Se muoiono i poeti/ ma non muore la poesia, come scrive Aldo Palazzeschi
in Congedo, che cosa si può dire oggi della canzone d’autore? Che ne sarà della
canzone d’autore italiana? Quale sarà il suo destino? Cantautori del calibro di
De André, Jannacci, Gaber, Guccini, Fossati e via dicendo, tra i banchi di
scuola, chi li conosce e riconosce più? La premessa dell’amico e
collega Marcello Bramati nel libro L’ultimo miglio. Motivi e modi per accogliere
i cantautori nella letteratura e in classe (con prefazione di Massimo Bubola)
pubblicato da pochi giorni per Mimesis è questa:
> “La canzone d’autore ha giocato un ruolo decisivo nell’espressione di ciò che
> è stato il Novecento, un secolo che ha avuto bisogno di nuovi linguaggi e che
> ha rivoluzionato gli schemi secolari precedenti fino a far emergere nuove
> forme d’arte e nuove parole per raccontare le tragedie immani e il progresso
> esponenziale”, ma “qui sta il punto: la cultura del Novecento non può
> affidarsi alla nicchia di colti appassionati e alla buona volontà individuale,
> perché la trasmissione dei saperi e del patrimonio culturale è un fatto
> sociale e un atto politico che riguarda una generazione intera”.
Insomma, la proposta di Bramati è chiarissima e altrettanto seria: inseriamo i
cantautori nell’ultimo miglio della letteratura italiana. Si intervenga anche
sulle famigerate Indicazioni ministeriali, ferme all’altro ieri, ovvero il
2010:
> “è necessario dare maggiore luce al Novecento, specie al quarto periodo,
> quello in cui hanno scritto poeti straordinari come Mario Luzi, ancora
> esclusi de facto dallo studio scolastico, e tutti i cantautori”.
Basta una lezione di prova per capire fino a che punto il cantautorato sia
sull’orlo dell’oblio: provare per credere. La tesi è suggestiva e importante e
ha un suo appello:
> “provare a portare la musica cantautorale a scuola in modo tale che rientri
> nell’istruzione dei cittadini di domani e risulti un’azione di tasso culturale
> elevato e non un alleggerimento, un’ora di ricreazione, una bizza di un
> docente appassionato che si concede il lusso di buttare via un’ora per qualche
> canzone”.
L’amore per la letteratura lo richiede, il docente è chiamato a lasciarne il
segno: “La letteratura lascia traccia del suo passaggio nell’anima,
nell’immaginazione, nel linguaggio e nel lessico di chi la incontra”. Perché non
potrebbe essere così con una canzone “d’autore”? Del resto – ci ricorda il
cantautore Massimo Bubola nella bellissima Prefazione dal taglio storico poetico
– la canzone nasce dalla poesia e dalla musica che “si sono sempre date la
mano”.
L’interrogativo non è nuovo, già Montale nel discorso pronunciato per la
consegna del Premio Nobel per la letteratura – correva il dicembre 1975, mezzo
secolo fa – denunciava:
> “uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell’inutile alla
> quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi”.
Era lo stesso Eugenio Montale che, in un articolo sul “Corriere della Sera”, il
21 giugno 1964, a proposito dei “poeti moderni” raccontava che questi scrivevano
“seguendo un metronomo interiore”. Ora, al di là della annosa questione della
clamorosa assenza della musica e della storia della musica come materia alle
superiori nel nostro paese, si pone un’ulteriore questione: i cantautori
italiani sono poeti? Bramati riconosce che si tratta di “una tesi tutta da
dimostrare e che conta diversi acerrimi nemici”. Tutti ricordiamo quando,
suscitando un vespaio di polemiche, nel 2016, il Nobel per la letteratura venne
assegnato a Bob Dylan. Tra gli altri anche Alessandro Baricco fu molto critico,
invitando a non confondere letteratura e canzone. Sciogliamo un po’ di nodi con
l’autore.
Marcello Bramati, da dove cominciamo? C’è il “canone dei cantautori italiani”
pubblicato recentemente da Paolo Talanca (Carabba editore) che indica un
sentiero, ma come facciamo a forzare la mano e a far entrare in classe i
cantautori?
“Mi dispiace che si usi questa metafora, perché portare i cantautori in classe è
compiere un atto di giustizia. Ciononostante, è proprio così, perché le
indicazioni per i programmi della scuola superiore non ne fanno cenno, le
antologie inseriscono qualche inserto di quelli che non si fila nessuno, a parte
l’appassionato di turno. Di conseguenza, se si vuole portare la canzone d’autore
in classe, serve operare un’incisione nel programma e prevedere un fuoripista,
un’uscita consapevole dal tracciato ufficiale. Eppure, come diceva De
Gregori, la storia siamo noi, nessuno si senta escluso, e quella storia, che
passa anche dalle note e dalle parole dei nostri cantautori, deve poter trovare
posto tra i banchi. Serve coraggio e non basta la passione, servono una visione
educativa più ampia e la volontà di dire: questa non è un’ora persa, è un’ora
ritrovata. Il cantautorato è letteratura vissuta, poesia popolare se volessimo
cogliere la curvatura di alcune ballate sia per linguistica – si pensi ad alcune
scelte semantiche di De Gregori o al dialetto di De André – che per il sociale –
in questo caso, il pensiero vada subito Jannacci e a Gaber, fino alla Canzone
popolare di Ivano Fossati, manifesto di un modo di far canzone d’autore. Ma la
canzone d’autore è ancora di più, molto di più: il labor limae sui suoni e sulla
parola carica di significato ne fa un prodotto letterario, quindi pur dovendo
forzare la mano per portarla in aula, non si forza la serratura della
letteratura nell’inserirla nel suo alveo, anzi si colma una lacuna”.
Non sarebbe più facile pensare alla musica come una materia alle scuole
superiori?
“Sarebbe naturale. Perché la musica è un linguaggio che pervade la vita
ordinaria, è passione, passatempo, svago, studio per i pensieri oggi dei ragazzi
sui banchi e sempre in quelli dell’essere umano. ‘Anche se voi vi credete
assolti, siete lo stesso coinvolti’, cantava De André. Escludere
sistematicamente la musica dagli studi superiori è una responsabilità che porta
alla mercificazione e allo svilimento: la musica non è ricreazione, è
riflessione. Non è solo ritmo, è senso. Una materia musicale seria alle
superiori colmerebbe un vuoto antico. E magari lì, tra un rigo e l’altro, ci
sarebbe spazio per Bob Dylan e per Brunori Sas, che con ironia e dolore
canta ‘per chi non ha voglia d’abbaiare o di ringhiare/ canzoni tanto per
cantare’ che facciano dire: Ma guarda, lo potevo scrivere anche io – e invece
no, non potevi. E questo è il potere dell’arte, renderci umani e renderci
pensanti, ed è qui che sta la responsabilità della scuola, che insegni il bello
e il discernimento tra il bello-artistico e ciò che così arte non è”.
Come mai non c’è mai spazio per le cantautrici?
“Perché spesso si guarda solo dove la luce è già accesa, e negli ultimi
sessant’anni – questo è l’arco temporale della canzone d’autore italiana – nella
musica e ovunque gli uomini hanno avuto più possibilità delle donne, quindi
hanno spiccato. Ma la verità è che le cantautrici ci sono, eccome. E brillano.
Una breve galleria di autrici – e voci – straordinarie potrebbe includere Grazia
Di Michele, che ha raccontato l’identità femminile con un’intensità rara, Teresa
De Sio, voce del sud e della resistenza culturale, Nada, irregolare e viscerale,
Cristina Donà, delicata e potente insieme, Giovanna Marini, storica e voce delle
lotte sociali. C’è poi una nuova generazione che probabilmente ha maggiori
possibilità e, con la distanza storica necessaria, potrà essere valutata con la
lente dell’arte della parola in musica: in questo caso il pensiero va a Levante,
che canta l’inquietudine dell’oggi con parole da romanzo, e poi a Carmen
Consoli, con la sua prosa affilata e lirica insieme. Nella mia disamina
individuo quattro autori da inserire nel programma di letteratura – almeno uno,
a scelta – tra De André, Guccini, Battiato e De Gregori, ma a questi possono
affiancarsi molti inserti personali e prove individuali. Cito Bubola, autore
della prefazione, Niccolò Fabi, penso a Samuele Bersani, e così alle cantautrici
appena citate. La letteratura non è solo Dante, Leopardi e Manzoni, ma c’è posto
anche per Gozzano e Deledda: lo stesso vale per la canzone d’autore. In questo
spazio, ben venga l’inserimento di autrici e autori, in piena parità di valori e
dignità. Tutte loro meritano lo stesso palco, la stessa cattedra, la stessa
dignità. Come diceva De André, ‘si sa che la gente dà buoni consigli, se non può
più dare cattivo esempio’. È ora di dare spazio, di ascoltare davvero”.
A scuola, i tuoi studenti come reagiscono alle lezioni sui cantautori italiani?
“Nel corso dei cinque anni di superiori, ho sempre inserito la musica d’autore
in punta di piedi: una citazione, un rimando, un esercizio, un ascolto per casa,
un lavoro su un brano stampato – e magari non ascoltato – sempre inserendo in un
discorso più ampio l’opera in questione. Un esempio è La storia di De Gregori,
proposta in prima insieme ad alcuni testi tratti da Erodoto, Tucidide, Manzoni.
C’è sempre stato interesse, come accade quando una lezione decolla e diventa
interessante: qualcuno ha ricordato di avere in casa questo o quell’album (come
avviene per i libri), qualcuno di conoscere un nome, un titolo, una melodia, una
storia. Proprio come avviene con tutto il materiale buono che si porta in
classe, senza dare alla canzone un potere di affascinare più potente di
altro. Solo in quinta presento interamente l’autore De Gregori e, a quel punto,
giocando a carte scoperte, vengono garantiti ascolto e interesse ben sapendo di
essere in un sentiero inesplorato ma che riserva pietre preziose scintillanti.
Penso a Mondo politico, traduzione della dylaniana Political World, un esercizio
di traduzione e interpretazione che si fa scuola di pensiero e di lingua”.
È ancora possibile la poesia?
“Sì. Perché la poesia, come diceva Montale nel suo discorso per il Nobel, ‘è
ancora un atto di fede nella parola, anche quando la parola è consapevole del
proprio fallimento’. In un mondo che vende tutto, anche l’inutile, la poesia
resta un gesto di resistenza. È un seme che non sempre attecchisce, ma che va
lanciato lo stesso. Perché ‘dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i
fior’, cantava De André. La poesia è linguaggio carico al massimo grado di
significato, è un patto generazionale che assegna al fruitore quella dignità di
cui gli studenti hanno bisogno, è esercizio di sintesi, di ricerca e di
attenzione così raro e così necessario. Ecco, è ancora possibile perché è ancora
necessaria. Anche se spesso non si chiama più col suo nome e molto, che poesia
non è, viene contrabbandato per esserlo”.
Ha ancora senso insegnarla a scuola?
“Ha più senso che mai. In un tempo che corre veloce, che urla e dimentica,
insegnare poesia è un atto controcorrente. È dire: fermiamoci. Guardiamo.
Sentiamo. Andiamo in profondità. Cogliamo la sfumatura. Cerchiamo il silenzio.
Insegnare poesia è insegnare compassione, meraviglia, dubbio. Ci sono poesie che
sono come un grido (Dante definisce proprio così la sua Commedia in Paradiso
XVII), ci sono canzoni che sono ‘come sberle in faccia per costringerti a
pensare’ (come canta Brunori): insegnare poesia significa dare strumenti per
vivere meglio e sentire di più. E se una cosa bella non è più ordinaria, tocca
alla scuola trasmetterla per garantire spazio, risonanza, vita. Questo è il
compito più nobile della scuola. Non l’unico, non il più pratico, ma certamente
il più alto. Dalla cetra di Omero alla chitarra dei cantautori, il passo non è
poi così lungo: entrambi hanno intonato storie che attraversano i secoli,
entrambi hanno usato la musica per dare forma alla memoria, alla sofferenza,
all’epica quotidiana dell’umanità. Omero cantava di eroi e dei, ma lo faceva con
il ritmo della voce e del respiro, affidando alla musica la sua poesia, la sua
forza, la sua durata. È in quella scia che si muove ancora oggi la canzone
d’autore. Massimo Bubola, nella sua visione limpida e poetica, ci ricorda nella
prefazione al mio libro che
> “la canzone nasce dalla poesia e dalla musica che si sono sempre date la mano
> come due muse, due sorelle che si tengono per mano e scendono nel mondo per
> avvolgerlo di bellezza, per cantarlo e consolarlo”.
In questa immagine c’è tutto: la continuità tra le parole dei classici e le voci
dei cantautori, tra il verso epico e la ballata, tra l’Iliade e La guerra di
Piero. Letteratura e musica, dunque, non sono mondi separati, ma fili
intrecciati nello stesso tessuto dell’anima. La scuola, la cultura, noi tutti
abbiamo il compito di custodire questo tessuto. Perché se è vero che i poeti
possono morire, come scriveva Palazzeschi, è altrettanto vero che la poesia – in
ogni sua forma, anche quella cantata – resta. E resta per cantare ancora”.
Linda Terziroli
L'articolo Tra l’Iliade e De André. Portiamo i cantautori a scuola. Dialogo con
Marcello Bramati proviene da Pangea.