesia è la trasformazione in atto dei «cittadini», o meglio
> degli umani, in automi obbedienti e non pensanti, quasi non più senzienti per
> la propria acquisita organicità a un gioco astratto di cifre appresso alle
> quali correre affannosamente per mantenere in piedi il nostro puro dato
> biologico”.
Il libro è costellato da fotografie di poeti – poeti fanciulli, eterni puer.
Amelia Rosselli bambina sulle spalle del papà, ad esempio.
Si parla – con ampiezza d’aquila – di Lorenzo Calogero, l’abbagliante poeta di
Melicuccà, Calabria.
Che libro superbamente eversivo, questo. Eversione perfino dal verso, dal fare
il verso a se stessi – c’è qualcosa di messianico nel poeta (quello vero, non
supino all’oggi, suino, alieno alla biada della fama, sfamato dai cieli) messo
alla gogna, insinuato nell’insulto, solitamente sputato, che spunta dove meno
credi.
Un giorno mi scrive “sono 8+3-2”; un giorno mi chiama “brillo” – brillio, dico.
Di Nicola Crocetti ricorda, “mi ha insegnato una fedeltà assoluta, nella totale
incuria verso il misero interesse personale”; ricorda che è stato “spesso
tradito da personaggi infami che ne hanno intuito e sfruttato biecamente la
sprezzante indifferenza verso il denaro”.
Insomma, parte un dialogo – all’incirca. Accerchiati da questo continuo crollo.
Come se il crepitio fosse uno scrivere a crepapelle – i volti posti all’azzurro
e congioire dei fiori, un rogo.
Scrivi: “La poesia è un destino. Il destino di chi libera tutti”. Cosa
significa?
La poesia (e il poeta, che ne è “l’umile messaggero”, per citare Nanni
Balestrini) esiste proprio in quanto destino, il che, mi sembra, indica una
sorta di escatologia empirica, immediata: “adesso”. Provo a dirlo diversamente:
la poesia disvela che non c’è nulla da svelare se non la trappola del
linguaggio, che il poeta sbroglia nell’atto della scrittura. Quell’attimo di
attività paradossale è il destino (di libertà, di autenticità) della poesia.
Che rapporto c’è tra il poeta è la Storia? Il poeta è nel mondo o è fuori dal
mondo – è mondo o immondo?
Come diceva Borges a proposito di Dante, entrambe le cose. “Movimento dello
spirito nel tempo”, a inaugurarne le stagioni e gli abissi. La Storia del resto
è fare narrazione… i fatti… esistono?
Esiste a tuo dire un rapporto consustanziale tra il poeta, l’uomo poeta, e la
sua poesia? Intendo, tra estetica ed etica?
Credo di sì ma è una questione talmente personale da sfuggire a qualunque
etichetta. Poeti si è se si vive la poesia. Altrimenti, come diceva Rilke
in Lettere a un giovane poeta, è davvero meglio lasciare perdere e guardare San
Remo.
Qual è il poeta che ti ha affascinato, la poesia che ti ha folgorato?
Ora c’è la disadorna di Milo De Angelis e Invece della rivoluzione di Nanni
Balestrini. Due scarti, nella mia vita, improvvisi e totali.
Che cos’è lo ‘spirito’? Qual è la tua poetica dell’esistere?
“Trasumanar per verba non si poria”.
Scrivi, in sostanza, che la poesia è una liberazione dalla “trappola” del
quotidiano? Poesia, allora, sempre sovversiva, eversiva? Ma a cosa serve infine
la poesia?
La poesia serve a distruggere lo squallore del quotidiano per riportarlo alla
sua materialità e ricostruirlo. Dura poco… è un gioioso, o se non è gioioso ne
vale la pena, mito tra Sisifo e Ulisse incantato dalle Sirene.
Nel tuo canone portatile quali sono i poeti primari, i poeti re?
Tanti, troppi. I già citati Balestrini e De Angelis, tra i contemporanei,
insieme a Valduga e Lamarque. Nella seconda metà del Novecento Giudici e
Zanzotto. E poi la triade Carducci Pascoli D’Annunzio. E indietro Tasso e
ovviamente Dante. E i Salmi…
La poesia a scuola: come si fa, cosa bisogna fare?
Escluderla. La scuola attualmente non ha nulla a che fare con la poesia. La si
conosce altrove. Chi ne ha bisogno la trova.
Parlano di Scurati, oscurando Georg Trakl: perché? Cos’è questa cosa detta
‘cultura’?
Si segue chi “ave del suo cul fatto trombetta” (Dante, nelle Malebolge). Siamo
in una scorreggioteca. La cultura è nelle catacombe. È nelle catacombe che si
dipanò nel mondo e nei secoli il messaggio cristiano. Tutto ciò che si propone
come ‘culturale’, oggi, è merda che crea hype: più puzza, più se ne parla. Si
deve ricominciare da zero. Anzi da tre, come diceva il grande Troisi. E pochi ma
buoni lo stanno facendo. Tra tutti, immenso, Nicola Crocetti.
L'articolo “Siamo in una scorreggioteca. Si deve ricominciare da zero”. Ovvero:
sulla poesia come destino. Dialogo con Aldo Nove proviene da Pangea.
Nikola Madzirov è un segugio degli spiragli, si fa ispirare dalle strettoie,
entra, con il coltellino, nel corpo dell’assente. Così, in una città, fotografa
la camera d’albergo in cui è ospitato: in quel luogo anonimo resistono le tracce
di chi vi ha soggiornato, di chi vi abiterà, anche soltanto per una notte. Ogni
stanza è un bosco. Della sua vita riferisce dettagli che frugano
nell’incredibile: il nonno, profugo dalle infinite guerre balcaniche, che scava
per costruire la nuova casa; le antiche armi degli Ottomani bendate da vortici
di vermi, necessari alla pesca, esche per sopravvivere. Un Omero frugale giace
interrato tra i dedali di questa storia.
In una poesia tra le più belle raccolte in Ciò che abbiamo detto ci
perseguiterà (Crocetti, 2025), Silenzio, Madzirov scrive:
> “Non esiste il silenzio nel mondo.
> Lo hanno inventato i monaci
> per ascoltare ogni giorno i cavalli
> e le piume che cadono dalle ali”.
Nato a Strumica, Macedonia, al confine tra Grecia e Bulgaria, profugo al proprio
tempo, espatriato dalla Storia, classe 1973, Nikola Madzirov è un vagabondo
della poesia. Charles Simić, il grande poeta serbo che fu premio Pulitzer, ha
detto che leggere Madzirov “è come scoprire un nuovo pianeta nel sistema solare
dell’immaginazione”. Piuttosto, Madzirov ti mostra le cose da un’angolatura
inattesa, pone le cose in un candore che le fa nuove. Così, mi racconta della
madre che conservava gli spazzolini da denti usati, certa “che custodissero
ancora al loro interno un granello dell’anima di chi li aveva usati”; del padre
che con uno spazzolino da denti usurato, ora, pulisce la lapide della moglie,
“con la stessa cura di un archeologo”.
Madzirov parla come scrive: poeta la cui infanzia è stata bendata da destino di
guerra, poeta post-sovietico, totalmente europeo, che non si interessa dei
‘massimi sistemi’, ma delle cose minute, dimenticate, smunte, che in sé
nascondono un cosmo. Non gli importa scoprire la chiave che squaderna i mondi,
ma la chiave sepolta nel comodino della nonna, di una casa che non sarà mai
aperta, apparentata a distruzione e fuga.
Piero Salabè, il traduttore di Madzirov – lavora in Germania, per la Hanser
Verlag, i suoi libri sono editi da La Nave di Teseo –, ha riconosciuto in lui un
lignaggio che, oltre a Simić, tiene insieme Lucian Blaga e Nichita Stanescu,
Vasko Popa e Zbigniew Herbert. Il titolo del libro di Madzirov mi ricorda un
versetto dal Vangelo di Matteo, il tremendo imperare di Cristo: “di ogni parola
vana che gli uomini diranno, dovranno rendere contro nel giorno del giudizio”.
Eppure, nella poesia di Madzirov si parla di nomi inauditi, di interdetti al
dire, di “parole/ sotto le pietre assieme alle ombre sepolte”. Nei suoi toni –
confessionali, ‘vegetali’, in esubero – riconosco l’andare per fiumi di Álvaro
Mutis, gi acquazzoni musicali di Bregović.
Grazie a una serie di borse di studio internazionali, Madzirov gira il mondo,
scrive con l’estro dell’istrione e del lottatore; coordina il network di poesia
“Lyrikline”, che ha sede a Berlino. Quando parla – a identificare una poetica –
cita Octavio Paz e Hannah Arendt, Walter Benjamin, le “Filter Yugoslavia”, le
guerre nei Balcani, Arvo Pärt; alcuni suoi versi sono stati messi in musica da
Oliver Lake, sassofonista statunitense che ha lavorato, tra gli altri, con Lou
Reed e Björk. Il 4 aprile prossimo, Madzirov sarà in Italia, a Venezia, tra i
protagonisti del Festival Internazionale di Letteratura “Incroci di civiltà”. In
alcuni suoi versi si fa il ritratto:
> “Mi sono distanziato da ogni verità sull’origine
> degli alberi, dei fiumi e delle città.
> Il mio nome sarà una via degli addii
> e il cuore apparirà sulle radiografie”.
E poi ti dice che il poeta è una foglia sull’albero dell’imprevedibile, che
bisogna confidare nella solitudine. C’è qualcosa di cavalleresco e antico in
Madzirov, poeta prode, pronto al cammino – così diverso da chi deterge una
carriera sul lamento e sulla litania, da chi crede, allevato all’aia, di essere
alloro, di avere l’oro a fior di dita. No: bisogna sentire l’urlo del fiume, le
grida scheggiate della gente – e dire della poesia la sua natura di zappa, di
torcia, di scettro.
Che rapporto esiste, a tuo dire, tra il poeta e la Storia? Il poeta è una
sentinella ai confini della Storia, ne è un avventato avventuriero, è un
espulso? Può cambiare la Storia, il poeta, o subisce gli eventi storici?
Responsabilità del poeta è rispondere alle storie “ufficiali”, sia che si tratti
di una revisione emotiva dei libri di storia, sia che si tratti di costruire una
storia personale che parta non dal giorno della propria nascita, ma dal giorno
in cui si inizia a ricordare. Il poeta deve essere abbastanza forte da delineare
un confine distintivo tra storia e ricordo, così come è necessario che il poeta
faccia una distinzione tra menzogna e immaginazione, o tra globale e universale,
poiché il globale è più una categoria geografica, mentre l’universalità è umana
e temporale.
Quando i miei antenati, profughi dalle guerre balcaniche dell’inizio del secolo
scorso, iniziarono a scavare la nuova terra per costruire la loro nuova casa, si
imbatterono in antiche spade risalenti all’epoca dell’Impero Ottomano, che
dominò su questi territori per cinquecento anni; mio nonno era più interessato
ai vermi che trovava mentre scavava: li usava per pescare, per sopravvivere in
tempi di povertà. Stava creando una storia di sopravvivenza e non era
interessato all’importanza archeologica degli oggetti che non gli portavano
cibo.
Sono nato al crocevia tra le battaglie storiche che sono state combattute nel
cortile dove vivo e il mistero della terra che copre gli oggetti perduti,
appartenuti a persone vissute qui prima di me. Hannah Arendt dice che nulla di
ciò che è, nella misura in cui appare, esiste al singolare; tutto ciò che è, è
destinato a essere percepito da qualcuno. La pluralità è la legge della terra.
Vivo nei Balcani, dove tutte le guerre iniziano con le battaglie per un passato
migliore. La guerra ha il suo plurale – le guerre vanno e tornano come cani
affamati davanti a una macelleria chiusa. Solo la poesia esiste al singolare.
Eppure, se la poesia esistesse al solo scopo di affermare “verità” storiche,
sarebbe già diventata storia da tempo. La storia è il primo confine che voglio
attraversare.
Che rapporto esiste, nella tua esperienza, tra il poeta e l’esilio, l’esultante
espulso, l’inerme esule?
Oggi siamo nomadi della paura. La solitudine è una forma di “esilio statico”. Il
mondo oggi vive i suoi nuovi localismi e le sue nuove lontananze: al posto dei
chilometri, gli orizzonti della nostra presenza si misurano in kilobyte. Quella
che un tempo era considerata un’introversione patologica sta diventando una
qualità di vita. Tuttavia, esiste un enorme divario tra la solitudine come
decisione collettiva e la solitudine come impulso personale. Centinaia di anni
fa, in Europa, la nostalgia era considerata una malattia e le persone con
l’irrequieta voglia di tornare a casa venivano curate con oppio, sanguisughe o
lunghi soggiorni in montagna. Oggi le montagne e gli oceani sono nelle nostre
case, insieme alla voglia di nuotare oltre il confine delle malattie e delle
guerre. La nostalgia è una ribellione contro l’idea moderna del tempo.
L’infanzia è la casa più sicura dei nostri ricordi. Solo dopo la nascita di un
bambino ci rendiamo conto di quanti oggetti taglienti abbiamo in casa. Forse la
nascita di un nuovo riflesso di sopravvivenza ci aiuterà a fare piazza pulita di
tutti i coltelli affilati che abbiamo in casa. Da Wittgenstein a Czesław Miłosz
si parla del linguaggio come della nostra vera e unica casa. Io vorrei parlare
della casa come di un linguaggio, e immaginare le pareti come punteggiature alla
fine del sentimento di (essere) desiderio. La finestra aperta della realtà mi
permette di toccare i miei sogni e le mie paure, di sentire le dinamiche del
mondo anche quando inizio a credere nelle radici invisibili dell’appartenenza.
Il mio cognome significa “migrante”: l’ho scoperto solo dopo aver iniziato a
viaggiare intensamente. Questa consapevolezza mi ha messo paura, così ho
iniziato a dare un nome alle cose che vedo, che tocco, che riscopro… Mi chiedo
sempre se le strade in cui vivo hanno nomi presi dai libri di storia o nomi che
appartengono alle storie personali della città. Fotografo le stanze che lascio,
invece di fotografare i monumenti intorno all’hotel. Ogni grinza sul lenzuolo
nelle sterili camere d’albergo o ogni traccia profonda della gamba della sedia
nella spessa moquette è una presenza di qualcuno che potrebbe tornare. La
struttura degli oggetti nella stanza è il flusso sanguigno delle case che abito
e che lascio. Quando vado da qualche parte sembra che sia di ritorno. Di solito
sono i lavoratori edili che vivono in cabine temporanee intorno all’edificio che
rimarrà lì per sempre.
Da bambino fuggivo da casa, in pigiama e con le scarpe di mio padre, tre volte
più grandi. Viaggiare è l’atto più sicuro finché non lo chiamiamo “abbandono”.
Michael Krüger nella poesia Migrazione scrive: “Ora le stanze sono vuote, le
valigie/ allineano il corridoio accanto a scatole lunatiche/ in cui i libri
lottano con i giornali”. I libri da leggere mantengono la mia fiducia nel
ritorno. La lettura è sempre stata il mio carburante per spostarmi, quando ero
circondata da guerre e regolamenti sui visti. Ricordo che sognavo di dimenticare
tutto, per poter leggere sempre gli stessi libri. Quando ho sentito che l’oblio
non sarebbe mai arrivato, ho iniziato a scrivere. Questo è anche il modo in cui
vivo intorno alle cose di cui scrivo, cercando di costruire una casa con le
parole e gli spostamenti. Quando gli uccelli lasciano i loro nidi, volano via;
quando le persone lasciano le loro case, ricordano.
Ti chiedo di commentare (come vuoi, anche esulando dal tema) questo tuo verso:
“Da tempo ormai non appartengo più a nessuno”.
Mi sento al sicuro nella caverna aperta della non appartenenza. L’appartenenza è
spesso nemica del radicamento. Simone Weil dice: “Essere radicati è forse il
bisogno più importante e meno riconosciuto dell’anima umana”. Un essere umano
appartiene anche agli spazi intermedi, alle case che rimangono incompiute. Vivo
a Strumica, una città vicina al confine tra Grecia e Bulgaria, e mi sono sempre
sentito più al sicuro in quella striscia di cento metri tra due confini, uno
spazio senza monumenti o condizioni per la memoria storica. Questi spazi,
chiamati giustamente terra di nessuno, ti dicono che non sei nessuno se li senti
tuoi. I sistemi ideologici tendono sempre a creare un Nessuno da un corpo e da
una mente, ma “chi crea un Nessuno negando l’esistenza di Qualcuno diventerà
egli stesso un Nessuno”, scrive Octavio Paz ne Il labirinto della solitudine.
Così è per le città. Sentiamo che una città comincia ad appartenerci quando
troviamo un angolo, una piazzetta o un ponte senza nome per ciascuno dei nostri
stati interiori, e uno comincia a riferirsi ad essa con un frammento della sua
routine di vita o della sua storia personale. Credo che l’appartenenza sia una
risposta naturale, ma anche auto-ingannevole, al ritorno in una città.
Apparteniamo al luogo in cui torniamo o solo a quello in cui moriamo? Le città
in cui si sente di appartenere sono porti della propria impercettibilità, dove,
alienati dalle realtà ereditate, si comincia a costruire le verità del proprio
mondo. Il titolo del mio primo libro, pubblicato più di vent’anni fa, era Locked
in the City, e si riferiva soprattutto allo stato mentale di confinamento,
plasmato anche dalla logica politica delle restrizioni attraverso i visti e i
muri concettuali.
L’appartenenza ai Balcani, volontaria o forzata, è allo stesso tempo una
benedizione e una maledizione. Significa nascere nello spazio geografico della
colpa: tua madre ha aperto le gambe per darti alla luce sulla sedia vuota di un
tribunale penale. Ma chiudersi nella gabbia dell’eterno senso di colpa è tutto
tranne che un’appartenenza. Nella nostra infanzia, le prime cose che impariamo
sono le solite costanti dell’appartenenza: i nomi dei genitori, il nome della
strada in cui abitiamo, il numero della classe… E poi passiamo la vita a
imparare ad appartenere solo all’infanzia.
Ti chiedo di spiegarmi questo verso: “Sono i resti di un’altra epoca”.
Tutti vaghiamo nel cerchio del tempo per trovare il museo dell’innocenza del
mondo. E il vagabondaggio è il primo passo per tornare da qualche parte: nella
stanza o nella nostra infanzia. L’ombra più grande della nostra realtà nei
Balcani è la fame del viaggio temporale di ritorno. Le persone lasciano le case
e i ricordi a causa delle guerre e della povertà imposta, e ogni oggetto che
hanno portato con sé diventa un manufatto o un simbolo, una voce offuscata di un
rituale personale. Le cose diventano resti anche prima di essere perse o
distrutte. Mia nonna conservava la chiave della sua casa abbandonata nello
stesso armadietto dove teneva le medicine, pensando che questa chiave un giorno
avrebbe potuto aprire quella porta che non esiste più e guarirla dalla
nostalgia. Tutti, nelle nostre stanze, abbiamo oggetti che rimandano alla nostra
morte. Per i Balcani la fuga è più una questione di misurazione del tempo che un
calendario dell’assenza. La mitologia dell’infanzia è stata il mio primo rifugio
dalla paura di una realtà prevedibile. Mia madre ha conservato i vestiti della
mia infanzia, dicendomi che vuole diventare nonna e dare al mio bambino non
ancora nato gli abiti con cui mi vestiva. Mia madre conservava tutti gli
spazzolini da denti usati in casa, pensando che custodissero ancora al loro
interno un granello dell’anima di chi li aveva usati. È morta sei anni fa e ora
vedo mio padre che pulisce la sua foto in bianco e nero sulla lapide con uno
spazzolino usato, con la stessa cura di un archeologo prima di una scoperta. Ho
scritto un saggio sull’ossessione delle persone per gli oggetti e sulla loro
metamorfosi utilitaristica durante la crisi del comunismo. Gli oggetti
superavano i confini di tutte le scale e i sistemi simbolici conosciuti.
L’immaginazione empirica della banalità della vita, acquisita con forza e senza
volerlo, ha creato innovatori autoctoni tra le persone che ancora si fidavano
del sistema in cui vivevano. La scoperta del pragmatismo polisemantico fu una
rivelazione non meno importante dell’estetica della “vita segreta degli oggetti”
di Giorgio de Chirico. La mancanza di denaro spingeva le persone a ricavare un
vaso per far crescere i limoni dal grande secchio di latta vuoto in cui tenevano
il formaggio; a trasformare le lattine vuote delle bibite in portapenne; a
costruire coni di carta per i semi di zucca e le arachidi dei venditori
ambulanti con le carte dei commercialisti e di altri uffici burocratici; i tappi
delle bottiglie di birra e di Coca Cola danno un ottimo sostegno alle gambe di
tavoli e a sedie instabili; le scatole delle scarpe sono ripostigli per libri e
cassette. Sembra un paradosso, ma si scopre che il nostro surrealismo
riproduceva pragmaticamente i disegni di Magritte: Ceci n’est pas une pipe.
Quando parlo di resti di un’altra epoca, non penso al passato, ma a una realtà
diversa, alla nostra voglia di calpestare l’asfalto fresco e di tornare a vedere
questa traccia innocente del tuo piedino ogni volta che ti senti stanco della
realtà. “Uno dei primi istinti dei genitori, dopo aver messo al mondo un
bambino, è quello di fotografarlo”, afferma Calvino ne L’avventura del
fotografo e prosegue: “L’album fotografico rimane l’unico luogo in cui tutte
queste fugaci perfezioni vengono salvate e giustapposte, aspirando ciascuna a
una propria incomparabile assolutezza”. Ancora oggi fisso gli spazi vuoti degli
album fotografici cercando di indovinare dove sono le foto che mancano, cercando
di ricostruire una memoria che non mi appartiene. Le fotografie e le parole non
sono residui di un’altra epoca; residuo diventa colui che scrive di tutto o
colui che fotografa tutto ciò che vede, per dimenticare tutto.
Di cosa è testimone il poeta?
Se volessi romanticizzare o ironizzare, direi: il poeta è qui per testimoniare
il candore della neve. Eppure, credo che il poeta sia testimone
dell’imperfezione degli oggetti che dormono sotto quei perfetti fiocchi di neve
o forse delle gocce di sangue di un animale o di un soldato ferito sulla neve.
Avevo diciotto anni quando iniziarono le nuove guerre in Jugoslavia. Sul mio
letto, i politici al potere misero uniformi al pigiama dell’innocenza. Un
sistema politico fu sostituito da un altro. Entrambi i cambiamenti avvennero
nello stesso momento, distruggendo le pareti di vetro della mia infanzia e le
spesse tende della certezza promessa. Improvvisamente, gli autori che erano
nelle liste di lettura delle scuole furono dichiarati nemici dello Stato
o classici, che significava soltanto una cosa: nessuno li leggeva più. Ho dovuto
tagliare io stesso il cordone ombelicale, integrandomi nell’ampio quadro della
letteratura europea. Da allora, tutta la mia vita si è trasformata in una fuga –
ma non una fuga da qualcosa, bensì verso qualcosa. Mi fido più delle cicatrici
del tempo sulla nostra pelle che degli ornamenti sopra le uniformi. Quando il
soldato viene ucciso, qualcun altro prende la sua uniforme e butta via tutte le
foto di famiglia e le lettere dalle tasche. Io ripeto solo la storia dei miei
antenati che hanno dovuto lasciare le loro case a causa della guerra, ma hanno
anche portato con sé la chiave, una chiave che avrebbe aperto solo i cancelli
della memoria. Non porto con me le chiavi quando viaggio. La lingua è rimasta la
mia unica soglia di certezza. Ricordo spesso le parole di Charles Simic, nato in
una Jugoslavia diversa da quella in cui sono cresciuto, che diceva che essere un
rifugiato non lo ha reso un poeta, ma lo ha reso il tipo di poeta che è. La
caduta della Jugoslavia e l’indipendenza della Macedonia mi hanno insegnato che
nessun simbolo di Stato è eterno – che tutti i leoni, le aquile, le stelle, i
soli, le foglie possono volare via dalla bandiera come un sacchetto di plastica
in cerca di un vento più forte. Tra le sigarette più popolari della classe
operaia dell’ex Jugoslavia c’erano quelle denominate “Filter Yugoslavia”, mentre
chi era “più uguale degli altri” fumava “Lord Extra”. Come se Edward Said avesse
previsto il crollo della Jugoslavia: dopo la rottura dello Stato, le sigarette
“Filter Yugoslavia” furono chiamate “Filter Oriental”. Lo stesso fumo viaggiava
ora da Sud (Yug) a Est (Oriente), con gli occhi dei fumatori rivolti a Ovest. I
Balcani sono pieni di varie verità ufficiali con un’intensità tale di singolare
dolore, al di là di qualsiasi confine tracciato. La poesia, come testimonianza
dolorosa e tagliente, viaggia lentamente e silenziosamente, ma vaga lontano
nello spazio e nel tempo, come una lettera senza indirizzo sulla busta. Alain
Bosquet diceva che il poeta è nella città solo per testimoniare che la città si
trova altrove. Il poeta deve essere testimone dello spostamento dei confini
delle sue perdite e delle sue aspettative. La poesia non cambia i mondi, li
costruisce.
Ti piace questo mondo, questo tempo, il tempo che ti è dato?
Mi sento un auto-rifugiato in un periodo di falsa pace. La poesia può cambiare
la distanza con cui guardiamo alle ferite aperte del mondo. La poesia può
piantare un seme nelle cicatrici del mondo e aspettare la nascita di una storia
che non si ripeta. Viaggio costantemente da più di vent’anni ormai,
probabilmente per sfuggire alle trappole del tempo. Voglio abitare tutti i mondi
di cui sono testimone, voglio nascere nello stesso tempo, così potrei provare a
creare un calendario diverso.
Scrivi una poesia sul Silenzio. Che valore ha il silenzio nella tua singolare
ricerca poetica?
Solo nel silenzio si può sentire il proprio sangue e la voce degli assenti.
Eppure, è difficile trovare il silenzio perfino ai funerali o dietro le finestre
sfocate delle biblioteche cittadine, come in tutti i rituali del sonno. In
alcune regioni dell’America Latina, quando nasce un bambino, la prima cosa che
gli dicono mentre piange è: “Preparati a tacere in questo mondo, a essere
paziente”. Vivevo in una casa dove le parole di tre diverse generazioni
lottavano per il loro status di importanza: mentre alcune parlavano di ricordi,
la voce dall’altra parte del muro era piena di aspettative. In quella guerra
quotidiana con le baionette delle parole, soltanto ascoltare la musica di Arvo
Pärt o di Coltrane con il volume alzato mi ha aperto uno spazio sonoro per il
silenzio del pensiero. Le mie case temporanee continuano attraversando i confini
di paesi le cui lingue non capisco, sviluppando ricordi in cui non tornerò mai.
Tutte le cartoline delle città trasmettono il silenzio dei monumenti delle
piazze e il silenzio del postino che conosce le strade della sua città natale.
“Tutti gli angoli deserti delle città, tutti i suoni e le cose hanno ancora i
loro silenzi, proprio come, a mezzogiorno in montagna, c’è il silenzio delle
galline, dell’ascia, delle cicale”, dice Walter Benjamin. Non accetto la
definizione semplificata del silenzio come assenza di parole o suoni, perché
all’inizio non era la parola, ma il respiro. Stockhausen diceva che non esiste
un silenzio assoluto nel mondo, cercava di ampliare il rapporto tra il suono che
è assente e il suono che si sente. Quando vedo un’ombra, non penso alla luce
perduta, ma alla bella forma del corpo che produce quell’ombra. Il silenzio è la
luce che dà forma al corpo delle mie parole. Il poeta rende visibili i suoni e
li trasforma di nuovo in quiete attraverso l’atto del creare. Deleuze dice che
il problema non è far sì che le persone si esprimano, ma fornire piccoli spazi
di solitudine e silenzio in cui possano eventualmente trovare qualcosa da dire.
Scrivere poesie significa viaggiare attraverso le oscure vene delle imperfezioni
delle parole, scoprendo che il silenzio e l’oscurità sono le due metà del nucleo
del codice universale della comprensione. Nel silenzio tutti i suoni sono
uguali, nell’oscurità tutti gli oggetti sono uguali.
Esiste un’etica oltre alla poetica? In cosa credi? Vivi secondo una tua
personale ‘regola’?
L’etica consiste nel non tradire la poetica del proprio essere, nel non
diventare un mercante del dolore altrui, nel non fidarsi dei monumenti nel
cortile sul retro del palazzo del governo. Scrivo di cose riscoperte e mondi
assenti non per lodarli, ma per demistificare l’aureola di storia che li
circonda. Vivo in una piccola città vicino a tre confini: macedone, bulgaro e
greco; attraversare un confine per me è come attraversare la strada con i
semafori che non funzionano. A volte penso che ogni ruga sul mio corpo sia solo
un riflesso dei confini che ho attraversato. La sfida più grande per me è stata
attraversare il confine del tempo, poiché tutte le guerre balcaniche iniziano
conquistando prima il passato: soltanto dopo si parla di
territori. Storico e isterico: un’unità perfetta per uccidere! In questo senso,
mi considero un archeologo illegittimo che, scrivendo poesie o saggi, cerca di
demistificare la mitomania ereditata e tutte le grandi narrazioni, mettendole in
una prospettiva diversa, più luminosa o più oscura. Raccontare storie di luoghi
o oggetti dimenticati è più importante di tutte le lettere e gli ordini segreti
firmati da capi di guerra desiderosi di diventare un giorno dei monumenti. Ho
fiducia nell’architettura della solitudine e voglio credere che il poeta sia la
voce della foglia tremante sull’albero dell’imprevedibile.
Che rapporti hai con l’invisibile?
Non essere visti è il sogno di ogni osservatore dietro la porta socchiusa del
mondo, è il desiderio di ogni poeta perso nel labirinto fatto dei ricordi
altrui. La finestra aperta della realtà mi permette di toccare i miei sogni e le
mie paure, di sentire le dinamiche del mondo anche quando inizio a credere nelle
radici invisibili dell’appartenenza.
Vedo la poesia come un corpo intoccabile che si disloca a ogni nuova lettura.
Nonostante la sua fragilità, la poesia può portare il caos all’interno di
società altamente controllate. I dittatori hanno paura del significato
invisibile delle parole, perché a loro piace creare cose assolute e visibili. Mi
considero un fragile testimone della dura realtà e dell’aldilà, che ruba momenti
invisibili o verità non dette, piuttosto che uno che ruba storie o fotografie
dagli album di famiglia. Alejandra Pizarnik scrive: “temo di non sapere come
nominare/ ciò che non esiste”. Gli scienziati potrebbero facilmente dare un nome
ai pianeti o ai minerali che non sono ancora stati scoperti, ma la poetessa
vuole credere che il silenzio sia il nome perfetto per tutte le cose invisibili
e assenti. Scrivere è solo un modo per rimandare la mia assenza.
Ritaglia un verso, un distico dalla tua opera che ti rappresenta – e dimmi
perché.
“Lontane sono tutte le capanne in cui ci riparavamo dalla pioggia
e dalla pena dei cervi che morivano davanti a cacciatori
più soli che affamati.”
La distanza non può essere un rifugio dalla sofferenza del mondo.
**
Ciò che abbiamo detto ci perseguiterà
Abbiamo dato un nome
alle piante selvatiche
che crescono dietro agli edifici in costruzione,
e a tutti i monumenti
dei nostri invasori.
Abbiamo battezzato i bambini
con i nomi affettuosi
trovati nelle lettere
lette una sola volta.
Abbiamo poi, di nascosto, decifrato le firme
in fondo alle ricette
per le malattie incurabili
e col binocolo abbiamo ravvicinato
le mani che ci salutavano
dalle finestre.
Abbiamo lasciato le parole
sotto le pietre assieme alle ombre sepolte,
sulla collina che conserva l’eco
di antenati che non compaiono
nell’albero genealogico.
Ciò che abbiamo detto senza testimoni
ci perseguiterà per molto tempo.
In noi si sono stipati molti inverni
che nessuno ha mai menzionato.
*
Quando il tempo si fermerà
Siamo i resti di un’altra epoca.
Ecco perché non posso
parlare della casa o della morte
o di dolori prevedibili.
Finora nessun ladro di tombe
ha scovato le mura tra di noi,
né il freddo calato nelle ossa
fra i resti di tutte le epoche.
Quando il tempo si fermerà,
discuteremo della verità
e sulle nostre fronti le lucciole
formeranno una costellazione.
Nessun falso profeta
aveva previsto che il bicchiere si sarebbe rotto
e neppure che si sarebbero toccati i palmi –
due grandi verità da cui sgorga
acqua pura.
Siamo i resti di un’altra epoca.
Ci ritiriamo nei paesaggi
della solitudine addomesticata
come lupi che contemplano la colpa eterna.
*
Da ogni mia cicatrice
Sono un mendicante senza il coraggio
di chiedere l’elemosina a me stesso.
Sui miei palmi si incrociano le linee e
le ferite di tutte le carezze mancate,
di tutte le febbri non misurate sulla fronte,
dell’amore scavato abusivamente.
Da ogni mia cicatrice
emerge una verità.
Cresco e svanisco
con il giorno, mi addentro
senza paura nell’origine,
e intorno a me tutto si muove:
la pietra diviene casa,
la roccia granello di sabbia.
Quando smetto di respirare,
il cuore batte più forte.
*
Loro e noi
Probabilmente gli angeli
hanno uomini tatuati sulle spalle,
e custodiscono le proprie ombre
nello scrigno dei ricordi.
A volte appaiono
come una voce che annuncia l’alba
o come una luce soffusa
sotto un letto d’ospedale.
Noi esistiamo perché loro esistono,
loro volano perché noi camminiamo.
Siamo così vicini e lontani
come i protoni e i neutroni
nel nucleo di tutti i mondi.
Traduzione di Piero Salabè
Da Nikola Madzirov, Ciò che abbiamo detto ci perseguiterà, Crocetti Editore,
Milano, 2025.
*In copertina: Nikola Madzirov in un ritratto fotografico di Sophie Kandaouroff
L'articolo “La poesia porta il caos nella società del controllo”. Dialogo con
Nikola Madzirov proviene da Pangea.
Pochi eventi come gli accordi di Monaco del 1938, tra inglesi, francesi,
italiani e tedeschi sul destino della Cecoslovacchia hanno goduto di una fama
tanto sinistra quanto superficiale. Tale evento, infatti, fu un momento chiave
della storia europea in cui processi decennali, sfide
politiche, miscalculations dei principali governi, bluff e sottili trame
diplomatiche si intersecarono delineando un complesso mosaico non riassumibile
in facili stereotipi. Un evento brillantemente ricostruito e approfondito
dall’ambasciatore Maurizio Enrico Serra, primo italiano Immortale di Francia,
saggista e biografo dei grandi protagonisti del Novecento letterario italiano,
nel suo Scacco alla pace. Monaco 1938 (Neri Pozza, 2024). Un saggio che porta il
lettore nel centro di questo snodo cruciale, tramite una documentatissima e
affascinante immersione nell’Europa tra le due guerre.
Monaco è, infatti, un grande affresco storico, politico, diplomatico e
intellettuale, un testo che oltre che ricostruire i nodi, i meandri e le
sismografie che hanno accompagnato gli accordi del 1938 riesce a rivelare le
logiche, i propositi e le psicologie dei protagonisti di quell’Europa. Un
ritratto epocale, ricco di voci, personaggi, dettagli, segreti che ci racconta
con il ritmo e lo stile del grande romanzo, ma con il rigore, l’esattezza e la
puntualità della migliore tradizione storiografica italiana ed europea, un
momento cruciale della storia delle relazioni internazionali del primo Novecento
oltre facili pregiudizi e superficiali moralismi. Dai successi pirrici di
Chamberlain alla foga di Daladier, dalle trame di Mussolini agli appetiti di
Hitler, tra scena e retroscena. Senza dimenticare il ruolo di comprimari come
Saint-John Perse, il poeta che avrebbe ricevuto il Nobel per la letteratura
(all’epoca segretario del ministero degli esteri a Quai d’Orsay), o Ciano,
Attolico, Anfuso. Per meglio comprendere attualità e nodi di quell’evento
abbiamo intervistato l’autore.
Quali sono le novità e i caratteri distintivi di questo suo saggio sulla crisi
di Monaco rispetto a precedenti ricostruzioni?
Ho cercato di fornire al lettore una visione d’insieme di tutti gli aspetti che
a Monaco finirono per intrecciarsi, in modo da approfondire alcuni aspetti di
una pagina decisiva della storia europea, soffermandomi su aspetti
tradizionalmente poco analizzati.
Quali?
In primo luogo, il tentativo di seppellire una certa retorica che accompagnò la
crisi cecoslovacca. Anche se Hitler riuscì a impadronirsi dei territori
germanofoni, e a fare (dopo l’apparizione trionfale a Vienna l’anno precedente)
il suo ingresso, seppur ritardato, a Praga il 15 marzo 1939, questa resa dei
conti con il suo passato di oscuro agitatore austro-boemo non era più così
importante per lui. L’odiato termine Österreich, con l’Annessione dell’Austria,
era stato abolito per essere sostituito da Ostmark, ossia «marca orientale», un
termine che indicava come non si trattasse certo della sbandierata unione
dell’Austria al Reich tedesco, quanto di una pura e semplice annessione al
ribasso. Lo stesso vale per il moncone ceco, che divenne ancor più
spregiativamente il Protektorat o protettorato. Anche gli Auslandsdeutsche,
ossia i tedeschi dei Sudeti, di Memel, Danzica e delle altre marche, che Hitler
fingeva di voler proteggere, sarebbero diventati cittadini di classe inferiore
rispetto a quelli del Reich tedesco: Reichsdeutsche o Altdeutsche.
Quale fu il vero intento che mosse l’imperialismo nazista aldilà di facili
propagande?
La vera motivazione fu, invece, il potenziale militare e industriale che si
trovava al di là della catena montuosa dell’Erzgebirge, i “Monti metalliferi” al
confine tra la Germania e la Boemia. I carri armati di fabbricazione ceca erano
allora superiori in quantità e qualità agli equivalenti tedeschi e, nel 1940, si
calcola che un terzo dei mezzi corazzati della Wehrmacht, pronti a rovesciarsi
sul fronte occidentale dopo aver sbaragliato la Polonia, fossero prodotti dalle
industrie Škoda. Durante la guerra, Hitler non visitò più Vienna o Praga, tanto
meno le rovine di Varsavia. L’Austria, la Cecoslovacchia e la Polonia non erano
altro che i rami del grande albero da abbattere: l’Unione Sovietica. La
posizione del Führer era insomma l’esatto contrario di quella di Stalin, che,
subito dopo il 1945, acconsenti alla neutralità dell’Austria come merce di
scambio con l’Occidente, ma fece degli altri due Stati il perno della sua morsa
sull’Europa centrale e orientale.
Cosa insegnò Monaco ai vincitori di Yalta?
All’inizio della guerra fredda, Monaco non insegnò alcunché all’Occidente, con
la sola eccezione del generale Charles De Gaulle, che non riuscì tuttavia a far
sentire la sua voce. Winston Churchill, ad esempio, con quelle frasi lapidarie
di cui era gran maestro, liquidò la «condotta fatale» di Chamberlain e Daladier.
Tuttavia, egli abbandonò a sua volta non a Hitler ma a… Stalin, nella
sostanziale indifferenza degli Stati Uniti, la Cecoslovacchia ridiventata
formalmente indipendente, la Jugoslavia monarchica dell’esercito partigiano
cetnico, il governo polacco in esilio a Londra e i territori tedeschi occupati
dall’Armata rossa, che presero il nome improbabile di Repubblica democratica
tedesca (DDR). La conferenza di Jalta (febbraio 1945) e quella di Potsdam
(luglio-agosto 1945) replicarono la ferrea logica di Monaco circa la divisione
del continente: i “grandi” avrebbero deciso per i “piccoli”, che dovevano
nuovamente piegare la testa. Solo nel 1989-1990, una nuova primavera dei popoli
avrebbe riunito le due Europe nella speranza che diventassero una sola, sulla
base dell’appassionato desiderio di intrepidi testimoni e combattenti come i
miei indimenticabili amici François Fejtő e Predrag Matvejević, oltre a Czesław
Miłosz, Leszek Kolakowski, Václav Havel, Milan Kundera e numerosi altri.
Secondo lei esiste oggi una “sindrome di Monaco” verso le autocrazie?
Se Monaco è seppellita con tutto quel che ha rappresentato di pernicioso nella
storia europea, continuiamo a vivere all’ombra di una sindrome di fatalismo e
d’impotenza pronta a riapparire periodicamente nelle crisi geo-strategiche.
Cechi e slovacchi, oggi pacificamente divisi, lo ricordano bene, visto che per
regolare la sorte della Primavera di Praga, nel 1968, non vi fu neanche bisogno
di una conferenza ma della pura e semplice atonia della comunità internazionale,
assortita di proteste retoriche di fronte alla condotta della potenza egemone,
che non era più la Germania hitleriana ma agiva allo stesso modo. Il che pone il
problema dell’atteggiamento delle democrazie nei riguardi della forza, e del
pacifismo di fronte alla brutalità. La sola risposta efficace consiste nella
fermezza che si appoggia sul ricorso, se necessario, alla cosiddetta violenza
legittima nei modi (e nei limiti) previsti dal diritto internazionale.
Rispondere all’aggressione con la passività non può che incoraggiare le
dittature e le loro ambizioni funeste. In tal senso, “Monaco” è divenuto un
canone negativo. I casi si sono moltiplicati, dopo di allora, dentro e fuori il
nostro continente: dai conflitti nella ex Jugoslavia, così mal gestiti da parte
occidentale, fino alla crisi ucraina la lista è lunga. Lo storico non può
interpretare l’attualità, che esige altri strumenti d’approccio. Può solamente
esporre gli avvenimenti di una data epoca quanto più obiettivamente possibile,
affinché donne e uomini di buona volontà possano oggi trarne le conclusioni
appropriate.
Il testo scritto in francese è stato curato in italiano da Antonio De Francesco.
Come è stato il lavoro di adattamento e traduzione?
Antonio Di Francesco, che tra l’altro sta scrivendo un libro sulla Milano del
primo Ottocento, ha svolto un lavoro eccellente ed è stato un piacere lavorare
con lui.
Perché “Scacco alla pace”?
In quanto è inevitabile che nonostante l’effetto che può aver avuto la minaccia
della guerra, all’epoca essa era più che una eventualità concreta,
essenzialmente, una minaccia, uno stratagemma di una complessa partita a scacchi
nel quadro europeo. Che cosa si riproponeva di fermare Monaco in realtà? Non
fermare un’invasione. Hitler non avrebbe potuto assolutamente invadere la
Cecoslovacchia nelle condizioni in cui si trovava nel 1938, e ancor meno
permettersi una guerra europea. La vera situazione era quella di un bluff
nefasto e vincitore, uno scacco alla pace.
Che taglio ha dato al testo?
Innanzitutto, ho cercato di scavare in profondità, mettendo in prospettiva tra
loro, non solo i quattro protagonisti dell’Accordo di Monaco, Chamberlain per il
Regno Unito, Daladier per la Francia e naturalmente Hitler e Mussolini. Ma anche
i tre assenti dietro le scene, che sono il cecoslovacco Benes che per un minimo
di pulizia di diritto internazionale avrebbe dovuto essere presente, e poi
Stalin e Roosevelt, che erano i rappresentanti delle due principali superpotenze
all’epoca non presenti, cioè l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. I quali
guardavano agli esiti di Monaco senza volervi prendere parte. Allo stesso tempo
ho molto insistito da una parte sulla debolezza e quindi sul bluff della
posizione tedesca, dall’altra sulla mediazione di Mussolini, che molti storici,
hanno completamente sottovalutato. Mussolini a Monaco ha svolto un ruolo
indispensabile, e non soltanto di mediazione, ma molto più vicino oggettivamente
alle posizioni franco-inglesi che alle posizioni tedesche.
Perché lo fece?
Non certo per simpatia per lo stato cecoslovacco, di cui poco o nulla gli
importava, ma perché, dopo l’Anschluss di pochi mesi prima, marzo rispetto a
settembre, era convinto ormai che bisognasse arginare l’avanzata tedesca
nell’Europa centrale e successivamente nell’Europa mediterranea. E quindi era
una causa di forza maggiore che lo ha portato a prendere questa posizione.
Come vissero i paesi democratici quel quadro?
È importante evidenziare che la Conferenza di Monaco si svolse in un clima di
usura psicologica del concetto di democrazia e della forza delle democrazie
rispetto ai totalitarismi che nascono, che danno veramente la misura del fatto
che la storia di quel periodo e di quegli anni non potesse non portare ad un
nuovo conflitto internazionale.
La guerra era inevitabile?
Erano troppi i rigurgiti, al di là della sorte dei Sudeti, della sorte della
stessa Boemia Moravia, di quella operazione assolutamente fallita che sono stati
i trattati di pace della Grande guerra. Dai quali venivano a galla troppe code
che avrebbero portato ulteriori tensioni e tragedie, e che erano il prodotto di
quanto era avvenuto allora. Non c’era tragedia più prevedibile della fine della
Cecoslovacchia, del resto, come conferma tra gli altri E.P. Taylor.
Un esponente della grande tradizione della storiografia inglese…
Un uomo che considero tuttora un grandissimo storico, molto discusso, molto
discutibile, che però rappresentava uno di quegli storici anglosassoni che oggi
nel nostro mondo non esistono più. Gli ultimi (che ho avuto il piacere di
conoscere) sono stati Richard Lamb, Seton-Watson, ovvero degli storici che
avevano, da inglesi, un senso dell’Europa continentale veramente impressionante.
Un tempo c’era, infatti, questo senso della storiografia inglese, che è stata la
grande storiografia dell’otto-novecento, che era incredibilmente capace di
guardare oltre la Manica e comprendere l’Europa e il mondo. Mentre oggi
assistiamo, mi spiace dirlo, ad una storiografia di risulta. È incredibile
vedere come libri anche tradotti in Italia, pecchino di errori su troppi
aspetti. Pensiamo alle varie interpretazioni sull’episodio che è stato una delle
possibili conseguenze positive di Monaco, ossia la visita di Chamberlain a Roma
nel gennaio del ’39. Su tale episodio, in troppi continuano a dire che era una
visita orchestrata da Mussolini per separare Londra da Parigi. Una totale
falsità perché in quella occasione non si parlò della Francia. Se non
rapidamente. L’ossessione di Mussolini in quel momento, infatti, era Hitler… Uno
dei tanti esempi delle semplificazioni che ruotano attorno alle vicende relative
agli accordi di Monaco.
Quale è la vera immagine che scaturisce del Mussolini di Monaco e post-Monaco,
al di là di quello che viene raccontato, come ad esempio la storia stereotipata
del suo parlare un francese da albergatore?
L’esempio che ha citato, oltre ad essere falso perché Mussolini parlava per i
tempi un buon francese, rappresenta quell’immagine dozzinale e caricaturale –
che io, peraltro, nella mia precedente biografia di Mussolini ho cercato (non so
se ci sono riuscito) di smantellare o quantomeno di mettere tra parentesi – del
ruolo italiano a Monaco, che va rivista e superata. Monaco, infatti, è, dal
punto di vista mussoliniano, l’apice e l’inizio dell’inarrestabile decadenza del
personaggio. La Conferenza di Monaco ha un vincitore che avrebbe potuto, in quel
momento, se non salvare la pace, quantomeno impedirne lo scacco: quell’uomo era
Mussolini. Pensiamo all’invenzione della Commissione degli ambasciatori. Che non
era il classico cerotto diplomatico: almeno, era un cerotto diplomatico che,
interpretato bene, poteva avere il suo significato. A cui spettava, tra le altre
cose, decidere le nuove frontiere della Cecoslovacchia post sudetica. Ed anzi
contrariamente a quello che afferma la storiografia anglosassone, a mio avviso
di risulta, che ha subito trattato la conferenza degli ambasciatori come
insignificante, essa è fallita non perché non “lavorava”, ma perché lavorava
troppo bene. È stata sabotata dalle ambizioni naziste, specie dei più
oltranzisti, che ovviamente erano segnate dal fatto di non aver ottenuto quello
che speravano di più da Monaco. Cioè, il placet per l’occupazione del
protettorato della Boemia Moravia, che era quello che interessava di più per le
famose “terre rare” di cui è ricca l’area. I tedeschi, infatti, si rendono conto
che all’interno della conferenza degli ambasciatori, l’italiano Bernardo
Attolico (un grande servitore dello Stato e della pace) era molto più vicino
alle posizioni dei francesi e inglesi e quindi resisteva alla pressione tedesca.
E quale furono le conseguenze di tali resistenze italiane?
Annullarono di fatto la conferenza. Mussolini aveva introdotto molti elementi di
garanzia. Ovviamente non perché avesse a cuore l’ordine internazionale e il
destino dei Sudeti e dei cecoslovacchi. Anzi… Lo fece perché, dopo l’Anschluss,
che era stata all’epoca la sua più grande sconfitta in politica estera, non
voleva un ulteriore rafforzamento tedesco in Europa centrale e danubiana, che
avrebbe portato verso l’Italia un nuovo nemico strategico.
Una delle figure che più colpisce nel testo è quella del principale inquilino
del Quai d’Orsay di allora, Alexis Leger, noto ai più come Saint-John Perse. Che
ruolo svolse il poeta di Anabasi in questo quadro?
Leger era un uomo dotato di una doppia natura; potremmo definirlo una
pirandelliana eminenza grigia del Quai d’Orsay dal 1933 sino alla vigilia della
disfatta del 1940. Il suo potere, accresciuto da un fascino esotico e magnetico
che si imponeva a uomini e donne, si era già affermato sotto Aristide Briand, di
cui era stato capo di gabinetto. Fu l’inizio di una fulminea ascesa, benché,
come il suo predecessore e mentore Philippe Berthelot, Leger non avesse mai
ricoperto un solo incarico di capo missione all’estero, il che equivale a dire,
per un militare, non aver mai comandato un’unità al fronte. Sul poeta, uno dei
più grandi del suo tempo, insignito del premio Nobel nel 1960, non vi è altro da
aggiungere; ma come diplomatico egli si mosse senza la minima fedeltà per
nessuno, compresi i suoi stessi protettori e le sue molte, influenti amanti.
Sono state ampiamente sottolineate le ambiguità e le distorsioni nell’immagine
di sé che volle tardivamente consegnare ai posteri nella curatela delle sue
opere complete nella prestigiosa collezione della ‘Pléiade’. Eppure, a fronte di
quanti sistemavano e ritoccavano periodicamente i loro ricordi come Bonnet, il
suo lungo silenzio nell’esilio americano avrebbe fornito armi ai detrattori,
fino all’implacabile ostilità che gli avrebbe riservato il generale de Gaulle,
che vide in lui il principale concorrente (e detrattore) della France Libre
presso Roosevelt e il Dipartimento di Stato. È difficile comprendere la natura
di un uomo che eга senza dubbio un ardente patriota come Berthelot, anche se
molto meno laborioso, cartesiano e, se vogliamo, tradizionalmente francese di
lui. Resta da chiedersi che cosa ci fosse nelle sue origini di figlio delle
Antille, nella sua aggrovigliata, solitaria e narcisistica personalità – dote
forse di un poeta, assai meno di un diplomatico –, che lo portasse a disprezzare
i suoi simili e a provocare i loro aspri risentimenti. L’italofobia, che
condivideva con il suo predecessore una lunga tradizione al Quai d’Orsay, era
solo l’aspetto più evidente di un atteggiamento che si rivelò dannoso prima di
Monaco e, ancor più, dopo di allora. Nella crisi cecoslovacca, il suo ruolo,
molto discusso, risultò, a nostro avviso, più onorevole di quello dei suoi capi
politici, ma a Monaco non fu in grado di consigliare la resistenza a un Daladier
che era già pronto a cedere. Collaboratori e ammiratori hanno lodato la sua
“stravagante flessibilità tattica [combinata con] un’inesorabile de-terminazione
di intenti”. I critici hanno invece sottolineato che “egli appare allo storico
avvolto dalla nebbia di un’indecisione che forse ha deliberatamente e
artificialmente messo a punto”. Insomma, se nel suo successivo esilio americano
di sconfitto il poeta sapeva sciogliere le contraddizioni dell’uomo nella forza
di un verbo alato di straordinaria pregnanza lirica, l’ormai ex grand commis
costantemente teso a levigare e a valorizzare la sua immagine sembrava non
sapere più chi fosse stato veramente. Forse non lo aveva mai saputo, altro lusso
dei poeti… Leger, quindi, è un personaggio considerato molto negativamente,
seppur meno di altri, la cui attività è stata molto più ondivaga per vari
motivi, anche di carriera.
Ovvero?
Arrivato giovanissimo segretario generale, non voleva lasciare quel posto;
sapeva di avere molti nemici, quindi ha dovuto traghettare un po’ tra le varie
correnti. Questo è umano e non gli si può essere costituita un’accusa. Mi
risulta però difficile iscrivere sia lui che Eden, che è il suo equivalente
inglese, come fa invece certa storiografia, nella scuola della fermezza contro
la scuola dell’appeasement. Chi vede queste cose in modo schematico non sa cos’è
la storia, non sa cos’è la diplomazia, non sa cos’è la vita parlamentare e
politica dove è inevitabile che secondo i momenti e le circostanze vengano prese
delle scelte più o meno, come dire, conformi agli ideali. Bisogna vedere le cose
in questi termini.
Non fu l’unico a fare quegli errori ed inciampi del resto…
Basti pensare che Churchill, che certamente era un uomo di visione, ideali, e di
grande e profondo senso della storia, di grande e profondo senso delle
opportunità degli uomini nella storia, perfino lui nel 1938, al ritorno di
Chamberlain, non poteva mettersi contro un’opinione pubblica che era il 90% per
la pace di Monaco. Chamberlain era in quel momento il più popolare leader
politico inglese dal Duca di Wellington, vincitore di Napoleone. Però, mentre il
Duca di Wellington ha dimostrato, vincendo sul campo, la sua superiorità su
Napoleone, quella di Chamberlain è teorica, perché egli torna avendo evitato la
guerra, cioè essendo perfettamente caduto nel bluff di Hitler.
Magistrale nel testo è l’apparato di note, le considerazioni a pedice, che
formano quasi un involontario romanzo ergodico per certi aspetti. Che
significato ha per lei l’uso delle note?
Sono un innamorato delle note ed è per questo che a tutti i miei editori – a
volte ci riesco, a volte no – chiedo che vengano messe a fondo pagina. Sono
innamorato delle note non solo per il motivo che le note possono dare, senza
interrompere la narrazione, alcuni elementi biografici e bibliografici. Ma
soprattutto perché le note rappresentano, ai miei occhi, un po’ l’equivalente
delle voci del coro, delle voci a parte in un’opera lirica o nel teatro
goldoniano. Sono quasi un coro, o delle voci individuali, però, che ci dicono
chi era veramente Buffi, o perché Mussolini non potesse agire contro i suoi
avversari. In questo senso vorrei che anche il lettore generico potesse leggere
e godere delle note e di ciò che esse rappresentano nel mio percorso.
Che cosa ha in cantiere l’ambasciatore Maurizio Serra per i lettori?
Cerco di alternare i generi, sto rivedendo le edizioni tascabili di molti dei
miei libri. Il primo obiettivo è quello dell’edizione tascabile francese del
D’Annunzio e dell’edizione italiana di Mussolini, che dovrebbero uscire
nell’autunno inoltrato o all’inizio del prossimo anno. Poi ci sono appunto i
nuovi progetti. Vorrei ultimare la trilogia narrativa del Michoumistan perché
questo paese immaginario è un po’ il paese, del Dottor Stranamore, ossia quello
dei conflitti che da terribili possono diventare nazionali e via dicendo. Quindi
un po’ la parafrasi della sicurezza del mondo e della condizione in cui un
diplomatico vive. Per il resto cerco di mantenere i rapporti, letterari e non,
con le varie istituzioni con le quali collaboro.
Francesco Subiaco
*In copertina: Monaco, Führerbau, 30 settembre 1938, foto di gruppo con i
firmatari dell’accordo; il poeta Saint-John Perse, ovvero Alexis Léger, si
scorge sullo sfondo, tra Mussolini e Ciano
L'articolo Monaco 1938: il bluff di Hitler. Dialogo con Maurizio Serra proviene
da Pangea.
Pubblicato il 9 febbraio del 1973, Hiulques Copules recava le stimmate del
capolavoro. Il libro – arduo, circolare, oracolare, impossibile –, si sviluppa
in duecentodieci ‘fibbie’, folgorazioni beneaugurali che paiono inscritte
nell’antro dello scudo dei guerrieri achei – oppure, nella federa della
Sulamita.
Pubblicato da Gallimard nella collana ‘Le Chemin’, diretta da Georges Lambrichs,
dedicata a testi anomali ed extra ordinari – nella quale, tra gli altri, sono
stati publicati il Nobel per la letteratura J.M.G. Le Clézio e Pierre Guyotat,
Jude Stéfan e Georges Perros, Michel Butor e Henri Meschonnic –, il libro è
presentato come un’opera poetica tesa al “depistaggio”, “cerimonia blasfema,
destino d’inganno che combatte tra essere e verità”. Nella ‘quarta’ s’intravede,
per fervore psicanalitico, lo stile di Michel Foucault. Era stato proprio lui a
presentare l’autore, Dominique Rouche, un ragazzo, a Gallimard. Nato nel 1946 a
Évreux, in Normandia, Dominique Rouche aveva elaborato quel libro per anni. Dopo
gli studi universitari a Caen, insegnava in un collegio religioso.
A proposito di Hiulques Copules, “Le Monde” scrisse di Une écriture nouvelle; il
recensore registrò il dominio di “una scrittura sconcertante”, una scrittura in
forma di Centauro, ribelle ai binari grammaticali, che procedeva gemmando
neologismi, allusioni, assedi. “Poesia? Più che altro preghiera, verrebbe da
dire, stilettata di aforismi e confessioni, pronunciate in una lingua che non
appartiene ad alcun genere a noi noto – ma che li incorpora tutti”.
Il giornalista profetizzò per quel libro un destino d’insuccesso, “è molto
probabile che passi del tutto inosservato”. In un tempo dominato dagli
assordanti sperimentalismi, dalla reggenza dell’ormai dimenticato ‘Nouveau
Roman’, dagli sfitti allori degli anziani surrealisti, Rouche portava la
sregolatezza del linguaggio da un’altra parte, in altre alcove. Nel suo caso, il
gesto è quello di spezzare l’ostia, di spaccare a mezzo la bestia, di verificare
con la fiamma un decreto che brilla tra le viscere.
Penetrare nel libro di Rouche, pressoché intraducibile, è arduo; ecco alcuni
frammenti tra i più intelleggibili:
> “Essere : intanto nella più cieca Immanenza possibile. Come se nulla fosse
> all’Universo che il niente Stesso che è Dio che è Me.
>
> E che Dio, infine, si riveli Morte”.
> “Per qualche Tempo ancora una Violenza s’impossesserà del mio dire : ma, so
> cos’è il Tempo della Perdita. E lo annuncio e ho per questo toni ricchi di
> gioia”.
> “In verità vi dico : “Tutta la Scrittura ho scritto”. E ancora : “I miei
> Scritti sono inesistenti”.
>
> Così sia : in Eterno : Supplemento Perverso della mia Parola”.
Già: si tratta di fare lo scalpo a Chirone; di scotennare il linguaggio fino
all’arco, fino a ciò che sfreccia. Più che altro, il libro di Rouche è una
specie di Nube della non conoscenza in questi immediati, immedicabili tempi,
l’andare tra crani alieni con il lume Eraclito in mano.
Così termina un libro che divora doveri e desideri: “Qui al culmine della lampa
il Libro si chiude, sul Nome già precipitato SIPARIO”.
Il libro, che l’anomalia ha tolto dall’anonimato, piacque a Michel de Certeau:
nel disse nel suo immane studio, Fabula mistica.
Ad ogni modo, Hiulques Copules, libro primo e ultimo, ultimativo, masticò il
proprio autore. Costrinse il proprio autore a estinguersi, estirpato dalla
scrittura – a farsi esso stesso scritto, traccia sul greto, vana bava di neve.
“Il pensatore insolente” – così la rivista Combat – sparì. Si sa di una sua
prossimità con Jacques Lacan; i reperti bibliografici sono scarni, improntati,
pare, a inseguire l’indicibile. Con le edizioni L’Harmattan Rouche pubblica,
alcuni decenni dopo, Phantôme (2010) e Vers l’inframonde (2011); con Orizons
stampa Œdipe le chien (2012). Libri che piantumano un linguaggio tra al di qua e
al di là, biada per angeli.
Il primo libro ha sconfitto Rouche – forse, lo ha miracolato dai fantasmi della
fama. Hiulques Copules è un libro inaudito, un libro-Rimbaud: ha spalancato
un’Africa nel cuore del poeta, lo ha spossessato dal demone letterario.
Nelle rare fotografie, Dominique ha gli occhiali scuri.
L’ho cercato a lungo; l’ultima mail è di qualche mese fa. Rouche preferisce
scrivere in italiano; ho mantenuto il suo stile, di bruschi improvvisi. Si scusa
degli errori, si firma Confraternellement.
Parto da Hiulques Copules. Come nasce questo libro? Che cosa significa il
titolo?
Questo libro è nato insieme alla mia nascita. Nel libro la mia nascita è la mia
rinascita. Quindi questo è il libro che ha guidato la mia esistenza.
Il significato del titolo risiede semplicemente nell’epigrafe del libro stesso:
parole che non si incastrano bene tra loro. Aperto a metà. Che ha la bocca
spalancata. Parole che lasciano vuoti incolmabili tra loro. Che si dividono e si
rompono. Questo è il significato del titolo.
In quel libro, aurorale, sembra che lei distrugga il linguaggio. Quali sono i
suoi ‘maestri’? Che cos’è, infine, per lei, la letteratura, la poesia?
Non distruggo il linguaggio. È il linguaggio che mi spezza: da questa lacuna
nascono la nascita e la morte del libro. Quindi la mia vita è divisa tra due
estremi. Il primo: apri un libro per leggerlo. Questo è il libro del mio
destino. Questo è il libro della mia fine. Ho scelto di esprimermi: vale a dire
di tirare fuori tutte le parole che guideranno la mia vita fino all’ultimo.
Ho scelto di essere distrutto affinché al mio posto nascesse il discorso di un
altro fino alla sua fine etc… Il mio discorso finisce nel momento in cui lascia
il posto al lettore successivo. È l’eterno ritorno della letteratura: metto i
miei passi sulle orme di un altro.
Ho sacrificato la mia esistenza affinché fosse assicurata l’esistenza del libro.
Dalla mia nascita fino alla sua scomparsa. Tra questi due estremi c’è spazio per
molti gradini della scala che sale verso l’eternità. Quindi sostituirò la lingua
degli altri con la mia. La letteratura non esiste senza la scrittura che la
trasmette. Perché: per realizzare le Scritture è necessario.
I miei maestri sono stati l’imitazione di Cristo in ogni sua fase fino al
compimento finale. Molto più tardi, il diavolo sarà anche il mio padrone. In
questo senso, Georges Bataille era un maestro in letteratura. In seguito, la
letteratura latina e la triade Hegel, Nietzsche, Heidegger avrebbero determinato
la mia vita letteraria.
La letteratura è sotto l’influenza delle “lettre volée” che circolano di mano in
mano. Dunque, la lettera uccide, ma lo spirito “vivifica” (E.A. Poe è un maestro
di stile e di invenzione, come hanno dimostrato i suoi grandi traduttori,
Baudelaire e Mallarmé).
Alla sua uscita, si è parlato molto di Hiulques Copules: perché non ha
proseguito in quella indagine nel linguaggio? Che cosa è accaduto dopo la
pubblicazione di quel libro?
Non ho continuato perché dentro di me la letteratura continuava a sopravvivere
senza che io lo sapessi. La letteratura è inevitabile. La poesia ne è il
culmine.
Una indagine nel linguaggio, dici? Jacobson e Lévy-Strauss ne hanno già
ampiamente scritto. Come ha fatto Lacan per Sade (cfr. Kant con Sade). Non sono
un teorico: ciò che scrivo è valido anche come teoria.
Quanto alla pubblicazione, Lacan ha espresso la sua convinzione riguardo al
libro: “smaltimento dei rifiuti”, perché: una lettera è spazzatura
(lettera/rifiuti). “Letteratura”? sarebbe meglio dire, “leggere” le
cancellature. Sotto la cancellatura si possono leggere altre parole: Ferdinand
de Saussure riuscì a stabilire che sotto un’iscrizione romana è possibile
decifrarne un’altra, la cui identificazione è ancora da definire. La scoperta di
Saussure su questo argomento è pari alla scoperta di Freud, che ci ha insegnato
che dietro un lapsus è possibile leggere un’altra parola.
Dopo la pubblicazione, resta solo un pezzo di spazzatura: “Sicut palea”, pari a
sterco diceva Tommaso d’Aquino.
In rete, sono scarsi i riferimenti alla sua vita e alla sua bibliografia: è una
scelta di solitudine, di pudore – di spudoratezza nel pudore?
Quanto a me, vivo senza più pensare al libro: mi basta esistere, benché diverso.
La vita è l’attesa di una rivelazione, definitiva o meno. Quindi, a ciascuno la
sua vita; la mia è una parentesi in cui ognuno può leggere ciò che vuole. La mia
vita, la mia biografia, la mia bibliografia sono forse significative solo per
me. Oggi scrivo D’un discours de servitude, il discorso sul padrone e il suo
schiavo, e viceversa.
Lo scopo di uno scrittore è non lasciarsi sfuggire le opportunità che si
presentano inaspettatamente. Come quella di rivolgermi a un amico italiano…
So che il suo primo libro ha affascinato Michel de Certeau: come mai?
Ho incontrato almeno due uomini che mi hanno lasciato un’impressione duratura:
Michel Foucault e Jacques Lacan. Michel de Certeau è rimasto impressionato dal
mio libro? È vero, ma non l’ho mai incontrato. Non possiamo più rivolgergli la
tua domanda, ma sfogliare i suoi libri.
Mi scriva un verso-amuleto – suo o di chi stima – per orientare la mia ricerca
di ‘verità’ (qualunque cosa significhi la parola ‘verità’).
Joyce ha detto che l’esistenza è un incubo dal quale vogliamo svegliarci.
Preferisco le parole di Rimbaud: “Io è un altro”.
Questa è un’altra ‘parola amuleto’: “Questo pensiero tenta solo di far udire, in
una sorta di preludio, qualcosa che dalle profondità del tempo, proprio
all’inizio del pensiero, è già stato detto senza essere stato veramente
pensato”.
Ha scritto un libro su Edipo…
…mi è piaciuta molto la versione di Edipo di Pier Paolo Pasolini. Sofocle ha
scritto: “È quando non sarò più niente che finalmente sarò un uomo”.
*In copertina: Odilon Redon, Armatura, 1891
L'articolo “Perché nascesse, ho scelto di essere distrutto”. Dialogo al buio con
Dominique Rouche proviene da Pangea.
Tutto, in Dino Campana, è leggenda, vince la legge dell’ebbrezza, vige una
specie di angusta agiografia, l’artigliata del mito. In sostanza, è tutto, per
lo più, reso al frantoio del frainteso. Così, il personaggio Campana ha finito
per sostituire, malauguratamente, il poeta; l’Orfeo di Marradi ha preso il posto
dei Canti Orfici, il “libro” assoluto del secolo. Campana è stato, di volta in
volta, eroe da romanzo – nel libro di Sebastiano Vassalli, La notte della
cometa, ad esempio – e icona di brutti film – Un viaggio chiamato amore (2002),
con Michele Placido alla regia –, amante selvaggio (l’infoiato di Sibilla
Aleramo) e matto, l’uomo elettrico di Castel Pulci. Il tutto tenendo a premurosa
distanza un’opera unica: prenderla sul serio – e non come un repertorio di
folgoranti ‘mattane’ – avrebbe significato riformulare i canoni della poesia
italiana del Novecento. Se Dino Campana è “uno dei pochi davvero grandi del
nostro Novecento” (così Edoardo Sanguineti in Poesia italiana del Novecento,
Einaudi, 1969), l’iniziatore del canone ‘inverso’ della nostra lirica (rispetto
alle linee consolidate, aperte da Ungaretti-Montale-Saba), oscuro bombarolo del
linguaggio, lettore barbarico che rifugge dagli infingimenti letterari non in
virtù di una presunta ingenuità ma di una geniale presunzione dello sguardo
‘all’infinito’, oltre il metronomo dell’ombelico, del cuore, dell’anima in
ghiaccio, i nostri giudizi letterari vanno scardinati.
Dino Campana – “il solo esempio radicale, nella poesia novecentesca, di un’arte
tutta alienata dinanzi alle istituzioni letterarie”, Sanguineti – è il punto di
scaturigine, il Mosè e il profeta, di una genia di ribelli al linguaggio che
tiene insieme, in ordine sparso – per dire –, Onofri, Boine e Rebora, Lorenzo
Calogero e Dario Villa, Ivano Fermini e Alessandro Ceni. Non avanguardisti,
bensì lirici inadempienti ai modi del mondo, immondi alle mode, spesso nutriti
di letture aliene – additare a ‘provinciale’ uno come Dino Campana, lettore di
Whitman e Nietzsche, di Baudelaire, di Edgar Allan Poe e di John Ruskin, fu
avventatezza da provinciali. In questo senso, la critica letteraria ha da
lavorare con la cazzuola e il martello.
Ma tutto è frainteso quando si parla di Dino Campana. Il gadget del ‘poeta
pazzo’, l’etichetta da “Rimbaud italiano” (Sanguineti) per non dire da “Rimbaud
della Romagna” (così Paolo Toschi nel 1926), il poeta “passato come una cometa”
(Cecchi) hanno arricchito le chiacchiere minando l’assunzione critica. Un
significativo istrionismo del caso ha fatto sì che una delle fotografie più
divulgate di Dino Campana non gli appartenga: raffigura un compagno di classe,
Filippo Tramonti, poi cancelliere di tribunale. L’ultimo appello del Centro
studi di Marradi “per rimuovere la foto dal web” è stato diffuso dal “Corriere
Fiorentino” il gennaio scorso. Dino Campana pare sempre sfuggire a chi vuole
circoscriverlo in aggettivi, immagini, giudizi.
Così, fino a ieri Campana era additato a poeta per lo più ottocentesco,
dannunziano (la tesi, in sintesi, di Pier Vincenzo Mengaldo, che chiude le
paginette dedicate a Dino nei Poeti italiani del Novecento con una battutaccia:
“Probabilmente si può dire di lui quello che Debussy disse – a torto – di
Wagner: che era un tramonto che poté sembrare un’alba”). Ci è voluto lo studio
trentennale di Gianni Turchetta per avere un degno ‘Meridiano’ Mondadori a
raccogliere L’opera in versi e in prosa di Dino Campana, strumento decisivo (son
quasi duemila pagine) per leggerlo come si deve, così com’è. Molti poeti con
l’alloro si sono nutriti dell’orfico canto di Campana (Eugenio Montale – “In lui
nulla fu mediocre”, scrisse in un saggio del 1942 – e Mario Luzi tra gli altri).
Giovanni Boine ne riconobbe il timbro immediato, inaudito (leggendo Campana,
scrisse nel 1915 su “La Riviera Ligure”, “entri in un’atmosfera d’ansia, sei a
balzi via trascinato di là dai confini del tuo consueto andare, chissà dove,
chissà dove per disperazioni d’irrealtà”); Bino Binazzi, nel 1922, sul “Resto
del Carlino”, trasse dal precipizio di Campana un monito:
> “Povero Campana! Chissà chi, fra tutti, sia il pazzo? Egli è in fondo un
> tradito dalla vita e dagli uomini. Troppo vasta fu la sua visione e troppo
> anguste le strettoie, ove la meschinità altrui lo costrinse. La sua fatica fu
> ultra-umana; e la sua angoscia non ha limiti”.
Quell’anno, in altri luoghi, con altri esiti, uscivano La terra desolata di
Eliot e l’Ulisse di Joyce. Libri destinati, come si dice, ‘a fare la storia’.
Campana, inesausto al proprio tempo, inesauribile, deve ancora compiere la
propria storia. Nasce oggi.
Lei apre il ‘Meridiano’ dedicato a Campana con una asserzione che pare
provocatoria: “ancora aspettiamo una sua serena assimilazione al canone della
poesia italiana del Novecento”. A cosa si deve l’ispida solitudine critica
attorno a Campana? Ricordo che Edoardo Sanguineti, tuttavia, nella
folgorante Poesia italiana del Novecento, aveva issato Campana nel cuore del
canone. Non è forse lui, al di là della nota trimurti – Saba-Ungaretti-Montale –
l’eroe di un canone ‘alternativo’ della nostra lirica, il cui ‘effetto’ è più
pervasivo di quanto non appaia?
Non credo che la mia affermazione sia provocatoria. Mi pare abbastanza evidente
che Campana non è stato assimilato in modo sereno e organico alle
interpretazioni più consuete della nostra storia letteraria e conseguentemente
non ha ancora trovato una serena collocazione nei manuali del triennio delle
superiori. Certamente questo è avvenuto per svariate ragioni. La prima è
sicuramente una ragione di tipo culturale: Campana ha una formazione decisamente
atipica rispetto a quella più consueta dei nostri letterati, una formazione
Internazionale, fondata su vastissime letture dei testi originali,
complessivamente non ben decifrata dalla maggior parte degli intellettuali
italiani. Certo ha poi influito in negativo l’interpretazione, solo
apparentemente ovvia, della sua biografia in chiave di maledettismo,
un’interpretazione che ha confuso il territorio, ostacolando una rigorosa
lettura formale dei suoi testi e schiacciando Campana sulla sovrapposizione tra
poesia e follia: stereotipa, e di fatto profondamente fuorviante. Infine, da
questo punto di vista mi pare che la critica abbia fatto troppa fatica a
cogliere nei procedimenti della sua poesia, e soprattutto nella proliferazione
capillare dei procedimenti di ripetizione, non una dissoluzione dei significati
(come ipotizzato più per ragioni biografiche che per un’attenta lettura dei
testi), ma, tutt’al contrario, una tecnica a suo modo rigorosa di costruire
significati molto complessi e sfumati, ad alta densità, dove la dimensione
verbale si fonde organicamente con la costruzione sonora, diciamo pure con la
musicalità.
“Canti Orfici”: un titolo al contempo leopardiano e profetico (penso ai Sonetti
orfici di Rilke). Le chiedo dunque: come dobbiamo intendere l’orfismo di
Campana?; in che senso Campana è leopardiano?
Direi che dobbiamo anzitutto intendere l’orfismo di Campana come aspirazione
a un sapere assoluto, di natura intuitiva e irrazionale, una specie di
misticismo laico, che ha al centro la poesia come strumento di una conoscenza
superiore. In questo senso, l’orfismo campaniano si riallaccia al recupero della
tradizione magica ed esoterica avviato col Romanticismo e proseguito con il
Simbolismo: Novalis, Nerval, lo stesso Rimbaud. Su questa linea l’Orfismo si
incontra con la sperimentazione avanguardistica. Per altri versi, è
vero, Campana è profondamente leopardiano: ma il suo leopardismo ha ben poco
della dimensione “orfica”. La dimensione di verità assoluta e irrazionale,
portante nella poesia campaniana, mette radici nel Romanticismo, ma è molto
lontana dal peculiare Romanticismo di Leopardi, intriso profondamente di
razionalità illuministica. Se può servire una formula: Campana è un nietzschiano
coerente, e come tale non è illuminista. Per molti altri aspetti, tuttavia, la
poesia di Campana è tutta intrisa di Leopardi, che funziona, insieme a Dante,
come il principale raccordo con la tradizione poetica italiana. Per Campana,
Leopardi è inoltre anche un esemplare modello di moralità, una moralità che fa
tutt’uno con la vocazione rigorosa alla poesia. D’altra parte, proprio la
dedizione alla poesia permette di mettere in scena l’indefinito, la lontananza,
se vuole anche l’infinito e la grandiosità del cosmo. In questo penso che
Campana debba molto a Leopardi. Campana ha inoltre assimilato in profondità e
ripreso con rigore e originalità proprio la musica leopardiana, intesa anche in
senso strettamente tecnico, come metrica: l’analisi dei testi evidenzia una
presenza costante, profondissima, del modello della canzone libera leopardiana,
cioè di una libera alternanza di endecasillabi e settenari, con una presenza
assai variabile della rima. In questo senso va dato un peso davvero molto
considerevole alla presenza leopardiana, che compare un po’ dovunque nella
poesia campaniana.
Gioco con le W doppie. Ergo: in Campana agisce, per ammissione, la forza di Walt
Whitman – ma anche quella di Wagner. Come questi due ‘titani’ entrano
nell’immaginario di Campana?
Comincio da Wagner, che certo ha contato molto come suggestione musicale, e
anche con la poetica del Gesamtkunstwerk (Opera d’arte totale), in linea con una
prospettiva di rimescolamento di parole, musica e immagini. Inoltre Campana
condivide con Wagner e Nietzsche l’idea della necessità di un incontro fra
la Kultur tedesca e la Civilisation francese, e più in generale fra la
dimensione della mediterraneità, del Meridione, e quella della germanicità o del
Nord, con cui deve convivere. Sappiamo però che Campana legge molto presto (in
tedesco) gli scritti tardi di Nietzsche, dove Wagner viene attaccato duramente:
certamente li apprezza, ed è probabile che ne derivi qualche tratto di critica
al wagnerismo e alle sue mitologie: si legga per esempio una lettera all’amico
Aldo Orlandi, dove parla di “paradisi asfittici wagneriani”. Il discorso su
Whitman è ancora più complesso, perché il grande Bardo americano è per Campana
un modello capitale, come dichiarato più volte, e come testimoniato in modo
inequivocabile dalla scelta di usare versi di Whitman per l’epigrafe finale
dei Canti Orfici. Ricordiamo anche che Leaves of Grass è l’unico libro che
Campana porta con sé in Argentina. Per il Meridiano ho ristudiato a fondo la
presenza di Whitman nella memoria poetica campaniana, una presenza molto più
capillare di quanto non si sia finora notato, come si può vedere nelle note.
Whitman comunica a Campana la profonda esaltazione di fronte alla inesauribile
varietà e bellezza del mondo. Anche quel tanto di profetico che troviamo
nei Canti Orfici ha molto di whitmaniano, così come l’aspirazione a un
rinnovamento complessivo dell’Uomo: come si legge alla fine di Pampa, in un
contesto non a caso americano: “l’uomo libero tendeva le braccia al cielo
infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio”. Ancora, c’è molto di
whitmananiano nella costante messa in scena di un io che cammina per il mondo e
si sforza di renderne la dinamica molteplicità, che lo entusiasma: a suo modo,
anche Campana scrive un Song of Myself. C’è infine una profonda sintonia con
Whitman anche nell’atteggiamento di chi attribuisce grandissima importanza alla
poesia, specialmente alla propria, come diretta espressione della sua vita
stessa, della sua creaturale corporeità; nella sua poesia, come ci dice
parecchie volte, Campana lascia letteralmente il sangue, “the boy’s blood”, che
sono non a caso le ultime parole del Libro della vita.
A tratti, Campana pare il Gauguin della poesia italiana. Il poeta che ritorna al
bosco, tenta il ‘selvaggio’ per innovare le forme liriche? È così?
L’ostentazione della primitività, che fa tutt’uno con la possibilità di cogliere
l’origine, quindi, di nuovo, una dimensione di verità assoluta, è certo una
mitologia fondamentale della cultura del tempo, una mitologia che ha avuto un
peso molto notevole fino ai nostri giorni. D’altro canto, se lasciamo da parte
il folklore e le ostentazioni biografiche (come il fatto che Campana stesso si
definisce e a volte si firma, “uomo dei boschi”), si tratta largamente di un
mito, che rischia di essere a sua volta fuorviante. La poesia di Campana è
incredibilmente intrisa di cultura letteraria, ma anche pittorica e filosofica:
l’evidenza di un fittissimo tessuto di citazioni non può essere in nessun modo
sottovalutata. In questo senso, Campana è tutto tranne che “selvaggio”. D’altro
canto, è vero che Campana rimette in gioco alla radice la materia culturale
iniettandovi la forza di un’esperienza vissuta travolgente e certo molto
particolare, che fa saltare le convenzioni nel profondo. L’effetto di
rivitalizzazione del linguaggio poetico è innegabile. Ma è frutto di una miscela
molto originale di raffinata cultura e esperienza vitale, che piega la cultura
in forme nuove e inattese: non certo di una regressione pre-culturale.
…ma: è davvero andato in America Latina Campana?
Certo che ci è andato! Sono davvero molto cervellotici e un po’ capziosi i dubbi
avanzati sulla verità del viaggio in Argentina, nientedimeno che da Giuseppe
Ungaretti. Ma i documenti a nostra disposizione, pur non offrendoci una certezza
assoluta, ci portano comunque molto vicini alla certezza. Abbiamo infatti un
Registro dei Passaporti da cui risulta che il padre di Campana, Giovanni, ritira
un passaporto per Buenos Aires intestato a suo figlio Dino nel settembre del
1907 (allora i passaporti si rilasciavano per destinazioni specifiche). Ci sono
poi le testimonianze di suo zio Torquato e del fratello Manlio, che lo hanno
accompagnato a Genova fino alla nave e lo hanno visto partire. Gli eredi
possiedono poi delle carte che certificano l’indirizzo della famiglia italiana
di Buenos Aires, amica dei Campana, da cui Dino si è recato (raccomandato e con
una lettera di accompagnamento che chiedeva di farlo lavorare in farmacia per le
sue competenze universitarie in Chimica), salvo poi sparire dopo appena un paio
di giorni. Un notevole dato indiretto sta inoltre nel fatto che dovunque andasse
Campana lasciava evidenti tracce burocratiche del suo passare, documentate dalle
carte a nostra disposizione: fermi di polizia, arresti, fogli di via. Ebbene,
dal settembre 1907 (si noti bene, cioè da pochi giorni dopo il rilascio del
passaporto) fino al marzo 1909 non c’è più nessuna traccia di Campana né in
Italia né nel resto d’Europa: una circostanza a dir poco sorprendente. Siamo
dunque pressoché sicuri che in quel periodo Campana non fosse in Europa. Infine,
non abbiamo neanche cominciato a prendere in considerazione l’evidente
fondatezza delle rappresentazioni campaniane del viaggio e poi della vita in
Argentina: in particolare, quelle relative al viaggio (soprattutto in Viaggio a
Montevideo, ma anche in altri testi, come la più antica poesia
del Quaderno intitolata Buenos Aires) e al suo lavoro come sterratore per la
costruzione della ferrovia nella Pampa, di cui ci parla nel brano omonimo, già
citato. Ci vuole più fantasia a immaginare Campana che si procura una
bibliografia sull’argomento (e dove poi? In Europa difficilmente l’avrebbe
trovata in biblioteca, sono libri argentini…) che ad ammettere, come pare
inevitabile, che sta parlando di un’esperienza vissuta direttamente, che ha
lasciato in lui ricordi intensi e profondi, come del resto mostrano i testi.
L’unica ragione per dubitare del viaggio argentino è il pregiudizio su quanto
racconta un uomo che è morto in manicomio. Ma quello che racconta Campana è
quasi sempre vero.
Nel lungo peregrinare sulle tracce di Campana, nel perpetuo indagare, che cosa
l’ha sorpresa di più? Qual è l’episodio nella vita di Campana che ha avuto per
lei il senso di una rivelazione?
Studio professionalmente Campana dal 1982. In tutti questi anni sono molte le
scoperte fatte, ma faccio fatica a dare a qualche episodio una specie di
primato, appunto come di una “rivelazione”. Molte cose certamente emergono dalle
lettere, dove il poeta si mette a nudo e alle volte ci rivela aspetti
illuminanti, in modo più o meno volontario. Trovo per esempio rivelatore quanto
scrive in una lettera a Prezzolini del gennaio 1914: “io ho bisogno di essere
stampato: per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere
stampato.” Qualche anno prima, nel 1910, in una lettera alla rivista «La difesa
dell’arte», aveva scritto: “Io sono un uomo ancora inedito”. Siamo al limite del
lapsus: evidentemente erano inediti i suoi testi, non lui stesso come “uomo”…
Campana sente di essere poeta vero, ma sa anche, lucidamente, che per essere
“poeta” fino in fondo è necessario essere riconosciuto come tale dalla comunità
letteraria, dai cosiddetti “detentori del gusto”. Vive però questa condizione
con drammatica radicalità, come se dalla pubblicazione dipendesse la sua stessa
esistenza: “per provarmi che esisto”. Sono parole che mostrano l’intensità e
profondità sconvolgenti con cui Campana vive la poesia, facendola tutt’uno con
se stesso. Se non capiamo bene questo punto faremo fatica a cogliere in maniera
adeguata quanto siano per lui psicologicamente terribili le vicende riguardanti
i suoi testi, a cominciare dallo smarrimento del manoscritto di Il più lungo
giorno, quanto possano andare a incidere direttamente e dolorosamente sulla sua
vita affettiva. Voglio però aggiungere un altro episodio della vita di Campana
che molto raramente è stato letto nella maniera corretta, cioè come un elemento
sdrammatizzante: la pubblicazione stessa dei Canti Orfici, grazie a una
sottoscrizione di amici a Marradi. Anzitutto, non sono pochi i grandi libri del
Novecento pubblicati a pagamento e in modo avventuroso; in questo senso, il
mitico libro di Campana non è affatto un’eccezione. Non è questo il punto:
dobbiamo invece piuttosto prendere atto che non ci sono stranezze dovute alla
pazzia dell’autore e alla sua condizione precaria, nei primi decenni del secolo
era normale che le cose andassero così. Anche Gli indifferenti di Moravia, tanto
per fare un esempio davvero molto lontano, è stato pubblicato a pagamento…
Sarebbe il caso semmai di rendersi conto che non è affatto così scontato che in
un paese come Marradi ci siano poco meno di cinquanta persone che tirano fuori
dei soldi per far pubblicare un libro di poesia! Possiamo escludere
drasticamente che avessero tutti capito l’importanza del Libro di Campana. Però
forse, nonostante tutto, egli aveva fra i suoi concittadini più amici di quanto
non ci dicano la vulgata e lui stesso, parlando sempre, in modo stereotipo,
della persecuzione e della solitudine del genio incompreso. Ci vorrebbe un po’
più di equilibrio e di attenzione ai dettagli, cioè alla realtà concreta, per
leggere le vicende, evitando di trasformarla in storielle consolatorie…
Vengo a uno dei momenti capitali: Soffici perde il manoscritto del Più lungo
giorno. Eppure, pochi anni prima, aveva scritto una tonante biografia su
Rimbaud. Come si coniuga una quasi pregiudiziale affinità con i ‘maledetti’ alla
spavalda cecità nei confronti del “Rimbaud italiano”?
Temo che non ci sia molto da capire: Soffici era un uomo intelligente, colto,
aperto alla cultura internazionale, che conosceva come pochi, specie per le sue
frequentazioni parigine; ma era anche snob, presuntuoso, tutto centrato su se
stesso, certo del tutto distaccato dai problemi altrui e men che meno a quelli
di uno sconosciuto che gli portava un libro. Chissà quanti altri gliene
capitavano… Di Campana e del Più lungo giorno non gli importava granché,
insomma: questo basta sicuramente a spiegare la sua mostruosa, comunque
stupefacente distrazione. Sono certo che perse il manoscritto non per qualche
complicazione psicologica (come l’invidia per un poeta di fatto più bravo di
lui), ma semplicemente per indifferenza, orribile superficialità, disinteresse.
Non so fino a che punto ci fosse affinità fra di loro, a parte, certo, la comune
partecipazione a un contesto artistico e culturale: in questo Soffici
rappresentava, per Campana e per molti altri, un punto di riferimento, specie
per la tempestività e la competenza con cui scrisse di avanguardie, di Futurismo
e Cubismo, come pittore oltre che come studioso. Ma penso proprio che Soffici…
non si sia mai accorto di affinità fra lui e il povero Campana. Solo quando
i Canti Orfici sono usciti ha recitato la parte di chi era ammirato dalla loro
poesia (forse un po’ lo era davvero) e ha poi messo in piedi il colorito
ritrattino di Campana che leggiamo nei suoi ricordi: ma non ci vuole particolare
sensibilità o finezza interpretativa per cogliere nelle parole di Soffici un
atteggiamento sprezzante, con tratti di malcelato cinismo, l’atteggiamento, è
evidente, di un ricco aristocratico verso un poveretto venuto dalla provincia,
che gli pareva un poco tollerabile cafone e evidentemente gli faceva un po’
schifo. Questa è la questione centrale. Aggiungiamo poi che Campana, anche se
nei suoi testi ci sono non poche citazioni testuali da Rimbaud, non lo amava
affatto, come ha scritto più volte: i suoi poeti francesi di riferimento erano
Baudelaire e Verlaine, assolutamente non Rimbaud. Campana, inoltre, ha poco a
che fare con la poetica del Maledettismo, cui non ha mai aderito. È vero che ha
vagabondato tanto, ma, al di là di questa somiglianza biografica, sul piano
letterario il paragone con Rimbaud è davvero molto vago. Con ogni probabilità
Campana lo avrebbe rifiutato con sdegno.
In tanti subodorano il genio di Campana – penso a Boine, poeta che sarebbe
giusto, per eccessivo talento, far riemergere dall’oblio – ma chi davvero crede
nei Canti Orfici, imbracciandolo come un libro decisivo?
Inizialmente forse solo il suo amico Luigi Bandini, detto Gigino, intellettuale
marradese di notevole spessore, autore di testi filosofici. Gigino fu il
promotore della sottoscrizione per la pubblicazione del Libro di Campana.
Campana aveva profonda fiducia in lui, tanto da spedirgli la versione quasi
definitiva delle sette poesie dei Notturni dei Canti Orfici, che possediamo
appunto nei fogli manoscritti detti Carte Bandini. Certamente credette subito e
pienamente nel valore della poesia di Campana anche Federico Ravagli, che a
Bologna gli fece pubblicare i primi testi. Dopo l’uscita del Libro, certo quelli
che credettero in lui furono un po’ più numerosi, a cominciare da Mario Novaro,
che gli pubblicò vari testi su «La Riviera Ligure». Ma avevano grande
considerazione di Campana altri liguri, come Boine e Sbarbaro, e altri poeti e
artisti, fra i quali Cardarelli e Carlo Carrà. C’erano poi alcuni giovani che
già cominciavano a costruire il mito di Campana: Bino Binazzi, Francesco
Meriano, Lorenzo Montano, Renato Fondi. Sono, certo, figure di spessore minore,
ma già ne avevano una considerazione che sfiorava la venerazione e certo ebbero
un ruolo importante nell’avviarne la fama. Dobbiamo comunque sottolineare come
fu Attilio Vallecchi, con l’edizione del 1928 (Canti Orfici ed altre Liriche.
Opera completa, con prefazione di Bino Binazzi), a tramandare di fatto la poesia
di Campana alla generazione degli Ermetici, che ne fece un riferimento
imprescindibile: Bargellini, Fallacara, Luzi.
Il mito del ‘poeta pazzo’: ha giovato o ‘maledetto’ la ricezione critica di
Campana?
Gli ha enormemente nuociuto, non c’è dubbio, e non è ancora finita. Molti
critici, a cominciare da Papini, semplicemente non lo hanno preso in
considerazione perché lo hanno identificato con il suo squilibrio e soprattutto
con la tragica vicenda dell’internamento definitivo. Altri hanno continuato a
scrivere interventi magari anche di livello, ma visibilmente sempre influenzati
da resistenti pregiudizi sulla mancanza di controllo, sulla perdita di
significato, sulla scarsa consapevolezza, sulla cultura “vecchia”. L’elenco
sarebbe lungo. Ma è chiaro che sono ancora ricadute della troppo resistente
mitologia del poeta pazzo, pericolosa anche quando viene virata al positivo, con
l’immagine, pure fuorviante, del mistico trascinato all’assoluto dal demone
della poesia, che farebbe tutt’uno con la follia. Sono davvero convinzioni
pervicaci, che ignorano in gran parte l’evidenza dei dati filologici e testuali,
dai quali si può vedere bene come Campana scrivesse seguendo una cosciente
progettualità. Aggiungo inoltre che quando stava male non riusciva a scrivere:
quindi, non Poesia e Follia, ma Poesia o Follia. Quando la Follia si affermava,
la Poesia non esisteva più. Anche questo Campana lo ha segnalato varie volte,
con una lucidità e un equilibrio che sarebbe bello ritrovare anche nei suoi
critici…
Chi rimane vicino a Campana durante i lunghi, lunghissimi anni dell’internamento
a Castel Pulci? Campana si occupa dei Canti Orfici, chiede mai notizie delle sue
poesie?
Non sono moltissime le persone che andavano a trovarlo. Anzitutto, sua madre,
che pure era stata l’oggetto primo delle sue pulsioni aggressive. Suo padre
invece non ebbe mai il coraggio di andarlo a visitare in manicomio.
Comunque, Dino non gradiva molto le visite e certo le scoraggiava. Fra le poche
persone che lo andarono a trovare nei lunghi anni di Castel Pulci ci sono il
fratello Manlio, lo zio Torquato, il cugino Raffaello “Lello”, Leonetta Cecchi
Pieraccini, l’amico pittore Primo Conti, il critico Fernando Agnoletti. Molto
recentemente abbiamo poi scoperto, attraverso la pubblicazione del carteggio fra
Conti e Corrado Pavolini (pubblicato nel 2023, per le cure di Marcello
Verdenelli e Costanza Geddes da Filicaia), che c’era anche chi, come Pavolini,
gli scriveva in manicomio, chiedendogli pareri su vicende culturali: non
sappiamo però se Campana abbia mai risposto. Per molti anni Campana pare avere
un atteggiamento di rifiuto nei confronti della sua poesia, come sappiamo già
dalla fine degli anni Trenta dai resoconti dello psichiatra Carlo Pariani, che
lo guida in una specie di commento a tutta l’edizione Vallecchi del 1928. Sono
dichiarazioni comunque utilissime, anche se Pariani ha lo sguardo un po’ angusto
di un medico positivista. Infine, nelle due lettere inviate nel 1930 a Bino
Binazzi e al fratello Manlio, in un periodo in cui sta meglio, tanto da far
addirittura ipotizzare un suo ritorno alla vita libera.
Ultima. Qual è la poesia di Campana che continua a emozionarla, che vale
innumeri riletture?
Sarà banale, ma io continuo a emozionarmi leggendo La Chimera, con la sua
straordinaria progressione finale. Vorrei però ricordare anche un piccolo
gioiello al di fuori dei Canti Orfici,Donna genovese, che ci fa ben capire come
per Campana le donne fossero anche tramite per la felicità, non solo per la
sofferenza. Lo mostra anche uno dei più incredibili passi di tutto Campana, il
finale del paragrafo 19, e penultimo, di La Notte, la cosiddetta “sinfonia in
viola”. Davanti a passi del genere mi domando come sia possibile non riconoscere
che siamo davanti a un grande, grandissimo poeta.
L'articolo Dino Campana, il poeta totale. Dialogo con Gianni Turchetta proviene
da Pangea.