In metropolitana ho letto Le scimmie di José Revueltas, un cognome che è un
programma di vita fin dalla nascita, nella traduzione della ei fu Alessandra
Riccio: c’è Polonio il detenuto tossico che fuma in cella d’isolamento: “E
allora il movimento trasferiva le proprie forme nell’ondulata scrittura di altri
ritmi e le lentissime spirali si conservavano lungamente nella loro istantanea
condizione di idoli ubriachi e di statue sorprese”. Leggendolo, ammirandolo, mi
chiedevo cosa si scrive e si legge a fare se la scrittura, e la lettura pure,
non sono anche forme di protesta per le cose-così-come-sono che passano per un
uso importunante e emancipato della lingua? Purché sia una lingua che sappia
ancora della saliva e delle labbra di chi la parla, altrimenti è una lingua
laboratoriale e basta, la lingua senza voce di una bocca castrata.
Il passaggio mentale successivo e obbligato è stato verso il romanzo Il sesso
degli alberi di Alessio Arena, per Fandango, libro letto prima di Revueltas: nel
romanzo di Arena si sta come nella bocca di chi parla, ogni parola assume di
volta in volta il sapore o il saporaccio di chi la pronuncia facendola risalire
dalle viscere in subbuglio.
Alessio Arena è al sesto romanzo, in passato per Pangea ci ho conversato in
merito a Ninna nanna delle mosche e a La notte non vuole venire, non me la sarei
sentito di importunarlo ancora, eppoi io – che di norma non sono sospettoso –
sospetto molto di me: come faccio a essere sicuro un libro che mi ha conquistato
per come è stato scritto sia bello di per sé e non perché è piaciuto a me e
allora capirai? Che sia un romanzo-romanzo al di là dei miei criteri che alla
lunga possono diventare stantii e ripetitivi quindi inadatti a riconoscere la
qualità di un romanzo, specie se è il romanzo di uno scrittore che si è già
guadagnato la mia stima?
Da lettore per tante prime volte delle opere di Aldo Busi è una domanda che sto
attento a pormi di continuo: come si evita di -ismizzare uno scrittore, andando
a detrimento della recezione della sua opera? Dimenticandosene. Leggendo ogni
libro come si stia leggendo per la prima volta un’opera di chi l’ha scritto. Uno
scrittore o esordisce ogni volta o è uno scrittore di mestiere, di carriera,
ovvero uno che è stato scrittore una volta eppoi un impiegato della scrittura
tutte le volte successive. Lo stesso se si tratta di un libro in rilettura: per
leggerlo onestamente, ovvero per leggerlo in modo sensato, bisogna dimenticare
tutto quello che si è letto fin lì, a partire dal libro in questione e poi tutti
gli altri. Lo stesso, pare, vale per la scrittura.
Dunque, de Il sesso degli alberi di Alessio Arena mi è piaciuto il romanzo, che
per me significa sempre il come è stato scritto, o mi è piaciuto che sia stato
scritto da Alessio Arena?
L’incipit:
> “Alansorrenti lasciava dietro di sé una coda di odore detersivo. Dove stava
> lei c’era sempre chi si tappava il naso, chi metteva le mani a ventaglio per
> pulire l’aria, chi cacciava la lingua con una smorfia di iguana. Se poi
> qualcuno se la trovava di fronte e non faceva in tempo a scansarsi, la
> salutava veloce per paura di intossicarsi dentro all’abbraccio suo.”
La scrittura di Alessio Arena è da subito come l’Alansorrenti che apre il
romanzo: lascia dietro di sé una traccia olfattiva. Si sta come in Il profumo di
Patrick Süskind ma in maniera ancora più radicale, sfacciata, inclemente: è una
lingua che tocca e fa toccare ciò che racconta, non privilegiando il dato visivo
o uditivo, per quanto sia strabordante di musica e canto e visioni,
allucinazioni comprese.
È una lingua che mette in contatto, che avvicina, che sprofonda e fa sprofondare
nella materia che plasma, che fa diventare racconto. Chi legge che voglia o no
diventa lingua a sua volta, le parole arrivano alla mente passando dalla bocca.
O così mi sono sentito io, leggendo: un uomo trasformato in una lingua dalla
lingua scritta del romanzo.
Letto il primo capitolo ho scritto a Alessio Arena un messaggio privato, tramite
il contatto mail ottenuto per le precedenti conversazioni. Ho scritto: “Alessio
Arena, ho appena letto il primo capitolo de Il sesso degli alberi, le prime
quattro pagine, e se le pagine appresso filano così per me è finita, ovvero è
ricominciato tutto, è come ci fosse un nuovo grande salto in avanti e in lungo e
in alto e in largo nella tua scrittura, che prende il meglio dai romanzi prima e
ne fa qualcosa di bello di grande di nuovo. Da lettore, che grande entusiasmo
quando nel romanzo di uno romanziere di cui ho letto gli altri romanzi sento il
balzo in avanti dello scrittore che mi fa marameo, che mi fa “Credevi di
conoscermi e invece devi imparare ancora tutto”, che scrive con la
consapevolezza di quanto ha già scritto ma comunque scrivendo con l’audacia
degli esordi. Uno scrittore, o così mi pare, scrive ogni libro come non dovesse
scrivere altro che proprio quello, pure se di libri prima ne ha scritti a decine
e altre decine ne scriverà dopo. Scrive ogni volta come fosse l’indubitabile
scrittore di proprio-quel-romanzo. Tutto questo commentare per le prime quattro
pagine del libro? Sì, perché in quattro pagine c’è tantissimo: ci sono due
paesi, Italia e Spagna, un figlio e un padre morto e un femminello astratto che
si candida come zia aggiuntiva per quel figlio senza più un padre e in pratica
senza mai una madre, pur avendola ancora in vita, quell’Alansorrenti che si
propone quale zia adottiva che non fa vita da reclusa come le altre due
di-sangue dell’orfano a metà ma praticamente del tutto, una zia che la vita la
fa proprio e propria e che al primo incontro all’orfano di fatto rivolge “una
tenerezza dentro agli occhi che io non sapevo ancora che esisteva”. C’è la
frattaglieria, il Festival Eurovisione, una partitura del compositore Domenico
Sarrio, il rossetto rubato a una bambina durante una gita di classe nella Sierra
de Armantes. Dunque: la vita, ovvero la letteratura quando ti fa desiderare di
viverne altrettanta. Un saluto da lettore felice e ammirato.”
A messaggio inviato mi sono chiesto che senso avesse avuto inviarglielo. I
complimenti in privato, quando non invadenti, al meglio sono del tutto inutili,
specie quando riguardano un atto che più pubblico non si può, la pubblicazione
di un romanzo che una volta scritto ha a che fare con chi l’ha scritto tanto
quanto con chi lo legge. Il problema è che a un libro non si può scrivere quello
che ti ha smosso, leggendolo, e allora pur di liberarsi dal peso della
gratitudine si scrive a chi l’ha scritto, compiendo una reiterata fallacia
logica.
Infatti, recidivo, lette altre cento pagine e più del romanzo ho scritto un
secondo messaggio privato ad Alessio Arena, dal quale non avevo ricevuto
risposta e che per quanto ne sapevo poteva non aver ricevuto il primo o se sì
poteva non aver nessuna voglia di leggerlo. Il secondo messaggio in privato è
stato: “Da ieri sera a ora le pagine sono diventate 140, e non mi diminuisce il
piacere di leggere di questi personaggi meravigliosamente non conformi e mai
deodorati calati in una dimensione tra l’incubo e l’immaginazione, e questa
lingua inventata e monoica che li racconta fondendo il maschile dell’italiano e
il femminile del dialetto, e questa Napoli Anni Ottanta attraversata con “lo
sparpetuo del profugo troiano”. Un paragrafo esemplare in cui sento come la
scrittura è diventata padrona della materia al punto da farla stare assieme a
suo piacimento per me è questo: “C’erano anche partiture di oratori in cui le
note sembravano piccoli insetti intrappolati nella resina, come quelli che avevo
visto nella corteccia degli alberi di piazzetta Salazar, due cornioli separati
da una cabina telefonica.” Mi sono andato a cercare su Google il corniolo,
perché di alberi so nulla, figurati che sesso hanno.”
Sentendomi a un passo dalla molestia, o peggio ancora della maleducazione, e
valutando la sensatezza dei miei gesti, ho cominciato a valutare se non fosse il
caso di proporre ad Alessio Arena una intervista su Pangeache avesse per oggetto
appunto Il sesso degli alberi. Pertanto era importante finissi di leggere il
romanzo, anche per scacciare un timore che mi stava sorgendo: a conti fatti ero
soltanto al primo terzo del romanzo. E se continuando a leggere avesse smesso di
piacermi ovvero mi avesse convinto di meno? Se la scrittura non fosse riuscita a
mantenere il ritmo e il registro? Se la mia si fosse poi rivelata una sindrome
da lettore precoce, poi come avrei giustificato un mio eventuale passo indietro?
Come pure: se le mie impressioni da lettore le avessi concluse sulla
centoquarantesima pagina, un mio silenzio successivo, una interruzione delle
comunicazioni non richieste, non avrebbe potuto essere interpretata come una
tacita stroncatura, un reticente rimprovero da lettore che poi si sarebbe
sentito imprevedibilmente deluso?
Sono state le domande di cui sopra la ragione del terzo messaggio privato:
“Alessio Arena, le pagine sono diventate 265, ora sono nel bar di Marisa la
Torera, a calle San Rafael, nel Barrio Chino dove coi primi calori “Ogni angolo
del quartiere, in quel giugno così caldo, sembrava nascondere il cadavere di
qualche zoccola“. Mi rendo conto ci sia qualcosa di offensivo nello sperticarsi
per il sesto romanzo di uno scrittore, gli altri cinque potrebbero risentirsi,
ma Il sesso degli alberi è scritto proprio come secondo me un romanzo deve
essere scritto per poter essere reputato tale, con la personalità sconvolgente
incontrata in L’infanzia delle cose incrementata, espansa. Pagina dopo pagina
scopro perché mi piace il registro misteriosamente in equilibrio tra candore e
decadenza, innocenza e squallore, con i personaggi a raffica tutti ben stondati,
la trama che si sposta, e la sfida che pone nello stabilire cosa è più
incredibile: i giardini domestici di Palazzo Sassano, gli alberi parlanti o
l’epopea dei femminelli napoletani nell’Europa di fine Novecento o quella dei
castrati dal Seicento in avanti? È un romanzo ricco, generoso, odoroso, e
sfacciatamente politico come lo devono essere i romanzi: raccontando storie
inclinate, trascinando nelle situazioni, ribadendo che il pensiero è sempre e
soltanto un’essudazione della carne. Un romanzo con una lingua sua solo sua,
oltre che di chi la parla nel romanzo stesso: Alansorrenti, Gennaro Crisantemo,
Bacioterracino che non violenta perché non sa come si fa, e tutti gli altri.”
Decido allora che non proporrò ad Alessio Arena un’intervista per Pangea,
sarebbe stucchevole dopo tutto quello che già gl’ho scritto sul suo romanzo.
D’altronde non sarei stato neanche sicuro della sua reazione: ricevere pareri a
raffica da un lettore che in sostanza resta uno sconosciuto non deve mettere
nessuno a proprio agio. Ancora una volta, è per la mia esclusiva esigenza
personale di chiudere un cerchio aperto da me che mando ad Alessio Arena un
quarto messaggio: “Ecco l’ultimo pezzetto della cronaca del lettore che ha
appena finito il tuo romanzo ambizioso, déraciné, screanzato, adulto, di quelli
che mandano l’algoritmo a chiedersi dov’ha sbagliato con te. Ora che l’ho finito
posso complimentarmi oltre che con chi l’ha scritto con l’editore che ha saputo
seguire la bussola della letteratura, che non è detto non conduca a fasti
commerciali ma che non è direttamente lì che punta, punta a rendere la scrittura
esperienza ludica e profana, intima e collettiva, tenera e spregiudicata. Nel
romanzo c’è tutto quello che uno scrittore può desiderare ci avvenga dentro
quando ne scrive uno, qualcosa che secondo me sfugge di mano allo scrittore
stesso, che decide linee narrative che prendono il sopravvento, che
disobbediscono alla camorra dei plot assodati, che non hanno bisogno
dell’explicit per arrivare a compimento poiché si compiono all’interno dei
singoli capitoli, dei singoli periodi, delle frasi andate a segno che mettono a
punto una rappresentazione del mondo sensibile, nella sua parte visibile e in
quella che non lo è – non che “O forse si abbracciò a lui stesso, ma con me
dentro” non sia stato un explicit coi fiocchi, qui al termine di una storia di
assenze che vogliono diventare presenza, reclamando cittadinanza in una società
pigra fin nell’immaginario marcio e patinato assieme, che non li prevede, che
non vuole riconoscergli voce. “La voce era sempre quello che mi faceva più paura
di me, era la parte più cruda. La voce mi spogliava nuda. O meglio: il centro
della mia nudezza era sempre la voce.” Per dirlo con zia Serena, patita per la
smorfia napoletana: che quarantotto questo romanzo che parla! Che ha e dà
voce. Il sesso degli alberi è un romanzo bellissimo.”
Soltanto ora, a stalking completato, mi accorgo il romanzo si concluda così come
si è aperto, in un abbraccio, al cui interno si rischia di intossicarsi, così
all’inizio, e che nel finale lascia il sospetto sulla possibilità stessa di un
abbraccio: cosa sente chi abbraccia, l’altro a cui fare spazio in
quell’abbraccio o la propria volontà di annientarlo annettendolo a sé, al
proprio sentire? Il sesso degli alberi, tra le altre cose, è anche la storia
della fatica inutile perché gli altri ti guardino per come tu desideri essere
guardato, una fatica accettata con “una tenerezza […] che io non sapevo ancora
che esisteva”. Basta fare come gli alberi: stare lì dove si sta, e al limite
lasciare che gli altri ci sbattano contro. Questo però me lo tengo per me, ad
Alessio Arena ho già scritto troppo.
antonio coda
*In copertina: una fotografia di Mario Giacomelli
L'articolo Basta fare come gli alberi. Ovvero: storia di un lettore che ha
importunato Alessio Arena proviene da Pangea.