Per qualche tempo abbiamo duellato a colpi di WhatsApp. La discussione,
impennata verso gli impossibili, deragliò quasi subito: gli domandai dell’anima,
dell’eternità, del senso dell’arte, di Dio e dell’addio. Cristiano Godano ha
pubblicato undici album con i Marlene Kuntz e quattro libri: il primo, I
vivi (Rizzoli, 2008) è una raccolta di racconti; l’ultimo, Il suono della
rabbia (il Saggiatore, 2024) è una raccolta di “Pensieri sulla musica e il
mondo”. Nel suo terzo libro, Nuotando nell’aria (La nave di Teseo, 2019), che
sviscera “35 canzoni dei Marlene Kuntz”, Godano racconta di aver scoperto
Vladimir Nabokov, il suo scrittore-idolo, “all’epoca di Catartica”, quell’album
memorabile – “generazionale” come dicono gli studiosi – uscito nel 1994. Godano
compiva ventotto anni, il disco era prodotto dal Consorzio Produttori
Indipendenti di Gianni Maroccolo, Zamboni+Ferretti etc. e io imparavo a giocare
a calcio guardando Roberto Baggio, il Bodhisattva del pallone, evangelizzare i
mondiali americani.
Da lì nasce il nostro incontro. Da Vladimir Nabokov – per me, il conte Vlad
della letteratura occidentale, il sommo vampiro: lo leggi e ti dissangua. Così,
con Godano ci inoltriamo nei meandri di Fuoco pallido, il libro più estremo,
estenuato di Nabokov; entrambi eleggiamo Intransigenze – la raccolta di
corrosive e corroboranti interviste nabokoviane – a libro-totem. Insomma, diamo
dimostrazione che anche WhatsApp, altrimenti umana camera degli orrori, di
sbandierate banalità, può essere qualcosa di non troppo dissimile dal Fedone o
da Macbeth. Entrambi – credo – crediamo che ogni verità vada temprata
distruggendola; che occorra il coraggio di spogliarsi di ogni convinzione. Fare
di sé il vento e il lupo, la pula e il pullulare di ululati.
Credo, piuttosto, che Cristiano Godano sia uno dei rari cantautori italiani –
per un sano senso della sprezzatura e dello snobismo – non inquadrabile in
schemi, non liquidabile in teoremi. Rifugge dai cliché della rockstar; ha in
odio le grige manie degli ‘alternativi’ che – ormai altro da sé – fanno reddito
con la malinconia, con l’epopea della giovinezza trascorsa. Gli album ‘in
solitaria’ – Mi ero perso il cuore, 2020; Stammi accanto, 2025 – dicono di un
artista che non si placa, inappagato, implacabile soprattutto verso se stesso,
che ha imparato la voluttà di non piacere ai più. Chi è cresciuto ascoltando i
Marlene Kuntz nella fetida periferia torinese, nei lividi Novanta – “Mi
piacerebbe sai, sentirti piangere/ anche una lacrima, per pochi attimi” – sa che
la sola speranza è spezzarsi, che la sola vita è precipitare.
Nel libro Nuotando nell’aria, Godano cita Borges e Rimbaud, Keats e Dostoevskij,
scrive per trenta volte la parola “poesia” (molte più volte della parola
“sesso”) e per ventisette volte la parola “poeta”; in venti circostanze appare
Nick Cave, il suo prediletto. A chi gli dà del poeta, però, Godano risponde,
perentorio, che “l’autore di testi per canzoni non è un poeta”, semmai “è
potenzialmente un poeta mancato”. Fine della discussione.
A volte, Godano sembra decorarsi con le pose da doge del nulla: gli piace
ripetere che deriviamo dai vermi e dai pesci, che l’uomo è un incidente di
percorso nell’esistenza terrena, che la vita è spietata, che l’intelligenza è un
sovrappiù di sfiga perché ci obbliga a indugiare sul dolore, che infine l’arte è
niente. Che tutto, in fondo, finirà e nessun dio ci attende a bocca aperta negli
altri mondi. Tutte cose che si sanno, che insaporiscono il discutere di
zuccherine oscurità. In fondo, si ascolta una canzone per liquefarsi in un regno
ulteriore della mente; in fondo, chi scrive una canzone è già al di là di questo
mondo – che si dica salvezza, che si dica disperazione, che importa.
Se ti dico la parola “poesia” cosa ti viene in mente?
La famosa definizione di Paul Valéry sulla poesia (“La poesia è una lunga
esitazione fra il suono e il significato”) mi è sempre piaciuta al punto da
lasciarmene condizionare irrimediabilmente. Ed è ciò che mi sovviene ora a
seguito della tua domanda. So che questo inizio di risposta è connesso alle
specifiche necessità del creatore di versi più che al lettore, e immagino che
solo un lettore molto allenato e consapevole possa avere una tale consapevolezza
raffinata comprendendo la complessità del fare poesia. Dunque il lettore attento
sa che la poesia ha un ritmo e ha un suono, e anche di questo gode leggendo,
mentre il lettore meno strutturato ed esperto basa il suo gradimento
principalmente sulle emozioni di natura sentimentale. Senza voler qua
demonizzare questo tipo di emozioni, penso che si collochino a un livello
inferiore nella scala del giudizio. Io, come lettore, dichiaro la mia non
robusta frequentazione del genere: le leggo principalmente quando sono nel
processo creativo per fare un disco nuovo, poiché in quel caso la contiguità del
mio far versi per canzone con le esigenze del poeta nel suo verseggiare mi aiuta
a connettermi con la specificità di ciò che sto per affrontare.
Penso che si è ottimi lettori di poesia quando si è dotati di immaginazione: a
volte a me sembra di non averne a sufficienza. Detto da un sedicente artista è
grave, lo so.
Nel tuo discutere e nei tuoi pezzi citi, tra i tanti, Borges (adoratissimo da
Mick Jagger, per altro…), Baudelaire, Rimbaud, Gozzano, Montale… Viene fuori una
specie di “Contro-Canone Godano” della letteratura. Proviamo a redigerlo una
volta per tutte? Citami dieci libri che in qualche modo hanno orientato la tua
vita – e perché.
Se la domanda è “i libri che hanno orientato la tua vita” sono spinto a nominare
anche le opere non di finzione che sono state per me importanti. Premettendo che
la più parte delle cose che ho letto è stata da me un po’ dimenticata, sto
guardando in questo momento i miei libri (una parte, per lo meno) per cercare la
risposta adatta; noto che molti di essi mi dicono “sì, mi leggesti tempo
addietro”, e posso nominare: Lolita di Nabokov (letto due
volte), Intransigenze di Nabokov (l’ho letto e riletto più volte), Fuoco
pallido di Nabokov (letto due volte), La cognizione del dolore di Carlo Emilio
Gadda (libro straziante), Fratello cicala di John Updike (una raccolta di
racconti: mi approcciai a lui con questo libro, non certo il suo più famoso:
rimasi incantato dalle qualità estetiche della sua scrittura), due o tre opere
di Shakespeare contenute nello stesso libro dei ‘Meridiani’ (non importa quali:
è la lettura di Shakespeare in sé che mi estasiò), Odile di Raymond Queneau (ero
catturato dalle stranezze dell’Oulipo e dai tentativi di commistione
matematica-letteratura), Scritti sull’artedi Paul Valéry (raccolta di
micro-saggi che influenzarono molto il mio pensiero in costruzione), Sulla
poesia di Eugenio Montale (raccolta di micro-saggi, idem come per Valéry),
alcuni racconti e le poesie di Borges (raccolti anch’essi nei ‘Meridiani’: mi
affascinavano i labirinti di Borges, ma anche le qualità riflessivo-filosofiche
della sua poesia), Nera schiena del tempo di Javier Marías (ricordo che mi
catturò molto: ero immerso in qualche processo creativo per un disco dei
Marlene).
C’è poi – lo abbiamo capito mentre compulsavi il tuo “canone” privato – la
conclamata passione per Nabokov. Da dove nasce e perché è per te fonte di
ispirazione?
La mia passione per lui nasce con la lettura di Lolita e, subito dopo, con
quella di Intransigenze, spassosa e serissima al contempo raccolta di interviste
che rilasciò soprattutto dopo il successo di Lolita. Intransigenze fu un
magnifico regalo che mi fece colei che sarebbe diventata la mamma di mio figlio:
se già Lolita mi aveva appassionato per via di uno stile che recepii
immediatamente e del tutto istintivamente come magnifico, con Intransigenze mi
addentrai nell’abbagliante personalità di Nabokov, innamorandomene. Penso che
Nabokov sia il classico caso di “o lo ami o lo odi”: non tutti amerebbero
sentire uno scrittore sbeffeggiare Dostoevskij o Faulkner o Thomas Mann o
Balzac, per dire… Ammetto di essere affascinato dalla forza tonitruante di certe
opinioni: ci vuole coraggio ad averle, e lui aveva coraggio da vendere. I libri
fondamentali per me, sottolineando che non ho letto Ada (lo temo!) e altri tre o
quattro, sono Lolita, Fuoco pallido, Invito a una decapitazione, Il dono, Parla
ricordo, La vera vita di Sebastian Knight. E Pnin, per ridere tanto.
Il mondo rigurgita di orrori. Un manipolo di vecchi si sta bombardando con una
violenza equiparata alla vile scaltrezza. Che senso ha fare arte, allora? Che
senso ha la ‘bellezza’?
Siamo in un momento esacerbato, e cieco, e sordo: polarizzati e sempre più
incazzati vediamo il bianco o il nero e non siamo più disposti a comprendere le
sfumature, quelle che la tanto vituperata democrazia ci aveva insegnato con la
sua inevitabile pazienza, che non c’è più. L’arte temo possa fare poco. O
perlomeno: a livello individuale può fare tantissimo (io ad esempio spero che
non manchi molto al mio rifugiarmi in essa per fuggire dallo schifo intorno), ma
a livello di possibilità di ergersi a barriera del deragliamento temo di no, che
non possa farcela. Rileggo meglio la tua domanda: “che senso ha fare arte?” Beh,
come minimo può aiutare chi la fa a sganciarsi da questo pessimo mondo: è una
condizione a cui, come ho detto qua sopra, idealmente ambisco. Non so se ci
riuscirò: è un auspicio.
Nel tuo ultimo album, Stammi accanto, intuisco, consapevole o meno, una qualche
ricerca del sacro, un andare verso l’altro, l’oltre. È così? Siamo solo pappa
per vermi? Cosa resta di ciò che abbiamo fatto, vissuto, scritto?
Ci dev’essere qualche contraddizione in me, perché spesso mi si fa notare che
nonostante tutte le mie tiritere pessimiste i miei testi palesano una
spiritualità di qualche tipo, o ricerca del sacro, come dici tu… Forse quando
solletico il mio afflato scateno qualcosa dentro di me che lotta in sottotraccia
per non farsi vessare dal raziocinio: una latenza pronta a farsi viva quando
ritiene utile… O è semplicemente la mia parte più vera, che non sa arrendersi
nonostante tutto alla dialettica stringente della ragione. Non so che dire:
in Stammi accantoc’è una canzone, peraltro la mia preferita, che si chiama Cerco
il nulla, dove mi pare di esprimere un non so che piuttosto lontano dal sacro.
Ho solo 59 anni, tempo per vederci meglio e capirmi meglio ne ho ancora…
*In copertina: Cristiano Godano nel ritratto fotografico di Antonio Viscido
L'articolo “Detto da un sedicente artista è grave…” Il Canone Godano della
letteratura universale proviene da Pangea.
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Il card. José Tolentino de Mendonça (Machico, Madeira, 1965) è prefetto
del Dicastero per la cultura e l’educazione dal 2022. Ha alle spalle una lunga e
riconosciuta attività di scrittore. La sua prima raccolta di poesie, Os Dias
Contados, è uscita nel 1990, lo stesso anno in cui è stato ordinato sacerdote.
Nel 2018 fu invitato da papa Francesco a predicare il ritiro di Quaresima per la
Curia romana e nello stesso anno quelle meditazioni sono state raccolte
in Elogio della sete (Vita e pensiero). Tra i suoi titoli più recenti in lingua
italiana ricordiamo: Una grammatica semplice dell’umano (Vita e Pensiero,
2021), Il papavero e il monaco (Qiqajon 2022), Estranei alla terra, (Crocetti
2023), Amicizia. Un incontro che riempie la vita(Piemme 2023). Il prossimo anno
l’editore Crocetti pubblicherà la sua ultima raccolta di poesie, Il centro della
terra.
Quali sono i suoi primi ricordi da bambino?
La prima parte della mia infanzia è stata africana e se dovessi riassumerla in
una parola, sceglierei la parola “vastità”. I miei primi ricordi riguardano
proprio la consapevolezza di quella vastità, del territorio come del
mare. Abitavo in una casa sulla spiaggia davanti al mare, nella località di
Lobito in Angola: quell’esperienza mi ha segnato profondamente, perché era
un’iniziazione allo stupore. Se penso ai primi anni di vita, da quando ho
coscienza e memoria, è questo lo stupore che poi mi ha sempre accompagnato.
Mi ricordo per esempio la scena dell’arrivo dei pescatori al mattino, dopo una
notte passata in mare, e le donne, le donne nere del popolo, che aspettavano
senza scarpe vicino all’acqua l’arrivo di quel pesce che sarebbe poi stato loro
compito distribuire. Era una scena di grande intensità, era l’immagine di un
mondo puro. Una volta ho letto che Omero usa circa trenta espressioni per
descrivere l’azzurro del mare senza ricorrere al termine “azzurro”. Lo descrive
in tante forme, lo descrive parlando del bianco, parlando delle voci, del sole,
delle navi, della fame umana, della bellezza delle grandi ricerche. Quando
ripenso a quegli anni penso a queste immagini, che il mare era azzurro, io l’ho
visto azzurro, ma l’ho visto azzurro nel bianco, nel verde, nel giallo, nel
marrone, nel nero. E tutto questo mi ha offerto l’inizio di una visione.
Queste suggestioni mi riportano a due poeti come Derek Walcott, al
suo Omeros ambientato ai Caraibi e al premio Nobel Saint John-Perse…
Sono due voci straordinarie per raccontare l’umanità, sono grandi testimoni
dell’umano.
Saint John-Perse in Italia non è molto conosciuto, nonostante il Nobel.
In Portogallo lo abbiamo tradotto di nuovo.
Anche in Italia, è uscita una bellissima versione di Amers a cura di Nicola
Muschitiello per le Edizioni Medhelan.
Mi interessa molto.
José Tolentino è stato creato cardinale nel 2019 da Papa Francesco
Ritorniamo alla sua infanzia, cosa accadde dopo l’esperienza africana?
Dopo i primi anni in Angola, con la decolonizzazione, tornai a Madeira, in
Portogallo, nell’isola “magica” dei miei genitori, di mia nonna che era una
grande raccontatrice di storie. Per me fu interessante passare dalla vastità
dell’Africa al microcosmo dell’isola perché fu un esercizio di
“concentrazione”. Anche se sicuramente non furono anni facili per i miei
genitori, perché in quel cambiamento persero la stabilità che avevano
conquistato, la casa, la vita di prima. Non erano sicuramente anni facili per
loro, ma io vissi l’arrivo nell’isola come un’esperienza nuova. Per esempio, in
Angola conoscevo soltanto due stagioni, l’inverno e l’estate. Lì non ci sono le
stagioni intermedie. E invece arrivato nell’isola ricordo una gita scolastica
per “incontrare l’autunno”, così la professoressa chiamò quell’esperienza.
Ricordo che raccolsi una foglia di un albero e rimasi fermo a guardarla… cercavo
l’autunno… Più tardi sperimentai l’esperienza di Rilke secondo cui il poeta è
una “conseguenza dell’autunno…”.
In Ares abbiamo preparato una biografia di Rilke per il 150° anniversario della
nascita. Quali sono i suoi autori di riferimento?
Per me Rilke è una memoria importante. Tra i miei primi punti di riferimento,
c’è stata la Bibbia, che mi ha sempre incuriosito molto, per la forza, la
bellezza e la densità della parola. In una famiglia cattolica come la nostra la
Bibbia era una compagnia e per anni fu praticamente l’unico libro che vidi nella
stanza dei miei genitori. Ma ci furono altre suggestioni di natura biblica.
All’inizio dell’adolescenza avevo un quaderno, una sorta di diario, dove cercavo
di copiare gli Spirituals afro-americani, non ero interessato tanto alla musica
o alla possibilità di cantare, quanto alla forza della parola. Mi piacevano
anche i Salmi e dopo di essi, piano piano, sono passato alla poesia, alla poesia
moderna e contemporanea. Prima con i poeti portoghesi e devo dire che il
Novecento è un secolo d’oro per la poesia portoghese, perché abbiamo una decina
di nomi assolutamente illuminati.
Quali autori consiglierebbe ai lettori italiani?
Uno non ha bisogno di essere consigliato, perché è già ben conosciuto ed è
Pessoa. Un altro è Herberto Helder, che è stato tradotto anche in Italia. Helder
è un poeta orfico nato nella mia stessa isola, anche se ha vissuto tutta la vita
a Lisbona. La prima poesia che ho scritto aveva come titolo “L’infanzia di
Herberto Helder” perché il mondo che ho trovato leggendo le sue poesie era per
me come uno specchio o una polla d’acqua, emersa dopo aver scavato, dove vedere
riflesso il mio volto.
Un’altra poesia che mi ha dato molto è quella Sophia de Mello Breyner Andresen,
una grande poetessa portoghese che aveva il fascino della Grecia e di tutta la
poesia greca. Nella sua poesia sono molto importanti gli odori, la visione, i
rumori. Penso di aver fatto il primo viaggio in Grecia grazie ai suoi versi.
E poi vorrei ricordare Eugénio de Andrade che è il nostro Quasimodo, la sua
lirica è di grande purezza e trasparenza e allo stesso tempo è come il suono di
un flauto che ha qualcosa di orientale. Infatti, il poeta preferito di Andrade è
Li Bai (Li Po) che è anche uno dei miei poeti preferiti. E mi ha iniziato anche
nell’ascolto a una poesia che viene da più lontano, non soltanto della Grecia o
dal mondo biblico, ma anche di un Oriente lontano dove, inoltre, la poesia
portoghese ha radici forti, penso a Camões o un altro poeta importantissimo
della nostra tradizione come Camilo Pessanha che ha vissuto a Macao e che era
molto stimato da Pessoa.
Quasimodo è poco considerato in Italia adesso e invece è un poeta importante.
È un poeta che ha detto molto e che “ha scritto nell’acqua” perché la sua è una
poesia “liquida”; dopo la “società liquida” di Baumann il termine sembrerebbe
negativo, invece, nella tradizione lirica “liquido” vuol dire vicino alla
musica, ha una dolcezza che non è ingenua, ma che è un tocco sapienziale,
profondo. Alla fine, penso che Quasimodo sia un grande erede di una luce, di un
fulgore che si trova in alcuni poeti latini.
Sulla tomba di Keats è scritto «qui giace uno il cui nome fu scritto
nell’acqua».
Keats è un autore che ha costruito un’opera straordinaria scrivendo le sue
poesie sull’acqua. Mi piace molto il concetto che Keats sviluppa di “capacità
negativa”, concetto che possiamo avvicinare all’esperienza negativa di cui parla
la mistica, e che alla fine è quel ritrovamento fondamentale che viene più dalla
passività di quando ci lasciamo incontrare, ci lasciamo trovare da una verità
più grande di quella che noi potevamo immaginare. È una visione analoga a quella
di san Giovanni della Croce che è uno dei miei riferimenti spirituali, un autore
a cui torno molte volte; so a memoria alcune delle sue poesie e a loro ricorro
come preghiera… lì c’è tutto.
Lei ha pubblicato il suo primo libro di poesia nel 1990 che è anche l’anno della
sua ordinazione sacerdotale, sembra che queste due vocazioni siano state
parallele; quali sono stati i primi segni della chiamata?
I primi segni arrivarono molto presto nella mia vita perché sono entrato nel
seminario minore a 11 anni. Forse a quell’età non si può ancora parlare di una
vocazione matura, ma si può dire che si ha una tensione a quel mondo, a quella
“voce”, a quello speciale rapporto con Dio e con l’esperienza religiosa. Vedevo
che l’esperienza religiosa era concomitante con il processo di coscienza di me
stesso. Era come un’“apparizione” a me stesso. Avere coscienza di noi stessi
significa che siamo una vita, una storia, che abbiamo un nome, un modo di
essere. La religione è sempre stata una chiave della mia vita. Da questo punto
di vista, non fu una sorpresa, sicuramente anche per l’ambiente familiare, il
mondo dove sono cresciuto che era profondamente religioso, ma fu una scelta, un
viaggio, un “nomadismo” al quale mi sentii chiamato molto presto.
Quali sono le sue preghiere preferite?
Vorrei richiamare i miei incontri con Mario Cesarini, il poeta surrealista più
importante del Portogallo, autore di alcune delle più belle poesie del Novecento
portoghese. Era un uomo profondamente credente, ma il suo rapporto con il
cristianesimo era molto conflittuale, aveva però una passione assoluta per
la Salve Regina e quando mi incontrava mi faceva recitare la Salve Regina, una
preghiera che prima recitavo in modo ordinario… ma vedendo la profonda emozione
di quest’uomo senza pratica religiosa nei confronti della Salve Regina, ho
cambiato il mio atteggiamento di fronte a questa preghiera che è diventata
presenza quotidiana nella mia vita. Non solo perché la ripeto ogni giorno ma
perché corrisponde a una sorta di illuminazione, mi piace ripeterla in latino
come l’ho ascoltata da questo poeta. È una preghiera di straordinaria bellezza.
Ho fatto questo esempio per ribadire che i poeti, anche quelli più inaspettati,
sono dei veri maestri spirituali. Un poeta prepara sempre la nostra anima per
una grande esperienza spirituale. Sono le “levatrici” della nostra anima.
Mario Cesarini ha rivelato la Salve Regina a me che ero seminarista… Vorrei poi
ricordare un’altra poetessa, la già citata Sophia de Mello Breyner Andresen,
persona, come dicevo, affascinata dal mondo greco e senz’altro più vicina a
Atene che a Gerusalemme: lei considerava il Magnificat come la poesia più
straordinaria che lei conoscesse. Diceva che le grandi poesie, anche quelle di
Omero sono così, non hanno un autore, è come se fossero sospese nel tempo da
sempre e le possiamo cogliere e fare nostre in un modo molto più radicale di
tutti gli altri testi. Devo dire che il Magnificat è sempre una preghiera che mi
fa tremare di gioia. Perché forse ritrovo quella vastità che mi ha stupito nel
mio primo sguardo al mondo. “Entusiasmo” è una parola che descrive bene
il Magnificat, mi piace l’entusiasmo con cui Maria pronunciò quelle parole. Un
altro mio riferimento per la preghiera è il Cantico dei Cantici, un testo
bellissimo che ho anche tradotto in portoghese.
Del Cantico è uscita una bella edizione di Giuseppe Conte per Il cenacolo delle
Arti, le raffinate edizioni di Lamberto Fabbri.
Mi piacerebbe vederla, io conosco la traduzione di Guido Ceronetti, che è anche
molto interessante. Sono molto interessato a tutto quello che riguarda la
traduzione.
Ceronetti è l’uomo della parola scorticata.
Ma quella ferita che resta dopo la lettura è un dono che rimane.
Il Qoelet di Ceronetti è straordinario…
È straordinario. A me interessa molto la poesia tradotta da poeti, da scrittori,
perché c’è un corpo a corpo con la parola, che ti introduce in un’esperienza
nuova.
Tra i miei salmi preferiti c’è l’87/88 che è forse il più disperato del
Salterio… quasi un viaggio nella terra dei morti…
…Che alla fine è anche il mondo dove abitiamo. In fondo quella disperazione è un
modo di rivelarsi dell’umano nella sua verità più profonda. E questi sentimenti
estremi, sia quelli provocati da una disperazione sia da una grande gioia,
colgono l’umano nel suo stato flagrante. Per questo dobbiamo ascoltare i
disperati e gli entusiasti, tutti e due, dobbiamo in una mano accarezzare il
dolore e nell’altra sostenere la gioia.
Mi ha colpito lo splendido commento del card. Ravasi al Qoelet, quando
suggerisce l’idea che la Sacra Scrittura racconti l’abisso per dire che Dio è
consapevole di quanto profondo possa essere il dolore umano.
E quella è un’umanità vera, senza risposte facili e banali, è un’umanità davanti
al Mistero, alla notte del mondo, all’enigma di sé stesso, al senso non soltanto
penultimo che tante volte sembra esaurire la realtà, ma il senso ultimo, il
“perché”. Il perché alla fine è la nostra “sala parto” perché, quando
affrontiamo il “perché” diamo al verbo nascere un’opportunità di coniugarsi nel
presente.
C’è tanta disperazione tra i giovani e io credo che quella che Benedetto XVI una
volta chiamava via pulchritudinis può essere una via per avvicinarli a un senso
di stupore, alla vita, per non cadere nella disperazione, perché hanno bisogno
di autenticità e di fronte alla bellezza c’è autenticità.
La bellezza cambia la temperatura: è un brivido, una ferita, ci offre, anche se
in un modo limitato, un’esperienza di verità, di assoluto, che allo stesso tempo
appartiene e non appartiene a questo mondo. Nell’arte noi sperimentiamo questo.
Una vicinanza a una perfezione, che tante volte solo un’imperfezione rende
visibile, ma una vicinanza a una perfezione che è come una piccola tremula luce
che ci fa vedere il fondo della strada.
Alessandro Rivali
*L’intervista realizzata da Alessandro Rivali sarà pubblica sul prossimo numero
di “Studi Cattolici”
In copertina: Gaetano Previati, Notturno o Il silenzio, 1908
L'articolo “Un’iniziazione allo stupore”. Dialogo con José Tolentino de Mendonça
proviene da Pangea.
Entrare nella vita di Rilke, cioè: scotennare l’angelo.
C’è qualcosa di sigillato nella vita di Rilke, una vita-tabernacolo. All’uomo
‘di mondo’, capace nella persuasione, circonfuso di nobildonne, retto
nell’ambizione, fa spazio il Rilke delle feroci solitudini, dell’austerità
artica, artigiano di un io irto di pinnacoli, di picchi, di stalattiti. La
natura della volpe e quella dell’aquila. Per certi versi, l’oceano epistolare di
Rilke – specie di bulimia grafica – non aggiunge alcun dettaglio alla vita del
poeta: cancella. A volte la scrittura opera – anche quando è ispirata – per
sparizione. Le lettere – lettere-Muzot, lettere-fortezza – servono a Rilke per
celarsi, per calarsi nell’assalto del sé – per incendiarsi.
Qual è, ad ogni buon conto, l’evento autenticamente capitale nella vita di
Rilke, un poeta che capitalizzava la propria esistenza in versi di distillata
sapienza (versi, diremmo, con gli artigli)? Secondo Franco Rella – il più acuto
interprete di Rilke – l’episodio che “ha cambiato per sempre la vita di Rilke” è
stato, nel 1907, l’incontro con la poesia di Cézanne. Quella fu la vera
“svolta”: come Cézanne è stato “un redentore dalla non-realtà, il nulla in cui
sembra siano destinate a finire le cose”, ora “Rilke stesso vuole essere un
redentore, ein Rettendes scrive” (in: R. M. Rilke, Noi siamo le api
dell’invisibile. Lettere da Muzot, De Piante, 2022, p.115). Poesia che redime,
che riscatta da schiavitù di deterioramento e di morte; poesia che sana il
lebbroso che siamo, con i crismi di san Giuliano Ospitaliere. Il compito che
Rilke si prefigge tramite la poesia, come scrive a Caroline Schenk von
Stauffenberg, è quello di “rendere la morte, che mai è stata un’estranea,
nuovamente conoscibile e tangibile nella sua qualità di tacita complice di ogni
cosa viva”.
Chissà poi se è stato il fatale viaggio in Russia – dove ha conosciuto Lev
Tolstoj e la famiglia Pasternak – o quello in Spagna – dove ha scoperto l’opera
folgorante di El Greco – se è stato l’Egitto, arcano e terribile (visitato tra
il 1910 e il 1911), a ‘segnare’ il poeta; oppure, libero da elementi
‘culturali’, è stato il corpo di Lou, la nascita di Ruth, la vista degli Hôtel
Dieu, a Parigi, ricoveri di resti d’uomo, ospizio dei perduti dove le creature
“vivevano di niente, di polvere, di fuliggine e della sporcizia sulla loro
pelle, vivevano di ciò che i cani perdono di bocca, di un qualche oggetto
insensatamente rotto…”. I luoghi rilkiani – Duino, ad esempio – sono
insensatamente vuoti senza la presenza del poeta, che li ha eletti nell’ambone
suo carisma.
Secondo Leone Traverso, Rilke è tra i rarissimi poeti – insieme a Hölderlin,
Leopardi e Emily Dickinson – a “scavare da tanto silenzio improvvisa la loro
voce”. Sono poeti in grado di “un linguaggio inventato, del tutto intimo,
sciolto da ogni vincolo di costume prettamente umano, per riallacciare il filo
interrotto con le forze segrete del mondo”. Così attacca una delle Ultime
poesie (Fussi, 1946):
> “Come il vento serale alle falci sugli omeri dei mietitori,
> va l’angelo mite sul filo innocente dei dolori”.
Ancora l’angelo, mite e tremendo a un tempo – come Rilke.
Più che altro, più investighiamo la vita di Rilke più è lui a invaderci. Potenza
radicale del poeta-redentore. Così, nelle pagine finali, le più intime,
rivolte Al lettore, Marilena Garis, autrice del potente libro biografico Rainer
Maria Rilke. Luce sull’invisibile (Edizioni Ares, 2025), rivela di essere
ritornata a Rilke, alle Elegie duinesi in particolare, “nel giorno delle esequie
di mia madre”. Nel momento dell’abisso assoluto, il poeta, che non lenisce il
dolore, ma lo trasforma, lo approfondisce fino al fiore. Il poeta è sempre lì:
dove una cosa muore e per eccesso di amore un’altra nasce.
Che senso ha una biografia rilkiana? Intendo dire: fino a che punto la vita di
Rilke – che ci appare tanto elusiva, remota, segreta, così poco ‘mondana’ –
penetra nell’opera?
Nessuna vita penetra nell’opera quanto quella di Rilke giacché la sua vita è
poesia. Rilke si è assunto il compito di farsi “puro e cieco strumento”, pura
eco interiore. La poesia lo ha attraversato, superato, trasceso. Ne ha
travalicato la vita. Nessun’altro poeta, meglio di lui, ha cercato di capire,
spiegare, e portare a compimento l’opera della creazione. E dal giorno in cui
comprese che solo la solitudine poteva avvicinarlo intimamente a quella
creazione, la scelse e l’abbracciò senza più voltarsi indietro, perseguendo la
ricerca di un equilibrio spirituale che fu in ultimo conquistato a caro,
carissimo prezzo (e non solo per sé)…
Nel mio libro sono partita da una pagina del Malte, la più celebre opera in
prosa di Rilke, dove il poeta insiste sul fatto che i versi non nascono dai
sentimenti, ma dalle esperienze. Per un solo verso, scrive, si devono vedere
molte città, uomini e cose. Bisogna avere ricordi di molte notti d’amore,
nessuna uguale all’altra. Bisogna aver udito le grida delle partorienti, essere
stati presso i moribondi, aver vegliato i morti nelle camere ardenti… E anche
avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare e avere la grande pazienza
di aspettare che ritornino. Solo quando i ricordi divengono in noi sangue,
sguardo e gesto, solo allora può darsi che in una rarissima ora ne esca la prima
parola di un verso. L’arte diventa così potente perché nasce dalla vita e
dall’esperienza reale: rintracciare nelle parole di un grande poeta le tracce
del suo destino mi pare essere la chiave di lettura più autentica, l’unica che
possa dare vero accesso alla sua arte, che è appunto “sangue, sguardo,
gesto”. Percorrere i passi di Rilke significa entrare in quell’interminato
pellegrinaggio che fu la sua esistenza. Dalla difficile infanzia con le sue
scuole militari, all’incontro con Lou Andreas-Salomé, musa e guida
intellettuale, al suo brevissimo matrimonio con la scultrice Clara Westhoff,
allieva di Rodin, e all’amore “da lontano” per la sua unica figlia, Ruth, fino
al rifugio creativo nel castello di Duino e nella torre di Muzot, sulle Alpi
svizzere, tutto diventa poesia nel suo sguardo.
Camminando dentro le parole, tra il visibile e l’invisibile, Rilke ci ha
lanciato delle sfide: il suo Weltinnenraum, il suo “spazio interiore di mondo” è
una “sottile striscia di terra tra fiume e roccia”, uno spazio sottilissimo,
eppure infinito. Per addentrarsi in quello spazio interiore, bisogna mettersi in
ascolto, cercare di penetrare il suo segreto, sapendo che è appeso al mistero,
allo stesso filo della fede, potremmo dire.
Qual è l’aspetto della biografia di Rilke che ti ha ‘spiazzato’, quello davvero
inatteso?
Vi sono molte pagine della sua vita che mi hanno “spiazzato”. Molte le
corrispondenze baudelairiane che mi hanno attraversato. Ma, sopra a tutto, oggi
mi preme parlare della sua attitudine ad inchinarsi davanti all’intimità e ai
segreti di ogni essere umano. Edmond Jaloux, amico di Rilke e specialista della
sua opera, ci ha trasmesso una lettera che un giorno ricevette da una donna
sconosciuta, e che oggi voglio consegnare per estratti ai lettori:
> “…Stavamo camminando lungo i cancelli del Lussemburgo… Rilke si era avvicinato
> a me, quel giorno, tenendo in mano una splendida rosa… Su quei cancelli,
> trovavamo, quasi ogni giorno, una vecchia donna seduta, che mendicava con
> discrezione. Non chiedeva nulla e i suoi occhi non si alzavano mai sui
> passanti. Ogni volta le lasciavamo una piccola elemosina… Non avevamo mai
> visto i suoi occhi, né udito il suo ringraziamento… Quel giorno… non aveva
> ancora ricevuto niente. Vidi Rilke inchinarsi davanti a lei, con rispetto, non
> un rispetto formale, ma un rispetto alla Rilke, un rispetto totale, di tutta
> l’anima. Inchinandosi, posò la bella rosa sulle ginocchia della vecchia
> mendica. Ella allora alzò i suoi occhi su di lui, lo guardò e con un gesto
> rapido e perfetto, gli prese la mano, la baciò e se ne andò via a piccoli
> passi – senza più mendicare per quel giorno”.
E vorrei aggiungere: felice della sua grande, insolita, ricchezza.
Credo che questa testimonianza del periodo parigino di Rilke possa illuminarci
su quello che fu il suo sguardo sul mondo e sul profondo rispetto che sempre
portò al prossimo, agli ultimi e alle loro sofferenze. Una particolare
delicatezza nell’ascoltare e nel confortare gli altri, che raggiunge i vertici
nell’epistolario, un’oceanica opera d’arte: il monumentale archivio della Rilke
Gesellschaft conta, ad oggi, circa 13mila lettere. Epistolografo d’eccezione,
nelle lettere il poeta non esita a donarsi completamente e ad abbracciare intime
questioni con acuta chiaroveggenza. Risponde instancabilmente, e con vera
partecipazione, a quanti gli si rivolgono. Non li conosce neppure, eppure si
prodiga per quegli sconosciuti senza risparmiarsi. E lo fa con profonda umanità,
che affascina e consola.
Nel complesso, come possiamo descrivere il ‘carattere’ di Rilke?
Silenzioso, mite, solitario, mistico; quando occorreva, determinato, volitivo,
mondano. Chi lo conobbe non esitò a definirlo un personaggio magico.
> “Nessuno lo sentiva arrivare”, racconta Stefan Zweig, “sedeva in silenzio e in
> ascolto, alzando involontariamente le sopracciglia appena qualcosa sembrava
> interessarlo. Discuteva con la semplice naturalezza con cui una mamma racconta
> una fiaba al suo bambino, con la stessa affettuosa tenerezza”.
Nella conversazione, non gli interessava soffermarsi sui luoghi comuni della
vita quotidiana, entrava subito nei dettagli delle cose più alte, dove i suoi
occhi vedevano tracce e presagi dell’invisibile. Sono tuttavia pochi quelli che
hanno davvero conosciuto la sua vita, il suo mondo interiore, la sua più
recondita officina. Era come avvolto da un ferreo riserbo, circonfuso di un’aura
mistica. Su quell’aura si è soffermato a più riprese Edmond Jaloux, arrivando a
definirlo visionario e medianico.
Temo che Rilke sfugga a chiunque voglia afferrarlo: la sua poesia è “luce
sull’invisibile”, come ho inteso sottotitolare il libro; un “tramite” tra mondi
e regni: visibile e invisibile, vita e morte. Rilke si è spinto nel cuore della
parola per divenire pura eco interiore, per arrivare alla voce dell’angelo, al
regno delle ombre, alla grande unità, alla risonanza del silenzio. Ce l’ha
spiegato bene Marina Cvetaeva quando lo ha definito “una topografia dell’anima”
e ha aggiunto “Rilke è necessario al nostro tempo come un prete sul campo di
battaglia”, una necessità quantomai attuale…
Anomalie: il ‘recluso dell’arte’, in verità, era circondato da amici, mecenati,
nobildonne, svariate amanti… Come conciliare questo paradosso?
Forse non è un paradosso. O meglio: vi sono molte questioni aperte su Rilke. Con
lui bisogna accettare di abitare il mistero e amare le domande “simili a stanze
chiuse a chiave e a libri scritti in una lingua straniera”. Rilke seminava
attorno a sé verità rivelate, talvolta difficilmente decifrabili. Uomini e donne
erano attratti dai suoi modi e dalle sue parole, da quella sua speciale empatia.
Ciò che lo rendeva affascinante era senza dubbio quel singolare incontro tra
terreno e angelico, la sua capacità di vedere oltre la superfice delle cose.
Claire Goll scrive che era impossibile resistergli e in effetti il corteo di
donne che lo accompagnò in vita e non l’abbandonò neppure dopo la morte
(attraverso monografie e libri di ricordi) è vasto: Lou Salomé, la moglie Clara
Westhoff, la principessa Marie von Thurn und Taxis, Magda von Hattingberg, Lou
Albert-Lasard, Baladine Klossowska, Nanny Wunderly-Volkart, Marina Cvetaeva,
Nimet Eloui-Bey…Ogni donna era invero una stella nella “costellazione” della sua
anima e della sua poesia, come cerco di spiegare nel libro, percorrendo i grandi
incontri della sua vita.
Qual è la figura ‘chiave’ che ha agito più di altre nella vita di Rilke?
Lou Salomé fu la persona che più di ogni altra segnò il cammino esistenziale e
artistico di Rilke. Fu per lui un grande amore, e non solo: la grande amica,
amante, musa, confidente, maestra. Di certo, Lou fu (anche) una figura materna
per Rilke, permise la sua vera rinascita, la rottura rispetto all’ambiente
provinciale praghese, ai sentimentalismi e alla devozione esasperata di sua
madre Phia. Dopo l’incontro con Lou, la sua nuova vita fu segnata dal
cambiamento del nome di nascita René nel più sobrio e virile Rainer, che reca
un’impronta germanica e richiama la purezza (Reinheit). Lou gli offrì materiali
filosofici ed estetici, lo iniziò alla lettura di Nietzsche (che rimarrà sempre
un riferimento ineliminabile nel pensiero rilkiano), lo mise al passo con
l’intellighenzia europea. Fondamentali i due viaggi che Rilke fece con Lou in
Russia. Qui ebbe inizio la sua vera opera, la sua ricerca di assoluto e
spiritualità, di cui alle Storie del buon Dio e al Libro d’ore e oltre, fino
alle Elegie
Duinesi. Il loro legame durò per tutta la vita, come testimonia il
loro Epistolario 1897-1926, uno scambio durato quasi trent’anni, di circa
duecento lettere, dal primo incontro del 12 maggio 1897 all’ultima lettera del
13 dicembre 1926, anno della morte di Rilke, e ancora oltre, se si considerano
le memorie di Lou e il libro Rainer Maria Rilke. Un incontro, che lei gli dedicò
dopo la sua morte. La loro corrispondenza avvicina in modo profondo alla vita e
all’opera di Rilke e consente di accedere all’intimità più autentica del suo
destino esistenziale e poetico: Rilke vi esprime le sue incertezze, le sue
difficoltà; Lou, che aveva intrapreso lo studio della psicanalisi con Sigmund
Freud, riesce ogni volta a “curare” le sue ferite, riportando le misteriose vie
dell’arte nel percorso della vita.
Come è possibile amare nell’abbandono, senza ‘consumare’ l’amore?
Nei Quaderni di Malte Laurids Brigge, Rilke scrive che “Amare è: illuminare con
olio inesauribile. Divenire amati è passare. Amare è durare.” Si tratta di una
nota in margine al manoscritto, che si conclude con la celebre parabola del
figliol prodigo. Qui, Rilke ribalta completamente la parabola evangelica per
affrontare il tema del “grande compito dell’amore”, un amore che nulla chiede in
cambio e si espande all’infinito; un amore slegato dalle maglie del possesso e
inteso come direzione, come forma di libertà.
Nella concezione rilkiana dell’amore senza possesso (besitzlose Liebe, anche
identificato come “amore intransitivo” dalla critica), questa è l’unica forma
d’amore che non “consuma” il suo oggetto. Si tratta dell’amore cantato dai
trovatori medievali “che nulla temevano più dell’essere esauditi” e soprattutto
delle celebri “amanti colme di forza”, a più riprese evocate nel Malte. Per
qualche tempo Rilke accarezzò l’idea – poi accantonata anche se continuamente
ripresa nell’opera e nell’epistolario – di scrivere un libro sui profili
biografici delle grandi amanti capaci di quell’amore assoluto: Saffo, Eloisa,
Gaspara Stampa, Louise Labé, Bettina von Arnim, Eleonora Duse, Mariana
Alcoforado e altre figure di donne che, nella solitudine, compirono la suprema
metamorfosi, elevandosi da un amore ristretto (ad un determinato oggetto) verso
la pura contemplazione dell’amore. Poco tempo prima di morire, Rilke confidò a
Edmond Jaloux di aver scritto il Malte “per delucidare il proprio pensiero e
vedere limpido dentro se stesso”. Il Malte è un punto limite nella sua vicenda
creativa (dopo la sua conclusione, nel 1910, comincia infatti un lungo tempus
tacendi che durerà oltre un decennio), e la sua estrema voce è quella del
figliol prodigo, colui che si prefisse di “non amare mai, per non porre nessuno
nella situazione terribile di essere amato”.
La questione è complessa e va trattata con molta cautela, distinguendo i piani
Malte/Rilke. Bisogna ricordare che iQuaderni nascono quando la prima –
fondamentale – esperienza parigina si è da poco conclusa: nell’immensa
solitudine di una città allucinata, il poeta sperimenta la miseria, l’angoscia e
il male di vivere. Dopo la rottura con Lou Salomé, Rilke si è sposato con la
scultrice Clara Westhoff, è diventato padre di una bambina, Ruth; si è
trasferito a Parigi per lavorare alla monografia di Auguste Rodin. Nel frattempo
ha completato l’ultima parte del Libro d’ore e del Libro delle immagini,
le Nuove Poesie e il Malte. Una mole impotente di lavoro. Ma a Parigi tramonta
definitivamente il tentativo di una vita familiare e si profila un lungo cammino
di stenti fondato sull’arte, una dolorosa contraddizione che lo strappava dalla
sua famiglia e dalla sua casa, dove non riusciva a stare, e lo straziava, lo
costringeva alla solitudine.
Perché l’idea di essere amato provoca in lui angoscia? Forse è un problema che
affonda le sue radici nell’infanzia, nel complesso rapporto con la madre. Forse
nel trauma della scuola militare scelta dal padre. Rilke è persona generosa, sa
donare se stesso, tutti quelli che lo hanno conosciuto lo confermano. E se non
bastasse, sarebbe sufficiente rivolgersi all’epistolario, alle sue lettere
prodighe di attenzioni, consigli e consolazione per il prossimo. Lettere
infinite… Ma non riesce ad abbandonarsi, ad essere amato; nel ritmo di donare e
ricevere non riesce a mettere radici, nemmeno con sua figlia. Forse questo è il
destino di chi sente il fardello – e l’ebbrezza – di una missione per tutta la
vita. Nel suo caso, una missione da poeta, quale puro e cieco strumento di un
verbo assoluto; ma anche come uomo che, prima del verso, deve farsi sangue,
sguardo, gesto. Come ho voluto ricordare nell’episodio della rosa alla mendica,
la poesia nasce quando il gesto si è consumato, mentre la vita scorre, nel ritmo
alternato del movimento e della permanenza. In questo, Rilke ha avuto per tutta
la vita una necessità soprannaturale di ‘affrettarsi’ al capitolo successivo
della sua trasformazione-metamorfosi (concetto chiave nell’opera), senza potersi
fermare, né “adagiare” mai, su ciò che era già stato fatto, detto, consumato.
Rilke sa scrivere come pochi altri verità fondamentali sugli uomini e sulla
vita, ma non riesce a vivere e amare nel reale. L’amore quotidiano, quello della
“vita dei giorni”, e a maggior ragione quello in seno a una famiglia, richiede
una costante permanenza, un eterno indugiare sui capitoli da scrivere, leggere,
rileggere e correggere infinitamente, con abnegazione e resilienza nella
ripetizione dell’amore e dell’attenzione per l’altro, e questo è difficile, se
non impossibile, per chi, come Rilke, abbraccia una vita fondata sul movimento
perenne dell’essere. In tutta la sua complessità, la questione rimane aperta e
il lettore potrà attraversarla in vari punti del mio libro, sia sotto il profilo
esegetico dell’opera, sia sotto quello biografico.
Cosa significa, in fondo, un libro all’apparenza così sigillato come “Elegie
duinesi”?
Il mio incontro con le Elegie duinesi è stata una rivelazione sulla via di
Damasco. Lo spiego al lettore nelle ultime pagine del mio libro. Le Elegie sono
un compendio-talismano da tenere a portata di mano. Da leggere, rileggere,
meditare nelle varie stagioni della vita. Esse stanno in rapporto alla vita e
alla morte come il Talmud sta al rapporto tra l’uomo e la parola di Dio. Sono
uno strumento che ha bisogno dell’uomo tanto quanto l’uomo ha bisogno dello
strumento: richiedono un paziente lavoro di lettura e interiorizzazione per
restituire i loro doni, come ho cercato di spiegare nel capitolo dedicato a
questo capolavoro, che per Rilke fu un vero e proprio “uragano nello spirito”.
Ritaglia un mazzo di versi rilkiani che hanno inciso nella tua vita – e perché?
Devo nuovamente tornare sul mistero e alle ultime pagine del mio libro, per
ritagliare due frammenti della Prima e della Decima Elegia. Vorrei che questi
versi arrivassero nelle mani di quanti si trovano ad affrontare una dolorosa
perdita, con l’auspicio che possano scendere come un balsamo nei loro cuori,
come è successo a me.
Certo è strano non abitare più sulla terra,
non più seguir costumi appena appresi,
alle rose e alle altre cose che hanno in sé una promessa
non dar significanza di futuro umano;
quel che eravamo in mani tanto, tanto ansiose
non esserlo più, e infine il proprio nome
abbandonarlo, come un balocco rotto.
Strano non desiderare quel che desideravi. Strano
quel che era collegato da rapporto
vederlo fluttuare, sciolto nello spazio. Ed è faticoso
esser morti;
quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco
un po’ d’eternità. […]
Ci si divezza da ciò che è terreno, soavemente,
come dal seno materno. Ma noi, che abbiamo bisogno
di sì grandi misteri – quante volte da lutto
sboccia un progresso beato – potremmo mai essere,
noi, senza i morti? […]
Ma se i morti infinitamente dovessero mai destare un
simbolo in noi,
vedi che forse indicherebbero i penduli amenti
dei noccioli spogli, oppure
la pioggia che cade su terra scura a primavera.
E noi, che pensiamo la felicità
come un’ascesa, ne avremmo l’emozione
quasi sconcertante,
di quando cosa ch’è felice, cade.
Tra tutti gli aggettivi che poteva usare per osservare la morte, Rilke sceglie i
più semplici: strano e faticoso. Strano, scrive, non abitare più sulla terra,
strano abbandonare il proprio nome come un balocco rotto… Ed è faticoso essere
morti “quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco un po’ d’eternità.”
La morte guarda all’interno e fuori di sé, verso chi muore e chi ancora vive:
“potremmo mai essere, noi, senza i morti”? In questa domanda vi è un chiaro
invito ad accogliere – nell’ascolto del silenzio – la voce di chi è scomparso:
dal lutto può nascere un “progresso beato”, ovvero una nuova consapevolezza del
rapporto tra la vita e la morte: l’essenza delle Elegie Duinesi.
Gli ultimi versi – e con essi l’opera intera – sono raccolti intorno
all’immagine di una caduta, che non segna tuttavia una morte, una fine, quanto
una metamorfosi, un rinnovamento, secondo il moto discendente dei frutti maturi
e della pioggia che cade su terra scura a primavera. In questa celebrazione
della terra, con il suo ciclo naturale di morte e di vita, la felicità non è
dunque elevazione, non è ricerca di una trascendenza irraggiungibile, ma caduta,
inchino verso la terra, umile adesione al ciclo della natura, eterna
trasformazione.
Sulla caduta e sulla metamorfosi rilkiana, e sul perno della grande ricchezza
della povertà e della morte, ci vorrebbe un convegno a più moduli, esegetici e
biografici, per poterne parlare degnamente.
Cosa ci resta ancora da scoprire della moltitudine Rilke?
Ancora molto. È notizia del dicembre 2022 che l’archivio letterario di Marbach
in Germania ha acquisito l’archivio familiare Rilke di Gernsbach, finora in
possesso degli eredi di Rilke. Si tratta di una collezione monumentale di
manoscritti, lettere, libri, riviste, disegni e fotografie. La nuova collezione
contiene circa 10mila pagine di bozze e appunti. Comprende anche circa 2.500
lettere scritte da Rilke e circa altre 6.300 lettere scritte a lui. Tra i
corrispondenti figurano vari nomi noti nella biografia rilkiana e anche la
moglie Clara Westhoff e la figlia Ruth. Sandra Richter, direttrice dell’archivio
letterario di Marbach, ha sottolineato che i documenti acquisiti sono un
«patrimonio travolgente»: l’immagine che abbiamo di Rilke potrebbero
cambiare. L’elaborazione della nuova montagna di documentazione richiederà
tempo, ma di certo sarà foriera di nuove gemme e scoperte… A quasi cent’anni
dalla morte, Rilke continua a parlarci.
L'articolo “L’emozione sconcertante”. Viaggio nella vita di Rilke proviene da
Pangea.
Ana Blandiana nasce con il “marchio di Caino”. Figlia di un insegnante reduce
della Grande Guerra, arrestato perché “nemico del popolo”, pubblica il primo
libro, Prima persona plurale, poco più che ventenne, nel 1964. È uno shock. Il
libro, manomesso dai censori, è irriconoscibile.
> “Strofe soppresse, versi aggiunti, titoli cambiati, tantissime parole
> sostituite: questo volume per me rappresenta il simbolo dell’impotenza
> rispetto al sistema e alla sua arroganza, alla sua capacità di manipolazione”.
In una poesia, Ana Blandiana canta la pioggia, “amo la pioggia, amo la pioggia
alla follia”. Quei versi, un acquazzone di gioia, fendono il grigiore della
Romania ‘sovietica’: pur mutilato, il libro ha successo, alla figlia di un
nemico dello Stato è aperto l’accesso all’università.
Sarà l’inizio di una lotta incessante contro gli orrori del regime.
L’importanza di Ana Blandiana nella Romania comunista è pari, per aristocrazia
d’ingegno, a quella di Anna Achmatova in Unione Sovietica. I suoi versi,
proibiti, vengono imparati a memoria, spacciati clandestinamente nei sottoscala
come gesti di ribellione, come atti d’amore. La poesia di Ana Blandiana,
vertiginosa – ora raccolta da Bompiani in Raccolto d’angeli, a cura di Mauro
Barindi –, rigurgita di creature celesti. Ci sono angeli sporchi di fuliggine,
angeli “che hanno indossato abiti d’uccello” e “vecchi angeli maleodoranti/ con
puzzo di rancido nelle penne umidicce,/ nei radi capelli,/ nella pelle che si
squama in isole di psoriasi”. Ci sono angeli, in questa lirica apocalisse, che
“presto saranno processati”.
Nel 1988, già riconosciuta come uno dei più potenti poeti al mondo, la Romania
di Ceaușescu ordina che i libri di Ana Blandiana “vengano proibiti e tolti dalle
biblioteche, perfino quelli in cui è citato anche solo il suo nome” (Barindi).
In Italia, Andrea Zanzotto guida un appello contro le persecuzioni perpetrate ai
danni della poetessa rumena. In seguito al rovesciamento del regime, Ana
Blandiana viene cooptata dal Fronte di Salvezza Nazionale di Ion Iliescu; se ne
allontana appena avverte i sintomi della solita politica, deformata dal virus
della vendetta, della perversione ideologica.
In uno degli ultimi testi, raccolti in Variazioni su un tema dato (2018), Ana
Blandiana ritorna all’epoca della catastrofe comunista.
> “Se avessimo come un tempo i microfoni nascosti in casa, le spie in ascolto,
> mentre mi registrano, mi considererebbero senz’altro una pazza, mentre ti
> parlo di ogni sorta di cose… dicendoti ti amo, così, al presente, e
> augurandoti buona notte prima di spegnere la luce”.
Il potere è terrorizzato – sempre – dal poeta che, svergognatamente, ama. La
poesia, ha scritto Iosif Brodskij, il grande poeta ribelle ai diktat sovietici,
“sollecita nella persona il senso della propria individualità, unicità,
separatezza”, trasforma ogni volto – perfino il più perfido, il più infido – in
qualcosa di umano. Già. Il poeta ha l’audacia di amare, di aprire uno spazio di
bellezza – per quanto angusto, per quanto modesto – mentre tutto intorno è
orrore.
Che rapporto c’è tra la poesia e il potere? O meglio: il potere della parola
poetica che cosa può contro i potenti?
Stranamente, mentre nelle democrazie il potere politico è in maniera assoluta
indifferente alla poesia e alla letteratura, come pure ai loro autori, i
dittatori hanno dimostrato in numerose occasioni di essere addirittura
ossessionati dal potere della parola e di coloro che lo detengono. Come si è
visto nell’incredibile conversazione tra Putin e il leader cinese, i dittatori
sono preoccupati dall’immortalità e dalla posterità, di cui i poeti sono per
tradizione i detentori. Da qui deriva la testardaggine dei dittatori di volerli
assoggettare, comprandoli o mettendoli in prigione, al fine di ottenere qualche
buona referenza nell’eternità. In questo senso il comportamento di Stalin è ben
noto e la dice lunga sulla sua paura riguardo al potere dei poeti che non
possono essere prezzolati, perché la loro protesta non è riferita solo al
presente ma anche al futuro.
Che rapporto c’è tra la poesia e il potere?
Stranamente, mentre nelle democrazie il potere politico è in maniera assoluta
indifferente alla poesia e alla letteratura, come pure ai suoi autori, i
dittatori hanno dimostrato di essere ossessionati dal potere della parola e da
coloro che lo detengono. Come si è visto nell’incredibile conversazione tra
Putin e il leader cinese, i dittatori sono preoccupati dall’immortalità e dalla
posterità, di cui i poeti sono per tradizione i detentori. Da qui deriva la
testardaggine dei dittatori di volerli assoggettare, comprandoli o mettendoli in
prigione, al fine di ottenere qualche buona referenza nell’eternità. In questo
senso il comportamento di Stalin è ben noto e la dice lunga sulla sua paura
riguardo al potere dei poeti che non possono essere prezzolati, perché la loro
protesta non è riferita solo al presente ma anche al futuro.
Cosa significa scrivere sotto le cesoie della censura?
La differenza tra la parola ‘libera’ e la parola che riesce a essere pronunciata
sotto censura è che quest’ultima ha un’importanza molto maggiore per coloro ai
quali arriva. La prima grande scoperta che ho fatto dopo il 1989 è stata che la
libertà di parola ha diminuito l’importanza della parola stessa. Quando è
libero, l’orecchio di chi ascolta è disattento, indifferente; sotto censura chi
ascolta affila l’udito per cogliere la minima allusione, la più sottile tendenza
alla resistenza. Non erano le parole a spaventare il regime, ma la solidarietà
degli uomini legati ad esse.
Perché ha scelto la poesia (o è stata scelta dalla poesia)?
Ho iniziato a disporre e ad abbinare tra loro le parole fin dalla prima
infanzia, prima ancora di saper leggere e scrivere; poi, dopo aver scoperto la
lettura, ho composto versi ispirandomi a ogni poeta di cui mi innamoravo, e
così, durante l’adolescenza, ho scalato i gradini della storia letteraria fino
ad arrivare a me stessa. Ovviamente, non può trattarsi della scelta di un
destino, ma sono troppo modesta per affermare che sia stato lui a scegliere me.
Cosa significa per un poeta “prendere posizione”? Il poeta è sempre un ribelle:
alle norme del mondo come a quelle del linguaggio?
Vorrei che non si esagerasse il carattere di protesta della mia poesia. È vero
che è accaduto in alcuni casi, diventati celebri (sotto forma di samizdat), ma
in generale, nonostante la mia costante tendenza a ribellarmi come essere umano,
come cittadino, la mia poesia ha sempre posseduto degli anticorpi che hanno
fatto da scudo al coinvolgimento politico, all’impegno legato a un preciso
momento. La prova risiede nel fatto che ha superato le barriere della storia.
Ci sono tanti angeli nella sua poesia: perché?
Se accetta l’idea che la poesia è ostinazione nell’esprimere l’inesprimibile,
allora capirà e sentirà che gli angeli sono strumenti, a volte disperati, di
questa ostinazione.
In cosa crede? Insomma, esiste qualcosa dopo la morte oppure non è che il
niente?
Per me non esiste prova più semplice e chiara dell’esistenza di Dio del non
sentirmi mai sola. Sì, credo che ci sia qualcosa dopo la morte, qualcosa che fa
parte del mistero scoperto dai grandi fisici che hanno studiato la struttura
della materia e dell’universo, diventando quasi mistici. Del resto, Einstein
parlava quasi come Dante dell’«Amor che move il sole e l’altre stelle» e si
considerava scientificamente irrealizzato, perché non era stato in grado di
trovare la formula matematica di questa forza.
Che senso ha la poesia oggi, in un’epoca lacerata dall’orrore, dalla violenza
senza mediazioni?
Il senso della speranza. Una volta ho tenuto una conferenza dal titolo “La
poesia può salvare il mondo?”. La mia risposta era sì e raccontavo delle
migliaia di poesie composte e trasmesse tramite l’alfabeto Morse (senza carta né
penna, oggetti proibiti) nelle prigioni comuniste della Romania degli anni
Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, a dimostrazione del fatto che quando
sentono minacciata la loro stessa essenza, gli uomini ricorrono alla resistenza
attraverso la poesia.
A cosa serve la poesia: a vivere, a sopravvivere, a morire, a restare felici, a
trovare se stessi (o a perdere il senso del sé)?
A tutto questo e, oltre a questo, alla certezza che, essendo così difficile da
capire e da definire, la poesia fa parte di quella realtà in cui gli antichi
greci riponevano la loro fiducia e che chiamavano “kalokagathìa”, una parte che
non potrà mai essere sconfitta perché fondata sul masochismo dei buoni. Del
resto, questo è anche il punto di continuità con il cristianesimo.
Ritagli una manciata di versi dalla sua opera che, in modo delicato e feroce
assieme, la descrivono.
“Perché sono in grado di capire,
e sono colpevole di tutto ciò che capisco”*
«Pentru că sunt în stare să înțeleg,
De tot ce înțeleg sunt vinovată»
* versi tratti dalla poesia Fără un gest (“Senza un gesto”) contenuta nella
raccolta Arhitectura valurilor (“L’architettura delle onde”) del 1990.
*In copertina: Ana Blandiana fotografata da Emilio Fraile
L'articolo “Ostinata nell’esprimere l’inesprimibile”. Dialogo con Ana Blandiana
proviene da Pangea.
> “Non credo ci sia alcuna filosofia morale nella narrativa oltre
> all’eccellenza.”
>
> John Cheever
Con il suo ultimo libro – Ogni maledetta mattina. Cinque lezioni sul vizio dello
scrivere (Mondadori, 2025) – Alessandro Piperno, romanziere, direttore dei
‘Meridiani’, docente di francesistica e saggista, realizza una immersione nelle
ragioni e nei moventi dell’attività letteraria. Tramite un saggio che indaga con
uno stile chiaro ed elegante quel ‘brivido’ che accompagna il rito e la prassi
della scrittura, alternando spunti autobiografici e l’analisi critica delle
sismografie letterarie grazie al confronto con i grandi del passato. Cinque
lezioni (“Ambizione”, “Odio”, “Responsabilità”, “Piacere” e “Conoscenza”) sui
motivi dello scrivere che danno così vita a un racconto corale che va da Proust
e Kafka a Céline e Primo Levi, passando per Flaubert, Balzac e tanti
altri,capace di delineare una galleria di ritratti e studi d’autore ricca di
dettagli e fascino. Ne emerge, soprattutto, un testo che quando parla
dell’attività letteraria più che prescrivere vuole mostrare, più che spiegare
vuole osservare e capire, senza giudicare. Piperno, infatti, privo di retoriche
militanti o di misticismi autocompiacenti, realizza un’opera capace di rivelare
della scrittura le verità concrete e l’intrinseca magia. Portando il lettore
nelle botteghe, nelle quinte e nei cantieri delle parole, in modo da mostrare i
tanti volti di quel “vizio assurdo” che porta a impugnare una penna o ad armare
una tastiera ogni maledetta mattina.
Prof. Piperno come è nato Ogni maledetta domenica. Cinque lezioni sul vizio
dello scrivere?
La genesi di questo libro è più semplice di quanto non sembri. Da un lato un
contratto da onorare con il mio editore per un’opera saggistica, dall’altro
l’esigenza di decantare e di fare il punto. Una necessità, quest’ultima, che mi
prende ogni volta che finito un romanzo mi preparo a scriverne un altro. Forse
volevo verificare il modo in cui con il passare degli anni è cambiato il mio
approccio alla scrittura. Ciò che da giovane mi sembrava una fatica superiore
alle mie forze oggi è un piacere quotidiano e ineludibile, un vizio. Da qui la
domanda: come lo si contrae? Come lo si gestisce? Ecco, per rispondere a queste
domande ho interrogato gli scrittori che amo e che frequento da sempre. Di me (a
petto di questi giganti, una nullità trascurabile) ho parlato lo stretto
indispensabile.
E che cos’è, secondo lei, il vizio dello scrivere?
Per dirla con Cioran, tutto inizia con un estenuante esercizio di ammirazione.
Sei un adolescente pieno di passioni e di inutili idee in testa. Leggi Stendhal,
Tolstoj, Broch e ti dici: che bello sarebbe potersi esprimere in modo
altrettanto netto, essenziale ed elegante. Sei fregato. Quello è il momento in
cui passi dall’ammirazione all’emulazione. Una battaglia persa in partenza. Per
quanto tu possa provarci, infatti, non riesci a scrivere niente che non ti
sembri scadente, riciclato, di terz’ordine. Le confesso che per me non è stato
facile togliermi dalle spalle il peso di modelli così irraggiungibili. Certe
volte credo che ad avermi reso uno scrittore sia stata una certa dimestichezza
con il fallimento. Il paradosso è che il mio primo romanzo fu un successo,
almeno da un punto di vista commerciale. A me invece non piaceva quasi per
niente. Lo avevo scritto spinto dalla rabbia e dal risentimento. Lo avevo
scritto senza esercitare il dovuto controllo. Poi grazie al cielo le cose sono
cambiate.
Cosa è cambiato?
D’un tratto ho capito che il tormento è come la nevrosi: fa male ma non serve a
niente.Anzi, peggio, ti danneggia limitandoti. Ho capito che la scrittura non è
pura ispirazione, o non solo, ma soprattutto disciplina, indagine, riflessione.
Oggi mi sento molto diverso da allora.
Quale fu il libro della svolta nel suo rapporto con la scrittura?
Fu il mio romanzo più sfortunato: Dove la storia finisce (2016). Più mi ci
immergevo piùpercepivo il cambiamento in atto: il tormento si
faceva spontaneità, l’ansia cedeva il passo all’abbandono, ogni seduta era un
po’ più piacevole. Da allora il lavoro è diventato naturale, proficuo e meno
ansiogeno.
Cosa ha determinato questo cambiamento?
Messe da parte tutte le pompose ambizioni di grandezza e di gloria, ho preso
atto che lo scrittore è un tizio che ogni mattina (almeno per me) affronta una
serie di problemi e cerca di risolverli. Solo così un libro prende forma. In un
attimo sono svanite le ubbie con cui mi ero sempre tormentato.
Dopo la pubblicazione, si rilegge?
Mai. Un libro pubblicato per me è un libro morto. Tanto sono ossessivo nella
stesura infliggendomi mesi e mesi di riletture, tanto sono leggero e infedele
nella fase successiva alla pubblicazione. Per questo mi costa così tanto
promuoverlo. È giusto che un libro faccia la sua strada senza di me. Le rare
volte in cui durante una presentazione qualcuno legge un passo di un mio libro
in pubblico avverto un profondo imbarazzo. Con ciò non intendo dire che non
provi affetto per i libri pubblicati. Ne provo eccome, soprattutto per i più
“sfortunati”. Me lo lasci ripetere: per me Dove la storia finiscerappresenta
una cesura virtuosa.
Parliamo del suo ultimo testo narrativo: Aria di famiglia. Un romanzo che mostra
epoche e contesti senza pretese storiografiche o ideologiche, offrendo uno
sguardo critico sul presente. Specie su quella sorta di maccartismo
(trasversale e bigotto) che stiamo vivendo…
Giudicare un’opera attraverso la vita o le idee dell’autore è un atto critico
capzioso, moralmente disonesto ed esteticamente aberrante. Non c’è esercizio più
esecrabile. Quando nella valutazione di un manufatto artistico il giudizio
morale sostituisce quello formale l’arte muore. Ecco, ho il sospetto che oggi
molti concepiscano la letteratura come un concorso di bellezza morale. Temo che
alcuni vogliano trasformare lo spazio letterario in un tribunale speciale in cui
all’autore spetta il ruolo dell’imputato. Proprio così, certa critica vuole
tramutare la storia della letteratura in una specie di Norimberga permanente.
Del resto, sarebbe sciocco considerare il politically correct o il settarismo
puritano un male dei nostri tempi. Per certi versi è sempre stato così.
Anche Flaubert,anche Baudelaire, anche Stendhal incorsero nella scomunica
dei puritani, degli ipocriti, dei filistei. La cosa davvero preoccupante oggi è
come certe idee aberranti seducano anche chi dovrebbe detestarle: parlo degli
scrittori e degli accademici, soprattutto in ambito anglosassone. Li ha visti
no? Non vedono l’ora di denunciare, marciare, boicottare, firmare appelli e
petizioni. Un po’ imbonitori, un po’ ciarlatani, se ne stanno lì sul loro
scranno a distribuire patenti morali. Non credo che Flaubert lo avrebbe fatto. A
lui la letteratura offriva uno spazio privilegiato di libertà e di osservazione.
Nel libro parla anche di responsabilità e impegno.
Sì, distinguo l’impegno virtuoso da quello frivolo e mondano. Distinguo gli
scrittori che hanno rischiato la pelle da quelli che hanno ottenuto un invito in
talk show. Prenda Primo Levi. Lui per me incarna un modello irraggiungibile. È
come se avesse trovato un equilibrio perfetto tra responsabilità e stile. Un
altro impegno virtuoso è quello prestato da Zola alla causa di Dreyfus. A non
piacermi sono gli epigoni di Sartre, quelli che potremmo chiamare i
“professionisti dell’impegno”. Non c’è causa per cui non si mobilitino o non si
espongano e di solito lo fanno nel modo più conformista lisciando il pelo al
mainstream. Io non ho mai firmato petizioni né partecipato a manifestazioni: il
mio mestiere è un altro. Non ho autorità per esprimermi su niente se non sulle
due o tre cose che conosco. A chi mi chiede del clima, dell’atomica,
dell’Ucraina rispondo come Parise: “Non lo so, non me ne intendo”.
Il confronto con il “male” quanto è centrale per uno scrittore?
Devo confessarglielo. Faccio fatica a prendere sul serio certe categorie
oracolari: il “bene”, il “male”, il “giusto”, l’“Ingiusto”. Ciò non significa
che eluda il problema. So che il male è l’argomento letterario per antonomasia e
ritengo che il solo modo onesto di affrontarlo è provare a comprenderlo. Ricordo
che André Glucksmann nel suo libro L’undicesimo comandamento diceva che al
Decalogo biblico mancava un ulteriore, ma fondamentale, comandamento: “Conosci
il male”.
Conoscere il male, per gli scrittori che amo ha significato farsene carico,
affrontarlo, non sanzionarlo. Penso a scrittori per molti versi
antitetici come Proust e Céline. La moralità di un romanzo, come diceva Milan
Kundera, non risiede, infatti, nel giudizio, ma nella sospensione del giudizio.
È questa la sfida della letteratura: mostrare la complessità dell’umano senza
ridurla a virtù o colpa. Nulla di grande è stato scritto con ipocrite pretese
moraliste. Adolphe, Guerra e pace, L’età dell’innocenza, Madame Bovary,
la “Recherche”. Sono romanzi in cui trionfa l’ambiguità. Per questo immaginare
una letteratura orientata solo dalla virtù è semplicemente folle.
La quinta lezione del suo libro si chiama “Conoscenza”: parlando di questo tema
lei accosta Proust e Kafka. Perché?
Il paragone tra i due non è mio. Il primo ad averlo formulato è stato Elias
Canetti. Naturalmente Proust e Kafka sono scrittori diversissimi, ma
profondamente sintonici e complementari. Entrambi, infatti, hanno trasformato la
vita in scrittura. Entrambi hanno intrattenuto un rapporto simbiotico con la
scrittura. Mi commuove l’idea che siano morti con il grosso della loro opera
ancora inedito. Mi pare un ottimo monito per quel genere di scrittori a cui
scappa sempre di pubblicare.
Lei dedica una lezione anche all’“Odio”. Quanto l’odio è importante in
letteratura?
Nel libro distinguo tra risentimento e odio. Il primo è gretto e inutile, il
secondo è nobile e proficuo. Pensiamo all’odio di Flaubert per la stupidità, o a
quello di Ibsen per le convenzioni borghesi. Osservare il mondo con ironia
critica, provare indiginazione creativa: senza questo sguardo, non si può
davvero scrivere. Io non ci riuscirei.
Cosa odia in maniera “nobile” Alessandro Piperno?
La malafede, l’ipocrisia dei Tartuffi e degli imbonitori dei social, tutto ciò
che è melenso e pletorico. Detesto le dietrologie, chi vede il marcio ovunque,
le cospirazioni, i piagnistei, ma anche le grandi adunate di piazza, le frasi in
libertà, le mozioni degli affetti. E dal disgusto per questa roba
che spesso ho tratto la materia per i miei testi.
Un aspetto centrale nella sua opera è la complessa ambiguità dei personaggi. In
questo senso in Aria di famiglia essi sono spesso contraddittori o mai
completamente virtuosi.
Nei suoi diari Tolstoj (il migliore di tutti) parla spesso di come rendere vivo
un personaggio. Per lui è necessario farne una creatura contraddittoria, in
bilico tra passioni oneste e piccole malvagità. Il caso più emblematico è quello
del Dolochov di Guerra e Pace. Se da un lato è un dissoluto, un libertino, un
attaccabrighe, dall’altro coltiva commoventi sentimenti filiali. Così si
costruisce un personaggio, mescolando la miseria alla grandezza, la malvagità
all’altruismo. In Aria di famiglia ho cercato di seguire questo insegnamento: la
famiglia Sacerdoti è composta da persone contraddittorie, in cui si intrecciano
generosità e durezza, meschinità e candore. La verità dei personaggi si
manifesta attraverso queste tensioni e sfumature: solo così possono apparire
vivi, credibili, umani.
Più che un romanzo “a tesi”, il suo è allora un romanzo “ad antitesi”. È un modo
di contraddire e capire le cose?
Philip Roth affermava di non avere idee quasi su niente. A questo gli serviva
scrivere: per capirci qualcosa. Io sono d’accordo con lui. Credo che in realtà
la scrittura, se trattata con la giusta grazia e la dovuta abnegazione, riesce a
rivelare qualcosa che prima ti era sconosciuto. La scrittura non deve dimostrare
alcunché. Deve limitarsi a scandagliare. Tu non scrivi perché hai capito come
funziona il mondo ma perché non sei ancora riuscito a capirlo.
In questo quadro centrale più che il messaggio nei suoi testi vince il
romanzesco…
È una mia debolezza, lo so, ma sono fatto così: mi piace il romanzesco. E in
effetti inAria di famiglia mi sono divertito a disseminare un mucchio di
robaccia romanzesca: vendette, orfani, eredità contese, tutori
malintenzionati. Insomma ho esibito il classico armamentario dei vittoriani che
amo: Dickens e George Eliot su tutti. La narrativa, come hanno insegnato questi
autori, usa la finzione e l’esagerazione per giungere alla verità.
Il prossimo libro?
Si chiamerà In trappola. Lo sto scrivendo con alacrità da quasi un
anno. È l’ultimo capitolo della trilogia iniziata con Di chi è la colpa e Aria
di famiglia. Però sarà molto diverso dai precedenti, per via di una
caratteristica che preferisco non confessarle.
Francesco Subiaco
L'articolo “Non sopporto i professionisti dell’impegno, gli scrittori che
firmano appelli. L’odio? Un sentimento nobile e proficuo”. Dialogo con
Alessandro Piperno proviene da Pangea.
Corrado d’Elia, al contempo, ha qualcosa di Mangiafuoco e qualcosa di Don
Chisciotte. Suo è il genio del terribile: quando gli parli, impalca castelli in
aria così concreti che sei pronto a imbarcarti con lui verso un qualsiasi
nessundove. È il talento di chi maneggia il fuoco come un burattino e rende
feconda la cova dei mulini a vento. In fondo, ama il pensare transoceanico,
d’Elia: per me – anche per le sue movenze da saltimbanco, da imbonitore di
leoni, da infallibile equilibrista – è il Philippe Petit del teatro italiano
contemporaneo.
Milanese, uscito dalla ‘Paolo Grassi’, Corrado d’Elia somma strategia e umore
lunare. Nel 1995 fonda Teatri Possibili – che è poi un inseguire l’impossibile –
che oggi si chiama Compagnia Corrado d’Elia; da tempo, in particolare, Corrado
d’Elia indaga i personaggi, gli uomini che al posto di lasciare il cuore a
maggese l’hanno messo a fruttificare velieri, visioni, varchi. Ha messo in scena
– con acume da entomologo del meraviglioso – Mozart e Beethoven, Van Gogh e
Steve Jobs. Ora sta inseguendo Macbeth; ha da poco dato voce a Galileo. Ama i
grandi libri, Corrado d’Elia, i libri che infiammano fino a forgiare in spada e
in capodoglio l’anima di chi li legge. Così, con spericolata indole, ha
riscritto l’Iliade e Moby Dick, Don Chisciotte, Le notti bianche, Il piccolo
principe. Ha l’energia dell’ispirato – cioè: di chi sa ispirare.
A volte, le sue sceneggiature prendono la via del libro. Io, Moby Dick (Ares,
2024) è forse il più affascinante; Galileo, oltre le stelle (Ares,
2025), l’ultimo, è un tentativo di sconfinamento dai greti di una grande anima.
Quali sono i legami tra scienza e fede, tra parola e calcolo, tra opportunità e
opportunismo, tra sé e cosmo? Galileo è allo zenit dell’uomo – Galileo è figura
che ha in Amleto un emblema nel mondo letterario: entrambi fondano la modernità,
che è poi il discorso sull’essere e sul non essere, sulla possibilità di
esplorare gli impossibili. Amleto crea un microscopio interiore per sondare i
miraggi e i deliri dell’anima; Galileo forgia un cannocchiale per auscultare i
mugolii dell’universo.
“È carne che trema di fronte all’infinito”, dice Corrado d’Elia di Galileo. Il
libro comincia con una finestra e finisce con una marmellata. Sulla soglia
dell’abiura e dell’umiliazione, il sapiente parla di fragole, limoni e lamponi;
“Nessuno ha visto più lontano di me”, sussurra. Gli astri sono i frutti maturi
dei nostri occhi.
Corrado d’Elia scrive in versi. La sua scrittura, però, ha poco a che fare con
il teatro ‘poetico’ (o neomelodico) – che siano le scritture vertiginose di
Mario Luzi o gli spettacoli ‘di parola’ di Mariangela Gualtieri. L’andar per
versi è utile, qui, a creare il ritmo narrativo esatto. I versi sono uno
‘strumento’: cembalo e cetra, tamburo e corno; sussurri e grida. Come i canti
attorno al fuoco: e il fuoco, di volta in volta, si fa volto e muraglia. Un
fuoco argilla, intendo, in cui le ombre hanno la beltà di un corpo, di un
torsolo d’uomo – innamorano.
Beethoven, Van Gogh, Galileo, Mozart. Mi pare di capire che ti piacciono i
grandi uomini, che confidi nel ‘terribile’ genio dell’uomo. È così? Perché?
La parola “genio” porta con sé un’ambiguità affascinante. Genio non significa
solo capacità tecnica o talento straordinario: implica una tensione,
un’inquietudine, una ferita. Beethoven, Van Gogh, Galileo, Mozart – e potrei
aggiungere Steve Jobs, figura altrettanto contraddittoria e perturbante – sono
stati uomini che hanno vissuto in una sorta di scarto rispetto al mondo comune.
Hanno visto più lontano, hanno pagato sulla propria pelle il prezzo di quella
visione, e per questo hanno toccato vertici che noi possiamo soltanto sfiorare.
Incontrare il genio significa entrare in contatto con l’ebbrezza di una
grandezza che non è mai pienamente accessibile. È come camminare sull’orlo di un
abisso: non possiamo appropriarsene, ma possiamo lasciarci colpire da quella
vertigine. Galileo, in particolare, rappresenta per me questa condizione: uomo
di scienza, ma anche poeta della visione, capace di scardinare dogmi e di aprire
nuove prospettive sul mondo, pur pagando il prezzo dell’isolamento e della
condanna.
Lui è Corrado d’Elia
Iliade, Moby Dick, Divina Commedia. Mi par di capire che ti piacciano le grandi
opere. È così? Che senso ha, oggi, una vita ‘epica’, una grande opera?
I classici sono la nostra archè, il nostro conio originario. Non appartengono al
passato, ma al futuro. Essi non cessano mai di parlarci, perché custodiscono
domande che restano aperte. Omero, Dante, Joyce, Dostoevskij, Melville non ci
consegnano risposte definitive, ma ci offrono la vertigine di interrogativi che
ancora oggi ci parlano e ci fanno riflettere. In un’epoca che sembra aver
smarrito i propri maestri e che spesso rifugge dalle grandi domande, parlare di
“vita epica” significa restituire al presente il senso di un orizzonte più
vasto. Non è questione di eroismo in senso tradizionale, ma di profondità:
l’epica oggi è la capacità di vivere con consapevolezza, di cercare un senso che
vada oltre il consumo immediato. Una grande opera, nel nostro tempo, è quella
che invece riesce a interrogarci e a resistere al logorio dell’oblio e della
dimenticanza.
Qual è il libro che ti ha folgorato da bambino? E quello che ti ha folgorato da
adulto?
Da bambino mi hanno colpito libri che mi hanno insegnato a guardare il mondo con
stupore. Non era tanto un titolo preciso, ma il gesto stesso del leggere che
apriva mondi. Ogni pagina era una porta. Da adulto, invece, ricordo come
folgorazione Moby Dick: non solo per la potenza narrativa, ma perché in
quell’ossessione vedevo riflessa la nostra sete inesausta, la tensione verso
l’impossibile. Melville, come Dante, come Galileo, ci mostra che la conoscenza è
anche naufragio, che non si può inseguire la verità senza rischiare di perdersi.
Non è un caso che il mio Io, Moby Dick, inizi con un uomo seduto sulle proprie
sconfitte.
Galileo. Perché?
Galileo è un simbolo del nostro tempo. Non solo perché ha incarnato la
rivoluzione del pensiero scientifico, ma perché ha vissuto sulla propria pelle
il conflitto tra fede e ragione, tra libertà di ricerca e potere istituzionale.
È un uomo del passato che parla al presente: la sua vicenda interroga ancora
oggi il rapporto tra scienza e coscienza, tra visione e resistenza. Portarlo in
scena significa restituirgli la sua duplice natura: l’uomo forte e convinto
delle sue idee, ma anche l’essere fragile, intimo, spesso solo, che si misura
con i limiti propri e del proprio tempo. Galileo è il paradigma dell’artista e
dello scienziato: colui che guarda oltre e che, proprio per questo, paga un
prezzo altissimo.
Come inizi a scrivere un testo, questa specie di biografia lirica, di monologare
poetico? Da dove è iniziato Galileo?
La scrittura nasce sempre da una ferita, e quindi da un’urgenza. Non è mai un
progetto meditato, ma piuttosto un incendio che divampa da una scintilla. Nel
caso di Galileo, la scintilla è stata una conversazione con amici sul rapporto
tra fede e scienza: un tema che, lungi dall’essere archiviato, resta bruciante e
contemporaneo. Io scrivo ovunque: nei bar, negli aeroporti, sui treni, in
camerino. La scrittura mi divora. Non è mai casuale la mia scelta di andare a
capo: il verso è la forma naturale del mio pensiero. È un ritmo che segue il
respiro. Galileo è nato proprio così: dal bisogno di dare voce a una tensione
interiore, di unire la lirica al racconto, il pensiero alla carne viva del
teatro.
Che rapporto c’è tra scrittura scenica e poetica?
Sono due forme sorelle. Entrambe vivono del togliere, dell’evocare più che del
descrivere. La scrittura poetica genera immagini che vivono nella mente del
lettore. La scrittura scenica deve invece incarnarsi subito, diventare visione
immediata per lo spettatore. La differenza è nel tempo: la poesia si legge in
solitudine, lentamente, e può essere riletta infinite volte. Il teatro vive
nell’istante, chiede di catturare e trattenere un pubblico per un’ora o due,
senza tregua. Ma in entrambi i casi si tratta di rendere visibile l’invisibile,
di rivelare, di trasformare il silenzio in qualcos’altro.
Che senso ha l’arte in un mondo che rimanda soltanto orrore, morte?
L’arte è il braciere che deve restare acceso, anche quando tutto intorno è buio.
Adorno nel ’49 scriveva che dopo Auschwitz fosse impossibile scrivere poesia,
addirittura un atto di barbarie. Ma la poesia stessa ha dimostrato il contrario:
proprio nell’abisso, la parola trova una ragione per esistere. Oggi più che mai
l’arte è dunque resistenza. È atto politico, oltre che poetico. Non consola, ma
tiene accesa una luce. Senza arte, senza cultura, senza educazione, la società
resta prigioniera della violenza e dell’ignoranza. L’arte è la nostra forma di
sopravvivenza.
Qual è la tua poesia del cuore?
È difficile dire. Probabilmente se devo scegliere, Forse il cuore di Salvatore
Quasimodo, scritta nel 1947, nel dopoguerra, quando il mondo era allo stesso
modo lacerato e le ferite sembravano insanabili. Si chiude con quei versi che
non risuonano terribili nel dubbio: «forse il cuore ci resta, forse il cuore…».
Io ci sento tutta la precarietà dell’umano, ma anche la sua possibilità. Ci
offre una chiave che sta a noi prendere o rifiutare.
Qual è stato il personaggio più difficile da investigare?
Ogni personaggio porta con sé un abisso, ma se devo pensarne uno in particolare,
cito il Caligola di Camus. Qui la caduta non ha appigli: è verticale, brutale,
inesorabile. Camus non ci consegna solo l’immagine storica di un imperatore
folle, ma ne fa un archetipo della condizione umana: un uomo che, perso l’amore
e il senso delle cose, si spinge fino all’estremo, fino al capriccio assoluto,
fino all’assurdo. La crudeltà di Caligola è profondamente umana. E tutto questo,
questa frizione è terribile. Perché la puoi spiegare. La sua violenza non nasce
da una ferita, da un lutto che si trasforma in ossessione metafisica: la ricerca
di un’impossibile libertà assoluta. Nel suo delirio, Caligola non è lontano da
noi: ci mostra che quando l’uomo smarrisce il senso, quando non accetta i
limiti, quando non ha punti di riferimento, umani o spirituali può trasformarsi
in mostro. È l’abisso del potere, ma anche l’abisso del vuoto interiore.
…e ora, quale nuovo uomo stai tenendo in agguato, vorresti agguantare?
Il prossimo incontro è con Macbeth, o meglio con la sua ombra. Non la tragedia
shakespeariana in senso tradizionale, ma il suo incubo, il suo sogno più nero.
Macbeth diventa per me un uomo intrappolato in un rito ancestrale, una vittima
sacrificale in balia di qualcosa più grande di lui. Per questo, nel suo
disorientamento è un uomo contemporaneo. Una dimensione rituale, alchemica, dove
la parola si fa liturgia e il gesto invocazione. Uno spettacolo visionario a cui
lo spettatore non assiste, ma attraversa.
**
Si pubblica per gentile concessione, l’attacco di “Galileo, oltre le stelle”,
testo di Corrado d’Elia edito da Ares (2025).
Quando ero bambino,
come per istinto,
aprivo la finestra e guardavo il cielo.
Allora, tutte le volte,
lo stupore, il mistero,
per quel foglio immenso e nero,
mi avvolgeva.
Ogni stella era un enigma da decifrare,
ogni costellazione
una frase da indagare.
Cosa cercassi io non lo so,
ma già sentivo
che in quel vasto tacere,
in quel silenzio che sapeva di sapere,
un senso d’eterno c’era,
di assoluto,
un frammento di verità
che mi lasciava disorientato, incantato,
muto.
«Cosa siete, stelle?
E che cosa mi volete dire?
Siete solo lanterne accese nel buio
o una traccia da seguire?
L’universo è tanto vasto,
sembravate suggerire,
più di quello che pensi
più di quello che puoi capire
e la vita, la vita,
è un meraviglioso viaggio,
sempre in divenire».
E in quel parlare del cielo,
in quell’estasi in cui mi perdevo,
io leggevo una chiamata, un invito,
a esplorare
un disegno oltre il nostro,
un ordine nascosto
dietro quel velo d’infinito.
Così ogni notte lo facevo
e il cuore, guardando, piano piano si calmava.
La domanda ancora oggi è sempre la stessa:
che cos’è questo libro che mai si chiude?
Quest’oceano celeste sopra di noi
che ancora mi incanta
e mai mi delude?
Un’opera d’arte, certo, un capolavoro.
Un mistero.
Il riflesso dell’animo mio
inquieto.
L’eco di qualcosa
che ancora ci è segreto.
E davanti a voi, luminose stelle
la mia emozione si fa sempre meraviglia.
Un uomo così piccolo,
in mezzo alla sua grande famiglia.
L'articolo “Camminare sull’orlo di un abisso”. Dialogo con Corrado d’Elia
proviene da Pangea.
Qualche decennio fa, introducendo la raccolta di Tutte le poesie di Carlo
Betocchi, Luigi Baldacci accennò a un “anti-Novecento che, per troppo tempo, una
storiografia di comodo ha cercato di mettere tra parentesi”. Citava, l’augusto
critico, a mo’ di presunto repertorio, senza troppe spiegazioni, Palazzeschi e
Govoni, Umberto Saba, Diego Valeri, Sandro Penna; disse di Betocchi, disse “del
secondo Caproni”. Insomma: l’anti-Novecento – una baruffa tra intellettuali – è
infine una vicenda tutta interna al ‘canone’, al Novecento, senza particolari
evasioni né invasioni di campo. Si tratta di una opzione più che di una
rivoluzione, di un bivio più che di una conversione.
Davvero negletto dalla storiografia, invece, è un nugolo di poeti che pare
abbiano fatto storia a sé. Marginalizzati – per diverse ragioni, a
volte patologiche – dal sistema culturale, ignorati dall’editoria imperante,
questi poeti hanno perseguito – da perseguitati – una scrittura vertiginosa,
solitaria, a tratti maniaca, che ha sbalestrato il linguaggio consegnandocelo
rinnovato, in nuova innocenza, al cristallo. Autori di un’operamonstre, senza
riserva né misura, pressoché postuma e ancora da scoprire, ci hanno dato – se si
lavora per scrematura, per ‘sublimazione’ – alcuni dei testi più folgorati del
secolo, di sempre. Non tanto “anti-Novecento” dunque – anche perché qui è
tutt’altro che il linguaggio dimesso, da tonache lise e pecore smarrite – ma una
specie di canone “avverso”, di canone avversato, che ha qualche remoto padre
(l’esoterico Arturo Onofri, il selvatico Dino Campana, il furibondo Giovanni
Boine), e che si svolge al di là delle avanguardie e del ‘dibattito’,
praticabile soltanto da chi ha fatto della propria ostinata solitudine allo
stesso tempo alcova e mattatoio. Linguaggio inclassificabile quello di questi
poeti, che non concede carriere accademiche dacché mette in discussione le
fondamenta del cosiddetto ‘canone’; poesia che si offre – ostia avvelenata –
come rivelazione di un esistere in fiamme, a volte stigmatizzata dalla
tragedia.
Di questi avversati, di questi avversari al noto il campione è Lorenzo Calogero,
di cui si attende ancora, nonostante sporadici, pur potenti riconoscimenti (da
Leonardo Sinisgalli ad Aldo Nove), degna sistemazione dell’opera. Gian Giacomo
Menon, nato pochi mesi dopo Calogero (entrambi del 1910, il primo è di novembre,
l’altro di marzo), è il fronte ustorio del canone “avverso” – che non è un
anti-canone, dacché questi poeti, pionieri dell’ignoto, non sono anti- nulla, a
nulla si contrappongono. Nato anch’egli all’estremo emisfero del Paese –
Calogero è di Melicuccà, Calabria; Menon di Medea, Gorizia, allora
austroungarica –, a differenza di Calogero, Menon ha avuto una vita, si direbbe,
in pienezza. Futurista per eccesso di giovinezza – nel 1930 pubblicò a sue
spese il nottivago: colse il plauso di Marinetti (“Ingegno indiscutibile…
Immagini audaci”), ma l’autore lo sconfessò, “rastrellò, facendole sparire,
tutte le copie in circolazione” – Menon fu straordinario professore al liceo
classico ‘Stellini’ di Udine, in grado di sedurre ed egualmente intimidire
legioni di studenti. Leggeva Pascal, Schopenhauer e i Sofisti, amava Giuseppe
Rensi, “filosofo solitario e inattuale per eccellenza”, tra i poeti preferiva
Rimbaud, Valéry e Sergej Esenin. Scrisse moltissimo, pressoché per sé, Menon:
dagli undici agli ottantacinque anni, scrive lui, “più di 100000 poesie, dicendo
10 versi l’una in tutto più di 1 milione di versi”; attività che esaspera in
vecchiaia (hanno contato “almeno 14mila poesie” scritte fra il 1993 e il ’99,
cioè all’incirca cinque poesie al giorno). In vita, uscirono un mannello di
poesie – diciassette – su “La Fiera Letteraria”, nel 1966, e un librettino, I
binari del giallo, edito da Campanotto nel 1998, con prefazione di Carlo
Sgorlon, che riteneva Menon “filosofo del nulla e poeta assoluto”. Morì poco
dopo, il poeta, nel dicembre del 2000; nel 1945 aveva sposato la ex allieva
Silvia Sanvilli: non ebbero figli perché lui non ne voleva; per tutta la vita
inseguì le jeunes filles, amori rubati all’ombra di un androne. Ormai anziano,
aveva “‘fatto amicizia’ con un uccellino che tutti i giorni veniva a posarsi sul
terrazzo dell’appartamento di via Carducci”. In molti ricordano il suo carisma,
l’impeccabile nitore del dire, le feroci conclusioni. Alcuni hanno ravvisato
nella sua opera, magmatica, indifesa e difforme, la petroglifica nitidezza di
Paul Celan.
Ciò che resta, appunto, è una poesia che va per lapidazioni e lacerazioni, che
spezza, sempre, l’occasione in stato d’assedio, che rimpolpa la parola di un
bestiario nuovo, di esseri zodiacali, con le zanne; questa, ad esempio:
> dentro di noi come uova di mosca
> dileguarsi con i congegni per le madri astrali
> stabiliti su acque icarie nelle frazioni del vento
> sbarrati e neri nei sai
> quando il tempo delle città apre le sue botole
> un calcolo reticolato sulla sinistra dei codici
> profilo di cifre marginali
> e l’uomo con le ascelle fiorite
> esperto di addii al livello dei grani
> abbandonato alla legge
> piomba nelle orine animali impastate di erba
> e altri dopo con ossature di tela
> il cuore sospeso all’aperto
> un chilometro più lungo della vita
> scattano oltre i canali sui denti della neve
> a risvegliare le controcorrenti dei pesci
> la contesa dei corni
> e altri azzurri di punta con occhi di metallo
> annotano la fuga ostile dei giorni
> al seguito dei cani gonfiati dalla luna
> dentro di noi covare la nostra profezia
> spiarci brevi nell’uncino e nell’elitra
> all’orlo dei cieli domestici
> insicuri sui nettari sulle croste del sangue
> predatori da gioco
> barattare con le lacrime l’insolenza delle parole
Passò la vita, lunga, ad annientarsi, Menon, “praticamente tappato in casa…
accuratamente nascosto agli occhi dei più, sfuggendo ogni anche pur minimo coté
sociale” (Cesare Sartori, qui come nelle precedenti citazioni). Non ci è
riuscito – chi è fuoco finisce per sfamare incendio, per richiamare accoliti. Da
anni, uno dei talentuosi allievi di Menon, Cesare Sartori – friulano, di
formazione filosofo, giornalista professionista per una vita –, che abbiamo
chiamato al dialogo, lavora, pressoché in solitaria, per ‘sistemare’ l’immensa
mole di scritti del poeta. Finora, ha curato tre libri – Poesie inedite
1968-1969 per Aragno, 2013; Qui per me ora blu per KappaVu, 2013; Geologia di
silenzi e altre poesie per Anterem, 2018 – una plaquette – non più di un
bisbiglio nella pena dell’essere, per le leggendarie edizioni pulcinoelefante,
2017 – e un sito meravigliosamente ben fatto, http://www.giangiacomomenon.it.
Anche questo accomuna gli autori del canone “avverso”: chiedono di
essere raccolti più che capiti. Bisbigliano. Pretendono il tu-per-tu. Prendono
il viso del lettore a due mani, come fosse una brocca. Non puoi trovarli nelle
antologie scolastiche perché troppo sottile, troppo feroce è il loro segreto.
Pretendono l’audacia chiamata dedizione.
La mania e il nascondimento. Intendo dire: come si spiega la scrittura fluviale,
compulsiva, ‘maniaca’ di Menon con la totale ritrosia a pubblicare, una sorta di
spudorato pudore?
Bello e azzeccato quello «spudorato pudore»! Menon aveva piena consapevolezza di
essere totalmente dedito alla poesia essendo la poesia il più grande, fedele,
immutabile, ossessivo e probabilmente unico vero amore della sua vita. Ma
coerentemente con la sua «decisione di assenza» dal mondo e dal circuito sociale
presa prima dei cinquant’anni (a parte l’attività di insegnante al liceo
classico ‘Stellini’ di Udine e le uscite da casa per inseguire dei suoi amori)
non faceva niente per promuovere o far conoscere i suoi versi. Aveva anche
consapevolezza del valore della sua poesia («Di Gian Giacomo Menon – scrisse
nell’agosto 1966 la “Fiera Letteraria” pubblicandogli 17 poesie – non sappiamo
quasi nulla. Sappiamo solo che è un poeta, un vero poeta, ed è questa l’unica
cosa che conti»), ma non si sarebbe mai ridotto a pietire ascolto e accoglienza
dagli editori bussando come un mendicante alle loro porte. A parte il nottivago,
il libretto con versi di ispirazione futurista uscito nel 1930, Menon non ha
pubblicato praticamente niente in vita nonostante una produzione abnorme: come
lui stesso dichiara in un appunto autografo che ho ritrovato tra le sue carte di
aver scritto dagli undici anni in poi oltre centomila poesie, più di un milione
di versi (che ha in gran parte distrutto prima di morire). La pubblicazione
sulla «Fiera letteraria» si deve all’iniziativa di altri: il critico letterario
Mario Schettini, lo scrittore Antonio Barolini… Ci furono poi, negli anni ’60,
tentativi di contatto con Feltrinelli ed Einaudi dei quali si occupò l’amico
antropologo Carlo Tullio Altan, risoltisi però in un nulla di fatto. E poi a due
anni dalla morte la pubblicazione a Udine per i tipi di Campanotto di una scelta
di versi per iniziativa e su pressante insistenza di Carlo Sgorlon dopo che era
andato a vuoto un mezzo impegno che il romanziere friulano aveva strappato, se
non ricordo male, a Marsilio.
Da dove viene la poesia di Menon? Intendo: cosa leggeva, cosa lo affascinava
della letteratura italiana ed europea? È possibile tracciare una ‘poetica’ di
Menon?
Menon ha un grande debito – da lui stesso più volte dichiarato – con i
simbolisti francesi: Mallarmé in primis, Rimbaud («Non so quanto e come capito»
ha scritto tre anni prima di morire) e Baudelaire, quindi Valery e il russo
Sergej Esenin. Sono questi i suoi numi tutelari. Gli esponenti principali
dell’ermetismo italiano invece Menon li ha nominati poco o punto. Ho ritrovato
soltanto un’annotazione manoscritta del ’97 dove sostiene: «Più (ma molto poco)
Quasimodo che Montale». In terza liceo (1967-’68) ci parlò a lungo e con
ammirazione di Lorenzo Calogero del quale erano usciti tra il 1962 2 il 1966 i
due volumi di Opere poetiche nella leggendaria e prestigiosa collana con le
copertine rosse di Roberto Lerici: un poeta, come si sta sempre più confermando,
che per ragioni esistenziali, stilistiche e linguistiche appare per Menon come
un ‘fratello gemello separato alla nascita’.
«Della mia poesia – ha annotato Menon nell’ottobre 1997 – non bisogna
preoccuparsi dei contenuti né dei messaggi o dei racconti ma di strutturazione
delle parole, dei ritmi, degli incastri, degli accostamenti, travestimenti,
tradimenti». E puntualizza: «La mia poesia è tutta basata sul ricordo, sulla
memoria e sulla trasfigurazione simbolica della realtà» e ne fissa le
caratteristiche fondamentali: «Prosodia, metonimia (la figura retorica
principale delle mie poesie, una parola per dire altro, una parola simbolo di
altro), simbolismo, nominalismo, scomposizione». E così, trasfigurando e
inventando, Menon riesce a compiere la titanica impresa di rinominare il mondo,
la vita vissuta, il presente e i ricordi. Forzando il lessico ai limiti
dell’indicibile, Menon sembra aver fatto suo il lapidario appello di Paul Celan
(poeta che a scuola, curiosamente, non ricordo che abbia mai nominato) per una
lingua «a nord del futuro». E ancora:
> «Poesia è silenzio di poeta, poeta rompe silenzio inventando parole, poeta non
> crede alle sue parole, fa credere le sue parole al lettore, poeta non sogna,
> poeta inventa sogni per gli altri, poesia non è fanciullezza, è alta maturità;
> è vita solo l’invenzione, il sogno inventato, non per crederci, non per
> sognare ma per fare sognare gli altri, per imbrogliare gli altri, ad esempio
> la poesia».
Ma nel ’97 rivendica orgogliosamente:
> «Io non ho avuto idoli, non mi occorrono maestri, io ho quello che mi occorre.
> Ogni uomo è sé, nessun paragone tra uomini, solitudine essenziale, un
> disincanto disperato e lì io nudo, solo, impaurito».
Che valore ha avuto il pellegrinaggio giovanile nel Futurismo nella vita lirica
di Menon?
Beh, credo che l’esperienza futurista a Gorizia (suo sodale e amico era
l’aeropittore Tullio Crali; insieme firmarono un manifesto futurista e misero in
scena una provocatoria pièce teatrale) tra i 18 e i 25-26 anni abbia lasciato in
lui segni duraturi. Istrionico e provocatore, attore consumato e Gran Narciso
(credo che le maiuscole nel suo caso siano obbligatorie) ma comunque bisognoso
di
un uditorio, Menon amava colpirti provocando stupore e sorpresa. Così riusciva
(o sperava di riuscire) a catturare l’attenzione dei suoi studenti. Il suo modo
di fare lezione era intrigante, suggestivo, affascinante: un seduttore quasi
irresistibile. Trasgressivo, controcorrente, mai banale, a volte feroce,
elitario (quelli, pochi, che stavano dentro il cerchio e quelli, molti, che non
ci stavano). Spesso ci fece ridere. Come ben ricordano tutti coloro che lo hanno
avuto come insegnante, l’elenco delle sue stranezze e bizzarrie comportamentali
è lungo. Eppure, se ripenso a quelle sue
stramberie, a quegli sberleffi di ex futurista ogni volta gli vedo spuntare
sulla faccia un sorrisino tra l’ironico e il beffardo, vedo balenargli negli
occhi un lampo di arguzia malandrina e sorniona. Sogghignava, il provocatore,
godendosi il nostro sconcerto, se la spassava tra sé e sé spiando «l’effetto che
fa».
Mi racconti un aneddoto, un frammento di vita che ci aiuta a capire il
‘personaggio’ Menon.
Ne scelgo uno fra i tanti perché mi pare tuttora emblematico e significativo per
capire meglio Menon. Soli, in un’aula vuota, una volta mi raccontò di quando,
sotto Natale, lui se ne stava rincantucciato nel buio di un portone a fare la
posta a una donna. «Mi vengono incontro due uomini – sillabò –, forse erano
cacciatori; parlano ridendo del gneur (la lepre in lingua friulana) che hanno
preso e di come se lo sarebbero sbafato in salmì con la polenta. Le lacrime
hanno cominciato a scendermi sul viso». Se il canto delle sirene della vita è
ammaliante e irresistibile per ognuno di noi, paradossalmente lo era a maggior
ragione per lui: quante volte mi ha confessato il rammarico e il rimpianto di
non poter essere come gli altri, di non potersi accucciare nella consolatoria e
stordente «normalità» della massa. Anche lui era alla ricerca di un nido.
Mi indichi una poesia a suo giudizio esemplare del lavoro incessante di Menon.
Ah, che domanda difficile! Sarebbe come chiedermi di scalare il Cervino con gli
infradito e in pantaloncini corti! Una su centomila! Bon, me la caverò così,
citando i versi pubblicati dall’amico Alberto Casiraghy in un suo
«pulcinoelefante» e pochi altri estrapolati da un paio di sue poesie:
«nido del sagittario
un grillo ha cantato
non più di un bisbiglio
nella pena dell’essere
(…)
coltivatore di ansie
uomo solo
vado con bagagli di vento,
speranze di infanzia,
i segni lasciati sul cuore
dalla tua mano
(…)
terra lenta dell’erpice
fatiche di una vita
si scardina il sasso dalla zolla
nello spavento della locusta
invidia di più forti ali
e l’erba resta sospesa nel vento
questa stagione di prove
non si appoggia a stelle matematiche
impotenti nei giri assegnati
contro il caldo furore del sangue
che tira il grido dalla sua parte
e ogni perdizione
non confondermi nell’istante della resa
non giudicarmi se l’occhio si fa vetro
sulla parete offesa dalla rinuncia
tutto umano è il piede
che incontra il suo ostacolo
il braccio che decide di abbassare lo scudo».
Quando e perché ha cominciato a dedicare forze e spirito a Menon? E poi: cosa ci
resta da scoprire di Gian Giacomo Menon?
Era il 2010, ero andato in pensione dal giornale dove ho lavorato per trent’anni
(“La Nazione” di Firenze) e ho deciso di fare qualcosa perché il velo dell’oblio
non cadesse inesorabile a coprire il ricordo di Menon come insegnante e come
poeta. Perché l’ho fatto? Per il debito, il grande debito di riconoscenza e di
gratitudine che ho sempre avuto – e continuo ad avere – nei confronti del
“fatale professore”. Ricorda l’indimenticabile professor Keating dell’Attimo
fuggente, quello di «Oh Capitano, mio Capitano»? La Giulia Terzaghi dell’Ora di
lezione di Massimo Recalcati? O quell’imperdibile libro che è La lezione dei
maestri di George Steiner? I motivi, il perché li trova lì. Menon aveva alcuni
doni che riversava generosamente intorno a sé. Intanto il carisma (χάριςμα),
quell’attributo che significa grazia, autorevolezza, prestigio, dottrina,
saggezza, sapienza, fascino… e che, come il coraggio di don Abbondio, uno se non
ce l’ha difficilmente se lo può dare.
Poi aveva il λόγος, polisemica parola greca che vuol dire tante cose: parola,
discorso, intelligenza; ragione universale e pensiero divino secondo Eraclito;
ragione generatrice che conferisce ordine e vita a tutte le cose per gli stoici;
quel qualcosa che contiene in sé il bello, il buono e il giusto stando a
Plotino… Terzo, Menon fu un impareggiabile pontifex, letteralmente un
costruttore di ponti tra culture e discipline diverse, ponti gettati verso e sul
mondo per sfuggire alle ristrettezze culturali e mentali della piccola provincia
udinese; un «insegnante-testimone capace di aprire mondi attraverso la potenza
erotica della parola e del sapere che essa sa vivificare» (Recalcati). Per lui
non eravamo «vasi vuoti da riempire, ma fiaccole da accendere» (Plutarco). Che
poi, a ben vedere, è lo stesso atteggiamento, volutamente provocatorio, che
Socrate adotta nei confronti del giovane Agatone nella scena iniziale
del Simposio.
Gian Giacomo Menon (1910-2000) in una rara posa ‘mondana’
Chi ha avuto Menon come insegnante ha avuto una fortuna: quella di trovarsi a
contatto con il riverbero di una mente sopraffina e di alto livello. Tutti i
suoi allievi hanno sperimentato direttamente la ‘minaccia’ che tale contatto
costituiva, ne sono stati in qualche modo ‘infettati’ perché è noto che
l’eccellenza può dimostrarsi spesso brutale e che confrontarsi con essa è
un agòn, un pòlemos. A scuola come nella vita. Dopo quel contatto, però, molti
di loro non hanno più potuto dimenticare né quella luminosità né quel riverbero
né quella ‘minaccia’. Forse sono inattivi e silenti quei germi, quegli agenti
dell’infezione, ma sono sempre lì, in agguato, annidati in loro e pronti a
balzar fuori. E molti ex allievi ancora oggi sono fieri di essere
‘sopravvissuti’ alle sue lezioni. Quando sei stato esposto a quel virus – anche
Menon trasmetteva quella contagiosa ‘malattia’ che Melanie Klein ha chiamato
epistemofilia, la libido sciendi, la brama di sapere –, non importa quanto a
lungo, te ne rimarrà sempre un riverbero, uno stigma. Per il resto della tua
carriera e della tua vita privata, magari del tutto normali, magari banali e
prive di distinzione, avrai sempre, come avverte George Steiner, «una protezione
contro il vuoto». Chi scrive considera un privilegio l’essere stato uno dei suoi
allievi e ai suoi figli, quando hanno fatto il loro ingresso alle superiori
(quella fase che corrisponde probabilmente alla più importante, formativa e
magica stagione della vita), ha augurato soprattutto una cosa: di avere nella
loro vita scolastica almeno un insegnante, fosse pure uno solo, come la Giulia
Terzaghi, il John Keating o… il professor Menon della sezione A del liceo
classico ‘Stellini’ di Udine.
Come il vecchio Dencombe di quello stupendo racconto di Henry James che è Mezza
età, anche Menon «ha fatto vibrare qualcuno» che è la cosa che più conta quando
tiri le somme della tua vita. Oh, sì, Menon ci ha fatto vibrare, ne ha fatti
vibrare molti: di desiderio di sapere. «In una classe quanti allievi pensi che
debbano seguire con partecipazione le mie lezioni perché io mi ritenga
soddisfatto?», mi chiese una volta. «Mah, non so – risposi –, la metà, un
terzo…». «Uno, me ne basta uno per classe!», rispose. Anche ai veri cabalisti e
a certi maestri eremiti era concesso un solo discepolo; Nietzsche ebbe un unico
allievo.
I dialoghi platonici, le lettere di Seneca a Lucilio, la scuola di Tagore sono
lì a dimostrare che non è importante soltanto che cosa si insegna, ma anche come
si insegna. Lo sanno bene gli insegnanti e lo sa anche chi insegnante non è, che
si può insegnare in tanti modi, ma che l’unico modo per insegnare con grandezza
e lasciando un segno davvero duraturo è suscitare dubbi e domande negli allievi,
promuovere e sollecitare il loro senso critico, aprire e far ‘sorgere’ per loro
mondi nuovi, inattesi, sconosciuti, inaspettati, allenarli al dissenso,
prepararli al distacco: «Ora lasciatemi», ordina Zarathustra; Empedocle prega il
suo discepolo di lasciarlo solo sul ciglio del cratere.
A suo avviso, come si colloca Menon nella poesia italiana del Novecento e cosa
manca perché il suo nome compaia nei repertori antologici della letteratura del
nostro paese?
Non lo so. Non sono un accademico né un critico letterario, non ho la competenza
per esprimere giudizi se non dire che a me la poesia di Menon piace. La poesia è
un mistero, come l’amore. Se i versi che stai leggendo non risuonano dentro di
te, se non ti cantano dentro non c’è barba di esegesi critica che possa farlo.
Posso però dire perché la poesia di Menon è ancora in larghissima parte
sconosciuta o misconosciuta nonostante il sottoscritto da quindici anni ci provi
a diffonderla, a farla conoscere: distrazione, pigrizia, scarsa propensione ad
accogliere il nuovo e a lavorarci sopra… Oh, sì ho incassato riconoscimenti e
attestazioni di stima anche autorevoli, ma Menon non ha ancora sfondato a
livello nazionale come invece, secondo me e secondo alcuni altri lettori molto
competenti, meriterebbe. Ma la speranza è dura a morire! Provare, fallire,
provare ancora, fallire meglio… Io di certo non mi arrendo!
L'articolo “Di Gian Giacomo Menon non sappiamo quasi nulla. Sappiamo solo che è
poeta, un vero poeta” proviene da Pangea.
Nel 1910, a Copenaghen, esce un libro a suo modo decisivo. S’intitola Vita del
lappone, lo ha scritto Johan Turi in uno stile, al contempo, crudo e fiabesco,
come appena estratto dal fuoco, una specie di nordica Lascuax. Nelle fotografie,
Turi ha lo sguardo ad accetta, occhi che contengono boschi. Nato nel 1854,
faceva l’allevatore di renne; il suo libro, scritto in lingua sami con la
traduzione in danese, fu pubblicato in diverse lingue: in Italia è al 235 della
“Biblioteca Adelphi”. Il libro ha una leggiadria adamitica, la prontezza delle
cose prime e nude: si parla di bestie, di estati come coltelli, di segni nel
suolo e nel cielo e della “pietra del serpente”; le costellazioni si chiamano
“Alce”, “Branco di cani” e “Sciatori”; la Via Lattea è la “Scala degli
uccelli”.
La data in cui è pubblico il libro è importante: di lì a poco i Sami, etnia
indigena del Nord, verranno ripetutamente vessati dalle entità statali,
Norvegia, Finlandia, Svezia, a estirpare terre, a sradicare tradizioni. Non a
caso, intorno a quella data, nel 1913, attracca Ædnan, il poema epico di Linnea
Axelsson, poetessa svedese di origine Sami. Edito nel 2018, Ædnan – che in Sami
significa “terra”, “luogo natio” quando non “madre, matria” – racconta, in
versi, la saga di una famiglia Sami, tra enormità di panorami, apparizioni di
morti, vessazioni, dai primi del Novecento al nostro millennio. Il ritmo imposto
dalla Axelsson contrasta con il tambureggiare dell’epica tradizionale: i versi
sono brevi, a volte brevissimi; si procede per singulti e apocalissi in palmo di
mano; c’è molto bianco intorno, tanto che le parole paiono impronte di renna
sulla neve, rivoli di una danza antica e perduta, di uomini-pernice, di
uomini-gufo. Un esempio:
“Mi addentrai nella palude
dei lamponi gialli
–
Avanzai
finché potei
poi mi spogliai
sciolsi i nodi dei pantaloni
e li riempii di bacche
–
Annodai lo scialle con
della stoffa e ne feci
uno zaino
ricolmo di bacche
–
Una pozza nera
si aprì nel muschio
l’acqua era fredda
meravigliosa per la nuca
–
Allora spuntò
scura nel cielo
l’aquila reale
l’occhio giallo
e nero
–
Nell’occhio giallo
il mondo ebbe
un altro riflesso
–
Dischiuse gli artigli
e si gettò su Aslat
lasciai le bacche
e corsi gridando
con le braccia alzate
–
Vidi l’immenso
rapace volare via
–
Tutto era come sempre
ma c’era un’ombra”
Tradotto in inglese, da Knopf, nel 2024, Ædnan ha avuto un impatto importante:
il libro, tra l’altro, è stato finalista al National Book Award for Translated
Literature. Di questo “ambizioso romanzo in versi”, an Arctic epic from Sweden,
ha detto il “Guardian”, toccando il punto centrale del testo: “in ogni pagina,
distese di spazio bianco, a memoria di una narrazione fatta di assenze,
fratture, silenzi, oblio e mutilazione”. Una porzione di Ædnan è stata tradotta
da Maria Cristina Lombardi – già traduttrice, tra l’altro, del fenomenale poema
epico-cosmico Aniara del Nobel per la letteratura Harry Martinson – nel libro
libro collettivo Voci di donne dal Nord, edito da Crocetti (in cui sono
sintetizzati, per poesie-totem, i lavori, oltre che di Linnea Axelsson, di Eva
Ström e di Ann Jäderlund).
Lei è Linnea Axelsson
Ædnan, soprattutto, è il poema di una lingua defunta che risorge rifulgendo (“La
lingua sami dormiva/ da tempo nel corpo/ bloccata// dentro/ dalla vergogna…//
Come se mai/ noi e i nostri avi/ fossimo esistiti// mai avessimo/ costruito
nulla”). Di una lingua dissotterrata, di minime, esigenti tracce nella neve che
tornano artigli, il ruggito del profondo Nord. Certo, il poema s’infittisce
nella nostalgia: le parole descrivono ma non operano; la danza, non più
sciamanica, è sciamannata, dei fasti restano le vestigia, le braci – pigolano
gli astri. Su tutto, tuttavia, agisce lo straordinario.
Con l’aiuto della Lombardi, abbiamo contattato Linnea Axelsson, a dare ligneo
lignaggio a questa lingua.
Come è nata l’idea di scrivere un poema epico sui Sami? Come ha scelto di
strutturare il libro?
Più che un’idea iniziale, sono stati il lavoro e il materiale ad ispirarmi la
scrittura di un poema epico sui Sami: la poesia epica è stata una scoperta che
poi ho messo in pratica. Credo che un’opera si sviluppi da un’immagine interiore
che funge da orientamento verso un certo linguaggio, una data struttura, un
mondo che il lettore è chiamato ad immaginarsi. Nel caso di Ædnan, l’immagine,
almeno come come la ricordo, era un volto di donna, o meglio, il silenzio nel
suo volto. Fu lei che durante la stesura del testo haportato con sé lo spazio
(Sápmi, la terra dei Sami), gli eventi e gli altri personaggi. Pian piano
l’ampiezza e la natura del materiale – ad esempio, le relazioni interpersonali e
lo svolgimento della narrazione nel tempo – iniziarono a suggerirmi che forse il
racconto sarebbe stato più adatto alla prosa che alla poesia. Prosa e poesia
sono costituite dagli stessi elementi, ma si utilizzano in modi diversi e con
enfasi diversa. Non mi pareva giusto scrivere un romanzo, sarebbe stato come
assolvere a un compito inesatto. Così, a un certo punto, mi è venuta in mente la
tradizione epica, e allora mi sono presa una pausa necessaria. Non nel senso che
ho cominciato a leggere i poemi epici antichi; piuttosto, ho iniziato a
impostare alcuni principi formali di riferimento. Ho riflettuto a lungo intorno
alla tradizione degli joikar sami che sono contemporaneamente canto, tradizione
poetica più o meno narrativa, e strumento per ricordare e conservare le memorie.
Come è riuscita a trovare il ‘ritmo’ adatto al poema? Intendo dire: nel poema si
coagula una lingua arcana, arcaica, ma anche un tono proprio della poesia
contemporanea. Mi spieghi il suo processo linguistico.
Trovare il ritmo è stato decisivo ed è parte della forma stessa del poema: versi
brevi, scarsità di parole, silenzio. Questo mi ha ispirato un sensazione di
ampiezza e di movimento, nello spazio e nel tempo, che tenesse insieme e
caratterizzasse la narrazione. Ci è voluto molto a trovare il giusto ritmo: in
qualche modo, è scaturito durante la scrittura. Altre volte mi è accaduto di
sentire un ritmo senza nessuna parola, che solo dopo è divenuto poesia, ma non è
il caso di quest’opera.
Il ritmo è anche legato alla respirazione e allo svolgimento, nel senso che
nasce quando una poesia si muove tra qualcosa di quotidiano, che senti sulla
pelle, e qualcosa di cosmico, di esistenziale. Produce suono e realismo. Lo
stesso svolgimento si rispecchia nella parola: un termine della sfera quotidiana
o comunque della contemporaneità si incontra con una parola più solenne, più
carica di connotazioni o più antica, riuscendo nella poesia a essere avvertito
come semplice e naturale al pari della parola quotidiana.
Per molto tempo – oggi non è più così – sono stata attratta dall’arcaismo
facile, sia perché amo le profondità e le diverse fasi della lingua, sia perché
quello che devo costruire non è documentato, ma vive nella narrazione orale,
nelle fiabe, nel mito. In Ædnan ho cercato anche di cogliere un certo suono che
credo fosse tra i Sami nell’ambiente in cui sono cresciuta quando si parlava di
cose come lo stato e gli svedesi, o come quando si raccontavano aneddoti.
Quali sono le fonti di cui si è nutrita? In Italia è abbastanza noto il
resoconto di Johan Turi, ma per il resto il popolo dei Sami appare tra le brume
della leggenda. Quali sono i miti miliari, decisivi dei Sami?
Uso tutto quello che posso: ricordi, cose che ho sentito e ho visto, che ho
letto. Più importante di tutto è l’immaginazione, lo spazio per la capacità di
rappresentazione che dobbiamo conservare in noi stessi. Non faccio ricerca nel
senso giornalistico ma, al contrario, evito di leggere proprio di ciò su cui
scrivo.
Detto questo, sono sempre stata interessata e ho letto tanto sulla storia e
sulla mitologia dei Sami, ma la grande fonte, quando si tratta di questa storia,
è fatta di esperienza, cultura e narrazione orale, dunque, dalle conoscenze che
si tramandano in famiglia, tra parenti e amici. Molte culture, come quella sami,
si scontrano con due fattori essenziali: la propria storia scritta, quando non
sia stata resa del tutto invisibile e assimilata, è stata comunque a lungo
formulata da qualcun altro, e che ciò che si conserva ci si aspetta sia
autentico.
Nella mitologia sami ci sono divinità e miti della creazione. In realtà, non so
quanto delle fonti scritte sia influenzato e concepito dai colonizzatori che per
primi l’hanno scritta e tramandata. Ho riflettuto a lungo e non so se i
termini dèi e dèe funzionino veramente. Ad esempio, Sáráhkka[1], non è piuttosto
una forza che non una dèa nel senso occidentale del termine? Forza generatrice e
maternità sono presenti anche nelle acque di un lago.
Mi sembra che il suo poema epico abbia altresì un ruolo ‘politico’. Quali
reazioni ha risvegliato il libro dopo la pubblicazione?
Quando Ædnan è uscito in Svezia, credo abbia contribuito ad aprire gli occhi ai
lettori svedesi sulla loro storia e sulla situazione coloniale del paese: che la
Svezia non è mai stata un paese con un solo popolo. Tra i lettori Sami, se
parliamo da un punto di vista storico e politico-sociale, le reazioni sono state
ovviamente di altro tipo: riguardando soprattutto aspetti come rappresentazione,
riconoscimento, ecc. Io sono un po’ indecisa se considerare il
poema politico oppure no. Credo che tutto quel che scrivo abbia in sé un piano
politico. Ma sono assolutamente convinta che le eventuali verità sulla nostra
vita si possano scoprire solo attraverso l’immaginazione, liberandosi da ogni
dovere e impegno, e che qualsiasi riflessione su temi e aspetti politici emerga
molto tardi nella stesura di un’opera, se non addirittura mai.
Quali sono le letture che la hanno formata, i poeti che può appellare a maestri?
Sono molti e diversissimi tra loro. Nils Aslak Valkeapää, Birgitta Trotzig,
Robert Musil, Elizabeth Bishop, Ingeborg Bachmann. Mi piace moltissimo leggere
testi teatrali: Harold Pinter, Lars Norén, Brian Friel. Qualche volta leggere è
quasi come andare dal medico: è qualcosa di molto preciso quello che mi
prescrivo.
Oggi, nell’era dell’algocrazia, delle guerre continue e dell’intelligenza
artificiale, che senso ha la poesia? Che senso ha l’epica?
Mi viene voglia di rispondere che il senso della poesia oggi è lo stesso che è
sempre stato. La poesia sembra essere qualcosa cui si ricorre in situazioni
terribili. Lo vediamo oggi a Gaza: sia i palestinesi a Gaza che uomini e donne
in tutto il resto del mondo scrivono poesia che, in modi diversi, nasce
dall’attuale genocidio. Lo abbiamo visto nei campi di concentramento del Terzo
Reich, dove gli ebrei scrivevano poesie nonostante rischiassero la
vita. È un segno del significato della poesia, ma ilsignificato è difficile da
determinare. Per me, come lettrice e poeta, ha a che fare con il lavoro
linguistico, con la lingua come essere vivente, con l’immaginazione,
l’attenzione e la concentrazione. Ha a che fare con il piacere e la realtà.
Cioè, con un aspetto della realtà.
È come se poesia, letteratura e arte fossero un fiume che scorre accanto alla
vita, dalla stessa sorgente. Sono legate e si rispecchiano a vicenda, ma la
letteratura non può essere solo uno specchio, una rielaborazione o
un’esplorazione. È costruzione di se stessa. La poesia dovrebbe essere un
vortice ben definito, e i vortici portano ossigeno al fiume. Per me, poesia
epica non significa che il testo presenti una certa lunghezza, o si espanda in
un certo arco temporale o che sia narrativo allo stesso modo di un romanzo. Per
me la poesia epica è legata alla memoria e alle storie. Storie che possono
conservare il nostro contatto e la conoscenza delle nostre origini, e
testimoniare la qualità del nostro rapporto con tutto ciò che vive.
(Traduzione di Maria Cristina Lombardi)
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[1] Dèa dello sciamanesimo, protettrice del parto, venerata nelle regioni
abitate dai Sami in Svezia e Novegia.
L'articolo “La lingua sami dormiva, bloccata dalla vergogna”. Dialogo con Linnea
Axelsson proviene da Pangea.
Gliel’ho detto così, brutale, a bruciapelo. Il tuo libro non mi è piaciuto.
Sembrava saperlo. Sembra sapere tutto. Sembrava sollevato. Poi ho capito
qualcosa – che dirò più tardi.
Con La Repubblica italiana dei poeti – Edizioni Industria & Letteratura, 2025 –
Andrea Temporelli tenta di costruire un orizzonte per comprendere la poesia
italiana contemporanea. Lo fa consapevole del frainteso, per un bene più grande,
a mo’ di lascito. Più che la costruzione di un nuovo canone, mi pare la sua
disfatta – qualcosa di simile all’Uranometria di Johann Bayer, dove gli ammassi
stellari possono sembrare draghi, pellicani ed eroi omerici fuori tempo, oppure
meri emblemi del nostro disorientamento. In sostanza, Temporelli passa in
rassegna oltre seicento poeti. Neppure troppi, se si pensa che Pier Vincenzo
Mengaldo, nel ’78, ne ha riferiti, a rappresentare i Poeti italiani del
Novecento, una cinquantina – non tutti indimenticabili –; un numero che è
andato, con lo svolgersi dei decenni, drammaticamente levitando.
La Repubblica italiana dei poeti – io propendo ancora per la “Dittatura
dell’unico” – è costruita a contrario rispetto a una comune antologia. Dopo aver
impilato i poeti di cui occorre “leggere tutto”, “tutto o quasi”, “tutto o quel
che si può” (il che è tutto risolto a pagina 28), l’autore si impegna – per le
successive duecento e passa pagine – a dar conto degli esclusi. Questa porzione
del libro s’intitola La cura degli assenti; non è secondario ricordare – a dire
della mente simbolica dell’autore, nel senso che tiene assieme tutto – che
quello è anche il titolo di una recente poesia di Temporelli (il quale, per buon
gusto – anzi, con alta malizia –, non si auto-antologizza), apparsa su un numero
di “Poesia” (n.31, Maggio-Giugno 2025). Ne ricalco alcuni lacerti, i più belli:
> “La neve invece
> prepara il fango, l’usura del gelo, il silenzio
> ingoiato per fame, vera fame. […]
> L’osso scartato dai cani
> è la prima idea del mattino”.
Nel circuito di queste parole – la neve e la fame, l’osso, il mattino, i cani –
si trova forse la chiave per comprendere La Repubblica dei poeti.
Smetto di cianciare.
Il lavoro di Temporelli è folle: richiede la mente di Cartesio in un corpo
dionisiaco. La danza, selvaggia, pretende, perché la profezia si avveri, di
polverizzare tutto: così un figlio s’india nel padre e il padre può smettere di
essere padre, ma acqua, mano, neve.
La Repubblica italiana dei poeti, attaccavo, è un libro che non mi piace. Ovvio:
la vertigine dei nomi – legionedirebbe l’evangelista – fa svenire, fa venir
voglia di consacrarsi ad altro. Ma sarebbe sbagliato perché ogni singola vita –
insegna l’autore o la sua ombra – va benedetta. Non mi piace, dicevo, perché ho
avuto il privilegio di scorrazzare nella savana di “Atelier”, la rivista ideata
da Marco Merlin – l’altro lato di Andrea Temporelli, il suo idolo – trent’anni
fa e da lui diretta fino al 2013. A quell’epoca – di cui potete leggere tutto –,
era già tutto chiaro, con furia lungimirante, ad alto grado di ebbrezza: la fine
dei ‘maestri’, l’implosione di ogni ordine di autorevolezza (ergo: pubblicare
per ‘Lo Specchio’ Mondadori equivale a stampare per l’editore-artigiano sotto
casa), la latitanza da ogni orizzonte di gloria, il brigantaggio del linguaggio,
la critica spettrale, atta a certificare la lebbra, la morte-in-vita. Alla
letteratura, appunto – con le sue stole, le moine, i premi, il delirio
patologico dell’egotismo – preferimmo la vita. Per intenderci, così scriveva
Marco Merlin nell’editoriale di “Atelier” del marzo 2004:
> “La nostra parte ci è chiara. Quello che spetta a noi è stare, verticali,
> dentro il nostro respiro, smemorati del nostro nome, aperti a tutto, senza
> privilegio alcuno da difendere. Ma anche senza la paura di testimoniare le
> passioni che ci animano e di soffiare sull’orizzonte, per vedere se qualche
> zolla comincia a bruciare”.
Ho conosciuto Marco Merlin attorno a un editoriale dal titolo che ancora brucia,
“Militare più che militante”. Era il 2001. Quegli editoriali (dai
titoli-emblema: “Siamo poeti o giullari?”; “Fine del Novecento”; “Lo scisma
della poesia”; “La poesia è una marchetta”; “Liberarsi dalla letteratura”), che
costituiscono una delle audacie più pure e più folli della poesia recente, sono
stati poi raccolti in un libro, Smarcamenti, affondi e fughe(Giuliano Ladolfi
Editore, 2016). L’autore di quel libro risulta essere Andrea Temporelli – in
realtà è Marco Merlin. Andrea Temporelli – che ho chiamato al dialogo – ha
inglobato e divorato Marco Merlin, maestro di cui sono ormai orfano.
Ricalco alcune frasi – come sempre di miliare potenza, che istigano a un compito
– con cui Temporelli chiude La Repubblica dei poeti. “La competizione, semmai, è
crescere verticali su sé stessi per raccogliere più luce”; “Riconosciamo nel
dissenso e nella diversità di vedute l’unica opportunità sensata e interessante
per superare la palude contemporanea. Il nemico leale sarà il vero maestro, la
pietra per saggiare e rafforzare il talento”.
Ora ho capito – dicevo al principio. La ridda di nomi serve per disfarsene – per
disfarsi, soprattutto, del proprio sguardo ‘critico’, del proprio io. Un
ritornare puri dopo la puritana guerra. Sporchi, luridi – ma vivi.
Andrea Temporelli ha scelto il deserto – che lo dica bosco è lo stesso. Lo
chiamerò Ismaele. Il figlio di Abramo “abitò nel deserto e divenne un arciere”
(Gn 21, 20). Arciere in ebraico si dice qashshath, parola che viene usata
soltanto una volta in tutto il Testo, per onorare Ismaele. Il figlio sinistro ha
destrezza nell’arco, non si fa addestrare dalla trafila del Patto. Alla Terra
Promessa preferisce il Nessundove dei rettili e dei cavalli rudi, dal pelo
ispido, le dune e le tende al giardino del tempio. Mi viene in mente il bel
libro di Octavio Paz, L’arco e la lira – ma lì si parlava di Apollo. Chissà se
il dardo sibila in endecasillabi prima di avverarsi nella preda. Parole,
parole.
Immagino Temporelli, di spalle, l’arco a tracolla – ed è tutto.
Andrea Temporelli: che fine ha fatto Marco Merlin?
Finalmente si è tolto dalle scatole. Me lo sono divorato e sbocconcellato fino
all’ultimo brandello e ora, dopo una bella dieta dimagrante, posso scattare
senza ingombri oltre il suo territorio limitato. Averlo fatto fuori, mi
permetterà di scrivere, disinibito, lasciando ad altri la teoria e il lavoro
critico. Temo solo che qualcuno voglia fare pagare a me i suoi debiti. Ma, si
sappia, non ci penso nemmeno. Mi chiedo, divertito, quanto tempo gli altri ci
metteranno a capire che non c’è più.
Che rapporto c’è tra “L’opera comune” e “La Repubblica italiana dei poeti”?
Idealmente, sono due meravigliosi fallimenti concentrici. Il primo, entro il
raggio ristretto dell’amicizia; il secondo, con un raggio quasi illimitato che
rilancia in una dimensione politica la medesima utopia.
Che rapporto c’è, nel tuo ‘metodo’ poetico – dunque, esistenziale – tra il
deserto che ti sei scavato e la massa di poeti – una schiera, una falange, una
squadriglia – che hai scovato?
Non lo so. Era una domanda da porre a quell’altro, che non c’è più. Io non
possiedo il metodo, semmai ne sono posseduto e solo dall’esterno qualcuno potrà
descriverlo. Per me la massa è il deserto.
I maestri sono scimmie ammaestrate che desiderano portaborse, l’autorevolezza
editoriale è defunta da un pezzo, gli editori ‘di peso’ equivalgono ai pesi
piuma. In questo spazio – che dura da più di un ventennio – di libertà assoluta,
che senso ha rifondare un canone, perimetrare un ‘orizzonte’?
Tutta la vicenda umana consiste nell’innalzare castelli di ghiaccio nel deserto!
Lo si fa per obbedienza a un senso di bellezza, alla bellezza di un senso che ci
sfugge. Detto questo, tu lo sai bene e lo hai spiegato: si fa l’appello per lo
sterminio della vanità, per attraversare il fuoco dell’opera (nostra, altrui,
comune) che ci travalica, che diventa dono. Di maestri non ne ho più bisogno,
ormai. Ma non fraintendermi: preferirei averne ancora desiderio, significherebbe
essere ancora giovani e aperti a molteplici sviluppi. Alla mia età, però,
sarebbe patologico insistere a cercare “padri”. Quelli che si sono presentati
come tali, erano padrini incapaci di riconoscere e difendere la profezia degli
eventuali figli e, dunque, non c’è stato reciproco riconoscimento. Hanno
preferito, come indichi nella domanda, la gratificazione immediata del
rispecchiamento. Si sono bruciati da soli, in tal senso. E sono fiducioso: la
loro eredità, per fortuna, andrà perduta. La loro autoconsacrazione nel canone
non ha fondamento. Io, con questo libro, rimetto idealmente tutto in
discussione. I conti con la tradizione, vivaddio, sono sempre aperti, e lo
sguardo determinante è quello dei posteri, degli alieni che equivocheranno,
rimedieranno, rimuoveranno secondo la loro logica, non secondo quella di chi li
ha preceduti.
Lui è Andrea Temporelli o Marco Merlin?
Nella tua “Repubblica” pare che la quantità abbia soppiantato la qualità. Mentre
il secolo scorso si può riassumere entro una piramide di nomi e di dicotomie
(Pascoli/D’Annunzio; Ungaretti/Montale/Svevo; Luzi/Zanzotto/Sereni/Caproni etc.,
con singolarità satellitari – es. Campana, Sbarbaro, Rosselli, Bertolucci,
Pasolini, Pozzi…) l’oggi è l’assembramento di centinaia. Il poeta è detronizzato
dallo storicismo, dall’orizzontalità dilagante, da una analfabeta
alfabetizzazione? Cosa?
Siamo passati dall’umanesimo aristocratico, con i suoi pregi e difetti, alla
democratura dell’individualismo capitalistico. Ma la rete si sta formando: i
nodi strategici si rafforzeranno, le cricche saranno poste ai margini, la
coscienza generale lascerà emergere le nuove strutture, e anche la matassa ora
apparentemente indistricabile in cui ognuno pare avere il diritto di
autorealizzarsi (in qualsiasi pratica sociale o forma d’arte) avrà una sua
figura riconoscibile. Manca qualcuno, nel mio catalogo? Indubbiamente. Tu
aggiungeresti, mi hai detto, Ivano Fermini, io Sonia Gentili e, forse, Ugo
Magnanti e Domenico Segna; ma anche qualche decina di nomi ulteriori non
smuoverebbe la massa critica di oltre seicento autori (selezionati!). Per questo
la fotografia del panorama resta complessivamente credibile e, adesso che il
perimetro è ragionevolmente chiuso, si potrà anche eleggere i pochi che
veramente svettano – spiegando perché, rendendo ragione, insomma, di tutti gli
altri. Questo è l’intento del libro. Se poi si vorrà ammettere che non svetta
nessuno, che abbiamo tante colline e che in generale la produzione poetica è
buona (una visione ottimistica e inclusiva), sia pure. Saremo un’epoca di
produzione di massa da cui prendere, di volta in volta, esempi a capriccio. Per
quel che riguarda me, invece, arriverei a dire che i poeti che mi interessano e
che continuerò a seguire sono pochissimi. Due mani per contarli basteranno.
Che rapporto c’è, cioè, tra il singolare talento di un poeta e la ‘comunità’ dei
poeti?
Vedo che fatichi anche tu a ricordarti che Marco Merlin non c’è più. È una
domanda a cui lui avrebbe saputo rispondere. Non a caso, la Repubblica italiana
dei poeti non è un suo libro, perché non ha metodo e uniformità di sguardo
critico. È il bolo fermentante, il rigurgito con cui ho digerito ciò che lui
avrebbe voluto apparecchiare con perizia tecnica. Perdonerai l’immagine
infelice, che però coglie nel segno.
Che differenza c’è, cioè, tra generosità ed ecumenismo, tra dottrina e
indottrinamento?
Non lo so. Umanamente e intellettualmente, mi addestro alla generosità, con
risultati alterni. L’ecumenismo e l’indottrinamento spettano a chi ha qualche
idea da imporre agli altri. Magari qualche poetica. Io invece non ne ho. Non a
caso, nel libro non escludo nessuna ipotesi di poesia, nessun orientamento
specifico.
In un recente incontro, hai usato la parola ‘benedire’. Spiegami: cosa significa
nel contesto della tua ricerca?
Benedire significa dire bene. Pronunciare un nome in modo che il chiamato si
senta compreso, rispettato, amato. Significa riconoscere l’alterità. Anche
quando si convoca l’altro per una responsabilità, per chiedere di rispondere a
qualcosa che ha che fare con la relazione. Occorre benedire ogni poeta, e
benedire ogni epoca. Anche la propria, che è sempre così facile da disprezzare.
La poesia all’epoca dell’Intelligenza Artificiale: che senso ha? Che poeta
verrà?
Non lo so. Ma sono molto curioso. Penso che mi troverò a mio agio nella
strategia della continua evoluzione di pensiero e di stile. L’IA è il terreno in
cui coltivare la Maniera. L’arte sopravvivrà in forme più selvatiche. L’errore,
l’imperfezione, lo scatto qualitativo imprevisto rispetto al sistema saranno le
stimmate della verità poetica. E l’errore evolutivo, lo scarto, ogni forma di
smarcamento hanno a che fare con l’emozione, che resta supporto
dell’intelligenza umana, come ha dimostrato Damasio.
Ma chissà, staremo a vedere.
Mi pare che la poesia abbia perso premura di profezia, è così orientata al tempo
presente da perderlo di vista. Sbaglio, sono un qualunquista?
Ciò che è davvero presente, pre-sente. Ma molti poeti, hai ragione, non sono
presenti a sé stessi, perché si fissano nello specchio, anziché guardare la
scena in cui sono essi stessi inseriti. Forse, la fotografia dell’oggidì
scattata in questa Repubblica italiana dei poeti fornirà a qualcuno la scossa
per risvegliarsi dall’incantamento.
E ora… cosa scrivi?
Ho una raccolta di poesie quasi pronta; si intitola Luz. Ho in gestazione un
poema, per ora informe. Queste le sento come due opere urgenti, che vorrei
licenziare quanto prima, per determinare un punto di non ritorno. Ma sto
concependo anche un romanzo fantasy, o forse più propriamente epico, che
potrebbe anche abortire e ho un semenzaio di appunti su quaderni e diari
piuttosto vasto. Ho il presentimento di un flusso poetico che vuole emergere in
modo continuativo con una sua particolare struttura, insieme mossa e
determinata. Mi tenta, per tutte queste avventure, l’ipotesi di dedicarmici in
una condizione di libertà dalla pubblicazione. Molto di ciò che scriverò, oltre
ai prossimi due passi poetici (Luz e il poema), potrebbe restare inedito per
scelta. Non so. Non vorrei che fosse il segno di una resa, un alibi rispetto
alla “lotta” per difendere ciò in cui si crede. Ma l’idea di attendere i
fatidici nove anni prima di rileggersi ed eventualmente proporsi a un editore mi
piace, mi dà pace. O magari andare ben oltre i nove anni. Ci pensi anche tu?
Scrivere per non pubblicare, ma solo per dedicarsi all’opera. Che vertigine di
libertà!
*In copertina: Leonardo da Vinci, Studio per la testa di un guerriero, 1504 ca.
L'articolo “Benedire tutto, crescere verticali su sé stessi”. Dialogo con Andrea
Temporelli proviene da Pangea.
Entro in una libreria, siccome è per bambini è come se gli adulti s’inventassero
per sé un cartello all’ingresso che li esclude. Scelgo Il segreto delle cose di
Maria José Ferrada e mettendo giù Il borsellino della sirena e altre poesie di
Ted Hughes prendo a leggere le prime pagine di Dizionario segreto d’infanzia di
Arianna Giorgia Bonazzi. Alla frase “ma adesso, capisco che durante tutta
l’infanzia ho coltivato quel che potremmo chiamare un verbario o meglio
un sonario” capisco che il libro vuole essere letto tutto, che io, presunto
lettore di letteratura-adulta, sto facendo esperienza della nuova frontiera di
quello che in un volume della Carrocci Emy Beseghi e Giorgia Grilli
chiamano letteratura-invisibile. Il Dizionario è una storia d’amore per il
linguaggio. Un cripto-romanzo di grande consapevolezza linguistica. Un’avventura
carrolliana dove ogni parola è uno specchio e l’infanzia è il Bianconiglio di sé
stessa. Per dirlo con Antonio Moresco, è il canto delle parole. Quanto grandi
bisogna essere diventati grandi per poter accogliere dentro di sé il proprio
essere stati piccoli, senza alterare il racconto dell’infanzia per puntellare la
nostra vita adulta? Ho chiesto ad Arianna Giorgia Bonazzi di parlare di questo e
altro, e lei ha risposto. (a.c.)
Da Dizionario segreto d’infanzia: “In principio era il verbo, e il verbo era
presso Dio, e il verbo ero io.”
La bambina protagonista del libro si fa l’idea di essere lei a creare il mondo,
battezzandolo. Il libro, di per sé, vuole segnare il confine tra il linguaggio
come strumento espressivo e il linguaggio come imbrigliatura in automatismi di
pensiero. Nei primi anni di vita siamo noi a inventare il linguaggio, liberi di
associare alle parole travisate, storpiate o sentite male i significanti che
secondo noi più si addicono ai loro suoni. Poi cresciamo, socializziamo, c’è la
scuola, il lavoro, la televisione, i social, ed è il linguaggio del cervello di
massa a parlarci, a irrigidirci nei codici che ci avvicinano alla comunicazione
standard e ci portano lontani da noi stessi.
Sulla soglia di Dizionario segreto d’infanzia troviamo Natalia Ginzburg a
pronunciare la parola poesia.
L’epigrafe tratta da Vita immaginaria è stata aggiunta alla fine. Mi sono
imbattuta nel libro della Ginzburg a Dizionario già scritto:
“Molte sono le parole che sentiamo di dover pensare nel loro vero significato,
scrostandone ogni volta le vernici di falsità che le hanno coperte; e una di
queste è la parola poesia.”
Sono stata in dubbio se riportare o meno l’ultima parte della citazione. Troppo
esplicita. L’accesso alla letteratura, deve avvenire per vie traverse. Nel libro
la parola poesia non ricorre, mentre abbondano parole quasi sgradevoli:
dialettali, ispide, ruvide. Alla poesia si arriva per dei budelli segreti.
Astrakan, sgrisoli, sencillo, ternoriposo tra tomba e tombola, torsolo tra orso
e toro. Come collani le parole di cui fai dizionario? Dal verbo collanare: “la
collana era una macchina da scrivere.”
L’idea del libro nasce dall’incontro con Giovanna Zoboli editrice di
Topipittori. Zoboli, conoscendo Les adieux, il mio esordio pubblicato da
Fandango libri nel 2007, mi propose di entrare a far parte della loro collana
sulla nascita degli immaginari artistici nei primi anni d’infanzia. La mia prima
risposta fu: io non ho un immaginario! Ho sempre fantasticato tramite le parole,
i loro suoni. Così ho accettato senza sapere come avrei fatto. Zoboli mi ha poi
fatto notare che il libro in realtà è zeppo di immagini perché ogni parola fa
sorgere una serie di visioni. Ci aveva visto bene prima di me. Una volta deciso
il formato del dizionario, le parole sono venute da sé, per associazioni
istintive. Volendo, si possono suddividere i lemmi per aree tematiche: ci sono
le parole delle filastrocche, le toponomastiche, le capite-male, le onomatopee.
A scavo avviato il processo è diventato sorgivo, e tutt’oggi continuano a
venirmi in mente altre parole che chiedono un loro spazio nel Dizionario. I
dizionari si sa non stanno mai fermi.
Il libro indica due rischi del linguaggio: deve esserci consapevolezza della
distinzione tra tTempo vero/lingua vera e tempo falso/lingua standard , ma ci si
deve pure guardare dal non “ricadere nelle lusinghe di un individualismo di
maniera.” Esiste un punto d’equilibrio?
È la letteratura il luogo dell’armistizio tra il linguaggio intersoggettivo
necessario a una vita comunitaria e il linguaggio personale necessario a una
vita onesta con sé stessi. Rachel Cusk in un saggio contenuto in Coventry spiega
che il motivo della diffusione dell’insegnamento della scrittura creativa è da
ricercarsi nel bisogno di un linguaggio più onesto: scrivere è il recupero di un
“sé” più vero all’interno di un mondo dove ci si sente alienati.
Tra il favoleggiato e il biografico nel Dizionario traspare la storia di un
idillio con le parole che è stato consentito dall’essere stati risparmiati a una
“una precoce socializzazione”. È un lieto fine o una fine dovuta quello della
protagonista che dice “finalmente a scuola dopo anni di isolamento, la mia
gorgogliante parlantina cominciò a irrigidirsi nelle statue ghiacciate
dei cioè e dei praticamente”? Sembra un finale alla Collodi, dove non si sa se
essere felici o no per Pinocchio, o alla Carroll. Per dirlo dalla prefazione di
Busi a Alice nel paese delle meraviglie: “la disgrazia più irrimediabile della
vita: non essere mai adulti e poi, improvvisamente, non essere più bambini”.
Non idealizzo l’infanzia come tempo mitico dove tutti siamo felici e buoni. C’è
anche tanta crudeltà nell’infanzia e la protagonista del Dizionario la lascia
trasparire attraverso i suoi pensieri più oscuri. È una bambina un po’ folle ma
anche molto matura, con uno sguardo severo sulle ombre della vita familiare.
Allo stesso tempo, la voce adulta che rievoca quella bambina non ha smarrito la
propria identità infantile. La salvezza, se ce n’è una, è essere stati bambini
un po’ spietati; e diventare adulti con uno sguardo pietoso per l’infanzia.
Allargando il campo. I libri sull’infanzia rientrano in quella che Emy Berseghi
e Giorgia Grilli, in un bel saggio Carrocci, definiscono ‘letteratura
invisibile”, la letteratura che dà voce a chi non parla, per stare
all’etimologia di infanzia, lungo la faglia: “bambini come creature da formare e
bambini come creature non ancora deformate”. Ti senti una scrittrice-invisibile?
Katherine Rundell in Perché dovresti leggere libri per ragazzi anche se sei
vecchio e saggio cita un’intervista a Martin Amis. Gli avevano chiesto se avesse
mai pensato di scrivere per bambini e lui aveva risposto: “Forse se avessi un
grave danno celebrale lo farei.” Il saggio di Rundell è la replica perfetta allo
sguardo altezzoso che esiste verso la letteratura per ragazzi. C’è un
pregiudizio simile perfino tra chi i libri per bambini li scrive. Alla domanda:
“Hai scritto qualcosa ultimamente?” capita di rispondere “Ah, niente, solo un
libro per bambini.” Credo comunque che ci sia sempre stata una grande osmosi tra
i miei lavori per bambini e i miei lavori per adulti, al punto che scrivendo mi
capita di domandarmi a quale pubblico mi sto rivolgendo davvero. Stabilirlo in
modo netto è una questione editoriale e commerciale: i librai devono sapere in
quale settore catalogare ogni libro. Se mi sento una scrittrice invisibile?
Diciamo che mi piace ibridare, e che le dinamiche editoriali non sempre
sorridono a chi non rientra in facili classificazioni.
Secondo i saggi contenuti in La letteratura invisibile la domanda delle domande
è: “essere stati bambini che cosa significa”?
Aver vissuto senza pelle nell’incandescenza delle cose sentite fino in fondo e
conservarne intatto il ricordo nelle proprie identità future. Provando magari a
guardare sempre tutto come chi è appena arrivato sul pianeta Terra e cerca di
capire come vanno le cose.
Il Dizionario segreto d’infanzia contiene una bibliografia suggerita. Ginzburg,
Batuman, João Guimarães Rosa, Virginia Woolf, Dino Buzzati, Calvino, Magris,
Meneghello e altri. Perché Dizionario è anche un’esplicita riflessione sullo
scrivere. C’è la Le Guin de I sogni di spiegano da soli, che parla
delle disinsegnanti. La letteratura ci può ancora disinsegnare qualcosa?
La letteratura non fornisce risposte o consapevolezze ma apre a dubbi e
voragini, e la letteratura per l’infanzia deve fare altrettanto, senza
rinunciare alla sua ambiguità, non riducendosi a manualetto d’istruzione per le
prime volte, a promozione di messaggi educativi di base. I bambini sentono
l’impostura dei libri con la missione incorporata. Le storie devono dare la
possibilità a ciascun lettore di fare le sue scelte, morali e no.
Da Les Adieux: “Crescere è fare le cose dei libri dei proverbi, un vocabolario
che li mette in fila.” Proverbi in Dizionario credo di non averne trovati. Tra
il primo libro e questo com’è cambiato, se è cambiato, il tuo essere scrittrice?
È una domanda che mi sono posta mettendo mano dopo circa venti anni a questa
sorta di Les Adieux “remastered”: non mi ero allontanata più di tanto da
quell’inizio o stavo compiendo la chiusura di un cerchio? I temi ritornano ma la
consapevolezza è un’altra. Durante questi vent’anni sono diventata altre
persone, ho attraversato altre identità. Non avrei potuto proseguire con lo
stile sregolato di Les Adieux, così legato alla ventenne universitaria e
sperimentale che ero allora. In Dizionario tornano le mie ossessioni espresse
però dalla me che sono diventata dopo la conquista dell’età adulta. Continuando
a volermi incompleta, plasmabile, reinventabile.
Concludiamo con un ultimo tocco di teologia beffarda. Dal Dizionario: “Adulterio
– Era sicuramente il peccato di essere adulti.” Come ce lo si perdona?
È il passaggio del libro che meglio racchiude tutta la rabbia che il bambino
nutre verso il tradimento degli adulti quando non si sente visto, riconosciuto,
rispettato in quanto bambino, cittadino di un mondo misterioso e delicato. Non
ce lo si perdona.
antonio coda
*In copertina: illustrazione di John Tenniel ad “Alice’s Adventures Under
Ground”, 1886
L'articolo “Nell’incandescenza delle cose sentite fino in fondo”. La letteratura
per l’infanzia apre voragini. Dialogo con Arianna Giorgia Bonazzi proviene da
Pangea.