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“Come un sogno, come un sogno!”. Piccola antologia della poesia cinese classica
Tutto si può dire del vuoto, fuorché che lo si possa fare. * Li riempio soltanto o vivo appieno ogni giorno? Giorni come gabbie, solo fra soli. La vita è piena di rischi e c’è un male che è vero e un bene che è falso – soltanto sperare mi fa cambiare in meglio. Mi torna in mente, allora, quel detto di Samuel Johnson, in Rasselas, principe d’Abissinia (citato una volta da Simon Leys):  > “non lasciare che la vita ristagni… riaffidati al flusso del mondo”.  Annoto queste parole di Papa Leone XIV, dette al suo primo incontro con i giornalisti: “Viviamo tempi difficili da percorrere e da raccontare, che rappresentano una sfida per tutti noi e che non dobbiamo fuggire. Al contrario, essi chiedono a ciascuno, nei nostri diversi ruoli e servizi, di non cedere mai alla mediocrità. […] Come ci ricorda Sant’Agostino, che diceva: ‘Viviamo bene e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi’”. Se me lo chiedessero, in effetti, non saprei dire perché mi metta a scrivere: il mio cuore ha ancora tanti nodi che forse non potrò mai sciogliere – o che, simile a un fine elastico per capelli, lo storceranno per sempre. * Alla ricerca di uomini grandi, di chi ti conferma cose di te stesso che soltanto sospettavi – o comunque, che fanno un po’ di “chiarezza”. In una vecchia intervista, Giampiero Neri, descrivendo il suo rapporto con uno dei personaggi di un recente libro, Piazza Libia, diceva di passaggio:  > “Devo dire, non è stato neanche facile entrare in rapporto con questo Signor > Giovanni [disoccupato da anni]… perché la società naturalmente vive di > rapporti di lavoro, sicché, non lavorare, trovarsi ai margini, imbarbarisce un > po’ i nostri comportamenti. Quindi, il signor Giovanni, non era disponibile > sempre…”  Banale, ma io che un “lavoro” vero e proprio non l’ho mai avuto, né mi ci sono mai identificato, per essere semplicemente quel che sono, temo di non aver mai fatto che lottare in – contro – questo tipo di società. * Domenica in bicicletta per delle colline a ovest di Pechino. Fino a un tempio buddista, dai cortili a diversi livelli, alti pini – una coppia è chiamata “drago che sposa la fenice”, uno piegato abbraccia una pagoda che sorge oltre una terrazza. Ce n’è uno di mille e passa anni, un gushu 古树 (“albero antico”): dal tronco larghissimo, che si dirama in una decina d’altri, ha la corteccia sottile, pare un platano non fosse per i suoi aghi verdi scuri. Mi attardo a decifrare alcuni caratteri intorno alla porta di una sala in cima: > “le nuvole si aprono sul mondo del loto, sull’altare si sparge come pioggia la > suprema saggezza > > le onde si alzano, la foresta manda aromi, il padiglione nella nebbia si > affaccia sulla sala dell’Arhat” Al tempio, mangiamo degli spaghetti in brodo, dando le spalle a quelli dietro, faccia a faccia con chi è dall’altra parte della stanza; alle pareti ci sono due cartelli con scritto: “non parlare”, “restare in quiete”. Nelle altre pareti, su carta color cachi, passaggi dai sutra e due grandi caratteri: “Saggezza” (hui 慧), “Prosperità” (fu 福). In due stanze laterali dell’ultimo cortile, siedono centinaia di statue di bronzo rappresentanti diversi monaci e santi: c’è chi suona un flauto, chi porta una ciotola di riso, chi è in meditazione, chi ride. Ci cammino di fianco, posando le mani sulla superficie fresca, come fanno gli altri visitatori. Due fedeli percorrono il corridoio a mani giunte.  * Per strada, con le mani fra le ruote dentate e la catena intoppata, mi viene in mente mio nonno materno, un omone alto e robusto, con una pancia durissima, sempre abbronzato e in canottiera, a piedi nudi. Di mestiere riparava macchinari pesanti: nel garage della vecchia casa in campagna c’era un’officina ordinatissima, con ogni strumento possibile.  Dopo la pensione, si costruì quella casa in campagna, comprò dei campi per coltivare viti – vinse dei premi per il suo Erbaluce – e kiwi. In cima a una collina, dove ora è un vigneto, mise file di noccioli: ci salivo spesso a vedere il panorama: la pianura nella foschia e i funghi della centrale nucleare dismessa di Trino. Poi attraverso un sentiero nel bosco – che lui teneva pulito, anche per poter andarci a funghi – si arriva a un santuario dedicato alla Madonna. Più oltre si scollina in un paese dove ho degli amici. Me lo ricordo nel fragore di un trattorino, manovrare davanti alla strada di casa. Da un lato, la strada scendeva e dava sui garage, di fronte a qualche filare di kiwi. Qualche anno fa, quando ormai la casa era disabitata, d’estate, andavo ad aprire regolarmente l’acqua per annaffiare il prato del giardino nel retro, con altissimi pini, alberi di diversa specie (come una larga magnolia) e qualche pianta esotica. Un sentiero di mattonelle portava all’orto, dove su un muro crescevano le zucche, a fianco di una tettoia per accatastare la legna, un pollaio in disuso. Sotto i garage, in un freddo scantinato, i macchinari per fare il vino. I serramenti erano in ottone. Sul balcone al primo piano una panchina a dondolo. Sopra una piccola mansarda, dove i miei vissero prima che nascessi. Davanti alla casa c’era un grande prato incolto, e a lato una stradina, che si fa sterrata e sale sempre più ripida e stretta, immergendosi nel bosco, verso il santuario, segnata dalle nicchie della Via Crucis – aprendosi qui e là su dei prati, qualche isolato vigneto, o sulla pianura sotto, fra gli alberi… la Dora, Vestigné, Ivrea, la maestà delle Alpi sullo sfondo. Da bambino andavo a fare ripetizioni d’inglese da una signora venuta a ritirarsi in una villa appena dietro. Aveva studiato ad Oxford, indossava le Clarks, andava a fare tiro con l’arco per i boschi, e mi offriva delle caramelle di viola. Si faceva pagare profumatamente.  Pensavo in effetti che ho avuto un’adolescenza piuttosto selvaggia. Alle superiori passavo la settimana a Torino, dove vivevo in un convitto con il figlio di un albergatore di certe valli piemontesi, riccioluto, sempre in tuta, un secchione, e nel weekend o nelle vacanze tornavo nel mio paese di provincia. Passavo con i miei amici d’infanzia pomeriggi a fare nulla su delle panchine, in qualche angolo di strada, nei pressi di una chiesetta fra i campi, o in giro per i boschi. Ci si accampava da qualche parte e ci si inventava qualche cosa da fare: spedizioni in fabbriche abbandonate, furti di trattori, infastidire il vicinato. Avevo diversi volti: quello a scuola, più composto, e quello con i miei vecchi amici – comunque sempre contrassegnato da un certo distacco, insieme ad una ricerca di continua approvazione, mi sembra ora.  Forse soffrivo questi continui addii, una vita sempre scissa?   * Forse, volevo parlare del fratello minore di mio nonno, che era invece un filosofo, – nelle foto a casa dei nonni – magro, capelluto e con una folta barba nera. Sempre elegante, volto da santone, o da Marx redivivo. Scriveva e teneva corrispondenze colte, era intelligentissimo: lo presero a lavorare per una grande azienda di gomme, ai massimi vertici, ma ci durò poco.  Aveva una folta biblioteca, di cui una parte finì tra gli scaffali di casa nostra: ci ho passato non poche estati, fra quei libri: aveva di tutto, dai classici di ogni tempo, romanzi moderni e contemporanei, a saggi di ogni argomento, libri per fare l’orto e di cucina, sulle religioni e la magia – immagino, tracce di diversi periodi della sua vita, come le sgualcite cartoline e fogli di appunti al loro interno. Per lo più tascabili, comprati e – immagino – letti compulsivamente. Ricordo la sua fitta e precisa grafia di ragazzo, negli appunti ai margini di un manuale ingiallito di storia di letteratura italiana.  Da quel che ne so, il prozio finì per sposarsi con una specie di maga, prima delle sue rovine. Un giorno, a cavallo dei quarant’anni – io non ero ancora nato –, parcheggiò la macchina sulla soglia di un bosco, vi si inoltrò e si lasciò morire fra gli alberi.  Mia mamma, che si commuove sempre quando ne parla, dice che i miei bisnonni – dei “marghé”, produttori di burro, gente semplice ma che aveva potuto arricchirsi dopo la guerra – l’avevano viziato troppo, forse non sapendo come affrontare la situazione. Lei lo ammirava: da lui aveva imparato per esempio ad apprezzare la musica classica: a casa abbiamo una ricca collezione di vinili dei compositori più importanti della storia, raccolti da mia madre.  Chissà a quante famiglie è capitato lo stesso – e che la sua anima ancora sofferente – riposi in pace – non abbia continuato a tormentare noi, o me, nascosta fra le pagine di quei libri.  * Questo libro, una raccolta di traduzioni inglesi di 101 liriche cinesi, l’ho trovato tempo fa in una bancarella, passeggiando per un’università a Pechino. Con l’aiuto di queste versioni di Chu Dagao, ne rendo alcune in italiano pensando a qualche amico, e questa poesia di Su Shi: Dopo aver bevuto Questa notte ho bevuto al Versante Orientale – di continuo tra il sobrio e l’ebbro. Al mio ritorno, sembrava fosse la terza ora. Romba già il fiato del servo, nessuno risponde alla porta appoggiato al bastone ascolto il suono del fiume. Spesso odio il fatto che questo corpo non mi appartenga: quando potrò finalmente obliare gli affari terreni? A notte fonda la brezza, onde fini come la seta. Che passi di qua una piccola barca  per fiumi e mari per il resto della mia vita! * 101 Chinese Lyrics (New World Press), ristampato nel 1987, compie una raccolta di 50 liriche pubblicata dall’Università di Cambridge nel 1937. Il traduttore, Chu Dagao 初大告 (1898-1987), originario dello Shandong (contea di Laiyang), fu professore all’Istituto di lingue straniere di Pechino (ora Università di lingue straniere di Pechino).  Laureatosi nel 1925 presso l’Università normale di Pechino, tra il 1934 e il 1937 studiò appunto a Cambridge, per poi insegnare in diversi istituti in Cina – lo dicono “uno straordinario traduttore, educatore e poeta. Con la sua profonda comprensione della letteratura cinese, specialmente della poesia lirica, ha contribuito grandemente all’introduzione dei versi e dei classici filosofici cinesi nel mondo anglofono” (dal risvolto di copertina). Sua è anche, infatti, una traduzione del classico del taoismo, il Tao Tê Ching. Nel 1919, Chu partecipò alle dimostrazioni studentesche del Quattro Maggio, venendo arrestato – e liberato grazie al “supporto della popolazione”. Con la nuova Cina, contribuì a fondare la Società Jiusan (“Nove-tre”, in riferimento alla vittoria nella seconda guerra sino-giapponese, avvenuta il 3 settembre 1945), uno degli otto “partiti democratici” minori consentiti tutt’ora, animato dagli intellettuali. Andrea Corsi * Da 101 liriche cinesi (a cura di Chu Dagao)  Zhang Zhihe  Canzone del pescatore Volano bianchi aironi davanti alla collina Xisai fiori di pesco scorrono sul fiume, il persico è grasso. Con un cappello azzurro di bambù e un verde mantello, nel vento obliquo e la pioggia fine non c’è fretta che torni.  Zhang Zhihe (732-774) fu un poeta della dinastia Tang (618-907) ed un buon calligrafo e pittore. * Liu Yuxi  Onde sulla spiaggia All’ottavo mese odo il suono delle onde che mugghiano sulla terra, le creste alte una decina di metri si rompono sulla parete rocciosa, e si ritirano. All’improvviso si ritraggono alla porta del mare alzando cumuli di sabbia che sembrano di neve. Liu Yuxi (772-842), anche conosciuto come Liu Mengde, fu un letterato e filosofo. Fu ufficiale durante il regno dell’imperatore De Zong della dinastia Tang e un amico intimo di Bai Juyi, uno dei più grandi poeti di tutti i tempi. * Wen Tingyun L’isolotto di bianco trifoglio Pulito e vestito, solo, mi sporgo dalla Torre sul fiume. Vedo mille vele, tranne quella che vorrei passasse. Che incanto i raggi del sole al tramonto sull’acqua lontana il mio cuore spezzato è volto a quell’isolotto di bianco trifoglio. Wen Tingyun (812-866) fu un famoso poeta lirico della dinastia Tang. Sono sopravvissute Intorno a 60 sue poesie, tutte scritte in uno stile fiorito. * Wei Zhuang Le terre del Sud I Tutti lodano le terre del Sud il viaggiatore vi prende dimora fino alla vecchiaia. In primavera, le acque dei fiumi sono più blu del cielo, si cade nel sonno ascoltando la pioggia su barche dipinte. Le locandiere per strada splendono come lune,  i polsi dietro alle maniche sembrano di neve. Resta finché non sei vecchio se non vuoi spezzarti il cuore non tornare a casa. II Ricordo ancora le gioie del Sud, quando ero giovane e indossavo vesti leggere. A cavallo sostavo sui ponti, dai balconi rosse maniche mi mandavano saluti. Nel paravento si nascondeva l’oro della giada ebbro mi inoltravo in stanze gemmanti. Se dovessi vedere ancora quei rami fioriti, vi resterei fino a che i miei capelli non si facessero bianchi. * Passeggiata in primavera È primavera, camminando mi soffiano sulla testa fiori di albicocco. Per strada, chi è quel giovane dall’aria nobile? Mi farei sua serva e mi offrirei a lui in sposa, fino alla fine dei miei giorni. Non ne proverei vergogna, anche se senza amore dovesse un giorno abbandonarmi. * Fiori di magnolia Solo salgo sul piccolo padiglione, la primavera volge alla fine triste guardo la strada verdeggiante verso il valico di frontiera. Non giungono notizie, né viaggiatori. Aggrotto le sottili sopracciglia, me ne torno al salotto. Sedersi a guardare i fiori che cadono è cosa vana lacrime rosse rigano le mie maniche di seta. Non mi sono mai inoltrato tra montagne e fiumi, prima d’ora, potrà il mio spirito trovare in sogno un degno compagno? Wei Zhuang (c.836-910) fu un poeta delle Cinque Dinastie (907-960) conosciuto per la grazia dell’implicita bellezza della sua poesia lirica.  * Li Xun Una nuvola sul monte Wu Il tempio antico si affaccia su una verde scogliera, la residenza dell’imperatore poggia su un fiume di giada. Il boudoir è immerso nei suoni del fiume e nei colori della montagna. Interminabili, i pensieri giungono dal passato. Nuvole e pioggia si danno il cambio dalla mattina alla sera tra foschie e fiori, passano le primavere e gli autunni. È inutile che il pianto delle scimmie segua la barca solitaria il viaggiatore ha già per sé non pochi turbamenti. Li Xun (c.855-c.930), discendente di un persiano, fu un poeta lirico delle Cinque Dinastie. Gran parte dei suoi poemi descrivono i costumi e panorami del sud della Cina. * Lü Yan Aspettando un amico Obliqui i raggi di luna, freddo il vento autunnale. Questa sera, verrà il mio vecchio amico? Ho aspettato fino all’ultima ombra dell’albero dei parasoli.  Lü Yan, poeta della dinastia Tang. Le date della sua nascita e morte non sono conosciute. Sappiamo solo che fu attivo intorno all’857. * Li Cunxu Come un sogno Un tempo festeggiammo nella caverna della Fonte del Fiore di Pesco, intonavamo musiche pure e ballavamo come fenici. Ricordo ancora quando ci separammo con le lacrime ti accompagnai alla porta. Come un sogno, come un sogno! Sono rimasto con la luna calante, i fiori cadevano nella foschia.  Li Cunxu (885-926), fondatore della dinastia Tang posteriore (923-936), divenne imperatore nel 923 e restò ucciso in un ammutinamento nel 926. * Su Shi  In memoria Per dieci anni, un abisso ha separato i vivi dai morti. Anche se non ti penso, mi è impossibile dimenticare. La tomba spoglia è lontana mille li non c’è luogo dove possa dire la mia tristezza. Se ci incontrassimo non mi riconosceresti, sembra che il mio volto sia coperto dalla polvere e alle tempie i capelli sono brina. Ieri notte ho sognato di tornare all’improvviso a casa. Eri davanti alla finestra della camera, alla toeletta.  Ci siamo guardati le lacrime hanno preso il posto delle parole. Ricordo anno dopo anno, quel luogo che mi ha spezzato il cuore notte di chiara luna, i pini bassi sul poggio. Su Shi (1037-1101), anche conosciuto come Su Dongpo, nacque nella contea di Meishan, provincia dello Sichuan. Poeta maggiore della dinastia dei Song settentrionali, fu anche un celebre calligrafo e pittore. Si distinse come uomo di stato e coprì diverse cariche ufficiali, ma fu spesso mandato in esilio. Allargò l’ambito della poesia ci introducendo argomenti più seri, rendendolo dunque un genere più consistente. La sua poesia è fresca, audace e vivida nello stile.  * Xiang Gao Solitudine Chi siede in compagnia sotto la finestra illuminata? Siamo in due, io e la mia ombra. Ma quando la lampada si esaurisce, e sarà ora di ritirarmi anche la mia ombra sarà presa dal buio.  Non so che fare!  Quanto sono misero e disperato! Xiang Gao nacque intorno al 1100. * Yue Fei Devozione non ricambiata Ieri sera i grilli d’autunno non hanno smesso di cantare mi hanno suscitato in sogno luoghi a migliaia di li. Era già la terza ora. Mi sono alzato, mi sono messo a passeggiare sulla soglia di casa. Tutto era nel silenzio, dietro la tenda la luna illuminava appena. Tutta la mia vita l’ho spesa al servizio dello stato. A quelle vecchie montagne dove le foreste stanno invecchiando il ritorno mi è impedito. Vorrei affidare le preoccupazioni del mio cuore a un liuto di diaspro: ma chi potrebbe comprenderne la melodia spezzata se non i miei amici lontani? Yue Fei (1103-1142), eroe nazionale della dinastia dei Song meridionali che combatté contro l’invasione dei Nüchen. Solo alcune sue opere sono state tramandare, tutte permeate da forte patriottismo. * Nota sullo sviluppo della poesia in stile “ci” La poesia lirica cinese Ci affonda le sue radici più antiche nel classico Libro delle odi (Shijing), il quale pose le basi dei suoi schemi ritmici, i motivi tonali, le differenti misure dei versi e la loro applicazione alla musica. Con la dinastia Han, la poesia prese forme regolari e l’accento venne messo sulla creazione musicale, con odi e inni per le occasioni cerimoniali. Durante le dinastie Sui, Tang e in particolar modo Song, attraverso le accademie di musica, si assisté ad un divorzio completo tra quest’ultima e la poesia.  In seguito ai frequenti contatti con le regioni occidentali e l’Asia centrale, furono introdotti motivi musicali senza parole o con mere traduzioni illetterate. I poeti che volevano scrivere una canzone per una musica, dovevano “riempire la melodia con le parole”, adattando i motivi tonali della lirica e la lunghezza dei versi (alternanza di “versi lunghi e brevi”). Da cui, poi, la poesia ci 词. Questo tipo di lavoro, tuttavia, non teneva molto conto della libertà dei poeti. I quali cominciarono a non rispettare le regole, o a mantenerne soltanto alcune. Molti poeti scrissero allora delle poesie per melodie senza attenersi al loro tema originale. Se una gran parte delle melodie o canzoni originali trattavano il tema dell’amore, i poeti scrivevano sulla guerra o eventi storici. Così che le melodie vennero tramandate soltanto nella loro forma, senza relazione effettiva con il significato delle poesie.  Ad ogni modo, basti dire che la formazione della categoria di versi ci, non solo ha abbellita ma anche arricchito la poesia cinese in generale. Nella presente traduzione i nomi delle melodie sono stati lasciati soltanto nella versione originale cinese, tra parentesi.   L'articolo “Come un sogno, come un sogno!”. Piccola antologia della poesia cinese classica proviene da Pangea.
May 24, 2025 / Pangea