Tutto si può dire del vuoto, fuorché che lo si possa fare.
*
Li riempio soltanto o vivo appieno ogni giorno? Giorni come gabbie, solo fra
soli. La vita è piena di rischi e c’è un male che è vero e un bene che è falso –
soltanto sperare mi fa cambiare in meglio. Mi torna in mente, allora, quel detto
di Samuel Johnson, in Rasselas, principe d’Abissinia (citato una volta da Simon
Leys):
> “non lasciare che la vita ristagni… riaffidati al flusso del mondo”.
Annoto queste parole di Papa Leone XIV, dette al suo primo incontro con i
giornalisti: “Viviamo tempi difficili da percorrere e da raccontare, che
rappresentano una sfida per tutti noi e che non dobbiamo fuggire. Al contrario,
essi chiedono a ciascuno, nei nostri diversi ruoli e servizi, di non cedere mai
alla mediocrità. […] Come ci ricorda Sant’Agostino, che diceva: ‘Viviamo bene e
i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi’”.
Se me lo chiedessero, in effetti, non saprei dire perché mi metta a scrivere: il
mio cuore ha ancora tanti nodi che forse non potrò mai sciogliere – o che,
simile a un fine elastico per capelli, lo storceranno per sempre.
*
Alla ricerca di uomini grandi, di chi ti conferma cose di te stesso che soltanto
sospettavi – o comunque, che fanno un po’ di “chiarezza”. In una vecchia
intervista, Giampiero Neri, descrivendo il suo rapporto con uno dei personaggi
di un recente libro, Piazza Libia, diceva di passaggio:
> “Devo dire, non è stato neanche facile entrare in rapporto con questo Signor
> Giovanni [disoccupato da anni]… perché la società naturalmente vive di
> rapporti di lavoro, sicché, non lavorare, trovarsi ai margini, imbarbarisce un
> po’ i nostri comportamenti. Quindi, il signor Giovanni, non era disponibile
> sempre…”
Banale, ma io che un “lavoro” vero e proprio non l’ho mai avuto, né mi ci sono
mai identificato, per essere semplicemente quel che sono, temo di non aver mai
fatto che lottare in – contro – questo tipo di società.
*
Domenica in bicicletta per delle colline a ovest di Pechino. Fino a un tempio
buddista, dai cortili a diversi livelli, alti pini – una coppia è chiamata
“drago che sposa la fenice”, uno piegato abbraccia una pagoda che sorge oltre
una terrazza. Ce n’è uno di mille e passa anni, un gushu 古树 (“albero antico”):
dal tronco larghissimo, che si dirama in una decina d’altri, ha la corteccia
sottile, pare un platano non fosse per i suoi aghi verdi scuri.
Mi attardo a decifrare alcuni caratteri intorno alla porta di una sala in cima:
> “le nuvole si aprono sul mondo del loto, sull’altare si sparge come pioggia la
> suprema saggezza
>
> le onde si alzano, la foresta manda aromi, il padiglione nella nebbia si
> affaccia sulla sala dell’Arhat”
Al tempio, mangiamo degli spaghetti in brodo, dando le spalle a quelli dietro,
faccia a faccia con chi è dall’altra parte della stanza; alle pareti ci sono due
cartelli con scritto: “non parlare”, “restare in quiete”. Nelle altre pareti, su
carta color cachi, passaggi dai sutra e due grandi caratteri: “Saggezza”
(hui 慧), “Prosperità” (fu 福).
In due stanze laterali dell’ultimo cortile, siedono centinaia di statue di
bronzo rappresentanti diversi monaci e santi: c’è chi suona un flauto, chi porta
una ciotola di riso, chi è in meditazione, chi ride. Ci cammino di fianco,
posando le mani sulla superficie fresca, come fanno gli altri visitatori. Due
fedeli percorrono il corridoio a mani giunte.
*
Per strada, con le mani fra le ruote dentate e la catena intoppata, mi viene in
mente mio nonno materno, un omone alto e robusto, con una pancia durissima,
sempre abbronzato e in canottiera, a piedi nudi. Di mestiere riparava macchinari
pesanti: nel garage della vecchia casa in campagna c’era un’officina
ordinatissima, con ogni strumento possibile.
Dopo la pensione, si costruì quella casa in campagna, comprò dei campi per
coltivare viti – vinse dei premi per il suo Erbaluce – e kiwi. In cima a una
collina, dove ora è un vigneto, mise file di noccioli: ci salivo spesso a vedere
il panorama: la pianura nella foschia e i funghi della centrale nucleare
dismessa di Trino. Poi attraverso un sentiero nel bosco – che lui teneva pulito,
anche per poter andarci a funghi – si arriva a un santuario dedicato alla
Madonna. Più oltre si scollina in un paese dove ho degli amici.
Me lo ricordo nel fragore di un trattorino, manovrare davanti alla strada di
casa. Da un lato, la strada scendeva e dava sui garage, di fronte a qualche
filare di kiwi. Qualche anno fa, quando ormai la casa era disabitata, d’estate,
andavo ad aprire regolarmente l’acqua per annaffiare il prato del giardino nel
retro, con altissimi pini, alberi di diversa specie (come una larga magnolia) e
qualche pianta esotica. Un sentiero di mattonelle portava all’orto, dove su un
muro crescevano le zucche, a fianco di una tettoia per accatastare la legna, un
pollaio in disuso. Sotto i garage, in un freddo scantinato, i macchinari per
fare il vino.
I serramenti erano in ottone. Sul balcone al primo piano una panchina a dondolo.
Sopra una piccola mansarda, dove i miei vissero prima che nascessi. Davanti alla
casa c’era un grande prato incolto, e a lato una stradina, che si fa sterrata e
sale sempre più ripida e stretta, immergendosi nel bosco, verso il santuario,
segnata dalle nicchie della Via Crucis – aprendosi qui e là su dei prati,
qualche isolato vigneto, o sulla pianura sotto, fra gli alberi… la Dora,
Vestigné, Ivrea, la maestà delle Alpi sullo sfondo.
Da bambino andavo a fare ripetizioni d’inglese da una signora venuta a ritirarsi
in una villa appena dietro. Aveva studiato ad Oxford, indossava le Clarks,
andava a fare tiro con l’arco per i boschi, e mi offriva delle caramelle di
viola. Si faceva pagare profumatamente.
Pensavo in effetti che ho avuto un’adolescenza piuttosto selvaggia. Alle
superiori passavo la settimana a Torino, dove vivevo in un convitto con il
figlio di un albergatore di certe valli piemontesi, riccioluto, sempre in tuta,
un secchione, e nel weekend o nelle vacanze tornavo nel mio paese di provincia.
Passavo con i miei amici d’infanzia pomeriggi a fare nulla su delle panchine, in
qualche angolo di strada, nei pressi di una chiesetta fra i campi, o in giro per
i boschi. Ci si accampava da qualche parte e ci si inventava qualche cosa da
fare: spedizioni in fabbriche abbandonate, furti di trattori, infastidire il
vicinato. Avevo diversi volti: quello a scuola, più composto, e quello con i
miei vecchi amici – comunque sempre contrassegnato da un certo distacco, insieme
ad una ricerca di continua approvazione, mi sembra ora.
Forse soffrivo questi continui addii, una vita sempre scissa?
*
Forse, volevo parlare del fratello minore di mio nonno, che era invece un
filosofo, – nelle foto a casa dei nonni – magro, capelluto e con una folta barba
nera. Sempre elegante, volto da santone, o da Marx redivivo. Scriveva e teneva
corrispondenze colte, era intelligentissimo: lo presero a lavorare per una
grande azienda di gomme, ai massimi vertici, ma ci durò poco.
Aveva una folta biblioteca, di cui una parte finì tra gli scaffali di casa
nostra: ci ho passato non poche estati, fra quei libri: aveva di tutto, dai
classici di ogni tempo, romanzi moderni e contemporanei, a saggi di ogni
argomento, libri per fare l’orto e di cucina, sulle religioni e la magia –
immagino, tracce di diversi periodi della sua vita, come le sgualcite cartoline
e fogli di appunti al loro interno. Per lo più tascabili, comprati e – immagino
– letti compulsivamente. Ricordo la sua fitta e precisa grafia di ragazzo, negli
appunti ai margini di un manuale ingiallito di storia di letteratura italiana.
Da quel che ne so, il prozio finì per sposarsi con una specie di maga, prima
delle sue rovine. Un giorno, a cavallo dei quarant’anni – io non ero ancora nato
–, parcheggiò la macchina sulla soglia di un bosco, vi si inoltrò e si lasciò
morire fra gli alberi.
Mia mamma, che si commuove sempre quando ne parla, dice che i miei bisnonni –
dei “marghé”, produttori di burro, gente semplice ma che aveva potuto
arricchirsi dopo la guerra – l’avevano viziato troppo, forse non sapendo come
affrontare la situazione. Lei lo ammirava: da lui aveva imparato per esempio ad
apprezzare la musica classica: a casa abbiamo una ricca collezione di vinili dei
compositori più importanti della storia, raccolti da mia madre.
Chissà a quante famiglie è capitato lo stesso – e che la sua anima ancora
sofferente – riposi in pace – non abbia continuato a tormentare noi, o me,
nascosta fra le pagine di quei libri.
*
Questo libro, una raccolta di traduzioni inglesi di 101 liriche cinesi, l’ho
trovato tempo fa in una bancarella, passeggiando per un’università a
Pechino. Con l’aiuto di queste versioni di Chu Dagao, ne rendo alcune in
italiano pensando a qualche amico, e questa poesia di Su Shi:
Dopo aver bevuto
Questa notte ho bevuto al Versante Orientale – di continuo tra il sobrio e
l’ebbro.
Al mio ritorno, sembrava fosse la terza ora.
Romba già il fiato del servo,
nessuno risponde alla porta
appoggiato al bastone ascolto il suono del fiume.
Spesso odio il fatto che questo corpo non mi appartenga:
quando potrò finalmente obliare gli affari terreni?
A notte fonda la brezza, onde fini come la seta.
Che passi di qua una piccola barca
per fiumi e mari per il resto della mia vita!
*
101 Chinese Lyrics (New World Press), ristampato nel 1987, compie una raccolta
di 50 liriche pubblicata dall’Università di Cambridge nel 1937. Il traduttore,
Chu Dagao 初大告 (1898-1987), originario dello Shandong (contea di Laiyang), fu
professore all’Istituto di lingue straniere di Pechino (ora Università di lingue
straniere di Pechino).
Laureatosi nel 1925 presso l’Università normale di Pechino, tra il 1934 e il
1937 studiò appunto a Cambridge, per poi insegnare in diversi istituti in Cina –
lo dicono “uno straordinario traduttore, educatore e poeta. Con la sua profonda
comprensione della letteratura cinese, specialmente della poesia lirica, ha
contribuito grandemente all’introduzione dei versi e dei classici filosofici
cinesi nel mondo anglofono” (dal risvolto di copertina). Sua è anche, infatti,
una traduzione del classico del taoismo, il Tao Tê Ching.
Nel 1919, Chu partecipò alle dimostrazioni studentesche del Quattro Maggio,
venendo arrestato – e liberato grazie al “supporto della popolazione”. Con la
nuova Cina, contribuì a fondare la Società Jiusan (“Nove-tre”, in riferimento
alla vittoria nella seconda guerra sino-giapponese, avvenuta il 3 settembre
1945), uno degli otto “partiti democratici” minori consentiti tutt’ora, animato
dagli intellettuali.
Andrea Corsi
*
Da 101 liriche cinesi
(a cura di Chu Dagao)
Zhang Zhihe
Canzone del pescatore
Volano bianchi aironi davanti alla collina Xisai
fiori di pesco scorrono sul fiume, il persico è grasso.
Con un cappello azzurro di bambù e un verde mantello,
nel vento obliquo e la pioggia fine non c’è fretta che torni.
Zhang Zhihe (732-774) fu un poeta della dinastia Tang (618-907) ed un buon
calligrafo e pittore.
*
Liu Yuxi
Onde sulla spiaggia
All’ottavo mese odo il suono delle onde che mugghiano sulla terra,
le creste alte una decina di metri si rompono sulla parete rocciosa, e si
ritirano.
All’improvviso si ritraggono alla porta del mare
alzando cumuli di sabbia che sembrano di neve.
Liu Yuxi (772-842), anche conosciuto come Liu Mengde, fu un letterato e
filosofo. Fu ufficiale durante il regno dell’imperatore De Zong della dinastia
Tang e un amico intimo di Bai Juyi, uno dei più grandi poeti di tutti i tempi.
*
Wen Tingyun
L’isolotto di bianco trifoglio
Pulito e vestito,
solo, mi sporgo dalla Torre sul fiume.
Vedo mille vele, tranne quella che vorrei passasse.
Che incanto i raggi del sole al tramonto sull’acqua lontana
il mio cuore spezzato è volto a quell’isolotto di bianco trifoglio.
Wen Tingyun (812-866) fu un famoso poeta lirico della dinastia Tang. Sono
sopravvissute Intorno a 60 sue poesie, tutte scritte in uno stile fiorito.
*
Wei Zhuang
Le terre del Sud
I
Tutti lodano le terre del Sud
il viaggiatore vi prende dimora fino alla vecchiaia.
In primavera, le acque dei fiumi sono più blu del cielo,
si cade nel sonno ascoltando la pioggia su barche dipinte.
Le locandiere per strada splendono come lune,
i polsi dietro alle maniche sembrano di neve.
Resta finché non sei vecchio
se non vuoi spezzarti il cuore non tornare a casa.
II
Ricordo ancora le gioie del Sud,
quando ero giovane e indossavo vesti leggere.
A cavallo sostavo sui ponti,
dai balconi rosse maniche mi mandavano saluti.
Nel paravento si nascondeva l’oro della giada
ebbro mi inoltravo in stanze gemmanti.
Se dovessi vedere ancora quei rami fioriti,
vi resterei fino a che i miei capelli non si facessero bianchi.
*
Passeggiata in primavera
È primavera, camminando
mi soffiano sulla testa fiori di albicocco.
Per strada, chi è quel giovane dall’aria nobile?
Mi farei sua serva e mi offrirei a lui in sposa, fino alla fine dei miei giorni.
Non ne proverei vergogna, anche se senza amore dovesse un giorno abbandonarmi.
*
Fiori di magnolia
Solo salgo sul piccolo padiglione, la primavera volge alla fine
triste guardo la strada verdeggiante verso il valico di frontiera.
Non giungono notizie, né viaggiatori.
Aggrotto le sottili sopracciglia, me ne torno al salotto.
Sedersi a guardare i fiori che cadono è cosa vana
lacrime rosse rigano le mie maniche di seta.
Non mi sono mai inoltrato tra montagne e fiumi, prima d’ora,
potrà il mio spirito trovare in sogno un degno compagno?
Wei Zhuang (c.836-910) fu un poeta delle Cinque Dinastie (907-960) conosciuto
per la grazia dell’implicita bellezza della sua poesia lirica.
*
Li Xun
Una nuvola sul monte Wu
Il tempio antico si affaccia su una verde scogliera,
la residenza dell’imperatore poggia su un fiume di giada.
Il boudoir è immerso nei suoni del fiume e nei colori della montagna.
Interminabili, i pensieri giungono dal passato.
Nuvole e pioggia si danno il cambio dalla mattina alla sera
tra foschie e fiori, passano le primavere e gli autunni.
È inutile che il pianto delle scimmie segua la barca solitaria
il viaggiatore ha già per sé non pochi turbamenti.
Li Xun (c.855-c.930), discendente di un persiano, fu un poeta lirico delle
Cinque Dinastie. Gran parte dei suoi poemi descrivono i costumi e panorami del
sud della Cina.
*
Lü Yan
Aspettando un amico
Obliqui i raggi di luna,
freddo il vento autunnale.
Questa sera, verrà il mio vecchio amico?
Ho aspettato fino all’ultima ombra dell’albero dei parasoli.
Lü Yan, poeta della dinastia Tang. Le date della sua nascita e morte non sono
conosciute. Sappiamo solo che fu attivo intorno all’857.
*
Li Cunxu
Come un sogno
Un tempo festeggiammo nella caverna della Fonte del Fiore di Pesco,
intonavamo musiche pure e ballavamo come fenici.
Ricordo ancora quando ci separammo
con le lacrime ti accompagnai alla porta.
Come un sogno, come un sogno!
Sono rimasto con la luna calante, i fiori cadevano nella foschia.
Li Cunxu (885-926), fondatore della dinastia Tang posteriore (923-936), divenne
imperatore nel 923 e restò ucciso in un ammutinamento nel 926.
*
Su Shi
In memoria
Per dieci anni, un abisso ha separato i vivi dai morti.
Anche se non ti penso,
mi è impossibile dimenticare.
La tomba spoglia è lontana mille li
non c’è luogo dove possa dire la mia tristezza.
Se ci incontrassimo non mi riconosceresti,
sembra che il mio volto sia coperto dalla polvere
e alle tempie i capelli sono brina.
Ieri notte ho sognato di tornare all’improvviso a casa.
Eri davanti alla finestra della camera,
alla toeletta.
Ci siamo guardati
le lacrime hanno preso il posto delle parole.
Ricordo anno dopo anno, quel luogo che mi ha spezzato il cuore
notte di chiara luna,
i pini bassi sul poggio.
Su Shi (1037-1101), anche conosciuto come Su Dongpo, nacque nella contea di
Meishan, provincia dello Sichuan. Poeta maggiore della dinastia dei Song
settentrionali, fu anche un celebre calligrafo e pittore. Si distinse come uomo
di stato e coprì diverse cariche ufficiali, ma fu spesso mandato in esilio.
Allargò l’ambito della poesia ci introducendo argomenti più seri, rendendolo
dunque un genere più consistente. La sua poesia è fresca, audace e vivida nello
stile.
*
Xiang Gao
Solitudine
Chi siede in compagnia sotto la finestra illuminata?
Siamo in due, io e la mia ombra.
Ma quando la lampada si esaurisce, e sarà ora di ritirarmi
anche la mia ombra sarà presa dal buio.
Non so che fare!
Quanto sono misero e disperato!
Xiang Gao nacque intorno al 1100.
*
Yue Fei
Devozione non ricambiata
Ieri sera i grilli d’autunno non hanno smesso di cantare
mi hanno suscitato in sogno luoghi a migliaia di li.
Era già la terza ora.
Mi sono alzato, mi sono messo a passeggiare sulla soglia di casa.
Tutto era nel silenzio,
dietro la tenda la luna illuminava appena.
Tutta la mia vita l’ho spesa al servizio dello stato.
A quelle vecchie montagne dove le foreste stanno invecchiando
il ritorno mi è impedito.
Vorrei affidare le preoccupazioni del mio cuore a un liuto di diaspro:
ma chi potrebbe comprenderne la melodia spezzata se non i miei amici lontani?
Yue Fei (1103-1142), eroe nazionale della dinastia dei Song meridionali che
combatté contro l’invasione dei Nüchen. Solo alcune sue opere sono state
tramandare, tutte permeate da forte patriottismo.
*
Nota sullo sviluppo della poesia in stile “ci”
La poesia lirica cinese Ci affonda le sue radici più antiche nel classico Libro
delle odi (Shijing), il quale pose le basi dei suoi schemi ritmici, i motivi
tonali, le differenti misure dei versi e la loro applicazione alla musica. Con
la dinastia Han, la poesia prese forme regolari e l’accento venne messo sulla
creazione musicale, con odi e inni per le occasioni cerimoniali. Durante le
dinastie Sui, Tang e in particolar modo Song, attraverso le accademie di musica,
si assisté ad un divorzio completo tra quest’ultima e la poesia. In seguito ai
frequenti contatti con le regioni occidentali e l’Asia centrale, furono
introdotti motivi musicali senza parole o con mere traduzioni illetterate. I
poeti che volevano scrivere una canzone per una musica, dovevano “riempire la
melodia con le parole”, adattando i motivi tonali della lirica e la lunghezza
dei versi (alternanza di “versi lunghi e brevi”). Da cui, poi, la
poesia ci 词. Questo tipo di lavoro, tuttavia, non teneva molto conto della
libertà dei poeti. I quali cominciarono a non rispettare le regole, o a
mantenerne soltanto alcune. Molti poeti scrissero allora delle poesie per
melodie senza attenersi al loro tema originale. Se una gran parte delle melodie
o canzoni originali trattavano il tema dell’amore, i poeti scrivevano sulla
guerra o eventi storici. Così che le melodie vennero tramandate soltanto nella
loro forma, senza relazione effettiva con il significato delle poesie.
Ad ogni modo, basti dire che la formazione della categoria di versi ci, non solo
ha abbellita ma anche arricchito la poesia cinese in generale. Nella presente
traduzione i nomi delle melodie sono stati lasciati soltanto nella versione
originale cinese, tra parentesi.
L'articolo “Come un sogno, come un sogno!”. Piccola antologia della poesia
cinese classica proviene da Pangea.