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“Che si può fare se il destino è morire?” Qualcosa sulla poesia iraniana contemporanea
Che sia un solo verso, a volte, a colpirci, lo sappiamo. La potenza di alcune parole irretisce retina e cuore. L’intelletto gode, l’emozione si fa scossa. Brivido è la colonna vertebrale. Così è quando leggo: Dovrò prepararmi a fiorire, e subito la fantasia immagina poesie che si estendono da questa gemma primordiale. Ho con me in mano un libro, che di quel verso ne ha fatto il titolo. Si tratta di un’antologia, curata e tradotta da Faezeh Mardani e Francesco Occhetto, che dà voce a Forugh Farrokhzād, Bitā Malakuti, Leila Kordbacheh, Parvin Salājeghe, Fereshteh Sāri e Grānāz Moussavi. È la prima rassegna italiana della poesia femminile di un Paese quale l’Iran da sempre abituato ad affidare al canto poetico tutte le componenti della propria vitalità esistenziale e spirituale. > Ardue prove mi offrì il giardiniere del firmamento > ma che si può dire al predatore dei tempi? > Che si può fare se il destino è morire? > Sei giunto al giardino e noi ce ne andammo, > colui che qui ti condusse ci prese e ci portò via. > In questo libro di vittoria il cielo > conteggiò per noi l’incalcolabile. > Il fiore, appena vide acqua e aria, > ignaro di dover presto appassire sbocciò. > Il coppiere della taverna del mondo è Destino, > tutti beviamo il vino dalla sua coppa. > > Parvin Eʻtesāmi (1907-1941) Che sia la poesia a farsi bandiera universale è bene ricordarlo sempre. Poesia che si dimentica ai più, ma che ci costituisce. Poesia cellula, atomo, big-bang del mondo. Poesia che garrisce. Poesia che sta nel vento, fa frusciare l’erba, inventa rivoluzioni. Poesia che è voce e protesta ‒ bellezza incontinente. Fruscia essa stessa nell’esondazione del peccato. È bene ricordare, quindi, come ci ricorda il libro stesso, che in Iran è ancora centrale la figura del poeta quale profetico testimone della storia di un intero popolo cui è stata privata la libertà ma non il sentimento di profonda appartenenza a una millenaria tradizione artistica e letteraria. Perché in occidente ‒ forse, maldestramente ‒ ce lo siamo dimenticato? La poesia è del popolo, e sta tra il popolo, ne dà voce. Senza poesia, il terrore prevarica su tutto. E anche un giardino ‒ che sia pieno di rose, o di parole, o di pesci e sorgenti ‒ come ci insegna Forugh Farrokhzād nella prossima poesia, va coltivato e curato finché si è in vita, prima che esso diventi immortale o moribondo, e ci abbandoni al nostro, forse vuoto, forse triste, destino. E anche un cortile va curato, affinché la memoria si perpetui, e la parola continui a raccontare e a raccontarsi nel cuore dell’uomo attraverso la tradizione. Mi fa pena il giardino Nessuno pensa ai fiori, nessuno pensa ai pesci, nessuno vuole credere che il giardino sta morendo, che il suo cuore si gonfia sotto il sole e la sua memoria si svuota lentamente del ricordo del verde e il suo sentire astratto si consuma in solitudine. Il cortile di casa nostra è solo, il cortile di casa nostra sbadiglia in attesa di una pioggia sconosciuta. Vuota la vasca nel cortile, dagli alberi cadono per terra piccole ingenue stelle. La notte dalle pallide finestre si sentono colpi di tosse nella casa dei pesci. Il cortile di casa nostra è solo. Dice mio padre: «È troppo tardi, è troppo tardi per me. Ho portato il mio peso e ho fatto tutto quel che potevo». Da mattina a sera, nella sua stanza legge il Libro dei re o il Compendio delle storie. Mio padre dice a mia madre: «Al diavolo i pesci e gli uccelli. Quando sarò morto, che differenza farà se ancora ci sarà il giardino oppure no. Mi basta la pensione». L’intera vita di mia madre è un tappeto da preghiera steso sulla spaventosa soglia dell’inferno. Mia madre in fondo a ogni cosa cerca le orme del peccato, e pensa che la bestemmia di una pianta abbia contaminato il giardino. Mia madre prega tutto il giorno. Mia madre è peccatrice per natura e per esorcizzare ogni peccato soffia sui fiori e sui pesci, soffia su sé stessa. Mia madre aspetta la venuta del Promesso e le grazie che ne discenderanno. Mio fratello chiama il giardino cimitero. Conta i cadaveri dei pesci imputriditi sotto l’acqua infetta e si beffa dei confusi grovigli dell’erba. Mio fratello è malato di filosofia. Per lui la cura del giardino consiste nella sua distruzione. Si ubriaca. Dà pugni sui muri, sulle porte e prova a mostrare quanto è triste, stanco e disperato. Porta in strada e al bazar la sua disperazione come se fosse una carta d’identità, un’agenda, un fazzoletto, un accendino, una penna. Ma la sua disperazione è così piccola che svanisce nella calca dell’osteria tutte le sere. Mia sorella, che era amica dei fiori e quando mia madre la picchiava raccontava le pene del cuore a quei fiori gentili e silenziosi e invitava ogni tanto la famiglia dei pesci a una festa di dolcetti e sole, ora abita dall’altra parte della città. Lei, nella sua casa finta,  con pesciolini rossi finti, protetta da un marito finto, sotto i rami di un melo finto, canta canzoni finte ma partorisce figli veri. Mia sorella, ogni volta che viene a trovarci e si sporca l’orlo della gonna con la miseria del giardino, fa un bagno nell’acqua di colonia. Lei, ogni volta che viene a trovarci, è incinta. Il cortile di casa nostra è solo, il cortile di casa nostra è solo. Tutto il giorno, dietro la porta, si sente il frastuono di scoppi e crolli. I nostri vicini nei loro giardini al posto dei fiori piantano granate e mitragliatrici. I nostri vicini ricoprono le vasche di maiolica del cortile che controvoglia diventano depositi di polvere da sparo e i ragazzi del nostro quartiere riempiono le borse di piccole bombe. Il cortile di casa nostra è stordito. Ho paura di questo tempo che ha perduto il suo cuore ho paura dell’immagine di queste mani vuote di questi volti sconosciuti. Io, come una scolaretta che ama follemente le lezioni di geometria, sono sola e penso che si possa portare il giardino all’ospedale penso… penso… penso… e il cuore del giardino si gonfia sotto il sole e la sua memoria si svuota lentamente del ricordo del verde. (Giorgio Anelli) *In copertina: Forough Farrokhzad (1934-1967) L'articolo “Che si può fare se il destino è morire?” Qualcosa sulla poesia iraniana contemporanea proviene da Pangea.
June 30, 2025 / Pangea
“Nell’immensità inazzurrante e profonda”. Paul Valéry, il poeta
Valéry è il poeta. Valéry è il poeta francese tra i più importanti di sempre. Il suo intelletto sovrasta ogni ragione. Lui è matematico, magmatico e filosofo; nel senso che per lui la filosofia è tutt’altro che filosofare. La sua mente ha ragione su tutto. Il sentimento non lo scalfisce. Nemmeno l’istinto. Eppure ha due crisi importanti nella sua vita.  La prima, a Genova: durante la nuit de Gênes, decide di abbandonare la poesia per lungo tempo, privilegiando riflessione e autoanalisi. Difatti, per cinquantun anni, quasi ogni giorno, fra le quattro e le sette-otto del mattino, Paul Valéry scrisse i suoi Quaderni: ne rimangono duecentosessantuno, in totale circa ventisettemila pagine. Quando chi li scriveva avvertiva un qualche movimento nella casa, smetteva. Diventava un altro, diventava Paul Valéry, l’illustre poeta e saggista. Si era guadagnato il «diritto di essere stupido fino alla sera». Ma che cos’era prima? Una pura attività mentale che scrive se stessa. All’origine di Valéry c’è una folgorazione: la scoperta dell’«impero nascosto» della nostra mente. Prima di diventare parole e significati, tutto ciò che ci succede è un evento mentale. Valéry volle essere uno «strumento d’osservazione» di questa scena mentale, uno strumento del quale si imponeva di «aumentare la precisione». Genova, città materna: “Questa città tutta visibile e presente a se stessa, rifilata con il suo mare, la sua roccia la sua ardesia, i suoi mattoni, i suoi marmi. In lavorio continuo contro la montagna”, annotava il poeta.  La sua, dunque, fu una vera e propria crisi esistenziale. La seconda crisi però, non meno importante della prima, fu l’innamorarsi di una donna in particolare, una poetessa anch’essa: Catherine Pozzi. Per otto anni i due si amarono, si odiarono, si sfinirono vicendevolmente. Passione, enigma, mistero dell’esistenza. Fiumane di parole riportate nelle lettere e nei diari e nei quaderni. Ogni attimo scritto: eternato nella passione!  La ragione contro il sentimento. La precisione della disciplina che ostacolava l’amore istintuale. Due geni non solo a confronto: due geni in incontro, ad attraversarsi il cuore con le parole. Paul Valéry. Il poeta del Cimitero marino è stato anche questo. È stato soprattutto un ragazzo prodigio, che già a quindici anni scriveva testi teatrali e poesie. Ne ricalchiamo una, ora, che scrisse prima della fantomatica crisi di Genova. Elevazione della luna L’ombra veniva, i fiori s’aprivano, la mia Anima sognava, E il vento addormentato taceva il suo ululo, La Notte cadeva, dolce la Notte come una donna, Sottile e violetta episcopalmente! Le Stelle sembravano ceri funerari Accesi come in una chiesa nelle sere; E spandendo profumi, i gigli Turiferari Dondolavano dolcemente i fratelli incensieri. Una preghiera saliva in me come un’onda E nell’immensità inazzurrante e profonda, Gli astri raccolti abbassavano i casti occhi!… Allora, apparve! ostia immensa e bionda Poi scintillò, staccandosi dal Mondo Poiché dita invisibili la innalzavano verso Cieli!… È stupendo il canto nel verso. Ancora più meraviglioso, abbandonarlo; quasi per sempre, quasi di schianto, col lampo nella notte a tiranneggiare la mente prodigio. È stupendo poi ritrovarlo il verso, diverso, essenziale, difficile, enigmatico, maturo. Ma come non ritrovare la bellezza già in questi prematuri versi: “Una preghiera saliva in me come un’onda […] Allora, apparve! ostia immensa e bionda/ Poi scintillò, staccandosi dal Mondoˮ. Quella stessa bellezza che Paul raccontava entusiasta a Louÿs in una lettera del 1892:  > «Ciò che non invecchierà mai è il Bateau ivre, e un centinaio di frasi > delle Illuminations, sono i Colloqui di Poe (e quasi tutto il resto), > è Eureka, perché tutto ciò è vicino all’essenza della bellezza, perché è stato > creato, strappato, liberato dalle viscere cosmiche, immerso nella gelida acqua > per risuscitarne limpido, come la spada del giovane Sigfrido. Io faccio mille > devozioni all’unico Poe e al solo Vinci, a quegli stessi angeli Rimbaud, > Mallarmé, Wagner. Nulla esiste al di fuori salvo tenebre, imperfezione, > nauseante incoscienza.» Giorgio Anelli L'articolo “Nell’immensità inazzurrante e profonda”. Paul Valéry, il poeta proviene da Pangea.
June 14, 2025 / Pangea
“Occorre che il poeta somigli alle foreste”. Una poesia di Victor Hugo
La prima volta che ebbi tra le mani un libro di poesie del grande Victor Hugo fu alla biblioteca civica Luigi Maino di Gallarate. Non sapevo affatto ‒ come molti di voi, suppongo, del resto ‒ che il grande narratore francese avesse scritto persino delle poesie. La sorpresa fu doppia, perché una volta aperto il libro, scoprii che (scritto a matita) lo stesso era stato donato da Franco Buffoni alla Biblioteca. Giuro, avrei voluto trafugare il libro!… Va detto che il poeta Franco Buffoni io non lo conoscevo, né mai l’ho conosciuto di persona; eppure il destino ha fatto sì che in alcune circostanze i nostri sguardi e le nostre parole s’incrociassero per imbastire brevi aneddoti, che adesso non starò certo qui a raccontare.  Quel che importa ricordare però, ora, invece, è la potenza della poesia di Hugo. Difatti, lo stesso identico libro di allora (Hugo, Poesie, Mondadori 2002), è tornato a me (non solo tra le mie mani, ma a far parte della mia “piccolaˮ biblioteca). E leggendo di gran carriera ieri sera le poesie raccolte in questa vasta antologia, pubblicata per i duecento anni dalla nascita del poeta, non solo ho goduto assai dal piacere, ma soprattutto mi ci sono ritrovato pienamente. Come se nei suoi versi Victor Hugo mi conoscesse e mi descrivesse perfettamente. Tra l’altro, detto per inciso, sono molte e varie le poesie che egli dedica al poeta. Ma non sono le uniche potenti. La maestria dell’autore francese è rinomata anche nello scrivere versi in tutti gli svariati temi che singolarmente affronta. Su tutte, quella dove mi ci ritrovo completamente s’intitola È bene che il poeta… > È bene che il poeta, assetato d’ombra e di cielo, > Spirito dolce e splendido, che irraggia chiarità, > Che innanzi a tutti cammina, illuminando chi dubita, > Cantore misterioso che trasalendo ascoltano > Le donne e i sognatori ed i saggi e gli amanti, > Diventi in certi istanti un essere terribile. > Talvolta, quando fantastica sul suo libro,  > Ove ogni cosa culla, abbaglia, calma, carezza, inebria, > E l’animo a ogni passo trova polline per il suo miele, > E gli angoli più bui hanno luci celesti; > In mezzo a quell’umile ed alta poesia, > In quella pace sacra in cui cresce il fiore prediletto, > E si sentono scorrere le sorgenti ed i pianti, > E le strofe, uccelli dipinti di mille colori, > Volano cantando l’amore, la speranza e la gioia, > Occorre che, a tratti, si tremi, e si oda, > Di colpo, scuro, grave, tremendo per chi passa, > Dall’ombra un verso feroce uscire ruggendo! > Occorre che il poeta, il poeta dal seme fecondo, > Somigli alle foreste, verdi, fresche, profonde, > Piene di canti, amate dal sole e dal vento, > Incantevoli, in cui d’un tratto s’incontra un leone.  > > Parigi, maggio 1842 Confesso che stare nei boschi di montagna mi ha educato a questo tipo di poesia e di vita. Stare nei boschi di montagna mi ha insegnato ad essere feroce e fecondo, fiore prediletto, speranzoso cantore misterioso. Del resto, che il mio urlo rimbombi tuttora per certe valli e in altrettanti luoghi immersi nella natura e nel sentimento panico, non è cosa affatto scontata e banale. Giorgio Anelli *In copertina: Victor Hugo, Octopus, 1866–69 L'articolo “Occorre che il poeta somigli alle foreste”. Una poesia di Victor Hugo proviene da Pangea.
April 25, 2025 / Pangea