C’è qualcosa di più devastante di una vocazione artistica sprovvista del
talento? E secondo quale criterio il talento viene concesso o negato? Certo è
che chi ha la sventura di entrare nell’orbita del genio ne viene risucchiato e
poi distrutto, inesorabilmente. Come l’amico di Glenn Gould immaginato da Thomas
Bernhard, nel romanzo Il soccombente, che si uccide quando scopre che non potrà
mai eguagliare il talento smisurato del pianista canadese, ascoltandolo per la
prima volta suonare le Variazioni Goldberg.
> «Chiunque si sia proposto di diventare celebre e di acquistare una completa
> padronanza del pianoforte – dice il narratore – può riuscire a suonare come
> suonava Wertheimer purché si dedichi allo studio del pianoforte per i decenni
> prescritti, pensai, ma se uno con queste aspirazioni si imbatte in un Glenn
> Gould, e sente suonare un tipo come Glenn Gould, allora, pensai, se è fatto
> come Wertheimer, anche per lui è finita».
Come avrà vissuto la sua amicizia fraterna con Gustave Flaubert lo scrittore di
teatro e poeta Louis-Hyacinthe Bouilhet, compagno di classe al Collège Royal di
Rouen? Flaubert aveva del suo giudizio una fiducia assoluta, lo chiamava la sua
«coscienza letteraria». Fu Bouilhet che incoraggiò Flaubert a scrivere Madame
Bovary, ispirandosi alla vicenda reale di Delphine Delamarre e ne seguì la lunga
gestazione, tra il settembre 1851 e l’aprile 1856. Ma che cosa pensava, quando
ascoltava l’amico che gli leggeva, ogni settimana, le pagine del romanzo? Era
tormentato dall’angoscia, nello scoprire l’inconfondibile marchio del talento, o
animato da una sincera ammirazione? Erano nati lo stesso anno, il 1821, si
assomigliavano anche sorprendentemente, e per questo spesso venivano scambiati
l’uno per l’altro, eppure uno era dotato di genio, l’altro no.
Dopo la morte di Bouilhet, oltre che preoccuparsi della ristampa delle sue opere
e della messa in scena del suo teatro, Flaubert scrisse la prefazione
alle Dernières chansons, unico suo testo critico, e per anni si batterà per un
monumento a Rouen in memoria dell’amico, che oggi, però, nessuno più ricorda.
E Dino Frescobaldi, il poeta stilnovista amico di Dante, che lesse i primi canti
autografi dell’Inferno, trovati per caso in un quadernetto custodito in un
forziere in casa Alighieri, come reagì alla rivelazione del capolavoro scritto
dall’amico lontano? L’episodio ci è raccontato da Boccaccio. Circa cinque anni
dopo l’esilio di Dante, la moglie Gemma Donati cercò di ottenere le rendite che
le spettavano sui beni confiscati. Incaricò per questo un parente di cercare i
documenti necessari alla causa in un forziere che nei giorni del bando aveva
portato via da casa, per salvare «certe cose più care» da eventuali saccheggi.
Nel forziere, tra vari documenti, fu ritrovato anche un «quadernetto» che
conteneva i primi sette canti dell’Inferno. Non capendo di cosa si trattasse, la
donna decise di dare in visione quegli scritti a Frescobaldi, che naturalmente
vide subito la grandezza di quei versi e l’eccezionalità dell’opera iniziata: ne
fece alcune copie da distribuire agli amici e spedì il manoscritto a Moroello
Malaspina, in Lunigiana, dove Dante era ospite in quegli anni, affinché il poeta
fiorentino potesse continuare in esilio il capolavoro interrotto.
Che cosa deve aver provato Frescobaldi nel leggere quei primi canti
della Commedia? Si sarà portato il «quadernetto» a casa, furtivo, come se avesse
con sé un tesoro? Passò l’intera notte sveglio a lasciarsi incantare dalla
bellezza di quei versi? Forse sarà stato tentato, per qualche momento, di
rubarli, di plagiare l’amico, di approfittare della sua lontananza forzata, ma
subito dopo deve aver prevalso l’animo dell’intellettuale appassionato, la
certezza che rendere possibile la continuazione di quell’opera per mano del suo
autore sarebbe stato il dono più importante che avrebbe potuto fare all’umanità
intera. Erano suoi i primi occhi che si posavano su quei versi che milioni e
milioni di volte sarebbero stati letti nei secoli a venire. Lui ne fu il primo
ammiratore. E solo grazie a lui, al suo ritrovamento casuale, forse, Dante
riprese a comporre il suo capolavoro smarrito.
Max Brod (1884-1968)
E Max Brod, scrittore mediocre e amico fraterno di Franz Kafka, come visse la
fama postuma del genio di Praga, al di là della sua dedizione totale alla
diffusione pubblica della sua opera? Passò la vita nella convinzione di lasciare
un segno con la propria scrittura, ma oggi lo ricordiamo solo ed esclusivamente
per la sua amicizia con Kafka, e per non aver distrutto quei testi che l’amico
in punto di morte gli aveva chiesto di bruciare. Il suo vero talento fu in
effetti quello di fiutare il talento degli altri, di riconoscerlo e sostenerlo
con generosità. L’unico clamoroso errore che fece fu quello di non intuire che
proprio lui ne era sprovvisto.
Ed Heinrich Köselitz, il segretario di Nietzsche, dal filosofo ribattezzato
Peter Gast, modestissimo compositore che per tutta la vita sognò di diventare
famoso, ma che dedicò tutto il suo tempo alla trascrizione dei manoscritti di
Nietzsche, quante volte maledisse il giorno in cui ebbe deciso di trasferirsi a
Basilea per seguire i corsi di quell’eccentrico professore, o forse quello ancor
prima, quando un amico gli ebbe messo tra le mani una copia della Nascita della
tragedia, folgorandolo per sempre? Divenne il segretario personale del filosofo,
forse fu l’unico ad averne intuito la grandezza, ma la sua ambizione di
diventare un compositore fu distrutta dalla dedizione assoluta che riservò al
genio di Nietzsche.
Artista-segretario fu anche Niccolò Franco, al servizio di Pietro Aretino, che
lo accolse nella sua casa sul Canal Grande nel 1537 e inizialmente lo apprezzò
molto. Si valse della sua conoscenza del latino per collaborare proficuamente
alla stesura delle opere di Aretino, del quale fu anche compagno di bagordi. Ma
Franco si logorava segretamente d’invidia per il successo del suo signore, al
punto che decise di mettersi in proprio e di pubblicare anche lui un
epistolario, emulando quello dell’Aretino alla quale aveva collaborato. Aretino
non gradì. E l’affronto del plagio fu pagato con il volto sfregiato da una
coltellata sferrata da un sicario.
Mozart/Tom Hulce nel film di Milos Forman, Amadeus (1984)
Morì, invece, nel rogo di una clinica psichiatrica Zelda Sayre, la moglie di
Francis Scott Fitzgerald, autrice di un non memorabile romanzo Lasciami l’ultimo
valzer, e frustrata dall’immenso talento del marito. Le camere d’albergo
sfasciate, i fiumi di gin, i litigi furiosi, le feste, le scenate di gelosia,
tutto contribuì a renderli una coppia mitica. Ma lei sacrificò la sua vita al
sogno di gloria di lui. Anche Lucia, la figlia di James Joyce, ballerina di
grandi promesse, è morta in manicomio, impazzita per un autodistruttivo processo
identificativo con il padre. I primi segni della sua pazzia iniziarono nel 1930.
A trentatré anni aveva già fatto il giro dei manicomi europei. Fu presa in cura
da Jung, ma resterà il grande dolore di Joyce, il suo cruccio segreto e perenne,
e secondo alcuni critici la sua vera fonte di ispirazione. Quando lo scrittore
morì e gliene fu data notizia, Lucia commentò così:
> «Che sta facendo sottoterra quell’idiota? Quando si deciderà a uscire? Sta
> sempre a sorvegliarci».
Pure lo scrittore Klaus Mann, figlio di Thomas, conobbe il disagio psichico di
avere un padre come genio, il terribile Mago, che lo disprezzava per via della
sua omosessualità mai nascosta (a differenza della propria, che tenne segreta).
La sua vita fu segnata dall’uso costante di droghe (morfina soprattutto), che
raccontò nel romanzo Il vulcano. Morì suicida a Cannes, schiacciato
dall’ingombrante figura paterna. E infine Antonio Salieri, il compositore di
corte a Vienna, fu, secondo la fantasiosa versione del dramma di Puškin, ripresa
poi dal film di Miloš Forman, Amadeus, talmente invidioso del genio di Mozart da
arrivare all’omicidio. Realtà o fantasia non conta. Quel che conta è la
silenziosa tragedia che si consuma nei cuori dei mediocri. Magari, se non
avessero avuto la sventura di riconoscere il genio fuori di loro, accanto a
loro, avrebbero continuato a vivere coltivando l’insana illusione che quel genio
potesse dimorare anche dentro di loro, e – chissà – avrebbero potuto perfino
convincere gli altri. E invece no. Ecco che il destino, non contento di avergli
negato il bene più grande cui ambivano, gli mette sulla strada qualcuno che lo
costringe a guardare in faccia la verità.
E dunque, che cosa scatta nell’animo di un artista mediocre che entra in
contatto con un genio? L’amico o rivale o parente diventa la manifestazione
concreta dei suoi sogni di gloria infranti, delle sue ambizioni frustrate, di
tutto ciò che avrebbe voluto essere e avere, e non è stato e non ha avuto. In
quell’incontro con il genio egli entra, così, come scrive Bernhard, nella
«trappola mortale della sua vita». E una volta scattata la trappola, non può
uscirne esce.
Fabrizio Coscia
*In copertina: Glenn Gould (1932-1982)
L'articolo L’incontro con il genio (o della disgrazia di essere mediocri)
proviene da Pangea.