Valéry è il poeta. Valéry è il poeta francese tra i più importanti di sempre. Il
suo intelletto sovrasta ogni ragione. Lui è matematico, magmatico e filosofo;
nel senso che per lui la filosofia è tutt’altro che filosofare. La sua mente ha
ragione su tutto.
Il sentimento non lo scalfisce. Nemmeno l’istinto. Eppure ha due crisi
importanti nella sua vita.
La prima, a Genova: durante la nuit de Gênes, decide di abbandonare la poesia
per lungo tempo, privilegiando riflessione e autoanalisi. Difatti, per
cinquantun anni, quasi ogni giorno, fra le quattro e le sette-otto del mattino,
Paul Valéry scrisse i suoi Quaderni: ne rimangono duecentosessantuno, in totale
circa ventisettemila pagine. Quando chi li scriveva avvertiva un qualche
movimento nella casa, smetteva. Diventava un altro, diventava Paul Valéry,
l’illustre poeta e saggista. Si era guadagnato il «diritto di essere stupido
fino alla sera». Ma che cos’era prima? Una pura attività mentale che scrive se
stessa. All’origine di Valéry c’è una folgorazione: la scoperta dell’«impero
nascosto» della nostra mente. Prima di diventare parole e significati, tutto ciò
che ci succede è un evento mentale. Valéry volle essere uno «strumento
d’osservazione» di questa scena mentale, uno strumento del quale si imponeva di
«aumentare la precisione».
Genova, città materna: “Questa città tutta visibile e presente a se stessa,
rifilata con il suo mare, la sua roccia la sua ardesia, i suoi mattoni, i suoi
marmi. In lavorio continuo contro la montagna”, annotava il poeta.
La sua, dunque, fu una vera e propria crisi esistenziale.
La seconda crisi però, non meno importante della prima, fu l’innamorarsi di una
donna in particolare, una poetessa anch’essa: Catherine Pozzi. Per otto anni i
due si amarono, si odiarono, si sfinirono vicendevolmente. Passione, enigma,
mistero dell’esistenza. Fiumane di parole riportate nelle lettere e nei diari e
nei quaderni. Ogni attimo scritto: eternato nella passione!
La ragione contro il sentimento. La precisione della disciplina che ostacolava
l’amore istintuale. Due geni non solo a confronto: due geni in incontro, ad
attraversarsi il cuore con le parole.
Paul Valéry. Il poeta del Cimitero marino è stato anche questo. È stato
soprattutto un ragazzo prodigio, che già a quindici anni scriveva testi teatrali
e poesie. Ne ricalchiamo una, ora, che scrisse prima della fantomatica crisi di
Genova.
Elevazione della luna
L’ombra veniva, i fiori s’aprivano, la mia Anima sognava,
E il vento addormentato taceva il suo ululo,
La Notte cadeva, dolce la Notte come una donna,
Sottile e violetta episcopalmente!
Le Stelle sembravano ceri funerari
Accesi come in una chiesa nelle sere;
E spandendo profumi, i gigli Turiferari
Dondolavano dolcemente i fratelli incensieri.
Una preghiera saliva in me come un’onda
E nell’immensità inazzurrante e profonda,
Gli astri raccolti abbassavano i casti occhi!…
Allora, apparve! ostia immensa e bionda
Poi scintillò, staccandosi dal Mondo
Poiché dita invisibili la innalzavano verso Cieli!…
È stupendo il canto nel verso. Ancora più meraviglioso, abbandonarlo; quasi per
sempre, quasi di schianto, col lampo nella notte a tiranneggiare la mente
prodigio.
È stupendo poi ritrovarlo il verso, diverso, essenziale, difficile, enigmatico,
maturo.
Ma come non ritrovare la bellezza già in questi prematuri versi: “Una preghiera
saliva in me come un’onda […] Allora, apparve! ostia immensa e bionda/ Poi
scintillò, staccandosi dal Mondoˮ. Quella stessa bellezza che Paul raccontava
entusiasta a Louÿs in una lettera del 1892:
> «Ciò che non invecchierà mai è il Bateau ivre, e un centinaio di frasi
> delle Illuminations, sono i Colloqui di Poe (e quasi tutto il resto),
> è Eureka, perché tutto ciò è vicino all’essenza della bellezza, perché è stato
> creato, strappato, liberato dalle viscere cosmiche, immerso nella gelida acqua
> per risuscitarne limpido, come la spada del giovane Sigfrido. Io faccio mille
> devozioni all’unico Poe e al solo Vinci, a quegli stessi angeli Rimbaud,
> Mallarmé, Wagner. Nulla esiste al di fuori salvo tenebre, imperfezione,
> nauseante incoscienza.»
Giorgio Anelli
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