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“Detto da un sedicente artista è grave…” Il Canone Godano della letteratura universale
Per qualche tempo abbiamo duellato a colpi di WhatsApp. La discussione, impennata verso gli impossibili, deragliò quasi subito: gli domandai dell’anima, dell’eternità, del senso dell’arte, di Dio e dell’addio. Cristiano Godano ha pubblicato undici album con i Marlene Kuntz e quattro libri: il primo, I vivi (Rizzoli, 2008) è una raccolta di racconti; l’ultimo, Il suono della rabbia (il Saggiatore, 2024) è una raccolta di “Pensieri sulla musica e il mondo”. Nel suo terzo libro, Nuotando nell’aria (La nave di Teseo, 2019), che sviscera “35 canzoni dei Marlene Kuntz”, Godano racconta di aver scoperto Vladimir Nabokov, il suo scrittore-idolo, “all’epoca di Catartica”, quell’album memorabile – “generazionale” come dicono gli studiosi – uscito nel 1994. Godano compiva ventotto anni, il disco era prodotto dal Consorzio Produttori Indipendenti di Gianni Maroccolo, Zamboni+Ferretti etc. e io imparavo a giocare a calcio guardando Roberto Baggio, il Bodhisattva del pallone, evangelizzare i mondiali americani.  Da lì nasce il nostro incontro. Da Vladimir Nabokov – per me, il conte Vlad della letteratura occidentale, il sommo vampiro: lo leggi e ti dissangua. Così, con Godano ci inoltriamo nei meandri di Fuoco pallido, il libro più estremo, estenuato di Nabokov; entrambi eleggiamo Intransigenze – la raccolta di corrosive e corroboranti interviste nabokoviane – a libro-totem. Insomma, diamo dimostrazione che anche WhatsApp, altrimenti umana camera degli orrori, di sbandierate banalità, può essere qualcosa di non troppo dissimile dal Fedone o da Macbeth. Entrambi – credo – crediamo che ogni verità vada temprata distruggendola; che occorra il coraggio di spogliarsi di ogni convinzione. Fare di sé il vento e il lupo, la pula e il pullulare di ululati.  Credo, piuttosto, che Cristiano Godano sia uno dei rari cantautori italiani – per un sano senso della sprezzatura e dello snobismo – non inquadrabile in schemi, non liquidabile in teoremi. Rifugge dai cliché della rockstar; ha in odio le grige manie degli ‘alternativi’ che – ormai altro da sé – fanno reddito con la malinconia, con l’epopea della giovinezza trascorsa. Gli album ‘in solitaria’ – Mi ero perso il cuore, 2020; Stammi accanto, 2025 – dicono di un artista che non si placa, inappagato, implacabile soprattutto verso se stesso, che ha imparato la voluttà di non piacere ai più. Chi è cresciuto ascoltando i Marlene Kuntz nella fetida periferia torinese, nei lividi Novanta – “Mi piacerebbe sai, sentirti piangere/ anche una lacrima, per pochi attimi” – sa che la sola speranza è spezzarsi, che la sola vita è precipitare.  Nel libro Nuotando nell’aria, Godano cita Borges e Rimbaud, Keats e Dostoevskij, scrive per trenta volte la parola “poesia” (molte più volte della parola “sesso”) e per ventisette volte la parola “poeta”; in venti circostanze appare Nick Cave, il suo prediletto. A chi gli dà del poeta, però, Godano risponde, perentorio, che “l’autore di testi per canzoni non è un poeta”, semmai “è potenzialmente un poeta mancato”. Fine della discussione.  A volte, Godano sembra decorarsi con le pose da doge del nulla: gli piace ripetere che deriviamo dai vermi e dai pesci, che l’uomo è un incidente di percorso nell’esistenza terrena, che la vita è spietata, che l’intelligenza è un sovrappiù di sfiga perché ci obbliga a indugiare sul dolore, che infine l’arte è niente. Che tutto, in fondo, finirà e nessun dio ci attende a bocca aperta negli altri mondi. Tutte cose che si sanno, che insaporiscono il discutere di zuccherine oscurità. In fondo, si ascolta una canzone per liquefarsi in un regno ulteriore della mente; in fondo, chi scrive una canzone è già al di là di questo mondo – che si dica salvezza, che si dica disperazione, che importa.  Se ti dico la parola “poesia” cosa ti viene in mente? La famosa definizione di Paul Valéry sulla poesia (“La poesia è una lunga esitazione fra il suono e il significato”) mi è sempre piaciuta al punto da lasciarmene condizionare irrimediabilmente. Ed è ciò che mi sovviene ora a seguito della tua domanda. So che questo inizio di risposta è connesso alle specifiche necessità del creatore di versi più che al lettore, e immagino che solo un lettore molto allenato e consapevole possa avere una tale consapevolezza raffinata comprendendo la complessità del fare poesia. Dunque il lettore attento sa che la poesia ha un ritmo e ha un suono, e anche di questo gode leggendo, mentre il lettore meno strutturato ed esperto basa il suo gradimento principalmente sulle emozioni di natura sentimentale. Senza voler qua demonizzare questo tipo di emozioni, penso che si collochino a un livello inferiore nella scala del giudizio. Io, come lettore, dichiaro la mia non robusta frequentazione del genere: le leggo principalmente quando sono nel processo creativo per fare un disco nuovo, poiché in quel caso la contiguità del mio far versi per canzone con le esigenze del poeta nel suo verseggiare mi aiuta a connettermi con la specificità di ciò che sto per affrontare.  Penso che si è ottimi lettori di poesia quando si è dotati di immaginazione: a volte a me sembra di non averne a sufficienza. Detto da un sedicente artista è grave, lo so. Nel tuo discutere e nei tuoi pezzi citi, tra i tanti, Borges (adoratissimo da Mick Jagger, per altro…), Baudelaire, Rimbaud, Gozzano, Montale… Viene fuori una specie di “Contro-Canone Godano” della letteratura. Proviamo a redigerlo una volta per tutte? Citami dieci libri che in qualche modo hanno orientato la tua vita – e perché. Se la domanda è “i libri che hanno orientato la tua vita” sono spinto a nominare anche le opere non di finzione che sono state per me importanti. Premettendo che la più parte delle cose che ho letto è stata da me un po’ dimenticata, sto guardando in questo momento i miei libri (una parte, per lo meno) per cercare la risposta adatta; noto che molti di essi mi dicono “sì, mi leggesti tempo addietro”, e posso nominare: Lolita di Nabokov (letto due volte), Intransigenze di Nabokov (l’ho letto e riletto più volte), Fuoco pallido di Nabokov (letto due volte), La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda (libro straziante), Fratello cicala di John Updike (una raccolta di racconti: mi approcciai a lui con questo libro, non certo il suo più famoso: rimasi incantato dalle qualità estetiche della sua scrittura), due o tre opere di Shakespeare contenute nello stesso libro dei ‘Meridiani’ (non importa quali: è la lettura di Shakespeare in sé che mi estasiò), Odile di Raymond Queneau (ero catturato dalle stranezze dell’Oulipo e dai tentativi di commistione matematica-letteratura), Scritti sull’artedi Paul Valéry (raccolta di micro-saggi che influenzarono molto il mio pensiero in costruzione), Sulla poesia di Eugenio Montale (raccolta di micro-saggi, idem come per Valéry), alcuni racconti e le poesie di Borges (raccolti anch’essi nei ‘Meridiani’: mi affascinavano i labirinti di Borges, ma anche le qualità riflessivo-filosofiche della sua poesia), Nera schiena del tempo di Javier Marías (ricordo che mi catturò molto: ero immerso in qualche processo creativo per un disco dei Marlene). C’è poi – lo abbiamo capito mentre compulsavi il tuo “canone” privato – la conclamata passione per Nabokov. Da dove nasce e perché è per te fonte di ispirazione?  La mia passione per lui nasce con la lettura di Lolita e, subito dopo, con quella di Intransigenze, spassosa e serissima al contempo raccolta di interviste che rilasciò soprattutto dopo il successo di Lolita. Intransigenze fu un magnifico regalo che mi fece colei che sarebbe diventata la mamma di mio figlio: se già Lolita mi aveva appassionato per via di uno stile che recepii immediatamente e del tutto istintivamente come magnifico, con Intransigenze mi addentrai nell’abbagliante personalità di Nabokov, innamorandomene. Penso che Nabokov sia il classico caso di “o lo ami o lo odi”: non tutti amerebbero sentire uno scrittore sbeffeggiare Dostoevskij o Faulkner o Thomas Mann o Balzac, per dire… Ammetto di essere affascinato dalla forza tonitruante di certe opinioni: ci vuole coraggio ad averle, e lui aveva coraggio da vendere. I libri fondamentali per me, sottolineando che non ho letto Ada (lo temo!) e altri tre o quattro, sono Lolita, Fuoco pallido, Invito a una decapitazione, Il dono, Parla ricordo, La vera vita di Sebastian Knight. E Pnin, per ridere tanto.  Il mondo rigurgita di orrori. Un manipolo di vecchi si sta bombardando con una violenza equiparata alla vile scaltrezza. Che senso ha fare arte, allora? Che senso ha la ‘bellezza’? Siamo in un momento esacerbato, e cieco, e sordo: polarizzati e sempre più incazzati vediamo il bianco o il nero e non siamo più disposti a comprendere le sfumature, quelle che la tanto vituperata democrazia ci aveva insegnato con la sua inevitabile pazienza, che non c’è più. L’arte temo possa fare poco. O perlomeno: a livello individuale può fare tantissimo (io ad esempio spero che non manchi molto al mio rifugiarmi in essa per fuggire dallo schifo intorno), ma a livello di possibilità di ergersi a barriera del deragliamento temo di no, che non possa farcela. Rileggo meglio la tua domanda: “che senso ha fare arte?” Beh, come minimo può aiutare chi la fa a sganciarsi da questo pessimo mondo: è una condizione a cui, come ho detto qua sopra, idealmente ambisco. Non so se ci riuscirò: è un auspicio.  Nel tuo ultimo album, Stammi accanto, intuisco, consapevole o meno, una qualche ricerca del sacro, un andare verso l’altro, l’oltre. È così? Siamo solo pappa per vermi? Cosa resta di ciò che abbiamo fatto, vissuto, scritto? Ci dev’essere qualche contraddizione in me, perché spesso mi si fa notare che nonostante tutte le mie tiritere pessimiste i miei testi palesano una spiritualità di qualche tipo, o ricerca del sacro, come dici tu… Forse quando solletico il mio afflato scateno qualcosa dentro di me che lotta in sottotraccia per non farsi vessare dal raziocinio: una latenza pronta a farsi viva quando ritiene utile… O è semplicemente la mia parte più vera, che non sa arrendersi nonostante tutto alla dialettica stringente della ragione. Non so che dire: in Stammi accantoc’è una canzone, peraltro la mia preferita, che si chiama Cerco il nulla, dove mi pare di esprimere un non so che piuttosto lontano dal sacro. Ho solo 59 anni, tempo per vederci meglio e capirmi meglio ne ho ancora… *In copertina: Cristiano Godano nel ritratto fotografico di Antonio Viscido L'articolo “Detto da un sedicente artista è grave…” Il Canone Godano della letteratura universale proviene da Pangea.
November 6, 2025 / Pangea
“Un’iniziazione allo stupore”. Dialogo con José Tolentino de Mendonça
Il card. José Tolentino de Mendonça (Machico, Madeira, 1965) è prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione dal 2022. Ha alle spalle una lunga e riconosciuta attività di scrittore. La sua prima raccolta di poesie, Os Dias Contados, è uscita nel 1990, lo stesso anno in cui è stato ordinato sacerdote. Nel 2018 fu invitato da papa Francesco a predicare il ritiro di Quaresima per la Curia romana e nello stesso anno quelle meditazioni sono state raccolte in Elogio della sete (Vita e pensiero). Tra i suoi titoli più recenti in lingua italiana ricordiamo: Una grammatica semplice dell’umano (Vita e Pensiero, 2021), Il papavero e il monaco (Qiqajon 2022), Estranei alla terra, (Crocetti 2023), Amicizia. Un incontro che riempie la vita(Piemme 2023). Il prossimo anno l’editore Crocetti pubblicherà la sua ultima raccolta di poesie, Il centro della terra. Quali sono i suoi primi ricordi da bambino? La prima parte della mia infanzia è stata africana e se dovessi riassumerla in una parola, sceglierei la parola “vastità”. I miei primi ricordi riguardano proprio la consapevolezza di quella vastità, del territorio come del mare. Abitavo in una casa sulla spiaggia davanti al mare, nella località di Lobito in Angola: quell’esperienza mi ha segnato profondamente, perché era un’iniziazione allo stupore. Se penso ai primi anni di vita, da quando ho coscienza e memoria, è questo lo stupore che poi mi ha sempre accompagnato. Mi ricordo per esempio la scena dell’arrivo dei pescatori al mattino, dopo una notte passata in mare, e le donne, le donne nere del popolo, che aspettavano senza scarpe vicino all’acqua l’arrivo di quel pesce che sarebbe poi stato loro compito distribuire. Era una scena di grande intensità, era l’immagine di un mondo puro. Una volta ho letto che Omero usa circa trenta espressioni per descrivere l’azzurro del mare senza ricorrere al termine “azzurro”. Lo descrive in tante forme, lo descrive parlando del bianco, parlando delle voci, del sole, delle navi, della fame umana, della bellezza delle grandi ricerche. Quando ripenso a quegli anni penso a queste immagini, che il mare era azzurro, io l’ho visto azzurro, ma l’ho visto azzurro nel bianco, nel verde, nel giallo, nel marrone, nel nero. E tutto questo mi ha offerto l’inizio di una visione.  Queste suggestioni mi riportano a due poeti come Derek Walcott, al suo Omeros ambientato ai Caraibi e al premio Nobel Saint John-Perse… Sono due voci straordinarie per raccontare l’umanità, sono grandi testimoni dell’umano. Saint John-Perse in Italia non è molto conosciuto, nonostante il Nobel. In Portogallo lo abbiamo tradotto di nuovo. Anche in Italia, è uscita una bellissima versione di Amers a cura di Nicola Muschitiello per le Edizioni Medhelan.  Mi interessa molto.  José Tolentino è stato creato cardinale nel 2019 da Papa Francesco Ritorniamo alla sua infanzia, cosa accadde dopo l’esperienza africana? Dopo i primi anni in Angola, con la decolonizzazione, tornai a Madeira, in Portogallo, nell’isola “magica” dei miei genitori, di mia nonna che era una grande raccontatrice di storie. Per me fu interessante passare dalla vastità dell’Africa al microcosmo dell’isola perché fu un esercizio di “concentrazione”. Anche se sicuramente non furono anni facili per i miei genitori, perché in quel cambiamento persero la stabilità che avevano conquistato, la casa, la vita di prima. Non erano sicuramente anni facili per loro, ma io vissi l’arrivo nell’isola come un’esperienza nuova. Per esempio, in Angola conoscevo soltanto due stagioni, l’inverno e l’estate. Lì non ci sono le stagioni intermedie. E invece arrivato nell’isola ricordo una gita scolastica per “incontrare l’autunno”, così la professoressa chiamò quell’esperienza. Ricordo che raccolsi una foglia di un albero e rimasi fermo a guardarla… cercavo l’autunno… Più tardi sperimentai l’esperienza di Rilke secondo cui il poeta è una “conseguenza dell’autunno…”. In Ares abbiamo preparato una biografia di Rilke per il 150° anniversario della nascita. Quali sono i suoi autori di riferimento? Per me Rilke è una memoria importante. Tra i miei primi punti di riferimento, c’è stata la Bibbia, che mi ha sempre incuriosito molto, per la forza, la bellezza e la densità della parola. In una famiglia cattolica come la nostra la Bibbia era una compagnia e per anni fu praticamente l’unico libro che vidi nella stanza dei miei genitori. Ma ci furono altre suggestioni di natura biblica. All’inizio dell’adolescenza avevo un quaderno, una sorta di diario, dove cercavo di copiare gli Spirituals afro-americani, non ero interessato tanto alla musica o alla possibilità di cantare, quanto alla forza della parola. Mi piacevano anche i Salmi e dopo di essi, piano piano, sono passato alla poesia, alla poesia moderna e contemporanea. Prima con i poeti portoghesi e devo dire che il Novecento è un secolo d’oro per la poesia portoghese, perché abbiamo una decina di nomi assolutamente illuminati.  Quali autori consiglierebbe ai lettori italiani? Uno non ha bisogno di essere consigliato, perché è già ben conosciuto ed è Pessoa. Un altro è Herberto Helder, che è stato tradotto anche in Italia. Helder è un poeta orfico nato nella mia stessa isola, anche se ha vissuto tutta la vita a Lisbona. La prima poesia che ho scritto aveva come titolo “L’infanzia di Herberto Helder” perché il mondo che ho trovato leggendo le sue poesie era per me come uno specchio o una polla d’acqua, emersa dopo aver scavato, dove vedere riflesso il mio volto. Un’altra poesia che mi ha dato molto è quella Sophia de Mello Breyner Andresen, una grande poetessa portoghese che aveva il fascino della Grecia e di tutta la poesia greca. Nella sua poesia sono molto importanti gli odori, la visione, i rumori. Penso di aver fatto il primo viaggio in Grecia grazie ai suoi versi.  E poi vorrei ricordare Eugénio de Andrade che è il nostro Quasimodo, la sua lirica è di grande purezza e trasparenza e allo stesso tempo è come il suono di un flauto che ha qualcosa di orientale. Infatti, il poeta preferito di Andrade è Li Bai (Li Po) che è anche uno dei miei poeti preferiti. E mi ha iniziato anche nell’ascolto a una poesia che viene da più lontano, non soltanto della Grecia o dal mondo biblico, ma anche di un Oriente lontano dove, inoltre, la poesia portoghese ha radici forti, penso a Camões o un altro poeta importantissimo della nostra tradizione come Camilo Pessanha che ha vissuto a Macao e che era molto stimato da Pessoa.  Quasimodo è poco considerato in Italia adesso e invece è un poeta importante. È un poeta che ha detto molto e che “ha scritto nell’acqua” perché la sua è una poesia “liquida”; dopo la “società liquida” di Baumann il termine sembrerebbe negativo, invece, nella tradizione lirica “liquido” vuol dire vicino alla musica, ha una dolcezza che non è ingenua, ma che è un tocco sapienziale, profondo. Alla fine, penso che Quasimodo sia un grande erede di una luce, di un fulgore che si trova in alcuni poeti latini.  Sulla tomba di Keats è scritto «qui giace uno il cui nome fu scritto nell’acqua». Keats è un autore che ha costruito un’opera straordinaria scrivendo le sue poesie sull’acqua. Mi piace molto il concetto che Keats sviluppa di “capacità negativa”, concetto che possiamo avvicinare all’esperienza negativa di cui parla la mistica, e che alla fine è quel ritrovamento fondamentale che viene più dalla passività di quando ci lasciamo incontrare, ci lasciamo trovare da una verità più grande di quella che noi potevamo immaginare. È una visione analoga a quella di san Giovanni della Croce che è uno dei miei riferimenti spirituali, un autore a cui torno molte volte; so a memoria alcune delle sue poesie e a loro ricorro come preghiera… lì c’è tutto. Lei ha pubblicato il suo primo libro di poesia nel 1990 che è anche l’anno della sua ordinazione sacerdotale, sembra che queste due vocazioni siano state parallele; quali sono stati i primi segni della chiamata? I primi segni arrivarono molto presto nella mia vita perché sono entrato nel seminario minore a 11 anni. Forse a quell’età non si può ancora parlare di una vocazione matura, ma si può dire che si ha una tensione a quel mondo, a quella “voce”, a quello speciale rapporto con Dio e con l’esperienza religiosa. Vedevo che l’esperienza religiosa era concomitante con il processo di coscienza di me stesso. Era come un’“apparizione” a me stesso. Avere coscienza di noi stessi significa che siamo una vita, una storia, che abbiamo un nome, un modo di essere. La religione è sempre stata una chiave della mia vita. Da questo punto di vista, non fu una sorpresa, sicuramente anche per l’ambiente familiare, il mondo dove sono cresciuto che era profondamente religioso, ma fu una scelta, un viaggio, un “nomadismo” al quale mi sentii chiamato molto presto. Quali sono le sue preghiere preferite?  Vorrei richiamare i miei incontri con Mario Cesarini, il poeta surrealista più importante del Portogallo, autore di alcune delle più belle poesie del Novecento portoghese. Era un uomo profondamente credente, ma il suo rapporto con il cristianesimo era molto conflittuale, aveva però una passione assoluta per la Salve Regina e quando mi incontrava mi faceva recitare la Salve Regina, una preghiera che prima recitavo in modo ordinario… ma vedendo la profonda emozione di quest’uomo senza pratica religiosa nei confronti della Salve Regina, ho cambiato il mio atteggiamento di fronte a questa preghiera che è diventata presenza quotidiana nella mia vita. Non solo perché la ripeto ogni giorno ma perché corrisponde a una sorta di illuminazione, mi piace ripeterla in latino come l’ho ascoltata da questo poeta. È una preghiera di straordinaria bellezza. Ho fatto questo esempio per ribadire che i poeti, anche quelli più inaspettati, sono dei veri maestri spirituali. Un poeta prepara sempre la nostra anima per una grande esperienza spirituale. Sono le “levatrici” della nostra anima.  Mario Cesarini ha rivelato la Salve Regina a me che ero seminarista… Vorrei poi ricordare un’altra poetessa, la già citata Sophia de Mello Breyner Andresen, persona, come dicevo, affascinata dal mondo greco e senz’altro più vicina a Atene che a Gerusalemme: lei considerava il Magnificat come la poesia più straordinaria che lei conoscesse. Diceva che le grandi poesie, anche quelle di Omero sono così, non hanno un autore, è come se fossero sospese nel tempo da sempre e le possiamo cogliere e fare nostre in un modo molto più radicale di tutti gli altri testi. Devo dire che il Magnificat è sempre una preghiera che mi fa tremare di gioia. Perché forse ritrovo quella vastità che mi ha stupito nel mio primo sguardo al mondo. “Entusiasmo” è una parola che descrive bene il Magnificat, mi piace l’entusiasmo con cui Maria pronunciò quelle parole. Un altro mio riferimento per la preghiera è il Cantico dei Cantici, un testo bellissimo che ho anche tradotto in portoghese. Del Cantico è uscita una bella edizione di Giuseppe Conte per Il cenacolo delle Arti, le raffinate edizioni di Lamberto Fabbri. Mi piacerebbe vederla, io conosco la traduzione di Guido Ceronetti, che è anche molto interessante. Sono molto interessato a tutto quello che riguarda la traduzione. Ceronetti è l’uomo della parola scorticata. Ma quella ferita che resta dopo la lettura è un dono che rimane. Il Qoelet di Ceronetti è straordinario… È straordinario. A me interessa molto la poesia tradotta da poeti, da scrittori, perché c’è un corpo a corpo con la parola, che ti introduce in un’esperienza nuova. Tra i miei salmi preferiti c’è l’87/88 che è forse il più disperato del Salterio… quasi un viaggio nella terra dei morti… …Che alla fine è anche il mondo dove abitiamo. In fondo quella disperazione è un modo di rivelarsi dell’umano nella sua verità più profonda. E questi sentimenti estremi, sia quelli provocati da una disperazione sia da una grande gioia, colgono l’umano nel suo stato flagrante. Per questo dobbiamo ascoltare i disperati e gli entusiasti, tutti e due, dobbiamo in una mano accarezzare il dolore e nell’altra sostenere la gioia. Mi ha colpito lo splendido commento del card. Ravasi al Qoelet, quando suggerisce l’idea che la Sacra Scrittura racconti l’abisso per dire che Dio è consapevole di quanto profondo possa essere il dolore umano.  E quella è un’umanità vera, senza risposte facili e banali, è un’umanità davanti al Mistero, alla notte del mondo, all’enigma di sé stesso, al senso non soltanto penultimo che tante volte sembra esaurire la realtà, ma il senso ultimo, il “perché”. Il perché alla fine è la nostra “sala parto” perché, quando affrontiamo il “perché” diamo al verbo nascere un’opportunità di coniugarsi nel presente.  C’è tanta disperazione tra i giovani e io credo che quella che Benedetto XVI una volta chiamava via pulchritudinis può essere una via per avvicinarli a un senso di stupore, alla vita, per non cadere nella disperazione, perché hanno bisogno di autenticità e di fronte alla bellezza c’è autenticità.  La bellezza cambia la temperatura: è un brivido, una ferita, ci offre, anche se in un modo limitato, un’esperienza di verità, di assoluto, che allo stesso tempo appartiene e non appartiene a questo mondo. Nell’arte noi sperimentiamo questo. Una vicinanza a una perfezione, che tante volte solo un’imperfezione rende visibile, ma una vicinanza a una perfezione che è come una piccola tremula luce che ci fa vedere il fondo della strada. Alessandro Rivali *L’intervista realizzata da Alessandro Rivali sarà pubblica sul prossimo numero di “Studi Cattolici” In copertina: Gaetano Previati, Notturno o Il silenzio, 1908 L'articolo “Un’iniziazione allo stupore”. Dialogo con José Tolentino de Mendonça proviene da Pangea.
October 29, 2025 / Pangea
“L’emozione sconcertante”. Viaggio nella vita di Rilke
Entrare nella vita di Rilke, cioè: scotennare l’angelo.   C’è qualcosa di sigillato nella vita di Rilke, una vita-tabernacolo. All’uomo ‘di mondo’, capace nella persuasione, circonfuso di nobildonne, retto nell’ambizione, fa spazio il Rilke delle feroci solitudini, dell’austerità artica, artigiano di un io irto di pinnacoli, di picchi, di stalattiti. La natura della volpe e quella dell’aquila. Per certi versi, l’oceano epistolare di Rilke – specie di bulimia grafica – non aggiunge alcun dettaglio alla vita del poeta: cancella. A volte la scrittura opera – anche quando è ispirata – per sparizione. Le lettere – lettere-Muzot, lettere-fortezza – servono a Rilke per celarsi, per calarsi nell’assalto del sé – per incendiarsi. Qual è, ad ogni buon conto, l’evento autenticamente capitale nella vita di Rilke, un poeta che capitalizzava la propria esistenza in versi di distillata sapienza (versi, diremmo, con gli artigli)? Secondo Franco Rella – il più acuto interprete di Rilke – l’episodio che “ha cambiato per sempre la vita di Rilke” è stato, nel 1907, l’incontro con la poesia di Cézanne. Quella fu la vera “svolta”: come Cézanne è stato “un redentore dalla non-realtà, il nulla in cui sembra siano destinate a finire le cose”, ora “Rilke stesso vuole essere un redentore, ein Rettendes scrive” (in: R. M. Rilke, Noi siamo le api dell’invisibile. Lettere da Muzot, De Piante, 2022, p.115). Poesia che redime, che riscatta da schiavitù di deterioramento e di morte; poesia che sana il lebbroso che siamo, con i crismi di san Giuliano Ospitaliere. Il compito che Rilke si prefigge tramite la poesia, come scrive a Caroline Schenk von Stauffenberg, è quello di “rendere la morte, che mai è stata un’estranea, nuovamente conoscibile e tangibile nella sua qualità di tacita complice di ogni cosa viva”. Chissà poi se è stato il fatale viaggio in Russia – dove ha conosciuto Lev Tolstoj e la famiglia Pasternak – o quello in Spagna – dove ha scoperto l’opera folgorante di El Greco – se è stato l’Egitto, arcano e terribile (visitato tra il 1910 e il 1911), a ‘segnare’ il poeta; oppure, libero da elementi ‘culturali’, è stato il corpo di Lou, la nascita di Ruth, la vista degli Hôtel Dieu, a Parigi, ricoveri di resti d’uomo, ospizio dei perduti dove le creature “vivevano di niente, di polvere, di fuliggine e della sporcizia sulla loro pelle, vivevano di ciò che i cani perdono di bocca, di un qualche oggetto insensatamente rotto…”. I luoghi rilkiani – Duino, ad esempio – sono insensatamente vuoti senza la presenza del poeta, che li ha eletti nell’ambone suo carisma.  Secondo Leone Traverso, Rilke è tra i rarissimi poeti – insieme a Hölderlin, Leopardi e Emily Dickinson – a “scavare da tanto silenzio improvvisa la loro voce”. Sono poeti in grado di “un linguaggio inventato, del tutto intimo, sciolto da ogni vincolo di costume prettamente umano, per riallacciare il filo interrotto con le forze segrete del mondo”. Così attacca una delle Ultime poesie (Fussi, 1946): > “Come il vento serale alle falci sugli omeri dei mietitori, > va l’angelo mite sul filo innocente dei dolori”. Ancora l’angelo, mite e tremendo a un tempo – come Rilke.  Più che altro, più investighiamo la vita di Rilke più è lui a invaderci. Potenza radicale del poeta-redentore. Così, nelle pagine finali, le più intime, rivolte Al lettore, Marilena Garis, autrice del potente libro biografico Rainer Maria Rilke. Luce sull’invisibile (Edizioni Ares, 2025), rivela di essere ritornata a Rilke, alle Elegie duinesi in particolare, “nel giorno delle esequie di mia madre”. Nel momento dell’abisso assoluto, il poeta, che non lenisce il dolore, ma lo trasforma, lo approfondisce fino al fiore. Il poeta è sempre lì: dove una cosa muore e per eccesso di amore un’altra nasce.  Che senso ha una biografia rilkiana? Intendo dire: fino a che punto la vita di Rilke – che ci appare tanto elusiva, remota, segreta, così poco ‘mondana’ – penetra nell’opera? Nessuna vita penetra nell’opera quanto quella di Rilke giacché la sua vita è poesia. Rilke si è assunto il compito di farsi “puro e cieco strumento”, pura eco interiore. La poesia lo ha attraversato, superato, trasceso. Ne ha travalicato la vita. Nessun’altro poeta, meglio di lui, ha cercato di capire, spiegare, e portare a compimento l’opera della creazione. E dal giorno in cui comprese che solo la solitudine poteva avvicinarlo intimamente a quella creazione, la scelse e l’abbracciò senza più voltarsi indietro, perseguendo la ricerca di un equilibrio spirituale che fu in ultimo conquistato a caro, carissimo prezzo (e non solo per sé)… Nel mio libro sono partita da una pagina del Malte, la più celebre opera in prosa di Rilke, dove il poeta insiste sul fatto che i versi non nascono dai sentimenti, ma dalle esperienze. Per un solo verso, scrive, si devono vedere molte città, uomini e cose. Bisogna avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra. Bisogna aver udito le grida delle partorienti, essere stati presso i moribondi, aver vegliato i morti nelle camere ardenti… E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare e avere la grande pazienza di aspettare che ritorni­no. Solo quando i ricordi divengono in noi sangue, sguardo e gesto, solo allora può darsi che in una rarissima ora ne esca la prima parola di un verso. L’arte diventa così potente perché nasce dalla vita e dall’esperienza reale: rintracciare nelle paro­le di un grande poeta le tracce del suo destino mi pare essere la chiave di lettura più autentica, l’unica che possa dare vero accesso alla sua arte, che è appunto “san­gue, sguardo, gesto”. Percorrere i passi di Rilke significa entrare in quell’interminato pellegrinaggio che fu la sua esistenza. Dalla difficile infanzia con le sue scuole militari, all’incontro con Lou Andreas-Salomé, musa e guida intellettuale, al suo brevissimo matrimonio con la scultrice Clara Westhoff, allieva di Rodin, e all’amore “da lontano” per la sua unica figlia, Ruth, fino al rifugio creativo nel castello di Duino e nella torre di Muzot, sulle Alpi svizzere, tutto diventa poesia nel suo sguardo. Camminando dentro le parole, tra il visibile e l’invisibile, Rilke ci ha lanciato delle sfide: il suo Weltinnenraum, il suo “spazio interiore di mondo” è una “sottile striscia di terra tra fiume e roccia”, uno spazio sottilissimo, eppure infinito. Per addentrarsi in quello spazio interiore, bisogna mettersi in ascolto, cercare di penetrare il suo segreto, sapendo che è appeso al mistero, allo stesso filo della fede, potremmo dire.  Qual è l’aspetto della biografia di Rilke che ti ha ‘spiazzato’, quello davvero inatteso? Vi sono molte pagine della sua vita che mi hanno “spiazzato”. Molte le corrispondenze baudelairiane che mi hanno attraversato. Ma, sopra a tutto, oggi mi preme parlare della sua attitudine ad inchinarsi davanti all’intimità e ai segreti di ogni essere umano. Edmond Jaloux, amico di Rilke e specialista della sua opera, ci ha trasmesso una lettera che un giorno ricevette da una donna sconosciuta, e che oggi voglio consegnare per estratti ai lettori: > “…Stavamo camminando lungo i cancelli del Lussemburgo… Rilke si era avvicinato > a me, quel giorno, tenendo in mano una splendida rosa… Su quei cancelli, > trovavamo, quasi ogni giorno, una vecchia donna seduta, che mendicava con > discrezione. Non chiedeva nulla e i suoi occhi non si alzavano mai sui > passanti. Ogni volta le lasciavamo una piccola elemosina… Non avevamo mai > visto i suoi occhi, né udito il suo ringraziamento… Quel giorno… non aveva > ancora ricevuto niente. Vidi Rilke inchinarsi davanti a lei, con rispetto, non > un rispetto formale, ma un rispetto alla Rilke, un rispetto totale, di tutta > l’anima. Inchinandosi, posò la bella rosa sulle ginocchia della vecchia > mendica. Ella allora alzò i suoi occhi su di lui, lo guardò e con un gesto > rapido e perfetto, gli prese la mano, la baciò e se ne andò via a piccoli > passi – senza più mendicare per quel giorno”.  E vorrei aggiungere: felice della sua grande, insolita, ricchezza. Credo che questa testimonianza del periodo parigino di Rilke possa illuminarci su quello che fu il suo sguardo sul mondo e sul profondo rispetto che sempre portò al prossimo, agli ultimi e alle loro sofferenze. Una particolare delicatez­za nell’ascoltare e nel confortare gli altri, che raggiunge i vertici nell’epistolario, un’oceanica opera d’arte: il monumentale archivio della Rilke Gesellschaft conta, ad oggi, circa 13mila lettere. Epistolografo d’eccezione, nelle lettere il poeta non esita a donarsi completamente e ad abbracciare intime questioni con acuta chiaroveggenza. Risponde instancabilmente, e con vera partecipazione, a quanti gli si rivolgono. Non li conosce neppure, eppure si prodiga per quegli sconosciuti senza risparmiarsi. E lo fa con profonda umanità, che affascina e consola.  Nel complesso, come possiamo descrivere il ‘carattere’ di Rilke?  Silenzioso, mite, solitario, mistico; quando occorreva, determinato, volitivo, mondano. Chi lo conobbe non esitò a definirlo un personaggio magico.  > “Nessuno lo sentiva arrivare”, racconta Stefan Zweig, “sedeva in silenzio e in > ascolto, alzando involontariamente le sopracciglia appena qualcosa sembrava > interessarlo. Discuteva con la semplice naturalezza con cui una mamma racconta > una fiaba al suo bambino, con la stessa affettuosa tenerezza”. Nella conversazione, non gli interessava soffermarsi sui luoghi comuni della vita quotidiana, entrava subito nei dettagli delle cose più alte, dove i suoi occhi vedevano tracce e presagi dell’invisibile. Sono tuttavia pochi quelli che hanno davvero conosciuto la sua vita, il suo mondo interiore, la sua più recondita officina. Era come avvolto da un ferreo riserbo, circonfuso di un’aura mistica. Su quell’aura si è soffermato a più riprese Edmond Jaloux, arrivando a definirlo visionario e medianico.  Temo che Rilke sfugga a chiunque voglia afferrarlo: la sua poesia è “luce sull’invisibile”, come ho inteso sottotitolare il libro; un “tramite” tra mondi e regni: visibile e invisibile, vita e morte. Rilke si è spinto nel cuore della parola per divenire pura eco interiore, per arrivare alla voce dell’angelo, al regno delle ombre, alla gran­de unità, alla risonanza del silenzio. Ce l’ha spiegato bene Marina Cvetaeva quando lo ha definito “una topografia dell’anima” e ha aggiunto “Rilke è necessario al nostro tempo come un prete sul campo di battaglia”, una necessità quantomai attuale… Anomalie: il ‘recluso dell’arte’, in verità, era circondato da amici, mecenati, nobildonne, svariate amanti… Come conciliare questo paradosso? Forse non è un paradosso. O meglio: vi sono molte questioni aperte su Rilke. Con lui bisogna accettare di abitare il mistero e amare le domande “simili a stanze chiuse a chiave e a libri scritti in una lingua straniera”. Rilke seminava attorno a sé verità rivelate, talvolta difficilmente decifrabili. Uomini e donne erano attratti dai suoi modi e dalle sue parole, da quella sua speciale empatia. Ciò che lo rendeva affascinante era senza dubbio quel singolare incontro tra terreno e angelico, la sua capacità di vedere oltre la superfice delle cose. Claire Goll scrive che era impossibile resistergli e in effetti il corteo di donne che lo accompagnò in vita e non l’abbandonò neppure dopo la morte (attraverso monografie e libri di ricordi) è vasto:  Lou Salomé, la moglie Clara Westhoff, la principessa Marie von Thurn und Taxis, Magda von Hattingberg, Lou Albert-Lasard, Baladine Klossowska, Nanny Wunderly-Volkart, Marina Cvetaeva, Nimet Eloui-Bey…Ogni donna era invero una stella nella “costellazione” della sua anima e della sua poesia, come cerco di spiegare nel libro, percorrendo i grandi incontri della sua vita. Qual è la figura ‘chiave’ che ha agito più di altre nella vita di Rilke?   Lou Salomé fu la persona che più di ogni altra segnò il cammino esistenziale e artistico di Rilke. Fu per lui un grande amore, e non solo: la grande amica, amante, musa, confidente, maestra. Di certo, Lou fu (anche) una figura materna per Rilke, permise la sua vera rinascita, la rottura rispetto all’ambiente provinciale praghese, ai sentimentalismi e alla devozione esasperata di sua madre Phia. Dopo l’incontro con Lou, la sua nuova vita fu segnata dal cambiamento del nome di nascita René nel più sobrio e virile Rainer, che reca un’impronta germanica e richiama la purezza (Reinheit). Lou gli offrì materiali filosofici ed estetici, lo iniziò alla lettura di Nietzsche (che rimarrà sempre un riferimento ineliminabile nel pensiero rilkiano), lo mise al passo con l’intellighenzia europea. Fondamentali i due viaggi che Rilke fece con Lou in Russia. Qui ebbe inizio la sua vera opera, la sua ricerca di assoluto e spiritualità, di cui alle Storie del buon Dio e al Libro d’ore e oltre, fino alle Elegie  Duinesi. Il loro legame durò per tutta la vita, come testimo­nia il loro Epistolario 1897-1926, uno scambio durato quasi trent’anni, di circa duecento lettere, dal primo incontro del 12 maggio 1897 all’ultima lettera del 13 dicembre 1926, anno della morte di Rilke, e ancora oltre, se si considerano le memorie di Lou e il libro Rainer Maria Rilke. Un incontro, che lei gli dedicò dopo la sua morte. La loro corrispondenza avvicina in modo profon­do alla vita e all’opera di Rilke e consente di accede­re all’intimità più autentica del suo destino esisten­ziale e poetico: Rilke vi esprime le sue incertezze, le sue difficoltà; Lou, che aveva intrapreso lo studio della psicanalisi con Sigmund Freud, riesce ogni volta a “curare” le sue ferite, riportando le misteriose vie dell’arte nel percorso della vita.  Come è possibile amare nell’abbandono, senza ‘consumare’ l’amore? Nei Quaderni di Malte Laurids Brigge, Rilke scrive che “Amare è: illuminare con olio inesauribile. Divenire amati è passare. Amare è durare.” Si tratta di una nota in margine al manoscritto, che si conclude con la celebre parabola del figliol prodigo. Qui, Rilke ribalta completamente la parabola evangelica per affrontare il tema del “grande compito dell’amore”, un amore che nulla chiede in cambio e si espande all’infinito; un amore slegato dalle maglie del possesso e inteso come direzione, come forma di libertà.  Nella concezione rilkiana dell’amore senza possesso (besitzlose Liebe, anche identificato come “amore intransitivo” dalla critica), questa è l’unica forma d’amore che non “consuma” il suo oggetto. Si tratta dell’amore cantato dai trovatori medievali “che nulla temevano più dell’essere esauditi” e soprattutto delle celebri “amanti colme di forza”, a più riprese evocate nel Malte. Per qualche tempo Rilke accarezzò l’idea – poi accantonata anche se continuamente ripresa nell’opera e nell’epistolario – di scrivere un libro sui profili biografici delle grandi amanti capaci di quell’amore assoluto: Saffo, Eloisa, Gaspara Stampa, Louise Labé, Bettina von Arnim, Eleonora Duse, Mariana Alcoforado e altre figure di donne che, nella solitudine, compirono la suprema metamorfosi, elevandosi da un amore ristretto (ad un determinato oggetto) verso la pura contemplazione dell’amore. Poco tempo prima di morire, Rilke confidò a Edmond Jaloux di aver scritto il Malte “per delucidare il proprio pensiero e vedere limpido dentro se stesso”. Il Malte è un punto limite nella sua vicenda creativa (dopo la sua conclusione, nel 1910, comincia infatti un lungo tempus tacendi che durerà oltre un decennio), e la sua estrema voce è quella del figliol prodigo, colui che si prefisse di “non amare mai, per non porre nessuno nella situazione terribile di essere amato”. La questione è complessa e va trattata con molta cautela, distinguendo i piani Malte/Rilke. Bisogna ricordare che iQuaderni nascono quando la prima – fondamentale – esperienza parigina si è da poco conclusa: nell’immensa solitudine di una città allucinata, il poeta sperimenta la miseria, l’angoscia e il male di vivere. Dopo la rottura con Lou Salomé, Rilke si è sposato con la scultrice Clara Westhoff, è diventato padre di una bambina, Ruth; si è trasferito a Parigi per lavorare alla monografia di Auguste Rodin. Nel frattempo ha completato l’ultima parte del Libro d’ore e del Libro delle immagini, le Nuove Poesie e il Malte. Una mole impotente di lavoro. Ma a Parigi tramonta definitivamente il tentativo di una vita familiare e si profila un lungo cammino di stenti fondato sull’arte, una dolorosa contraddizione che lo strappava dalla sua famiglia e dalla sua casa, dove non riusciva a stare, e lo straziava, lo costringeva alla solitudine.  Perché l’idea di essere amato provoca in lui angoscia? Forse è un problema che affonda le sue radici nell’infanzia, nel complesso rapporto con la madre. Forse nel trauma della scuola militare scelta dal padre. Rilke è persona generosa, sa donare se stesso, tutti quelli che lo hanno conosciuto lo confermano. E se non bastasse, sarebbe sufficiente rivolgersi all’epistolario, alle sue lettere prodighe di attenzioni, consigli e consolazione per il prossimo. Lettere infinite… Ma non riesce ad abbandonarsi, ad essere amato; nel ritmo di donare e ricevere non riesce a mettere radici, nemmeno con sua figlia. Forse questo è il destino di chi sente il fardello – e l’ebbrezza – di una missione per tutta la vita. Nel suo caso, una missione da poeta, quale puro e cieco strumento di un verbo assoluto; ma anche come uomo che, prima del verso, deve farsi sangue, sguardo, gesto. Come ho voluto ricordare nell’episodio della rosa alla mendica, la poesia nasce quando il gesto si è consumato, mentre la vita scorre, nel ritmo alternato del movimento e della permanenza. In questo, Rilke ha avuto per tutta la vita una necessità soprannaturale di ‘affrettarsi’ al capitolo successivo della sua trasformazione-metamorfosi (concetto chiave nell’opera), senza potersi fermare, né “adagiare” mai, su ciò che era già stato fatto, detto, consumato.  Rilke sa scrivere come pochi altri verità fondamentali sugli uomini e sulla vita, ma non riesce a vivere e amare nel reale. L’amore quotidiano, quello della “vita dei giorni”, e a maggior ragione quello in seno a una famiglia, richiede una costante permanenza, un eterno indugiare sui capitoli da scrivere, leggere, rileggere e correggere infinitamente, con abnegazione e resilienza nella ripetizione dell’amore e dell’attenzione per l’altro, e questo è difficile, se non impossibile, per chi, come Rilke, abbraccia una vita fondata sul movimento perenne dell’essere. In tutta la sua complessità, la questione rimane aperta e il lettore potrà attraversarla in vari punti del mio libro, sia sotto il profilo esegetico dell’opera, sia sotto quello biografico. Cosa significa, in fondo, un libro all’apparenza così sigillato come “Elegie duinesi”? Il mio incontro con le Elegie duinesi è stata una rivelazione sulla via di Damasco. Lo spiego al lettore nelle ultime pagine del mio libro. Le Elegie sono un compendio-talismano da tenere a portata di mano. Da leggere, rileggere, meditare nelle varie stagioni della vita. Esse stanno in rapporto alla vita e alla morte come il Talmud sta al rapporto tra l’uomo e la parola di Dio. Sono uno strumento che ha bisogno dell’uomo tanto quanto l’uomo ha bisogno dello strumento: richiedono un paziente lavoro di lettura e interiorizzazione per restituire i loro doni, come ho cercato di spiegare nel capitolo dedicato a questo capolavoro, che per Rilke fu un vero e proprio “uragano nello spirito”. Ritaglia un mazzo di versi rilkiani che hanno inciso nella tua vita – e perché? Devo nuovamente tornare sul mistero e alle ultime pagine del mio libro, per ritagliare due frammenti della Prima e della Decima Elegia. Vorrei che questi versi arrivassero nelle mani di quanti si trovano ad affrontare una dolorosa perdita, con l’auspicio che possano scendere come un balsamo nei loro cuori, come è successo a me. Certo è strano non abitare più sulla terra, non più seguir costumi appena appresi, alle rose e alle altre cose che hanno in sé una promessa non dar significanza di futuro umano; quel che eravamo in mani tanto, tanto ansiose non esserlo più, e infine il proprio nome abbandonarlo, come un balocco rotto. Strano non desiderare quel che desideravi. Strano quel che era collegato da rapporto vederlo fluttuare, sciolto nello spazio. Ed è faticoso esser morti; quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco un po’ d’eternità. […]  Ci si divezza da ciò che è terreno, soavemente, come dal seno materno. Ma noi, che abbiamo bisogno di sì grandi misteri – quante volte da lutto sboccia un progresso beato – potremmo mai essere, noi, senza i morti? […] Ma se i morti infinitamente dovessero mai destare un simbolo in noi, vedi che forse indicherebbero i penduli amenti dei noccioli spogli, oppure la pioggia che cade su terra scura a primavera. E noi, che pensiamo la felicità come un’ascesa, ne avremmo l’emozione quasi sconcertante, di quando cosa ch’è felice, cade. Tra tutti gli aggettivi che poteva usare per osservare la morte, Rilke sceglie i più semplici: strano e faticoso. Strano, scrive, non abitare più sulla terra, strano abbandonare il proprio nome come un balocco rotto… Ed è faticoso essere morti “quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco un po’ d’eternità.” La morte guarda all’interno e fuori di sé, verso chi muore e chi ancora vive: “potremmo mai essere, noi, senza i morti”? In questa domanda vi è un chiaro invito ad accogliere – nell’ascolto del silenzio – la voce di chi è scomparso: dal lutto può nascere un “progresso beato”, ovvero una nuova consapevolezza del rapporto tra la vita e la morte: l’essenza delle Elegie Duinesi. Gli ultimi versi – e con essi l’opera intera – sono raccolti intorno all’immagine di una caduta, che non segna tuttavia una morte, una fine, quanto una metamorfosi, un rinnovamento, secondo il moto discendente dei frutti maturi e della pioggia che cade su terra scura a primavera. In questa celebrazione della terra, con il suo ciclo naturale di morte e di vita, la felicità non è dunque elevazione, non è ricerca di una trascendenza irraggiungibile, ma caduta, inchino verso la terra, umile adesione al ciclo della natura, eterna trasformazione.  Sulla caduta e sulla metamorfosi rilkiana, e sul perno della grande ricchezza della povertà e della morte, ci vorrebbe un convegno a più moduli, esegetici e biografici, per poterne parlare degnamente. Cosa ci resta ancora da scoprire della moltitudine Rilke? Ancora molto. È notizia del dicembre 2022 che l’archivio letterario di Marbach in Germania ha acquisito l’archivio familiare Rilke di Gernsbach, finora in possesso degli eredi di Rilke. Si tratta di una collezione monumentale di manoscritti, lettere, libri, riviste, disegni e fotografie. La nuova collezione contiene circa 10mila pagine di bozze e appunti. Comprende anche circa 2.500 lettere scritte da Rilke e circa altre 6.300 lettere scritte a lui. Tra i corrispondenti figurano vari nomi noti nella biografia rilkiana e anche la moglie Clara Westhoff e la figlia Ruth. Sandra Richter, direttrice dell’archivio letterario di Marbach, ha sottolineato che i documenti acquisiti sono un «patrimonio travolgente»: l’immagine che abbiamo di Rilke potrebbero cambiare. L’elaborazione della nuova montagna di documentazione richiederà tempo, ma di certo sarà foriera di nuove gemme e scoperte… A quasi cent’anni dalla morte, Rilke continua a parlarci. L'articolo “L’emozione sconcertante”. Viaggio nella vita di Rilke proviene da Pangea.
October 27, 2025 / Pangea
“Ostinata nell’esprimere l’inesprimibile”. Dialogo con Ana Blandiana
Ana Blandiana nasce con il “marchio di Caino”. Figlia di un insegnante reduce della Grande Guerra, arrestato perché “nemico del popolo”, pubblica il primo libro, Prima persona plurale, poco più che ventenne, nel 1964. È uno shock. Il libro, manomesso dai censori, è irriconoscibile. > “Strofe soppresse, versi aggiunti, titoli cambiati, tantissime parole > sostituite: questo volume per me rappresenta il simbolo dell’impotenza > rispetto al sistema e alla sua arroganza, alla sua capacità di manipolazione”. In una poesia, Ana Blandiana canta la pioggia, “amo la pioggia, amo la pioggia alla follia”. Quei versi, un acquazzone di gioia, fendono il grigiore della Romania ‘sovietica’: pur mutilato, il libro ha successo, alla figlia di un nemico dello Stato è aperto l’accesso all’università.  Sarà l’inizio di una lotta incessante contro gli orrori del regime.  L’importanza di Ana Blandiana nella Romania comunista è pari, per aristocrazia d’ingegno, a quella di Anna Achmatova in Unione Sovietica. I suoi versi, proibiti, vengono imparati a memoria, spacciati clandestinamente nei sottoscala come gesti di ribellione, come atti d’amore. La poesia di Ana Blandiana, vertiginosa – ora raccolta da Bompiani in Raccolto d’angeli, a cura di Mauro Barindi –, rigurgita di creature celesti. Ci sono angeli sporchi di fuliggine, angeli “che hanno indossato abiti d’uccello” e “vecchi angeli maleodoranti/ con puzzo di rancido nelle penne umidicce,/ nei radi capelli,/ nella pelle che si squama in isole di psoriasi”. Ci sono angeli, in questa lirica apocalisse, che “presto saranno processati”.  Nel 1988, già riconosciuta come uno dei più potenti poeti al mondo, la Romania di Ceaușescu ordina che i libri di Ana Blandiana “vengano proibiti e tolti dalle biblioteche, perfino quelli in cui è citato anche solo il suo nome” (Barindi). In Italia, Andrea Zanzotto guida un appello contro le persecuzioni perpetrate ai danni della poetessa rumena. In seguito al rovesciamento del regime, Ana Blandiana viene cooptata dal Fronte di Salvezza Nazionale di Ion Iliescu; se ne allontana appena avverte i sintomi della solita politica, deformata dal virus della vendetta, della perversione ideologica.  In uno degli ultimi testi, raccolti in Variazioni su un tema dato (2018), Ana Blandiana ritorna all’epoca della catastrofe comunista. > “Se avessimo come un tempo i microfoni nascosti in casa, le spie in ascolto, > mentre mi registrano, mi considererebbero senz’altro una pazza, mentre ti > parlo di ogni sorta di cose… dicendoti ti amo, così, al presente, e > augurandoti buona notte prima di spegnere la luce”. Il potere è terrorizzato – sempre – dal poeta che, svergognatamente, ama. La poesia, ha scritto Iosif Brodskij, il grande poeta ribelle ai diktat sovietici, “sollecita nella persona il senso della propria individualità, unicità, separatezza”, trasforma ogni volto – perfino il più perfido, il più infido – in qualcosa di umano. Già. Il poeta ha l’audacia di amare, di aprire uno spazio di bellezza – per quanto angusto, per quanto modesto – mentre tutto intorno è orrore.   Che rapporto c’è tra la poesia e il potere? O meglio: il potere della parola poetica che cosa può contro i potenti? Stranamente, mentre nelle democrazie il potere politico è in maniera assoluta indifferente alla poesia e alla letteratura, come pure ai loro autori, i dittatori hanno dimostrato in numerose occasioni di essere addirittura ossessionati dal potere della parola e di coloro che lo detengono. Come si è visto nell’incredibile conversazione tra Putin e il leader cinese, i dittatori sono preoccupati dall’immortalità e dalla posterità, di cui i poeti sono per tradizione i detentori. Da qui deriva la testardaggine dei dittatori di volerli assoggettare, comprandoli o mettendoli in prigione, al fine di ottenere qualche buona referenza nell’eternità. In questo senso il comportamento di Stalin è ben noto e la dice lunga sulla sua paura riguardo al potere dei poeti che non possono essere prezzolati, perché la loro protesta non è riferita solo al presente ma anche al futuro.    Che rapporto c’è tra la poesia e il potere?  Stranamente, mentre nelle democrazie il potere politico è in maniera assoluta indifferente alla poesia e alla letteratura, come pure ai suoi autori, i dittatori hanno dimostrato di essere ossessionati dal potere della parola e da coloro che lo detengono. Come si è visto nell’incredibile conversazione tra Putin e il leader cinese, i dittatori sono preoccupati dall’immortalità e dalla posterità, di cui i poeti sono per tradizione i detentori. Da qui deriva la testardaggine dei dittatori di volerli assoggettare, comprandoli o mettendoli in prigione, al fine di ottenere qualche buona referenza nell’eternità. In questo senso il comportamento di Stalin è ben noto e la dice lunga sulla sua paura riguardo al potere dei poeti che non possono essere prezzolati, perché la loro protesta non è riferita solo al presente ma anche al futuro.    Cosa significa scrivere sotto le cesoie della censura?  La differenza tra la parola ‘libera’ e la parola che riesce a essere pronunciata sotto censura è che quest’ultima ha un’importanza molto maggiore per coloro ai quali arriva. La prima grande scoperta che ho fatto dopo il 1989 è stata che la libertà di parola ha diminuito l’importanza della parola stessa. Quando è libero, l’orecchio di chi ascolta è disattento, indifferente; sotto censura chi ascolta affila l’udito per cogliere la minima allusione, la più sottile tendenza alla resistenza. Non erano le parole a spaventare il regime, ma la solidarietà degli uomini legati ad esse. Perché ha scelto la poesia (o è stata scelta dalla poesia)?  Ho iniziato a disporre e ad abbinare tra loro le parole fin dalla prima infanzia, prima ancora di saper leggere e scrivere; poi, dopo aver scoperto la lettura, ho composto versi ispirandomi a ogni poeta di cui mi innamoravo, e così, durante l’adolescenza, ho scalato i gradini della storia letteraria fino ad arrivare a me stessa. Ovviamente, non può trattarsi della scelta di un destino, ma sono troppo modesta per affermare che sia stato lui a scegliere me.  Cosa significa per un poeta “prendere posizione”? Il poeta è sempre un ribelle: alle norme del mondo come a quelle del linguaggio? Vorrei che non si esagerasse il carattere di protesta della mia poesia. È vero che è accaduto in alcuni casi, diventati celebri (sotto forma di samizdat), ma in generale, nonostante la mia costante tendenza a ribellarmi come essere umano, come cittadino, la mia poesia ha sempre posseduto degli anticorpi che hanno fatto da scudo al coinvolgimento politico, all’impegno legato a un preciso momento. La prova risiede nel fatto che ha superato le barriere della storia.  Ci sono tanti angeli nella sua poesia: perché?  Se accetta l’idea che la poesia è ostinazione nell’esprimere l’inesprimibile, allora capirà e sentirà che gli angeli sono strumenti, a volte disperati, di questa ostinazione. In cosa crede? Insomma, esiste qualcosa dopo la morte oppure non è che il niente?  Per me non esiste prova più semplice e chiara dell’esistenza di Dio del non sentirmi mai sola. Sì, credo che ci sia qualcosa dopo la morte, qualcosa che fa parte del mistero scoperto dai grandi fisici che hanno studiato la struttura della materia e dell’universo, diventando quasi mistici. Del resto, Einstein parlava quasi come Dante dell’«Amor che move il sole e l’altre stelle» e si considerava scientificamente irrealizzato, perché non era stato in grado di trovare la formula matematica di questa forza. Che senso ha la poesia oggi, in un’epoca lacerata dall’orrore, dalla violenza senza mediazioni? Il senso della speranza. Una volta ho tenuto una conferenza dal titolo “La poesia può salvare il mondo?”. La mia risposta era sì e raccontavo delle migliaia di poesie composte e trasmesse tramite l’alfabeto Morse (senza carta né penna, oggetti proibiti) nelle prigioni comuniste della Romania degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, a dimostrazione del fatto che quando sentono minacciata la loro stessa essenza, gli uomini ricorrono alla resistenza attraverso la poesia. A cosa serve la poesia: a vivere, a sopravvivere, a morire, a restare felici, a trovare se stessi (o a perdere il senso del sé)? A tutto questo e, oltre a questo, alla certezza che, essendo così difficile da capire e da definire, la poesia fa parte di quella realtà in cui gli antichi greci riponevano la loro fiducia e che chiamavano “kalokagathìa”, una parte che non potrà mai essere sconfitta perché fondata sul masochismo dei buoni. Del resto, questo è anche il punto di continuità con il cristianesimo.  Ritagli una manciata di versi dalla sua opera che, in modo delicato e feroce assieme, la descrivono. “Perché sono in grado di capire, e sono colpevole di tutto ciò che capisco”* «Pentru că sunt în stare să înțeleg,  De tot ce înțeleg sunt vinovată» * versi tratti dalla poesia Fără un gest (“Senza un gesto”) contenuta nella raccolta Arhitectura valurilor (“L’architettura delle onde”) del 1990. *In copertina: Ana Blandiana fotografata da Emilio Fraile L'articolo “Ostinata nell’esprimere l’inesprimibile”. Dialogo con Ana Blandiana proviene da Pangea.
October 22, 2025 / Pangea
“Non sopporto i professionisti dell’impegno, gli scrittori che firmano appelli. L’odio? Un sentimento nobile e proficuo”. Dialogo con Alessandro Piperno
> “Non credo ci sia alcuna filosofia morale nella narrativa oltre > all’eccellenza.” > > John Cheever Con il suo ultimo libro – Ogni maledetta mattina. Cinque lezioni sul vizio dello scrivere (Mondadori, 2025) – Alessandro Piperno, romanziere, direttore dei ‘Meridiani’, docente di francesistica e saggista, realizza una immersione nelle ragioni e nei moventi dell’attività letteraria. Tramite un saggio che indaga con uno stile chiaro ed elegante quel ‘brivido’ che accompagna il rito e la prassi della scrittura, alternando spunti autobiografici e l’analisi critica delle sismografie letterarie grazie al confronto con i grandi del passato. Cinque lezioni (“Ambizione”, “Odio”, “Responsabilità”, “Piacere” e “Conoscenza”) sui motivi dello scrivere che danno così vita a un racconto corale che va da Proust e Kafka a Céline e Primo Levi, passando per Flaubert, Balzac e tanti altri,capace di delineare una galleria di ritratti e studi d’autore ricca di dettagli e fascino. Ne emerge, soprattutto, un testo che quando parla dell’attività letteraria più che prescrivere vuole mostrare, più che spiegare vuole osservare e capire, senza giudicare. Piperno, infatti, privo di retoriche militanti o di misticismi autocompiacenti, realizza un’opera capace di rivelare della scrittura le verità concrete e l’intrinseca magia. Portando il lettore nelle botteghe, nelle quinte e nei cantieri delle parole, in modo da mostrare i tanti volti di quel “vizio assurdo” che porta a impugnare una penna o ad armare una tastiera ogni maledetta mattina. Prof. Piperno come è nato Ogni maledetta domenica. Cinque lezioni sul vizio dello scrivere? La genesi di questo libro è più semplice di quanto non sembri. Da un lato un contratto da onorare con il mio editore per un’opera saggistica, dall’altro l’esigenza di decantare e di fare il punto. Una necessità, quest’ultima, che mi prende ogni volta che finito un romanzo mi preparo a scriverne un altro. Forse volevo verificare il modo in cui con il passare degli anni è cambiato il mio approccio alla scrittura. Ciò che da giovane mi sembrava una fatica superiore alle mie forze oggi è un piacere quotidiano e ineludibile, un vizio. Da qui la domanda: come lo si contrae? Come lo si gestisce? Ecco, per rispondere a queste domande ho interrogato gli scrittori che amo e che frequento da sempre. Di me (a petto di questi giganti, una nullità trascurabile) ho parlato lo stretto indispensabile.  E che cos’è, secondo lei, il vizio dello scrivere? Per dirla con Cioran, tutto inizia con un estenuante esercizio di ammirazione. Sei un adolescente pieno di passioni e di inutili idee in testa. Leggi Stendhal, Tolstoj, Broch e ti dici: che bello sarebbe potersi esprimere in modo altrettanto netto, essenziale ed elegante. Sei fregato. Quello è il momento in cui passi dall’ammirazione all’emulazione. Una battaglia persa in partenza. Per quanto tu possa provarci, infatti, non riesci a scrivere niente che non ti sembri scadente, riciclato, di terz’ordine. Le confesso che per me non è stato facile togliermi dalle spalle il peso di modelli così irraggiungibili. Certe volte credo che ad avermi reso uno scrittore sia stata una certa dimestichezza con il fallimento.  Il paradosso è che il mio primo romanzo fu un successo, almeno da un punto di vista commerciale. A me invece non piaceva quasi per niente. Lo avevo scritto spinto dalla rabbia e dal risentimento. Lo avevo scritto senza esercitare il dovuto controllo. Poi grazie al cielo le cose sono cambiate.  Cosa è cambiato? D’un tratto ho capito che il tormento è come la nevrosi: fa male ma non serve a niente.Anzi, peggio, ti danneggia limitandoti. Ho capito che la scrittura non è pura ispirazione, o non solo, ma soprattutto disciplina, indagine, riflessione. Oggi mi sento molto diverso da allora.  Quale fu il libro della svolta nel suo rapporto con la scrittura? Fu il mio romanzo più sfortunato: Dove la storia finisce (2016). Più mi ci immergevo piùpercepivo il cambiamento in atto: il tormento si faceva spontaneità, l’ansia  cedeva il passo all’abbandono, ogni seduta era un po’ più piacevole. Da allora il lavoro è diventato naturale, proficuo e meno ansiogeno. Cosa ha determinato questo cambiamento? Messe da parte tutte le pompose ambizioni di grandezza e di gloria, ho preso atto che lo scrittore è un tizio che ogni mattina (almeno per me) affronta una serie di problemi e cerca di risolverli. Solo così un libro prende forma. In un attimo sono svanite le ubbie con cui mi ero sempre tormentato. Dopo la pubblicazione, si rilegge? Mai. Un libro pubblicato per me è un libro morto. Tanto sono ossessivo nella stesura infliggendomi mesi e mesi di riletture, tanto sono leggero e infedele nella fase successiva alla pubblicazione. Per questo mi costa così tanto promuoverlo. È giusto che un libro faccia la sua strada senza di me. Le rare volte in cui durante una presentazione qualcuno legge un passo di un mio libro in pubblico avverto un profondo imbarazzo. Con ciò non intendo dire che non provi affetto per i libri pubblicati. Ne provo eccome, soprattutto per i più “sfortunati”.  Me lo lasci ripetere: per me Dove la storia finiscerappresenta una cesura virtuosa. Parliamo del suo ultimo testo narrativo: Aria di famiglia. Un romanzo che mostra epoche e contesti senza pretese storiografiche o ideologiche, offrendo uno sguardo critico sul presente. Specie su quella  sorta di maccartismo (trasversale e bigotto) che stiamo vivendo… Giudicare un’opera attraverso la vita o le idee dell’autore è un atto critico capzioso, moralmente disonesto ed esteticamente aberrante. Non c’è esercizio più esecrabile.  Quando nella valutazione di un manufatto artistico il giudizio morale sostituisce quello formale l’arte muore. Ecco, ho il sospetto che oggi molti concepiscano la letteratura come un concorso di bellezza morale. Temo che alcuni vogliano trasformare lo spazio letterario in un tribunale speciale in cui all’autore spetta il ruolo dell’imputato. Proprio così, certa critica vuole tramutare la storia della letteratura in una specie di Norimberga permanente. Del resto, sarebbe sciocco considerare il politically correct o il settarismo puritano un male dei nostri tempi. Per certi versi è sempre stato così. Anche Flaubert,anche Baudelaire, anche Stendhal incorsero nella scomunica dei puritani, degli ipocriti, dei filistei.  La cosa davvero preoccupante oggi è come certe idee aberranti seducano anche chi dovrebbe detestarle: parlo degli scrittori e degli accademici, soprattutto in ambito anglosassone. Li ha visti no? Non vedono l’ora di denunciare, marciare, boicottare, firmare appelli e petizioni. Un po’ imbonitori, un po’ ciarlatani, se ne stanno lì sul loro scranno a distribuire patenti morali. Non credo che Flaubert lo avrebbe fatto. A lui la letteratura offriva uno spazio privilegiato di libertà e di osservazione. Nel libro parla anche di responsabilità e impegno. Sì, distinguo l’impegno virtuoso da quello frivolo e mondano. Distinguo gli scrittori che hanno rischiato la pelle da quelli che hanno ottenuto un invito in talk show.  Prenda Primo Levi. Lui per me incarna un modello irraggiungibile. È come se avesse trovato un equilibrio perfetto tra responsabilità e stile. Un altro impegno virtuoso è quello prestato da Zola alla causa di Dreyfus. A non piacermi sono gli epigoni di Sartre, quelli che potremmo chiamare i “professionisti dell’impegno”. Non c’è causa per cui non si mobilitino o non si espongano e di solito lo fanno nel modo più conformista lisciando il pelo al mainstream. Io non ho mai firmato petizioni né partecipato a manifestazioni: il mio mestiere è un altro. Non ho autorità per esprimermi su niente se non sulle due o tre cose che conosco. A chi mi chiede del clima, dell’atomica, dell’Ucraina rispondo come Parise: “Non lo so, non me ne intendo”. Il confronto con il “male” quanto è centrale per uno scrittore? Devo confessarglielo. Faccio fatica a prendere sul serio certe categorie oracolari: il “bene”, il “male”, il “giusto”, l’“Ingiusto”. Ciò non significa che eluda il problema. So che il male è l’argomento letterario per antonomasia e ritengo che il solo modo onesto di affrontarlo è provare a comprenderlo. Ricordo che André Glucksmann nel suo libro L’undicesimo comandamento diceva che al Decalogo biblico mancava un ulteriore, ma fondamentale, comandamento: “Conosci il male”.  Conoscere il male, per gli scrittori che amo ha significato farsene carico, affrontarlo, non sanzionarlo. Penso a scrittori per molti versi antitetici come Proust e Céline. La moralità di un romanzo, come diceva Milan Kundera, non risiede, infatti, nel giudizio, ma nella sospensione del giudizio. È questa la sfida della letteratura: mostrare la complessità dell’umano senza ridurla a virtù o colpa. Nulla di grande è stato scritto con ipocrite pretese moraliste. Adolphe, Guerra e pace, L’età dell’innocenza, Madame Bovary, la “Recherche”. Sono romanzi in cui trionfa l’ambiguità. Per questo immaginare una letteratura orientata solo dalla virtù è semplicemente folle.  La quinta lezione del suo libro si chiama “Conoscenza”: parlando di questo tema lei accosta Proust e Kafka. Perché? Il paragone tra i due non è mio. Il primo ad averlo formulato è stato Elias Canetti. Naturalmente Proust e Kafka sono scrittori diversissimi, ma profondamente sintonici e complementari. Entrambi, infatti, hanno trasformato la vita in scrittura. Entrambi hanno intrattenuto un rapporto simbiotico con la scrittura.  Mi commuove l’idea che siano morti con il grosso della loro opera ancora inedito. Mi pare un ottimo monito per quel genere di scrittori a cui scappa sempre di pubblicare. Lei dedica una lezione anche all’“Odio”. Quanto l’odio è importante in letteratura? Nel libro distinguo tra risentimento e odio. Il primo è gretto e inutile, il secondo è nobile e proficuo. Pensiamo all’odio di Flaubert per la stupidità, o a quello di Ibsen per le convenzioni borghesi. Osservare il mondo con ironia critica, provare indiginazione creativa: senza questo sguardo, non si può davvero scrivere. Io non ci riuscirei.  Cosa odia in maniera “nobile” Alessandro Piperno? La malafede, l’ipocrisia dei Tartuffi e degli imbonitori dei social, tutto ciò che è melenso e pletorico. Detesto le dietrologie, chi vede il marcio ovunque, le cospirazioni, i piagnistei, ma anche le grandi adunate di piazza, le frasi in libertà, le mozioni degli affetti. E dal disgusto per questa roba che spesso ho tratto la materia per i miei testi.  Un aspetto centrale nella sua opera è la complessa ambiguità dei personaggi. In questo senso in Aria di famiglia essi sono spesso contraddittori o mai completamente virtuosi. Nei suoi diari Tolstoj (il migliore di tutti) parla spesso di come rendere vivo un personaggio. Per lui è necessario farne una creatura contraddittoria, in bilico tra passioni oneste e piccole malvagità. Il caso più emblematico è quello del Dolochov di Guerra e Pace. Se da un lato è un dissoluto, un libertino, un attaccabrighe, dall’altro coltiva commoventi sentimenti filiali. Così si costruisce un personaggio, mescolando la miseria alla grandezza, la malvagità all’altruismo. In Aria di famiglia ho cercato di seguire questo insegnamento: la famiglia Sacerdoti è composta da persone contraddittorie, in cui si intrecciano generosità e durezza, meschinità e candore. La verità dei personaggi si manifesta attraverso queste tensioni e sfumature: solo così possono apparire vivi, credibili, umani.  Più che un romanzo “a tesi”, il suo è allora un romanzo “ad antitesi”. È un modo di contraddire e capire le cose? Philip Roth affermava di non avere idee quasi su niente.  A questo gli serviva scrivere: per capirci qualcosa. Io sono d’accordo con lui. Credo che in realtà la scrittura, se trattata con la giusta grazia e la dovuta abnegazione, riesce a rivelare qualcosa che prima ti era sconosciuto. La scrittura non deve dimostrare alcunché. Deve limitarsi a scandagliare. Tu non scrivi perché hai capito come funziona il mondo ma perché non sei ancora riuscito a capirlo.  In questo quadro centrale più che il messaggio nei suoi testi vince il romanzesco… È una mia debolezza, lo so, ma sono fatto così: mi piace il romanzesco.  E in effetti inAria di famiglia mi sono divertito a disseminare un mucchio di robaccia romanzesca: vendette, orfani, eredità contese, tutori malintenzionati. Insomma ho esibito il classico armamentario dei vittoriani che amo: Dickens e George Eliot su tutti. La narrativa, come hanno insegnato questi autori, usa la finzione e l’esagerazione per giungere alla verità. Il prossimo libro? Si chiamerà In trappola. Lo sto scrivendo con alacrità da quasi un anno. È l’ultimo capitolo della trilogia iniziata con Di chi è la colpa e Aria di famiglia. Però sarà molto diverso dai precedenti, per via di una caratteristica che preferisco non confessarle.    Francesco Subiaco L'articolo “Non sopporto i professionisti dell’impegno, gli scrittori che firmano appelli. L’odio? Un sentimento nobile e proficuo”. Dialogo con Alessandro Piperno proviene da Pangea.
October 3, 2025 / Pangea
“Camminare sull’orlo di un abisso”. Dialogo con Corrado d’Elia
Corrado d’Elia, al contempo, ha qualcosa di Mangiafuoco e qualcosa di Don Chisciotte. Suo è il genio del terribile: quando gli parli, impalca castelli in aria così concreti che sei pronto a imbarcarti con lui verso un qualsiasi nessundove. È il talento di chi maneggia il fuoco come un burattino e rende feconda la cova dei mulini a vento. In fondo, ama il pensare transoceanico, d’Elia: per me – anche per le sue movenze da saltimbanco, da imbonitore di leoni, da infallibile equilibrista – è il Philippe Petit del teatro italiano contemporaneo.  Milanese, uscito dalla ‘Paolo Grassi’, Corrado d’Elia somma strategia e umore lunare. Nel 1995 fonda Teatri Possibili – che è poi un inseguire l’impossibile – che oggi si chiama Compagnia Corrado d’Elia; da tempo, in particolare, Corrado d’Elia indaga i personaggi, gli uomini che al posto di lasciare il cuore a maggese l’hanno messo a fruttificare velieri, visioni, varchi. Ha messo in scena – con acume da entomologo del meraviglioso – Mozart e Beethoven, Van Gogh e Steve Jobs. Ora sta inseguendo Macbeth; ha da poco dato voce a Galileo. Ama i grandi libri, Corrado d’Elia, i libri che infiammano fino a forgiare in spada e in capodoglio l’anima di chi li legge. Così, con spericolata indole, ha riscritto l’Iliade e Moby Dick, Don Chisciotte, Le notti bianche, Il piccolo principe. Ha l’energia dell’ispirato – cioè: di chi sa ispirare.  A volte, le sue sceneggiature prendono la via del libro. Io, Moby Dick (Ares, 2024) è forse il più affascinante; Galileo, oltre le stelle (Ares, 2025), l’ultimo, è un tentativo di sconfinamento dai greti di una grande anima. Quali sono i legami tra scienza e fede, tra parola e calcolo, tra opportunità e opportunismo, tra sé e cosmo? Galileo è allo zenit dell’uomo – Galileo è figura che ha in Amleto un emblema nel mondo letterario: entrambi fondano la modernità, che è poi il discorso sull’essere e sul non essere, sulla possibilità di esplorare gli impossibili. Amleto crea un microscopio interiore per sondare i miraggi e i deliri dell’anima; Galileo forgia un cannocchiale per auscultare i mugolii dell’universo.  “È carne che trema di fronte all’infinito”, dice Corrado d’Elia di Galileo. Il libro comincia con una finestra e finisce con una marmellata. Sulla soglia dell’abiura e dell’umiliazione, il sapiente parla di fragole, limoni e lamponi; “Nessuno ha visto più lontano di me”, sussurra. Gli astri sono i frutti maturi dei nostri occhi.  Corrado d’Elia scrive in versi. La sua scrittura, però, ha poco a che fare con il teatro ‘poetico’ (o neomelodico) – che siano le scritture vertiginose di Mario Luzi o gli spettacoli ‘di parola’ di Mariangela Gualtieri. L’andar per versi è utile, qui, a creare il ritmo narrativo esatto. I versi sono uno ‘strumento’: cembalo e cetra, tamburo e corno; sussurri e grida. Come i canti attorno al fuoco: e il fuoco, di volta in volta, si fa volto e muraglia. Un fuoco argilla, intendo, in cui le ombre hanno la beltà di un corpo, di un torsolo d’uomo – innamorano.   Beethoven, Van Gogh, Galileo, Mozart. Mi pare di capire che ti piacciono i grandi uomini, che confidi nel ‘terribile’ genio dell’uomo. È così? Perché? La parola “genio” porta con sé un’ambiguità affascinante. Genio non significa solo capacità tecnica o talento straordinario: implica una tensione, un’inquietudine, una ferita. Beethoven, Van Gogh, Galileo, Mozart – e potrei aggiungere Steve Jobs, figura altrettanto contraddittoria e perturbante – sono stati uomini che hanno vissuto in una sorta di scarto rispetto al mondo comune. Hanno visto più lontano, hanno pagato sulla propria pelle il prezzo di quella visione, e per questo hanno toccato vertici che noi possiamo soltanto sfiorare. Incontrare il genio significa entrare in contatto con l’ebbrezza di una grandezza che non è mai pienamente accessibile. È come camminare sull’orlo di un abisso: non possiamo appropriarsene, ma possiamo lasciarci colpire da quella vertigine. Galileo, in particolare, rappresenta per me questa condizione: uomo di scienza, ma anche poeta della visione, capace di scardinare dogmi e di aprire nuove prospettive sul mondo, pur pagando il prezzo dell’isolamento e della condanna. Lui è Corrado d’Elia Iliade, Moby Dick, Divina Commedia. Mi par di capire che ti piacciano le grandi opere. È così? Che senso ha, oggi, una vita ‘epica’, una grande opera? I classici sono la nostra archè, il nostro conio originario. Non appartengono al passato, ma al futuro. Essi non cessano mai di parlarci, perché custodiscono domande che restano aperte. Omero, Dante, Joyce, Dostoevskij, Melville non ci consegnano risposte definitive, ma ci offrono la vertigine di interrogativi che ancora oggi ci parlano e ci fanno riflettere. In un’epoca che sembra aver smarrito i propri maestri e che spesso rifugge dalle grandi domande, parlare di “vita epica” significa restituire al presente il senso di un orizzonte più vasto. Non è questione di eroismo in senso tradizionale, ma di profondità: l’epica oggi è la capacità di vivere con consapevolezza, di cercare un senso che vada oltre il consumo immediato. Una grande opera, nel nostro tempo, è quella che invece riesce a interrogarci e a resistere al logorio dell’oblio e della dimenticanza. Qual è il libro che ti ha folgorato da bambino? E quello che ti ha folgorato da adulto? Da bambino mi hanno colpito libri che mi hanno insegnato a guardare il mondo con stupore. Non era tanto un titolo preciso, ma il gesto stesso del leggere che apriva mondi. Ogni pagina era una porta. Da adulto, invece, ricordo come folgorazione Moby Dick: non solo per la potenza narrativa, ma perché in quell’ossessione vedevo riflessa la nostra sete inesausta, la tensione verso l’impossibile. Melville, come Dante, come Galileo, ci mostra che la conoscenza è anche naufragio, che non si può inseguire la verità senza rischiare di perdersi. Non è un caso che il mio Io, Moby Dick, inizi con un uomo seduto sulle proprie sconfitte. Galileo. Perché? Galileo è un simbolo del nostro tempo. Non solo perché ha incarnato la rivoluzione del pensiero scientifico, ma perché ha vissuto sulla propria pelle il conflitto tra fede e ragione, tra libertà di ricerca e potere istituzionale. È un uomo del passato che parla al presente: la sua vicenda interroga ancora oggi il rapporto tra scienza e coscienza, tra visione e resistenza. Portarlo in scena significa restituirgli la sua duplice natura: l’uomo forte e convinto delle sue idee, ma anche l’essere fragile, intimo, spesso solo, che si misura con i limiti propri e del proprio tempo. Galileo è il paradigma dell’artista e dello scienziato: colui che guarda oltre e che, proprio per questo, paga un prezzo altissimo. Come inizi a scrivere un testo, questa specie di biografia lirica, di monologare poetico? Da dove è iniziato Galileo? La scrittura nasce sempre da una ferita, e quindi da un’urgenza. Non è mai un progetto meditato, ma piuttosto un incendio che divampa da una scintilla. Nel caso di Galileo, la scintilla è stata una conversazione con amici sul rapporto tra fede e scienza: un tema che, lungi dall’essere archiviato, resta bruciante e contemporaneo. Io scrivo ovunque: nei bar, negli aeroporti, sui treni, in camerino. La scrittura mi divora. Non è mai casuale la mia scelta di andare a capo: il verso è la forma naturale del mio pensiero. È un ritmo che segue il respiro. Galileo è nato proprio così: dal bisogno di dare voce a una tensione interiore, di unire la lirica al racconto, il pensiero alla carne viva del teatro. Che rapporto c’è tra scrittura scenica e poetica? Sono due forme sorelle. Entrambe vivono del togliere, dell’evocare più che del descrivere. La scrittura poetica genera immagini che vivono nella mente del lettore. La scrittura scenica deve invece incarnarsi subito, diventare visione immediata per lo spettatore. La differenza è nel tempo: la poesia si legge in solitudine, lentamente, e può essere riletta infinite volte. Il teatro vive nell’istante, chiede di catturare e trattenere un pubblico per un’ora o due, senza tregua. Ma in entrambi i casi si tratta di rendere visibile l’invisibile, di rivelare, di trasformare il silenzio in qualcos’altro. Che senso ha l’arte in un mondo che rimanda soltanto orrore, morte? L’arte è il braciere che deve restare acceso, anche quando tutto intorno è buio. Adorno nel ’49 scriveva che dopo Auschwitz fosse impossibile scrivere poesia, addirittura un atto di barbarie. Ma la poesia stessa ha dimostrato il contrario: proprio nell’abisso, la parola trova una ragione per esistere. Oggi più che mai l’arte è dunque resistenza. È atto politico, oltre che poetico. Non consola, ma tiene accesa una luce. Senza arte, senza cultura, senza educazione, la società resta prigioniera della violenza e dell’ignoranza. L’arte è la nostra forma di sopravvivenza. Qual è la tua poesia del cuore? È difficile dire. Probabilmente se devo scegliere, Forse il cuore di Salvatore Quasimodo, scritta nel 1947, nel dopoguerra, quando il mondo era allo stesso modo lacerato e le ferite sembravano insanabili. Si chiude con quei versi che non risuonano terribili nel dubbio: «forse il cuore ci resta, forse il cuore…». Io ci sento tutta la precarietà dell’umano, ma anche la sua possibilità. Ci offre una chiave che sta a noi prendere o rifiutare. Qual è stato il personaggio più difficile da investigare? Ogni personaggio porta con sé un abisso, ma se devo pensarne uno in particolare, cito il Caligola di Camus. Qui la caduta non ha appigli: è verticale, brutale, inesorabile. Camus non ci consegna solo l’immagine storica di un imperatore folle, ma ne fa un archetipo della condizione umana: un uomo che, perso l’amore e il senso delle cose, si spinge fino all’estremo, fino al capriccio assoluto, fino all’assurdo. La crudeltà di Caligola è profondamente umana. E tutto questo, questa frizione è terribile. Perché la puoi spiegare. La sua violenza non nasce da una ferita, da un lutto che si trasforma in ossessione metafisica: la ricerca di un’impossibile libertà assoluta. Nel suo delirio, Caligola non è lontano da noi: ci mostra che quando l’uomo smarrisce il senso, quando non accetta i limiti, quando non ha punti di riferimento, umani o spirituali può trasformarsi in mostro. È l’abisso del potere, ma anche l’abisso del vuoto interiore. …e ora, quale nuovo uomo stai tenendo in agguato, vorresti agguantare? Il prossimo incontro è con Macbeth, o meglio con la sua ombra. Non la tragedia shakespeariana in senso tradizionale, ma il suo incubo, il suo sogno più nero. Macbeth diventa per me un uomo intrappolato in un rito ancestrale, una vittima sacrificale in balia di qualcosa più grande di lui. Per questo, nel suo disorientamento è un uomo contemporaneo. Una dimensione rituale, alchemica, dove la parola si fa liturgia e il gesto invocazione. Uno spettacolo visionario a cui lo spettatore non assiste, ma attraversa. ** Si pubblica per gentile concessione, l’attacco di “Galileo, oltre le stelle”, testo di Corrado d’Elia edito da Ares (2025). Quando ero bambino, come per istinto, aprivo la finestra e guardavo il cielo. Allora, tutte le volte, lo stupore, il mistero, per quel foglio immenso e nero, mi avvolgeva. Ogni stella era un enigma da decifrare, ogni costellazione una frase da indagare. Cosa cercassi io non lo so, ma già sentivo che in quel vasto tacere, in quel silenzio che sapeva di sapere, un senso d’eterno c’era, di assoluto, un frammento di verità che mi lasciava disorientato, incantato, muto. «Cosa siete, stelle? E che cosa mi volete dire? Siete solo lanterne accese nel buio o una traccia da seguire? L’universo è tanto vasto, sembravate suggerire, più di quello che pensi più di quello che puoi capire e la vita, la vita, è un meraviglioso viaggio, sempre in divenire». E in quel parlare del cielo, in quell’estasi in cui mi perdevo, io leggevo una chiamata, un invito, a esplorare un disegno oltre il nostro, un ordine nascosto dietro quel velo d’infinito. Così ogni notte lo facevo e il cuore, guardando, piano piano si calmava. La domanda ancora oggi è sempre la stessa: che cos’è questo libro che mai si chiude? Quest’oceano celeste sopra di noi che ancora mi incanta e mai mi delude? Un’opera d’arte, certo, un capolavoro. Un mistero. Il riflesso dell’animo mio inquieto. L’eco di qualcosa che ancora ci è segreto. E davanti a voi, luminose stelle la mia emozione si fa sempre meraviglia. Un uomo così piccolo, in mezzo alla sua grande famiglia. L'articolo “Camminare sull’orlo di un abisso”. Dialogo con Corrado d’Elia proviene da Pangea.
September 24, 2025 / Pangea
“Di Gian Giacomo Menon non sappiamo quasi nulla. Sappiamo solo che è poeta, un vero poeta”
Qualche decennio fa, introducendo la raccolta di Tutte le poesie di Carlo Betocchi, Luigi Baldacci accennò a un “anti-Novecento che, per troppo tempo, una storiografia di comodo ha cercato di mettere tra parentesi”. Citava, l’augusto critico, a mo’ di presunto repertorio, senza troppe spiegazioni, Palazzeschi e Govoni, Umberto Saba, Diego Valeri, Sandro Penna; disse di Betocchi, disse “del secondo Caproni”. Insomma: l’anti-Novecento – una baruffa tra intellettuali – è infine una vicenda tutta interna al ‘canone’, al Novecento, senza particolari evasioni né invasioni di campo. Si tratta di una opzione più che di una rivoluzione, di un bivio più che di una conversione. Davvero negletto dalla storiografia, invece, è un nugolo di poeti che pare abbiano fatto storia a sé. Marginalizzati – per diverse ragioni, a volte patologiche – dal sistema culturale, ignorati dall’editoria imperante, questi poeti hanno perseguito – da perseguitati – una scrittura vertiginosa, solitaria, a tratti maniaca, che ha sbalestrato il linguaggio consegnandocelo rinnovato, in nuova innocenza, al cristallo. Autori di un’operamonstre, senza riserva né misura, pressoché postuma e ancora da scoprire, ci hanno dato – se si lavora per scrematura, per ‘sublimazione’ – alcuni dei testi più folgorati del secolo, di sempre. Non tanto “anti-Novecento” dunque – anche perché qui è tutt’altro che il linguaggio dimesso, da tonache lise e pecore smarrite – ma una specie di canone “avverso”, di canone avversato, che ha qualche remoto padre (l’esoterico Arturo Onofri, il selvatico Dino Campana, il furibondo Giovanni Boine), e che si svolge al di là delle avanguardie e del ‘dibattito’, praticabile soltanto da chi ha fatto della propria ostinata solitudine allo stesso tempo alcova e mattatoio. Linguaggio inclassificabile quello di questi poeti, che non concede carriere accademiche dacché mette in discussione le fondamenta del cosiddetto ‘canone’; poesia che si offre – ostia avvelenata – come rivelazione di un esistere in fiamme, a volte stigmatizzata dalla tragedia.  Di questi avversati, di questi avversari al noto il campione è Lorenzo Calogero, di cui si attende ancora, nonostante sporadici, pur potenti riconoscimenti (da Leonardo Sinisgalli ad Aldo Nove), degna sistemazione dell’opera. Gian Giacomo Menon, nato pochi mesi dopo Calogero (entrambi del 1910, il primo è di novembre, l’altro di marzo), è il fronte ustorio del canone “avverso” – che non è un anti-canone, dacché questi poeti, pionieri dell’ignoto, non sono anti- nulla, a nulla si contrappongono. Nato anch’egli all’estremo emisfero del Paese – Calogero è di Melicuccà, Calabria; Menon di Medea, Gorizia, allora austroungarica –, a differenza di Calogero, Menon ha avuto una vita, si direbbe, in pienezza. Futurista per eccesso di giovinezza – nel 1930 pubblicò a sue spese il nottivago: colse il plauso di Marinetti (“Ingegno indiscutibile… Immagini audaci”), ma l’autore lo sconfessò, “rastrellò, facendole sparire, tutte le copie in circolazione” – Menon fu straordinario professore al liceo classico ‘Stellini’ di Udine, in grado di sedurre ed egualmente intimidire legioni di studenti. Leggeva Pascal, Schopenhauer e i Sofisti, amava Giuseppe Rensi, “filosofo solitario e inattuale per eccellenza”, tra i poeti preferiva Rimbaud, Valéry e Sergej Esenin. Scrisse moltissimo, pressoché per sé, Menon: dagli undici agli ottantacinque anni, scrive lui, “più di 100000 poesie, dicendo 10 versi l’una in tutto più di 1 milione di versi”; attività che esaspera in vecchiaia (hanno contato “almeno 14mila poesie” scritte fra il 1993 e il ’99, cioè all’incirca cinque poesie al giorno). In vita, uscirono un mannello di poesie – diciassette – su “La Fiera Letteraria”, nel 1966, e un librettino, I binari del giallo, edito da Campanotto nel 1998, con prefazione di Carlo Sgorlon, che riteneva Menon “filosofo del nulla e poeta assoluto”. Morì poco dopo, il poeta, nel dicembre del 2000; nel 1945 aveva sposato la ex allieva Silvia Sanvilli: non ebbero figli perché lui non ne voleva; per tutta la vita inseguì le jeunes filles, amori rubati all’ombra di un androne. Ormai anziano, aveva “‘fatto amicizia’ con un uccellino che tutti i giorni veniva a posarsi sul terrazzo dell’appartamento di via Carducci”. In molti ricordano il suo carisma, l’impeccabile nitore del dire, le feroci conclusioni. Alcuni hanno ravvisato nella sua opera, magmatica, indifesa e difforme, la petroglifica nitidezza di Paul Celan.  Ciò che resta, appunto, è una poesia che va per lapidazioni e lacerazioni, che spezza, sempre, l’occasione in stato d’assedio, che rimpolpa la parola di un bestiario nuovo, di esseri zodiacali, con le zanne; questa, ad esempio: > dentro di noi come uova di mosca > dileguarsi con i congegni per le madri astrali > stabiliti su acque icarie nelle frazioni del vento > sbarrati e neri nei sai > quando il tempo delle città apre le sue botole > un calcolo reticolato sulla sinistra dei codici > profilo di cifre marginali > e l’uomo con le ascelle fiorite > esperto di addii al livello dei grani > abbandonato alla legge > piomba nelle orine animali impastate di erba > e altri dopo con ossature di tela > il cuore sospeso all’aperto > un chilometro più lungo della vita > scattano oltre i canali sui denti della neve > a risvegliare le controcorrenti dei pesci > la contesa dei corni > e altri azzurri di punta con occhi di metallo > annotano la fuga ostile dei giorni > al seguito dei cani gonfiati dalla luna > dentro di noi covare la nostra profezia > spiarci brevi nell’uncino e nell’elitra > all’orlo dei cieli domestici > insicuri sui nettari sulle croste del sangue > predatori da gioco > barattare con le lacrime l’insolenza delle parole Passò la vita, lunga, ad annientarsi, Menon, “praticamente tappato in casa… accuratamente nascosto agli occhi dei più, sfuggendo ogni anche pur minimo coté sociale” (Cesare Sartori, qui come nelle precedenti citazioni). Non ci è riuscito – chi è fuoco finisce per sfamare incendio, per richiamare accoliti. Da anni, uno dei talentuosi allievi di Menon, Cesare Sartori – friulano, di formazione filosofo, giornalista professionista per una vita –, che abbiamo chiamato al dialogo, lavora, pressoché in solitaria, per ‘sistemare’ l’immensa mole di scritti del poeta. Finora, ha curato tre libri – Poesie inedite 1968-1969 per Aragno, 2013; Qui per me ora blu per KappaVu, 2013; Geologia di silenzi e altre poesie per Anterem, 2018 – una plaquette – non più di un bisbiglio nella pena dell’essere, per le leggendarie edizioni pulcinoelefante, 2017 – e un sito meravigliosamente ben fatto, http://www.giangiacomomenon.it.  Anche questo accomuna gli autori del canone “avverso”: chiedono di essere raccolti più che capiti. Bisbigliano. Pretendono il tu-per-tu. Prendono il viso del lettore a due mani, come fosse una brocca. Non puoi trovarli nelle antologie scolastiche perché troppo sottile, troppo feroce è il loro segreto. Pretendono l’audacia chiamata dedizione.   La mania e il nascondimento. Intendo dire: come si spiega la scrittura fluviale, compulsiva, ‘maniaca’ di Menon con la totale ritrosia a pubblicare, una sorta di spudorato pudore? Bello e azzeccato quello «spudorato pudore»! Menon aveva piena consapevolezza di essere totalmente dedito alla poesia essendo la poesia il più grande, fedele, immutabile, ossessivo e probabilmente unico vero amore della sua vita. Ma coerentemente con la sua «decisione di assenza» dal mondo e dal circuito sociale presa prima dei cinquant’anni (a parte l’attività di insegnante al liceo classico ‘Stellini’ di Udine e le uscite da casa per inseguire dei suoi amori) non faceva niente per promuovere o far conoscere i suoi versi. Aveva anche consapevolezza del valore della sua poesia («Di Gian Giacomo Menon – scrisse nell’agosto 1966 la “Fiera Letteraria” pubblicandogli 17 poesie – non sappiamo quasi nulla. Sappiamo solo che è un poeta, un vero poeta, ed è questa l’unica cosa che conti»), ma non si sarebbe mai ridotto a pietire ascolto e accoglienza dagli editori bussando come un mendicante alle loro porte. A parte il nottivago, il libretto con versi di ispirazione futurista uscito nel 1930, Menon non ha pubblicato praticamente niente in vita nonostante una produzione abnorme: come lui stesso dichiara in un appunto autografo che ho ritrovato tra le sue carte di aver scritto dagli undici anni in poi oltre centomila poesie, più di un milione di versi (che ha in gran parte distrutto prima di morire). La pubblicazione sulla «Fiera letteraria» si deve all’iniziativa di altri: il critico letterario Mario Schettini, lo scrittore Antonio Barolini… Ci furono poi, negli anni ’60, tentativi di contatto con Feltrinelli ed Einaudi dei quali si occupò l’amico antropologo Carlo Tullio Altan, risoltisi però in un nulla di fatto. E poi a due anni dalla morte la pubblicazione a Udine per i tipi di Campanotto di una scelta di versi per iniziativa e su pressante insistenza di Carlo Sgorlon dopo che era andato a vuoto un mezzo impegno che il romanziere friulano aveva strappato, se non ricordo male, a Marsilio. Da dove viene la poesia di Menon? Intendo: cosa leggeva, cosa lo affascinava della letteratura italiana ed europea? È possibile tracciare una ‘poetica’ di Menon? Menon ha un grande debito – da lui stesso più volte dichiarato – con i simbolisti francesi: Mallarmé in primis, Rimbaud («Non so quanto e come capito» ha scritto tre anni prima di morire) e Baudelaire, quindi Valery e il russo Sergej Esenin. Sono questi i suoi numi tutelari. Gli esponenti principali dell’ermetismo italiano invece Menon li ha nominati poco o punto. Ho ritrovato soltanto un’annotazione manoscritta del ’97 dove sostiene: «Più (ma molto poco) Quasimodo che Montale». In terza liceo (1967-’68) ci parlò a lungo e con ammirazione di Lorenzo Calogero del quale erano usciti tra il 1962 2 il 1966 i due volumi di Opere poetiche nella leggendaria e prestigiosa collana con le copertine rosse di Roberto Lerici: un poeta, come si sta sempre più confermando, che per ragioni esistenziali, stilistiche e linguistiche appare per Menon come un ‘fratello gemello separato alla nascita’. «Della mia poesia – ha annotato Menon nell’ottobre 1997 – non bisogna preoccuparsi dei contenuti né dei messaggi o dei racconti ma di strutturazione delle parole, dei ritmi, degli incastri, degli accostamenti, travestimenti, tradimenti». E puntualizza: «La mia poesia è tutta basata sul ricordo, sulla memoria e sulla trasfigurazione simbolica della realtà» e ne fissa le caratteristiche fondamentali: «Prosodia, metonimia (la figura retorica principale delle mie poesie, una parola per dire altro, una parola simbolo di altro), simbolismo, nominalismo, scomposizione». E così, trasfigurando e inventando, Menon riesce a compiere la titanica impresa di rinominare il mondo, la vita vissuta, il presente e i ricordi. Forzando il lessico ai limiti dell’indicibile, Menon sembra aver fatto suo il lapidario appello di Paul Celan (poeta che a scuola, curiosamente, non ricordo che abbia mai nominato) per una lingua «a nord del futuro». E ancora:  > «Poesia è silenzio di poeta, poeta rompe silenzio inventando parole, poeta non > crede alle sue parole, fa credere le sue parole al lettore, poeta non sogna, > poeta inventa sogni per gli altri, poesia non è fanciullezza, è alta maturità; > è vita solo l’invenzione, il sogno inventato, non per crederci, non per > sognare ma per fare sognare gli altri, per imbrogliare gli altri, ad esempio > la poesia».  Ma nel ’97 rivendica orgogliosamente:  > «Io non ho avuto idoli, non mi occorrono maestri, io ho quello che mi occorre. > Ogni uomo è sé, nessun paragone tra uomini, solitudine essenziale, un > disincanto disperato e lì io nudo, solo, impaurito». Che valore ha avuto il pellegrinaggio giovanile nel Futurismo nella vita lirica di Menon? Beh, credo che l’esperienza futurista a Gorizia (suo sodale e amico era l’aeropittore Tullio Crali; insieme firmarono un manifesto futurista e misero in scena una provocatoria pièce teatrale) tra i 18 e i 25-26 anni abbia lasciato in lui segni duraturi. Istrionico e provocatore, attore consumato e Gran Narciso (credo che le maiuscole nel suo caso siano obbligatorie) ma comunque bisognoso di un uditorio, Menon amava colpirti provocando stupore e sorpresa. Così riusciva (o sperava di riuscire) a catturare l’attenzione dei suoi studenti. Il suo modo di fare lezione era intrigante, suggestivo, affascinante: un seduttore quasi irresistibile. Trasgressivo, controcorrente, mai banale, a volte feroce, elitario (quelli, pochi, che stavano dentro il cerchio e quelli, molti, che non ci stavano). Spesso ci fece ridere. Come ben ricordano tutti coloro che lo hanno avuto come insegnante, l’elenco delle sue stranezze e bizzarrie comportamentali è lungo. Eppure, se ripenso a quelle sue stramberie, a quegli sberleffi di ex futurista ogni volta gli vedo spuntare sulla faccia un sorrisino tra l’ironico e il beffardo, vedo balenargli negli occhi un lampo di arguzia malandrina e sorniona. Sogghignava, il provocatore, godendosi il nostro sconcerto, se la spassava tra sé e sé spiando «l’effetto che fa». Mi racconti un aneddoto, un frammento di vita che ci aiuta a capire il ‘personaggio’ Menon. Ne scelgo uno fra i tanti perché mi pare tuttora emblematico e significativo per capire meglio Menon. Soli, in un’aula vuota, una volta mi raccontò di quando, sotto Natale, lui se ne stava rincantucciato nel buio di un portone a fare la posta a una donna. «Mi vengono incontro due uomini – sillabò –, forse erano cacciatori; parlano ridendo del gneur (la lepre in lingua friulana) che hanno preso e di come se lo sarebbero sbafato in salmì con la polenta. Le lacrime hanno cominciato a scendermi sul viso». Se il canto delle sirene della vita è ammaliante e irresistibile per ognuno di noi, paradossalmente lo era a maggior ragione per lui: quante volte mi ha confessato il rammarico e il rimpianto di non poter essere come gli altri, di non potersi accucciare nella consolatoria e stordente «normalità» della massa. Anche lui era alla ricerca di un nido. Mi indichi una poesia a suo giudizio esemplare del lavoro incessante di Menon. Ah, che domanda difficile! Sarebbe come chiedermi di scalare il Cervino con gli infradito e in pantaloncini corti! Una su centomila! Bon, me la caverò così, citando i versi pubblicati dall’amico Alberto Casiraghy in un suo «pulcinoelefante» e pochi altri estrapolati da un paio di sue poesie: «nido del sagittario un grillo ha cantato non più di un bisbiglio nella pena dell’essere (…) coltivatore di ansie uomo solo vado con bagagli di vento, speranze di infanzia, i segni lasciati sul cuore dalla tua mano (…) terra lenta dell’erpice fatiche di una vita si scardina il sasso dalla zolla nello spavento della locusta invidia di più forti ali e l’erba resta sospesa nel vento questa stagione di prove non si appoggia a stelle matematiche impotenti nei giri assegnati contro il caldo furore del sangue che tira il grido dalla sua parte e ogni perdizione non confondermi nell’istante della resa non giudicarmi se l’occhio si fa vetro sulla parete offesa dalla rinuncia tutto umano è il piede che incontra il suo ostacolo il braccio che decide di abbassare lo scudo». Quando e perché ha cominciato a dedicare forze e spirito a Menon? E poi: cosa ci resta da scoprire di Gian Giacomo Menon? Era il 2010, ero andato in pensione dal giornale dove ho lavorato per trent’anni (“La Nazione” di Firenze) e ho deciso di fare qualcosa perché il velo dell’oblio non cadesse inesorabile a coprire il ricordo di Menon come insegnante e come poeta. Perché l’ho fatto? Per il debito, il grande debito di riconoscenza e di gratitudine che ho sempre avuto – e continuo ad avere – nei confronti del “fatale professore”. Ricorda l’indimenticabile professor Keating dell’Attimo fuggente, quello di «Oh Capitano, mio Capitano»? La Giulia Terzaghi dell’Ora di lezione di Massimo Recalcati? O quell’imperdibile libro che è La lezione dei maestri di George Steiner? I motivi, il perché li trova lì. Menon aveva alcuni doni che riversava generosamente intorno a sé. Intanto il carisma (χάριςμα), quell’attributo che significa grazia, autorevolezza, prestigio, dottrina, saggezza, sapienza, fascino… e che, come il coraggio di don Abbondio, uno se non ce l’ha difficilmente se lo può dare. Poi aveva il λόγος, polisemica parola greca che vuol dire tante cose: parola, discorso, intelligenza; ragione universale e pensiero divino secondo Eraclito; ragione generatrice che conferisce ordine e vita a tutte le cose per gli stoici; quel qualcosa che contiene in sé il bello, il buono e il giusto stando a Plotino… Terzo, Menon fu un impareggiabile pontifex, letteralmente un costruttore di ponti tra culture e discipline diverse, ponti gettati verso e sul mondo per sfuggire alle ristrettezze culturali e mentali della piccola provincia udinese; un «insegnante-testimone capace di aprire mondi attraverso la potenza erotica della parola e del sapere che essa sa vivificare» (Recalcati). Per lui non eravamo «vasi vuoti da riempire, ma fiaccole da accendere» (Plutarco). Che poi, a ben vedere, è lo stesso atteggiamento, volutamente provocatorio, che Socrate adotta nei confronti del giovane Agatone nella scena iniziale del Simposio. Gian Giacomo Menon (1910-2000) in una rara posa ‘mondana’ Chi ha avuto Menon come insegnante ha avuto una fortuna: quella di trovarsi a contatto con il riverbero di una mente sopraffina e di alto livello. Tutti i suoi allievi hanno sperimentato direttamente la ‘minaccia’ che tale contatto costituiva, ne sono stati in qualche modo ‘infettati’ perché è noto che l’eccellenza può dimostrarsi spesso brutale e che confrontarsi con essa è un agòn, un pòlemos. A scuola come nella vita. Dopo quel contatto, però, molti di loro non hanno più potuto dimenticare né quella luminosità né quel riverbero né quella ‘minaccia’. Forse sono inattivi e silenti quei germi, quegli agenti dell’infezione, ma sono sempre lì, in agguato, annidati in loro e pronti a balzar fuori. E molti ex allievi ancora oggi sono fieri di essere ‘sopravvissuti’ alle sue lezioni. Quando sei stato esposto a quel virus – anche Menon trasmetteva quella contagiosa ‘malattia’ che Melanie Klein ha chiamato epistemofilia, la libido sciendi, la brama di sapere –, non importa quanto a lungo, te ne rimarrà sempre un riverbero, uno stigma. Per il resto della tua carriera e della tua vita privata, magari del tutto normali, magari banali e prive di distinzione, avrai sempre, come avverte George Steiner, «una protezione contro il vuoto». Chi scrive considera un privilegio l’essere stato uno dei suoi allievi e ai suoi figli, quando hanno fatto il loro ingresso alle superiori (quella fase che corrisponde probabilmente alla più importante, formativa e magica stagione della vita), ha augurato soprattutto una cosa: di avere nella loro vita scolastica almeno un insegnante, fosse pure uno solo, come la Giulia Terzaghi, il John Keating o… il professor Menon della sezione A del liceo classico ‘Stellini’ di Udine. Come il vecchio Dencombe di quello stupendo racconto di Henry James che è Mezza età, anche Menon «ha fatto vibrare qualcuno» che è la cosa che più conta quando tiri le somme della tua vita. Oh, sì, Menon ci ha fatto vibrare, ne ha fatti vibrare molti: di desiderio di sapere. «In una classe quanti allievi pensi che debbano seguire con partecipazione le mie lezioni perché io mi ritenga soddisfatto?», mi chiese una volta. «Mah, non so – risposi –, la metà, un terzo…». «Uno, me ne basta uno per classe!», rispose. Anche ai veri cabalisti e a certi maestri eremiti era concesso un solo discepolo; Nietzsche ebbe un unico allievo. I dialoghi platonici, le lettere di Seneca a Lucilio, la scuola di Tagore sono lì a dimostrare che non è importante soltanto che cosa si insegna, ma anche come si insegna. Lo sanno bene gli insegnanti e lo sa anche chi insegnante non è, che si può insegnare in tanti modi, ma che l’unico modo per insegnare con grandezza e lasciando un segno davvero duraturo è suscitare dubbi e domande negli allievi, promuovere e sollecitare il loro senso critico, aprire e far ‘sorgere’ per loro mondi nuovi, inattesi, sconosciuti, inaspettati, allenarli al dissenso, prepararli al distacco: «Ora lasciatemi», ordina Zarathustra; Empedocle prega il suo discepolo di lasciarlo solo sul ciglio del cratere. A suo avviso, come si colloca Menon nella poesia italiana del Novecento e cosa manca perché il suo nome compaia nei repertori antologici della letteratura del nostro paese? Non lo so. Non sono un accademico né un critico letterario, non ho la competenza per esprimere giudizi se non dire che a me la poesia di Menon piace. La poesia è un mistero, come l’amore. Se i versi che stai leggendo non risuonano dentro di te, se non ti cantano dentro non c’è barba di esegesi critica che possa farlo. Posso però dire perché la poesia di Menon è ancora in larghissima parte sconosciuta o misconosciuta nonostante il sottoscritto da quindici anni ci provi a diffonderla, a farla conoscere: distrazione, pigrizia, scarsa propensione ad accogliere il nuovo e a lavorarci sopra… Oh, sì ho incassato riconoscimenti e attestazioni di stima anche autorevoli, ma Menon non ha ancora sfondato a livello nazionale come invece, secondo me e secondo alcuni altri lettori molto competenti, meriterebbe. Ma la speranza è dura a morire! Provare, fallire, provare ancora, fallire meglio… Io di certo non mi arrendo! L'articolo “Di Gian Giacomo Menon non sappiamo quasi nulla. Sappiamo solo che è poeta, un vero poeta” proviene da Pangea.
August 30, 2025 / Pangea
“La lingua sami dormiva, bloccata dalla vergogna”. Dialogo con Linnea Axelsson
Nel 1910, a Copenaghen, esce un libro a suo modo decisivo. S’intitola Vita del lappone, lo ha scritto Johan Turi in uno stile, al contempo, crudo e fiabesco, come appena estratto dal fuoco, una specie di nordica Lascuax. Nelle fotografie, Turi ha lo sguardo ad accetta, occhi che contengono boschi. Nato nel 1854, faceva l’allevatore di renne; il suo libro, scritto in lingua sami con la traduzione in danese, fu pubblicato in diverse lingue: in Italia è al 235 della “Biblioteca Adelphi”. Il libro ha una leggiadria adamitica, la prontezza delle cose prime e nude: si parla di bestie, di estati come coltelli, di segni nel suolo e nel cielo e della “pietra del serpente”; le costellazioni si chiamano “Alce”, “Branco di cani” e “Sciatori”; la Via Lattea è la “Scala degli uccelli”.  La data in cui è pubblico il libro è importante: di lì a poco i Sami, etnia indigena del Nord, verranno ripetutamente vessati dalle entità statali, Norvegia, Finlandia, Svezia, a estirpare terre, a sradicare tradizioni. Non a caso, intorno a quella data, nel 1913, attracca Ædnan, il poema epico di Linnea Axelsson, poetessa svedese di origine Sami. Edito nel 2018, Ædnan – che in Sami significa “terra”, “luogo natio” quando non “madre, matria” – racconta, in versi, la saga di una famiglia Sami, tra enormità di panorami, apparizioni di morti, vessazioni, dai primi del Novecento al nostro millennio. Il ritmo imposto dalla Axelsson contrasta con il tambureggiare dell’epica tradizionale: i versi sono brevi, a volte brevissimi; si procede per singulti e apocalissi in palmo di mano; c’è molto bianco intorno, tanto che le parole paiono impronte di renna sulla neve, rivoli di una danza antica e perduta, di uomini-pernice, di uomini-gufo. Un esempio: “Mi addentrai nella palude  dei lamponi gialli – Avanzai finché potei poi mi spogliai sciolsi i nodi dei pantaloni e li riempii di bacche   – Annodai lo scialle con della stoffa e ne feci uno zaino ricolmo di bacche – Una pozza nera si aprì nel muschio l’acqua era fredda meravigliosa per la nuca – Allora spuntò scura nel cielo l’aquila reale l’occhio giallo e nero – Nell’occhio giallo il mondo ebbe un altro riflesso – Dischiuse gli artigli e si gettò su Aslat lasciai le bacche e corsi gridando con le braccia alzate – Vidi l’immenso rapace volare via – Tutto era come sempre ma c’era un’ombra” Tradotto in inglese, da Knopf, nel 2024, Ædnan ha avuto un impatto importante: il libro, tra l’altro, è stato finalista al National Book Award for Translated Literature. Di questo “ambizioso romanzo in versi”, an Arctic epic from Sweden, ha detto il “Guardian”, toccando il punto centrale del testo: “in ogni pagina, distese di spazio bianco, a memoria di una narrazione fatta di assenze, fratture, silenzi, oblio e mutilazione”. Una porzione di Ædnan è stata tradotta da Maria Cristina Lombardi – già traduttrice, tra l’altro, del fenomenale poema epico-cosmico Aniara del Nobel per la letteratura Harry Martinson – nel libro libro collettivo Voci di donne dal Nord, edito da Crocetti (in cui sono sintetizzati, per poesie-totem, i lavori, oltre che di Linnea Axelsson, di Eva Ström e di Ann Jäderlund).  Lei è Linnea Axelsson Ædnan, soprattutto, è il poema di una lingua defunta che risorge rifulgendo (“La lingua sami dormiva/ da tempo nel corpo/ bloccata// dentro/ dalla vergogna…// Come se mai/ noi e i nostri avi/ fossimo esistiti// mai avessimo/ costruito nulla”). Di una lingua dissotterrata, di minime, esigenti tracce nella neve che tornano artigli, il ruggito del profondo Nord. Certo, il poema s’infittisce nella nostalgia: le parole descrivono ma non operano; la danza, non più sciamanica, è sciamannata, dei fasti restano le vestigia, le braci – pigolano gli astri. Su tutto, tuttavia, agisce lo straordinario.  Con l’aiuto della Lombardi, abbiamo contattato Linnea Axelsson, a dare ligneo lignaggio a questa lingua.  Come è nata l’idea di scrivere un poema epico sui Sami? Come ha scelto di strutturare il libro?  Più che un’idea iniziale, sono stati il lavoro e il materiale ad ispirarmi la scrittura di un poema epico sui Sami: la poesia epica è stata una scoperta che poi ho messo in pratica. Credo che un’opera si sviluppi da un’immagine interiore che funge da orientamento verso un certo linguaggio, una data struttura, un mondo che il lettore è chiamato ad immaginarsi. Nel caso di Ædnan, l’immagine, almeno come come la ricordo, era un volto di donna, o meglio, il silenzio nel suo volto. Fu lei che durante la stesura del testo haportato con sé lo spazio (Sápmi, la terra dei Sami), gli eventi e gli altri personaggi. Pian piano l’ampiezza e la natura del materiale – ad esempio, le relazioni interpersonali e lo svolgimento della narrazione nel tempo – iniziarono a suggerirmi che forse il racconto sarebbe stato più adatto alla prosa che alla poesia. Prosa e poesia sono costituite dagli stessi elementi, ma si utilizzano in modi diversi e con enfasi diversa. Non mi pareva giusto scrivere un romanzo, sarebbe stato come assolvere a un compito inesatto. Così, a un certo punto, mi è venuta in mente la tradizione epica, e allora mi sono presa una pausa necessaria. Non nel senso che ho cominciato a leggere i poemi epici antichi; piuttosto, ho iniziato a impostare alcuni principi formali di riferimento. Ho riflettuto a lungo intorno alla tradizione degli joikar sami che sono contemporaneamente canto, tradizione poetica più o meno narrativa, e strumento per ricordare e conservare le memorie. Come è riuscita a trovare il ‘ritmo’ adatto al poema? Intendo dire: nel poema si coagula una lingua arcana, arcaica, ma anche un tono proprio della poesia contemporanea. Mi spieghi il suo processo linguistico.  Trovare il ritmo è stato decisivo ed è parte della forma stessa del poema: versi brevi, scarsità di parole, silenzio. Questo mi ha ispirato un sensazione di ampiezza e di movimento, nello spazio e nel tempo, che tenesse insieme e caratterizzasse la narrazione. Ci è voluto molto a trovare il giusto ritmo: in qualche modo, è scaturito durante la scrittura. Altre volte mi è accaduto di sentire un ritmo senza nessuna parola, che solo dopo è divenuto poesia, ma non è il caso di quest’opera.    Il ritmo è anche legato alla respirazione e allo svolgimento, nel senso che nasce quando una poesia si muove tra qualcosa di quotidiano, che senti sulla pelle, e qualcosa di cosmico, di esistenziale. Produce suono e realismo. Lo stesso svolgimento si rispecchia nella parola: un termine della sfera quotidiana o comunque della contemporaneità si incontra con una parola più solenne, più carica di connotazioni o più antica, riuscendo nella poesia a essere avvertito come semplice e naturale al pari della parola quotidiana. Per molto tempo – oggi non è più così – sono stata attratta dall’arcaismo facile, sia perché amo le profondità e le diverse fasi della lingua, sia perché quello che devo costruire non è documentato, ma vive nella narrazione orale, nelle fiabe, nel mito. In Ædnan ho cercato anche di cogliere un certo suono che credo fosse tra i Sami nell’ambiente in cui sono cresciuta quando si parlava di cose come lo stato e gli svedesi, o come quando si raccontavano aneddoti. Quali sono le fonti di cui si è nutrita? In Italia è abbastanza noto il resoconto di Johan Turi, ma per il resto il popolo dei Sami appare tra le brume della leggenda. Quali sono i miti miliari, decisivi dei Sami? Uso tutto quello che posso: ricordi, cose che ho sentito e ho visto, che ho letto. Più importante di tutto è l’immaginazione, lo spazio per la capacità di rappresentazione che dobbiamo conservare in noi stessi. Non faccio ricerca nel senso giornalistico ma, al contrario, evito di leggere proprio di ciò su cui scrivo. Detto questo, sono sempre stata interessata e ho letto tanto sulla storia e sulla mitologia dei Sami, ma la grande fonte, quando si tratta di questa storia, è fatta di esperienza, cultura e narrazione orale, dunque, dalle conoscenze che si tramandano in famiglia, tra parenti e amici. Molte culture, come quella sami, si scontrano con due fattori essenziali: la propria storia scritta, quando non sia stata resa del tutto invisibile e assimilata, è stata comunque a lungo formulata da qualcun altro, e che ciò che si conserva ci si aspetta sia autentico. Nella mitologia sami ci sono divinità e miti della creazione. In realtà, non so quanto delle fonti scritte sia influenzato e concepito dai colonizzatori che per primi l’hanno scritta e tramandata. Ho riflettuto a lungo e non so se i termini dèi e dèe funzionino veramente. Ad esempio, Sáráhkka[1], non è piuttosto una forza che non una dèa nel senso occidentale del termine? Forza generatrice e maternità sono presenti anche nelle acque di un lago.  Mi sembra che il suo poema epico abbia altresì un ruolo ‘politico’. Quali reazioni ha risvegliato il libro dopo la pubblicazione? Quando Ædnan è uscito in Svezia, credo abbia contribuito ad aprire gli occhi ai lettori svedesi sulla loro storia e sulla situazione coloniale del paese: che la Svezia non è mai stata un paese con un solo popolo. Tra i lettori Sami, se parliamo da un punto di vista storico e politico-sociale, le reazioni sono state ovviamente di altro tipo: riguardando soprattutto aspetti come rappresentazione, riconoscimento, ecc. Io sono un po’ indecisa se considerare il poema politico oppure no. Credo che tutto quel che scrivo abbia in sé un piano politico. Ma sono assolutamente convinta che le eventuali verità sulla nostra vita si possano scoprire solo attraverso l’immaginazione, liberandosi da ogni dovere e impegno, e che qualsiasi riflessione su temi e aspetti politici emerga molto tardi nella stesura di un’opera, se non addirittura mai. Quali sono le letture che la hanno formata, i poeti che può appellare a maestri? Sono molti e diversissimi tra loro. Nils Aslak Valkeapää, Birgitta Trotzig, Robert Musil, Elizabeth Bishop, Ingeborg Bachmann. Mi piace moltissimo leggere testi teatrali: Harold Pinter, Lars Norén, Brian Friel. Qualche volta leggere è quasi come andare dal medico: è qualcosa di molto preciso quello che mi prescrivo.  Oggi, nell’era dell’algocrazia, delle guerre continue e dell’intelligenza artificiale, che senso ha la poesia? Che senso ha l’epica? Mi viene voglia di rispondere che il senso della poesia oggi è lo stesso che è sempre stato. La poesia sembra essere qualcosa cui si ricorre in situazioni terribili. Lo vediamo oggi a Gaza: sia i palestinesi a Gaza che uomini e donne in tutto il resto del mondo scrivono poesia che, in modi diversi, nasce dall’attuale genocidio. Lo abbiamo visto nei campi di concentramento del Terzo Reich, dove gli ebrei scrivevano poesie nonostante rischiassero la vita. È un segno del significato della poesia, ma ilsignificato è difficile da determinare. Per me, come lettrice e poeta, ha a che fare con il lavoro linguistico, con la lingua come essere vivente, con l’immaginazione, l’attenzione e la concentrazione. Ha a che fare con il piacere e la realtà. Cioè, con un aspetto della realtà. È come se poesia, letteratura e arte fossero un fiume che scorre accanto alla vita, dalla stessa sorgente. Sono legate e si rispecchiano a vicenda, ma la letteratura non può essere solo uno specchio, una rielaborazione o un’esplorazione. È costruzione di se stessa. La poesia dovrebbe essere un vortice ben definito, e i vortici portano ossigeno al fiume. Per me, poesia epica non significa che il testo presenti una certa lunghezza, o si espanda in un certo arco temporale o che sia narrativo allo stesso modo di un romanzo. Per me la poesia epica è legata alla memoria e alle storie. Storie che possono conservare il nostro contatto e la conoscenza delle nostre origini, e testimoniare la qualità del nostro rapporto con tutto ciò che vive. (Traduzione di Maria Cristina Lombardi) -------------------------------------------------------------------------------- [1] Dèa dello sciamanesimo, protettrice del parto, venerata nelle regioni abitate dai Sami in Svezia e Novegia. L'articolo “La lingua sami dormiva, bloccata dalla vergogna”. Dialogo con Linnea Axelsson proviene da Pangea.
July 23, 2025 / Pangea
“Benedire tutto, crescere verticali su sé stessi”. Dialogo con Andrea Temporelli
Gliel’ho detto così, brutale, a bruciapelo. Il tuo libro non mi è piaciuto. Sembrava saperlo. Sembra sapere tutto. Sembrava sollevato. Poi ho capito qualcosa – che dirò più tardi.  Con La Repubblica italiana dei poeti – Edizioni Industria & Letteratura, 2025 – Andrea Temporelli tenta di costruire un orizzonte per comprendere la poesia italiana contemporanea. Lo fa consapevole del frainteso, per un bene più grande, a mo’ di lascito. Più che la costruzione di un nuovo canone, mi pare la sua disfatta – qualcosa di simile all’Uranometria di Johann Bayer, dove gli ammassi stellari possono sembrare draghi, pellicani ed eroi omerici fuori tempo, oppure meri emblemi del nostro disorientamento. In sostanza, Temporelli passa in rassegna oltre seicento poeti. Neppure troppi, se si pensa che Pier Vincenzo Mengaldo, nel ’78, ne ha riferiti, a rappresentare i Poeti italiani del Novecento, una cinquantina – non tutti indimenticabili –; un numero che è andato, con lo svolgersi dei decenni, drammaticamente levitando.  La Repubblica italiana dei poeti – io propendo ancora per la “Dittatura dell’unico” – è costruita a contrario rispetto a una comune antologia. Dopo aver impilato i poeti di cui occorre “leggere tutto”, “tutto o quasi”, “tutto o quel che si può” (il che è tutto risolto a pagina 28), l’autore si impegna – per le successive duecento e passa pagine – a dar conto degli esclusi. Questa porzione del libro s’intitola La cura degli assenti; non è secondario ricordare – a dire della mente simbolica dell’autore, nel senso che tiene assieme tutto – che quello è anche il titolo di una recente poesia di Temporelli (il quale, per buon gusto – anzi, con alta malizia –, non si auto-antologizza), apparsa su un numero di “Poesia” (n.31, Maggio-Giugno 2025). Ne ricalco alcuni lacerti, i più belli: > “La neve invece > prepara il fango, l’usura del gelo, il silenzio > ingoiato per fame, vera fame. […] > L’osso scartato dai cani > è la prima idea del mattino”. Nel circuito di queste parole – la neve e la fame, l’osso, il mattino, i cani – si trova forse la chiave per comprendere La Repubblica dei poeti.   Smetto di cianciare.  Il lavoro di Temporelli è folle: richiede la mente di Cartesio in un corpo dionisiaco. La danza, selvaggia, pretende, perché la profezia si avveri, di polverizzare tutto: così un figlio s’india nel padre e il padre può smettere di essere padre, ma acqua, mano, neve.  La Repubblica italiana dei poeti, attaccavo, è un libro che non mi piace. Ovvio: la vertigine dei nomi – legionedirebbe l’evangelista – fa svenire, fa venir voglia di consacrarsi ad altro. Ma sarebbe sbagliato perché ogni singola vita – insegna l’autore o la sua ombra – va benedetta. Non mi piace, dicevo, perché ho avuto il privilegio di scorrazzare nella savana di “Atelier”, la rivista ideata da Marco Merlin – l’altro lato di Andrea Temporelli, il suo idolo – trent’anni fa e da lui diretta fino al 2013. A quell’epoca – di cui potete leggere tutto –, era già tutto chiaro, con furia lungimirante, ad alto grado di ebbrezza: la fine dei ‘maestri’, l’implosione di ogni ordine di autorevolezza (ergo: pubblicare per ‘Lo Specchio’ Mondadori equivale a stampare per l’editore-artigiano sotto casa), la latitanza da ogni orizzonte di gloria, il brigantaggio del linguaggio, la critica spettrale, atta a certificare la lebbra, la morte-in-vita. Alla letteratura, appunto – con le sue stole, le moine, i premi, il delirio patologico dell’egotismo – preferimmo la vita. Per intenderci, così scriveva Marco Merlin nell’editoriale di “Atelier” del marzo 2004: > “La nostra parte ci è chiara. Quello che spetta a noi è stare, verticali, > dentro il nostro respiro, smemorati del nostro nome, aperti a tutto, senza > privilegio alcuno da difendere. Ma anche senza la paura di testimoniare le > passioni che ci animano e di soffiare sull’orizzonte, per vedere se qualche > zolla comincia a bruciare”.  Ho conosciuto Marco Merlin attorno a un editoriale dal titolo che ancora brucia, “Militare più che militante”. Era il 2001. Quegli editoriali (dai titoli-emblema: “Siamo poeti o giullari?”; “Fine del Novecento”; “Lo scisma della poesia”; “La poesia è una marchetta”; “Liberarsi dalla letteratura”), che costituiscono una delle audacie più pure e più folli della poesia recente, sono stati poi raccolti in un libro, Smarcamenti, affondi e fughe(Giuliano Ladolfi Editore, 2016). L’autore di quel libro risulta essere Andrea Temporelli – in realtà è Marco Merlin. Andrea Temporelli – che ho chiamato al dialogo – ha inglobato e divorato Marco Merlin, maestro di cui sono ormai orfano.  Ricalco alcune frasi – come sempre di miliare potenza, che istigano a un compito – con cui Temporelli chiude La Repubblica dei poeti. “La competizione, semmai, è crescere verticali su sé stessi per raccogliere più luce”; “Riconosciamo nel dissenso e nella diversità di vedute l’unica opportunità sensata e interessante per superare la palude contemporanea. Il nemico leale sarà il vero maestro, la pietra per saggiare e rafforzare il talento”.   Ora ho capito – dicevo al principio. La ridda di nomi serve per disfarsene – per disfarsi, soprattutto, del proprio sguardo ‘critico’, del proprio io. Un ritornare puri dopo la puritana guerra. Sporchi, luridi – ma vivi. Andrea Temporelli ha scelto il deserto – che lo dica bosco è lo stesso. Lo chiamerò Ismaele. Il figlio di Abramo “abitò nel deserto e divenne un arciere” (Gn 21, 20). Arciere in ebraico si dice qashshath, parola che viene usata soltanto una volta in tutto il Testo, per onorare Ismaele. Il figlio sinistro ha destrezza nell’arco, non si fa addestrare dalla trafila del Patto. Alla Terra Promessa preferisce il Nessundove dei rettili e dei cavalli rudi, dal pelo ispido, le dune e le tende al giardino del tempio. Mi viene in mente il bel libro di Octavio Paz, L’arco e la lira – ma lì si parlava di Apollo. Chissà se il dardo sibila in endecasillabi prima di avverarsi nella preda. Parole, parole.  Immagino Temporelli, di spalle, l’arco a tracolla – ed è tutto.   Andrea Temporelli: che fine ha fatto Marco Merlin? Finalmente si è tolto dalle scatole. Me lo sono divorato e sbocconcellato fino all’ultimo brandello e ora, dopo una bella dieta dimagrante, posso scattare senza ingombri oltre il suo territorio limitato. Averlo fatto fuori, mi permetterà di scrivere, disinibito, lasciando ad altri la teoria e il lavoro critico. Temo solo che qualcuno voglia fare pagare a me i suoi debiti. Ma, si sappia, non ci penso nemmeno. Mi chiedo, divertito, quanto tempo gli altri ci metteranno a capire che non c’è più. Che rapporto c’è tra “L’opera comune” e “La Repubblica italiana dei poeti”? Idealmente, sono due meravigliosi fallimenti concentrici. Il primo, entro il raggio ristretto dell’amicizia; il secondo, con un raggio quasi illimitato che rilancia in una dimensione politica la medesima utopia. Che rapporto c’è, nel tuo ‘metodo’ poetico – dunque, esistenziale – tra il deserto che ti sei scavato e la massa di poeti – una schiera, una falange, una squadriglia – che hai scovato? Non lo so. Era una domanda da porre a quell’altro, che non c’è più. Io non possiedo il metodo, semmai ne sono posseduto e solo dall’esterno qualcuno potrà descriverlo. Per me la massa è il deserto. I maestri sono scimmie ammaestrate che desiderano portaborse, l’autorevolezza editoriale è defunta da un pezzo, gli editori ‘di peso’ equivalgono ai pesi piuma. In questo spazio – che dura da più di un ventennio – di libertà assoluta, che senso ha rifondare un canone, perimetrare un ‘orizzonte’? Tutta la vicenda umana consiste nell’innalzare castelli di ghiaccio nel deserto! Lo si fa per obbedienza a un senso di bellezza, alla bellezza di un senso che ci sfugge. Detto questo, tu lo sai bene e lo hai spiegato: si fa l’appello per lo sterminio della vanità, per attraversare il fuoco dell’opera (nostra, altrui, comune) che ci travalica, che diventa dono. Di maestri non ne ho più bisogno, ormai. Ma non fraintendermi: preferirei averne ancora desiderio, significherebbe essere ancora giovani e aperti a molteplici sviluppi. Alla mia età, però, sarebbe patologico insistere a cercare “padri”. Quelli che si sono presentati come tali, erano padrini incapaci di riconoscere e difendere la profezia degli eventuali figli e, dunque, non c’è stato reciproco riconoscimento. Hanno preferito, come indichi nella domanda, la gratificazione immediata del rispecchiamento. Si sono bruciati da soli, in tal senso. E sono fiducioso: la loro eredità, per fortuna, andrà perduta. La loro autoconsacrazione nel canone non ha fondamento. Io, con questo libro, rimetto idealmente tutto in discussione. I conti con la tradizione, vivaddio, sono sempre aperti, e lo sguardo determinante è quello dei posteri, degli alieni che equivocheranno, rimedieranno, rimuoveranno secondo la loro logica, non secondo quella di chi li ha preceduti. Lui è Andrea Temporelli o Marco Merlin? Nella tua “Repubblica” pare che la quantità abbia soppiantato la qualità. Mentre il secolo scorso si può riassumere entro una piramide di nomi e di dicotomie (Pascoli/D’Annunzio; Ungaretti/Montale/Svevo; Luzi/Zanzotto/Sereni/Caproni etc., con singolarità satellitari – es. Campana, Sbarbaro, Rosselli, Bertolucci, Pasolini, Pozzi…) l’oggi è l’assembramento di centinaia. Il poeta è detronizzato dallo storicismo, dall’orizzontalità dilagante, da una analfabeta alfabetizzazione? Cosa?  Siamo passati dall’umanesimo aristocratico, con i suoi pregi e difetti, alla democratura dell’individualismo capitalistico. Ma la rete si sta formando: i nodi strategici si rafforzeranno, le cricche saranno poste ai margini, la coscienza generale lascerà emergere le nuove strutture, e anche la matassa ora apparentemente indistricabile in cui ognuno pare avere il diritto di autorealizzarsi (in qualsiasi pratica sociale o forma d’arte) avrà una sua figura riconoscibile. Manca qualcuno, nel mio catalogo? Indubbiamente. Tu aggiungeresti, mi hai detto, Ivano Fermini, io Sonia Gentili e, forse, Ugo Magnanti e Domenico Segna; ma anche qualche decina di nomi ulteriori non smuoverebbe la massa critica di oltre seicento autori (selezionati!). Per questo la fotografia del panorama resta complessivamente credibile e, adesso che il perimetro è ragionevolmente chiuso, si potrà anche eleggere i pochi che veramente svettano – spiegando perché, rendendo ragione, insomma, di tutti gli altri. Questo è l’intento del libro. Se poi si vorrà ammettere che non svetta nessuno, che abbiamo tante colline e che in generale la produzione poetica è buona (una visione ottimistica e inclusiva), sia pure. Saremo un’epoca di produzione di massa da cui prendere, di volta in volta, esempi a capriccio. Per quel che riguarda me, invece, arriverei a dire che i poeti che mi interessano e che continuerò a seguire sono pochissimi. Due mani per contarli basteranno. Che rapporto c’è, cioè, tra il singolare talento di un poeta e la ‘comunità’ dei poeti? Vedo che fatichi anche tu a ricordarti che Marco Merlin non c’è più. È una domanda a cui lui avrebbe saputo rispondere. Non a caso, la Repubblica italiana dei poeti non è un suo libro, perché non ha metodo e uniformità di sguardo critico. È il bolo fermentante, il rigurgito con cui ho digerito ciò che lui avrebbe voluto apparecchiare con perizia tecnica. Perdonerai l’immagine infelice, che però coglie nel segno. Che differenza c’è, cioè, tra generosità ed ecumenismo, tra dottrina e indottrinamento? Non lo so. Umanamente e intellettualmente, mi addestro alla generosità, con risultati alterni. L’ecumenismo e l’indottrinamento spettano a chi ha qualche idea da imporre agli altri. Magari qualche poetica. Io invece non ne ho. Non a caso, nel libro non escludo nessuna ipotesi di poesia, nessun orientamento specifico. In un recente incontro, hai usato la parola ‘benedire’. Spiegami: cosa significa nel contesto della tua ricerca? Benedire significa dire bene. Pronunciare un nome in modo che il chiamato si senta compreso, rispettato, amato. Significa riconoscere l’alterità. Anche quando si convoca l’altro per una responsabilità, per chiedere di rispondere a qualcosa che ha che fare con la relazione. Occorre benedire ogni poeta, e benedire ogni epoca. Anche la propria, che è sempre così facile da disprezzare. La poesia all’epoca dell’Intelligenza Artificiale: che senso ha? Che poeta verrà? Non lo so. Ma sono molto curioso. Penso che mi troverò a mio agio nella strategia della continua evoluzione di pensiero e di stile. L’IA è il terreno in cui coltivare la Maniera. L’arte sopravvivrà in forme più selvatiche. L’errore, l’imperfezione, lo scatto qualitativo imprevisto rispetto al sistema saranno le stimmate della verità poetica. E l’errore evolutivo, lo scarto, ogni forma di smarcamento hanno a che fare con l’emozione, che resta supporto dell’intelligenza umana, come ha dimostrato Damasio.  Ma chissà, staremo a vedere. Mi pare che la poesia abbia perso premura di profezia, è così orientata al tempo presente da perderlo di vista. Sbaglio, sono un qualunquista? Ciò che è davvero presente, pre-sente. Ma molti poeti, hai ragione, non sono presenti a sé stessi, perché si fissano nello specchio, anziché guardare la scena in cui sono essi stessi inseriti. Forse, la fotografia dell’oggidì scattata in questa Repubblica italiana dei poeti fornirà a qualcuno la scossa per risvegliarsi dall’incantamento. E ora… cosa scrivi? Ho una raccolta di poesie quasi pronta; si intitola Luz. Ho in gestazione un poema, per ora informe. Queste le sento come due opere urgenti, che vorrei licenziare quanto prima, per determinare un punto di non ritorno. Ma sto concependo anche un romanzo fantasy, o forse più propriamente epico, che potrebbe anche abortire e ho un semenzaio di appunti su quaderni e diari piuttosto vasto. Ho il presentimento di un flusso poetico che vuole emergere in modo continuativo con una sua particolare struttura, insieme mossa e determinata. Mi tenta, per tutte queste avventure, l’ipotesi di dedicarmici in una condizione di libertà dalla pubblicazione. Molto di ciò che scriverò, oltre ai prossimi due passi poetici (Luz e il poema), potrebbe restare inedito per scelta. Non so. Non vorrei che fosse il segno di una resa, un alibi rispetto alla “lotta” per difendere ciò in cui si crede. Ma l’idea di attendere i fatidici nove anni prima di rileggersi ed eventualmente proporsi a un editore mi piace, mi dà pace. O magari andare ben oltre i nove anni. Ci pensi anche tu? Scrivere per non pubblicare, ma solo per dedicarsi all’opera. Che vertigine di libertà! *In copertina: Leonardo da Vinci, Studio per la testa di un guerriero, 1504 ca. L'articolo “Benedire tutto, crescere verticali su sé stessi”. Dialogo con Andrea Temporelli proviene da Pangea.
July 5, 2025 / Pangea
“Nell’incandescenza delle cose sentite fino in fondo”. La letteratura per l’infanzia apre voragini. Dialogo con Arianna Giorgia Bonazzi
Entro in una libreria, siccome è per bambini è come se gli adulti s’inventassero per sé un cartello all’ingresso che li esclude. Scelgo Il segreto delle cose di Maria José Ferrada e mettendo giù Il borsellino della sirena e altre poesie di Ted Hughes prendo a leggere le prime pagine di Dizionario segreto d’infanzia di Arianna Giorgia Bonazzi. Alla frase “ma adesso, capisco che durante tutta l’infanzia ho coltivato quel che potremmo chiamare un verbario o meglio un sonario” capisco che il libro vuole essere letto tutto, che io, presunto lettore di letteratura-adulta, sto facendo esperienza della nuova frontiera di quello che in un volume della Carrocci Emy Beseghi e Giorgia Grilli chiamano letteratura-invisibile. Il Dizionario è una storia d’amore per il linguaggio. Un cripto-romanzo di grande consapevolezza linguistica. Un’avventura carrolliana dove ogni parola è uno specchio e l’infanzia è il Bianconiglio di sé stessa. Per dirlo con Antonio Moresco, è il canto delle parole. Quanto grandi bisogna essere diventati grandi per poter accogliere dentro di sé il proprio essere stati piccoli, senza alterare il racconto dell’infanzia per puntellare la nostra vita adulta? Ho chiesto ad Arianna Giorgia Bonazzi di parlare di questo e altro, e lei ha risposto. (a.c.) Da Dizionario segreto d’infanzia: “In principio era il verbo, e il verbo era presso Dio, e il verbo ero io.” La bambina protagonista del libro si fa l’idea di essere lei a creare il mondo, battezzandolo. Il libro, di per sé, vuole segnare il confine tra il linguaggio come strumento espressivo e il linguaggio come imbrigliatura in automatismi di pensiero. Nei primi anni di vita siamo noi a inventare il linguaggio, liberi di associare alle parole travisate, storpiate o sentite male i significanti che secondo noi più si addicono ai loro suoni. Poi cresciamo, socializziamo, c’è la scuola, il lavoro, la televisione, i social, ed è il linguaggio del cervello di massa a parlarci, a irrigidirci nei codici che ci avvicinano alla comunicazione standard e ci portano lontani da noi stessi.  Sulla soglia di Dizionario segreto d’infanzia troviamo Natalia Ginzburg a pronunciare la parola poesia.  L’epigrafe tratta da Vita immaginaria è stata aggiunta alla fine. Mi sono imbattuta nel libro della Ginzburg a Dizionario già scritto:  “Molte sono le parole che sentiamo di dover pensare nel loro vero significato, scrostandone ogni volta le vernici di falsità che le hanno coperte; e una di queste è la parola poesia.”  Sono stata in dubbio se riportare o meno l’ultima parte della citazione. Troppo esplicita. L’accesso alla letteratura, deve avvenire per vie traverse. Nel libro la parola poesia non ricorre, mentre abbondano parole quasi sgradevoli: dialettali, ispide, ruvide. Alla poesia si arriva per dei budelli segreti.  Astrakan, sgrisoli, sencillo, ternoriposo tra tomba e tombola, torsolo tra orso e toro. Come collani le parole di cui fai dizionario? Dal verbo collanare: “la collana era una macchina da scrivere.” L’idea del libro nasce dall’incontro con Giovanna Zoboli editrice di Topipittori. Zoboli, conoscendo Les adieux, il mio esordio pubblicato da Fandango libri nel 2007, mi propose di entrare a far parte della loro collana sulla nascita degli immaginari artistici nei primi anni d’infanzia. La mia prima risposta fu: io non ho un immaginario! Ho sempre fantasticato tramite le parole, i loro suoni. Così ho accettato senza sapere come avrei fatto. Zoboli mi ha poi fatto notare che il libro in realtà è zeppo di immagini perché ogni parola fa sorgere una serie di visioni. Ci aveva visto bene prima di me. Una volta deciso il formato del dizionario, le parole sono venute da sé, per associazioni istintive. Volendo, si possono suddividere i lemmi per aree tematiche: ci sono le parole delle filastrocche, le toponomastiche, le capite-male, le onomatopee. A scavo avviato il processo è diventato sorgivo, e tutt’oggi continuano a venirmi in mente altre parole che chiedono un loro spazio nel Dizionario. I dizionari si sa non stanno mai fermi. Il libro indica due rischi del linguaggio: deve esserci consapevolezza della distinzione tra tTempo vero/lingua vera e tempo falso/lingua standard , ma ci si deve pure guardare dal non “ricadere nelle lusinghe di un individualismo di maniera.” Esiste un punto d’equilibrio? È la letteratura il luogo dell’armistizio tra il linguaggio intersoggettivo necessario a una vita comunitaria e il linguaggio personale necessario a una vita onesta con sé stessi. Rachel Cusk in un saggio contenuto in Coventry spiega che il motivo della diffusione dell’insegnamento della scrittura creativa è da ricercarsi nel bisogno di un linguaggio più onesto: scrivere è il recupero di un “sé” più vero all’interno di un mondo dove ci si sente alienati.  Tra il favoleggiato e il biografico nel Dizionario traspare la storia di un idillio con le parole che è stato consentito dall’essere stati risparmiati a una “una precoce socializzazione”. È un lieto fine o una fine dovuta quello della protagonista che dice “finalmente a scuola dopo anni di isolamento, la mia gorgogliante parlantina cominciò a irrigidirsi nelle statue ghiacciate dei cioè e dei praticamente”? Sembra un finale alla Collodi, dove non si sa se essere felici o no per Pinocchio, o alla Carroll. Per dirlo dalla prefazione di Busi a Alice nel paese delle meraviglie: “la disgrazia più irrimediabile della vita: non essere mai adulti e poi, improvvisamente, non essere più bambini”. Non idealizzo l’infanzia come tempo mitico dove tutti siamo felici e buoni. C’è anche tanta crudeltà nell’infanzia e la protagonista del Dizionario la lascia trasparire attraverso i suoi pensieri più oscuri. È una bambina un po’ folle ma anche molto matura, con uno sguardo severo sulle ombre della vita familiare. Allo stesso tempo, la voce adulta che rievoca quella bambina non ha smarrito la propria identità infantile. La salvezza, se ce n’è una, è essere stati bambini un po’ spietati; e diventare adulti con uno sguardo pietoso per l’infanzia.  Allargando il campo. I libri sull’infanzia rientrano in quella che Emy Berseghi e Giorgia Grilli, in un bel saggio Carrocci, definiscono ‘letteratura invisibile”, la letteratura che dà voce a chi non parla, per stare all’etimologia di infanzia, lungo la faglia: “bambini come creature da formare e bambini come creature non ancora deformate”. Ti senti una scrittrice-invisibile? Katherine Rundell in Perché dovresti leggere libri per ragazzi anche se sei vecchio e saggio cita un’intervista a Martin Amis. Gli avevano chiesto se avesse mai pensato di scrivere per bambini e lui aveva risposto: “Forse se avessi un grave danno celebrale lo farei.” Il saggio di Rundell è la replica perfetta allo sguardo altezzoso che esiste verso la letteratura per ragazzi. C’è un pregiudizio simile perfino tra chi i libri per bambini li scrive. Alla domanda: “Hai scritto qualcosa ultimamente?” capita di rispondere “Ah, niente, solo un libro per bambini.” Credo comunque che ci sia sempre stata una grande osmosi tra i miei lavori per bambini e i miei lavori per adulti, al punto che scrivendo mi capita di domandarmi a quale pubblico mi sto rivolgendo davvero. Stabilirlo in modo netto è una questione editoriale e commerciale: i librai devono sapere in quale settore catalogare ogni libro. Se mi sento una scrittrice invisibile? Diciamo che mi piace ibridare, e che le dinamiche editoriali non sempre sorridono a chi non rientra in facili classificazioni. Secondo i saggi contenuti in La letteratura invisibile la domanda delle domande è: “essere stati bambini che cosa significa”? Aver vissuto senza pelle nell’incandescenza delle cose sentite fino in fondo e conservarne intatto il ricordo nelle proprie identità future. Provando magari a guardare sempre tutto come chi è appena arrivato sul pianeta Terra e cerca di capire come vanno le cose. Il Dizionario segreto d’infanzia contiene una bibliografia suggerita. Ginzburg, Batuman, João Guimarães Rosa, Virginia Woolf, Dino Buzzati, Calvino, Magris, Meneghello e altri. Perché Dizionario è anche un’esplicita riflessione sullo scrivere. C’è la Le Guin de I sogni di spiegano da soli, che parla delle disinsegnanti. La letteratura ci può ancora disinsegnare qualcosa? La letteratura non fornisce risposte o consapevolezze ma apre a dubbi e voragini, e la letteratura per l’infanzia deve fare altrettanto, senza rinunciare alla sua ambiguità, non riducendosi a manualetto d’istruzione per le prime volte, a promozione di messaggi educativi di base. I bambini sentono l’impostura dei libri con la missione incorporata. Le storie devono dare la possibilità a ciascun lettore di fare le sue scelte, morali e no. Da Les Adieux: “Crescere è fare le cose dei libri dei proverbi, un vocabolario che li mette in fila.”  Proverbi in Dizionario credo di non averne trovati. Tra il primo libro e questo com’è cambiato, se è cambiato, il tuo essere scrittrice? È una domanda che mi sono posta mettendo mano dopo circa venti anni a questa sorta di Les Adieux “remastered”: non mi ero allontanata più di tanto da quell’inizio o stavo compiendo la chiusura di un cerchio? I temi ritornano ma la consapevolezza è un’altra. Durante questi vent’anni sono diventata altre persone, ho attraversato altre identità. Non avrei potuto proseguire con lo stile sregolato di Les Adieux, così legato alla ventenne universitaria e sperimentale che ero allora. In Dizionario tornano le mie ossessioni espresse però dalla me che sono diventata dopo la conquista dell’età adulta. Continuando a volermi incompleta, plasmabile, reinventabile. Concludiamo con un ultimo tocco di teologia beffarda. Dal Dizionario: “Adulterio – Era sicuramente il peccato di essere adulti.” Come ce lo si perdona? È il passaggio del libro che meglio racchiude tutta la rabbia che il bambino nutre verso il tradimento degli adulti quando non si sente visto, riconosciuto, rispettato in quanto bambino, cittadino di un mondo misterioso e delicato. Non ce lo si perdona. antonio coda *In copertina: illustrazione di John Tenniel ad “Alice’s Adventures Under Ground”, 1886 L'articolo “Nell’incandescenza delle cose sentite fino in fondo”. La letteratura per l’infanzia apre voragini. Dialogo con Arianna Giorgia Bonazzi proviene da Pangea.
July 1, 2025 / Pangea