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Rilke, il molto amato, l’uomo delle infinite solitudini
Rilke è l’amato. Il molto amato. L’angelo amato da tutti. Il bambino angelico costretto all’esercito. La sua personalità ne risentirà. La sua personalità lo salverà da questo e altri traumi.  Rainer è lo studente interessato e geniale. Colui che sceglie e decide di essere poeta. Risoluto. Mai fisso nello stesso luogo. Lui è il poeta giardiniere, colui che ama la rosa. Rilke, il viaggiatore instancabile.  Era l’uomo dei salotti, il poeta di Parigi. Era l’uomo delle infinite solitudini.  Un rigore, il suo, che premierà qualsiasi sacrificio. Rainer Maria Rilke dall’anima delicatissima. Poeta dotato di una sensibilità dell’altro mondo. Una vita consacrata alla poesia, consumata dalla poesia. Poesia totemica, poesia totale la sua. Fu il vero amante di Lou Andreas Salomè. Lui, che ebbe il coraggio di abbandonare la figlia. Oltre a Valéry, tra gli altri, conobbe Rodin, Pasternak, Tolstoj. Viaggiò per raggiungere la Russia, inspiegabilmente conoscendone la lingua, per poi dimenticarsela. Tradusse dall’inglese la Browning, amava Hermann Hesse e Georg Trakl.  Venerato nei salotti e nei castelli più prestigiosi dell’epoca, viaggiò molto, all’inverosimile; passò spesso per l’Italia e non solo. Per lui ogni castello era la vita. Per lui ogni donna, una mecenate. Scrisse lettere a una poetessa orfica: Catherine Pozzi. Ne nacque un epistolario magnetico e immortale.  Fu fine traduttore appunto, tanto che dal francese fu forgiata l’opera sua. Tanto che dall’amore tra Paul Valéry e Catherine Pozzi, senza saperlo, lui venne influenzato, ultimando due opere estreme e meravigliose: le Elegie Duinesi e i Sonetti a Orfeo. Ogni castello era la vita: una fine solitudine che doveva attraversarlo compiutamente. Rilke, poeta dallo sguardo irresistibile. Rilke che asseconda tutto.  Tutto deve essere affrontato per lui; il bene e il male non hanno differenze. Occorre assentire nella vertiginosa curva della vita, anche quando la malattia lo pressa e lo preme.  Egli è il poeta che si sente sempre più attirato ad acconsentire dalla sua posizione provvisoria a quel Tutto in cui vita e morte si compenetrano e si fondono costantemente. Rilke, poeta dal sangue vivo ‒ poeta dal sangue malato.  Una malattia del sangue ce l’ha portato via, dopo una sofferenza affrontata fino all’ultimo rifiutando la morfina. Il viaggiatore instancabile così svanisce, in un sanatorio svizzero, a Valmont. Svanisce però dopo aver vissuto intensamente la sua vita, dopo aver vissuto intensamente il reale; dopo esser stato, compiutamente e fino in fondo, poeta.  La sua scelta l’ha reso consapevole di ciò che era. La costanza premia l’uomo. La costanza del sapere che siamo nulla, e che tutto possiamo.  (Giorgio Anelli) > Chi non ha casa adesso, non l’avrà. > Chi è solo a lungo solo dovrà stare, > leggere nelle veglie, e lunghi fogli > scrivere, e incerto sulle vie tornare > dove nell’aria fluttuano le foglie. > > (Da: Giorno d’autunno, traduzione di Giaime Pintor) L'articolo Rilke, il molto amato, l’uomo delle infinite solitudini proviene da Pangea.
July 23, 2025 / Pangea
“Verso l’ignoto”. Catherine Pozzi, la poetessa notturna
Catherine Pozzi è una poetessa. È la poetessa francese che ammaliò Valéry e Rilke. È il trait d’union delle lingue nella poesia. Genio tubercolotico, con la voce della notte, insegnava danzare alle parole. Concisa. Poco incline al compromesso, fu tutta sentimento. Proprio per questo pagò cara la tresca con il più grande poeta francese di quel tempo: Paul Valéry. Essenza e umore sfuggenti facevano di lei una donna solitaria, poco affine ai salotti dell’epoca. Le sue poesie sono lampi provenienti da un cielo a margine, sospeso tra dimensione terrena e immaginaria. Le sue poesie, una volta scritte, comportano un cordoglio, e mestizia, per la morte del poeta stesso che le ha create. Scrisse soprattutto sei grandi liriche, tutte pubblicate postume, tranne una, Ave (apparsa sulla “NRFˮ il 1° dicembre del 1929), preghiera-ode, cantico-celebrazione per quell’«altissimo amore» innominabile e irraggiungibile, nel quale il corpo si frantuma e dissolve. Quasi addio (Vale) Il grande amore che mi hai dato Il vento dei giorni l’ha mandato in frantumi ‒ Dove fu la fiamma, dove fu il destino, Dove eravamo, dove per mano stretta                      Noi stavamo Il nostro sole, il cui ardore era pensato Il mondo per noi di essere senza un secondo Il secondo cielo di un’anima divisa Doppio esilio dove il doppio si fonde Il suo luogo per te appare cenere e paura, I tuoi occhi verso di lui non l’hanno riconosciuto La stella incantata che sviava lo sguardo L’estremo istante del nostro unico abbraccio                      Verso l’ignoto. Ma il futuro che ti aspetti di vivere È meno presente del bene scomparso. Qualsiasi raccolto che alla fine ti porta Lo berrai senza poter essere così ubriaco                        Del vino perso. Io ho ritrovato il celeste e il selvaggio Il paradiso dove l’angoscia è desiderio. L’altisonante passato che cresce di età in età È il mio corpo e sarà il mio senso                       Dopo la morte. Quando in un corpo la mia gioia dimenticata Dove fu il tuo nome, prenderà la forma del cuore Io rivivrò il nostro grande giorno, E questo amore che ti ho dato                       Per il dolore. * Maya Scendo i gradini di secoli e di sabbia Che ritornano a voi nell’istante disperato Terra di templi d’oro, entro nella vostra favola                                   Atlantico adorato. Da un corpo che non mi appartiene più, la fiamma finalmente fugge L’Anima è un nome disprezzato dal destino ‒ Lascia che il tempo si fermi, lascia che la cornice crolli, Ritorno sui miei passi verso l’abisso infantile. Gli uccelli planano sul vento nell’Occidente marino, Devi volare, felicità, nella vecchia estate, Tutti profondamente addormentati dove cessa la riva Rocce, il canto, il re, l’albero lungamente cullato, Stelle da tempo legate al mio primo volto, Sole stupefacente incoronato di calma. Intransigente e severa critica di se stessa, Catherine Pozzi visse con l’anima aperta sul mondo, trasponendo in versi dal temperamento mistico la sua intensa fame d’assoluto e il suo non meno sconcertante desiderio di calarsi nel regno tumultuoso della notte oscura. «Quello che non può diventare notte o fiamma», confessava la poetessa, musa e amante tradita di Paul Valéry, «lo si deve mettere a tacere». Poetessa pura, genio giovanile come il suo amato/odiato Paul, non poteva che lasciarci un diario denso e intenso, intriso di canto e lirica. Intraprende i suoi studi con sete di conoscenza enciclopedica: si interessa a materie diverse come la filosofia greca, la teologia, la fisica e la chimica, nonché ai misteri orfici e al pensiero orientale. Il suo bisogno di razionalità da un lato e di assoluto dall’altro non conosce limiti. Tutto ciò fa di lei persino una fine traduttrice, che ha saputo però gestire il genio, comprendendo e godendo pienamente dalla lettura le poesie della Browning tradotte da Rilke, e le poesie di Rilke tradotte da Valéry. Infatti, senza entrare nel merito del suo rapporto con Catherine, Valéry pregò Rilke di inviarle le sue traduzioni dei Sonetti dal portoghese di Elizabeth Barrett-Browning, precisandogli che la sua «amica» era ben qualificata per apprezzarle, considerata la sua ottima conoscenza dell’inglese e del tedesco, ma soprattutto in ragione della sua ammirazione sconfinata per la poetessa inglese. Questo fu il la, tra l’altro, per la nascita di un carteggio assoluto tra Rainer Maria Rilke e la Pozzi. Nyx                                                           A Louise anche lei di Lione e d’Italia O voi mie notti, o nere attese O paese orgoglioso, o segreti ostinati O lunghi sguardi, o nudi ardenti O volo consentito oltre i cieli chiusi. O gran desiderio, o diffusa sorpresa O bel cammino dello spirito incantato O male peggiore, o grazia discesa O porta aperta dove nessuno era passato Non so perché muoio e annego Prima di entrare nella dimora eterna. Non so di chi sono la preda. Non so di chi sono l’amore. * Ave Altissimo amore, se è possibile che io muoia Senza sapere da dove vi ho preso, In quale sole era la vostra casa In quale passato il vostro tempo, in quale ora                                           Io vi amavo, Amore altissimo che fuggite il ricordo, Fuoco senza focolare di cui ho fatto tutta la mia giornata, In quale destino avete tracciato la mia storia, In quale sonno si vedeva la vostra gloria,                                           O mia dimora… Quando sarò persa con me stessa E divisa nell’abisso infinito. Infinitamente, quando sarò sopraffatta, Quando il presente di cui sono rivestita                                           Avrà tradito, Per l’universo in mille corpi sbriciolata, Di mille istanti non ancora raccolti, Dalla cenere ai cieli fino al nulla setacciato, Lo rifarete per una strana annata                                           Un unico tesoro Voi rifarete il mio nome e la mia immagine Di mille corpi portati via ogni giorno, Viva unità senza nome e senza volto Cuore dello spirito, oh centro del miraggio                                           Altissimo amore. Sei poesie non sono molto per assegnare una gloria letteraria, ma per Catherine Pozzi non serviva altro: «Ho scritto VALE, AVE, MAYA, NOVA, SCOPOLAMINE, NYX. Vorrei che se ne faccia una plaquette. Saffo non ha attraversato il tempo con più parole.»  Il futuro ha esaudito il suo desiderio… *L’articolo e la traduzione delle poesie sono di Giorgio Anelli; traduzione da “Oeuvre poétique”, Éditions de La Différence, 1988 L'articolo “Verso l’ignoto”. Catherine Pozzi, la poetessa notturna proviene da Pangea.
July 15, 2025 / Pangea
“Che si può fare se il destino è morire?” Qualcosa sulla poesia iraniana contemporanea
Che sia un solo verso, a volte, a colpirci, lo sappiamo. La potenza di alcune parole irretisce retina e cuore. L’intelletto gode, l’emozione si fa scossa. Brivido è la colonna vertebrale. Così è quando leggo: Dovrò prepararmi a fiorire, e subito la fantasia immagina poesie che si estendono da questa gemma primordiale. Ho con me in mano un libro, che di quel verso ne ha fatto il titolo. Si tratta di un’antologia, curata e tradotta da Faezeh Mardani e Francesco Occhetto, che dà voce a Forugh Farrokhzād, Bitā Malakuti, Leila Kordbacheh, Parvin Salājeghe, Fereshteh Sāri e Grānāz Moussavi. È la prima rassegna italiana della poesia femminile di un Paese quale l’Iran da sempre abituato ad affidare al canto poetico tutte le componenti della propria vitalità esistenziale e spirituale. > Ardue prove mi offrì il giardiniere del firmamento > ma che si può dire al predatore dei tempi? > Che si può fare se il destino è morire? > Sei giunto al giardino e noi ce ne andammo, > colui che qui ti condusse ci prese e ci portò via. > In questo libro di vittoria il cielo > conteggiò per noi l’incalcolabile. > Il fiore, appena vide acqua e aria, > ignaro di dover presto appassire sbocciò. > Il coppiere della taverna del mondo è Destino, > tutti beviamo il vino dalla sua coppa. > > Parvin Eʻtesāmi (1907-1941) Che sia la poesia a farsi bandiera universale è bene ricordarlo sempre. Poesia che si dimentica ai più, ma che ci costituisce. Poesia cellula, atomo, big-bang del mondo. Poesia che garrisce. Poesia che sta nel vento, fa frusciare l’erba, inventa rivoluzioni. Poesia che è voce e protesta ‒ bellezza incontinente. Fruscia essa stessa nell’esondazione del peccato. È bene ricordare, quindi, come ci ricorda il libro stesso, che in Iran è ancora centrale la figura del poeta quale profetico testimone della storia di un intero popolo cui è stata privata la libertà ma non il sentimento di profonda appartenenza a una millenaria tradizione artistica e letteraria. Perché in occidente ‒ forse, maldestramente ‒ ce lo siamo dimenticato? La poesia è del popolo, e sta tra il popolo, ne dà voce. Senza poesia, il terrore prevarica su tutto. E anche un giardino ‒ che sia pieno di rose, o di parole, o di pesci e sorgenti ‒ come ci insegna Forugh Farrokhzād nella prossima poesia, va coltivato e curato finché si è in vita, prima che esso diventi immortale o moribondo, e ci abbandoni al nostro, forse vuoto, forse triste, destino. E anche un cortile va curato, affinché la memoria si perpetui, e la parola continui a raccontare e a raccontarsi nel cuore dell’uomo attraverso la tradizione. Mi fa pena il giardino Nessuno pensa ai fiori, nessuno pensa ai pesci, nessuno vuole credere che il giardino sta morendo, che il suo cuore si gonfia sotto il sole e la sua memoria si svuota lentamente del ricordo del verde e il suo sentire astratto si consuma in solitudine. Il cortile di casa nostra è solo, il cortile di casa nostra sbadiglia in attesa di una pioggia sconosciuta. Vuota la vasca nel cortile, dagli alberi cadono per terra piccole ingenue stelle. La notte dalle pallide finestre si sentono colpi di tosse nella casa dei pesci. Il cortile di casa nostra è solo. Dice mio padre: «È troppo tardi, è troppo tardi per me. Ho portato il mio peso e ho fatto tutto quel che potevo». Da mattina a sera, nella sua stanza legge il Libro dei re o il Compendio delle storie. Mio padre dice a mia madre: «Al diavolo i pesci e gli uccelli. Quando sarò morto, che differenza farà se ancora ci sarà il giardino oppure no. Mi basta la pensione». L’intera vita di mia madre è un tappeto da preghiera steso sulla spaventosa soglia dell’inferno. Mia madre in fondo a ogni cosa cerca le orme del peccato, e pensa che la bestemmia di una pianta abbia contaminato il giardino. Mia madre prega tutto il giorno. Mia madre è peccatrice per natura e per esorcizzare ogni peccato soffia sui fiori e sui pesci, soffia su sé stessa. Mia madre aspetta la venuta del Promesso e le grazie che ne discenderanno. Mio fratello chiama il giardino cimitero. Conta i cadaveri dei pesci imputriditi sotto l’acqua infetta e si beffa dei confusi grovigli dell’erba. Mio fratello è malato di filosofia. Per lui la cura del giardino consiste nella sua distruzione. Si ubriaca. Dà pugni sui muri, sulle porte e prova a mostrare quanto è triste, stanco e disperato. Porta in strada e al bazar la sua disperazione come se fosse una carta d’identità, un’agenda, un fazzoletto, un accendino, una penna. Ma la sua disperazione è così piccola che svanisce nella calca dell’osteria tutte le sere. Mia sorella, che era amica dei fiori e quando mia madre la picchiava raccontava le pene del cuore a quei fiori gentili e silenziosi e invitava ogni tanto la famiglia dei pesci a una festa di dolcetti e sole, ora abita dall’altra parte della città. Lei, nella sua casa finta,  con pesciolini rossi finti, protetta da un marito finto, sotto i rami di un melo finto, canta canzoni finte ma partorisce figli veri. Mia sorella, ogni volta che viene a trovarci e si sporca l’orlo della gonna con la miseria del giardino, fa un bagno nell’acqua di colonia. Lei, ogni volta che viene a trovarci, è incinta. Il cortile di casa nostra è solo, il cortile di casa nostra è solo. Tutto il giorno, dietro la porta, si sente il frastuono di scoppi e crolli. I nostri vicini nei loro giardini al posto dei fiori piantano granate e mitragliatrici. I nostri vicini ricoprono le vasche di maiolica del cortile che controvoglia diventano depositi di polvere da sparo e i ragazzi del nostro quartiere riempiono le borse di piccole bombe. Il cortile di casa nostra è stordito. Ho paura di questo tempo che ha perduto il suo cuore ho paura dell’immagine di queste mani vuote di questi volti sconosciuti. Io, come una scolaretta che ama follemente le lezioni di geometria, sono sola e penso che si possa portare il giardino all’ospedale penso… penso… penso… e il cuore del giardino si gonfia sotto il sole e la sua memoria si svuota lentamente del ricordo del verde. (Giorgio Anelli) *In copertina: Forough Farrokhzad (1934-1967) L'articolo “Che si può fare se il destino è morire?” Qualcosa sulla poesia iraniana contemporanea proviene da Pangea.
June 30, 2025 / Pangea
“Nell’immensità inazzurrante e profonda”. Paul Valéry, il poeta
Valéry è il poeta. Valéry è il poeta francese tra i più importanti di sempre. Il suo intelletto sovrasta ogni ragione. Lui è matematico, magmatico e filosofo; nel senso che per lui la filosofia è tutt’altro che filosofare. La sua mente ha ragione su tutto. Il sentimento non lo scalfisce. Nemmeno l’istinto. Eppure ha due crisi importanti nella sua vita.  La prima, a Genova: durante la nuit de Gênes, decide di abbandonare la poesia per lungo tempo, privilegiando riflessione e autoanalisi. Difatti, per cinquantun anni, quasi ogni giorno, fra le quattro e le sette-otto del mattino, Paul Valéry scrisse i suoi Quaderni: ne rimangono duecentosessantuno, in totale circa ventisettemila pagine. Quando chi li scriveva avvertiva un qualche movimento nella casa, smetteva. Diventava un altro, diventava Paul Valéry, l’illustre poeta e saggista. Si era guadagnato il «diritto di essere stupido fino alla sera». Ma che cos’era prima? Una pura attività mentale che scrive se stessa. All’origine di Valéry c’è una folgorazione: la scoperta dell’«impero nascosto» della nostra mente. Prima di diventare parole e significati, tutto ciò che ci succede è un evento mentale. Valéry volle essere uno «strumento d’osservazione» di questa scena mentale, uno strumento del quale si imponeva di «aumentare la precisione». Genova, città materna: “Questa città tutta visibile e presente a se stessa, rifilata con il suo mare, la sua roccia la sua ardesia, i suoi mattoni, i suoi marmi. In lavorio continuo contro la montagna”, annotava il poeta.  La sua, dunque, fu una vera e propria crisi esistenziale. La seconda crisi però, non meno importante della prima, fu l’innamorarsi di una donna in particolare, una poetessa anch’essa: Catherine Pozzi. Per otto anni i due si amarono, si odiarono, si sfinirono vicendevolmente. Passione, enigma, mistero dell’esistenza. Fiumane di parole riportate nelle lettere e nei diari e nei quaderni. Ogni attimo scritto: eternato nella passione!  La ragione contro il sentimento. La precisione della disciplina che ostacolava l’amore istintuale. Due geni non solo a confronto: due geni in incontro, ad attraversarsi il cuore con le parole. Paul Valéry. Il poeta del Cimitero marino è stato anche questo. È stato soprattutto un ragazzo prodigio, che già a quindici anni scriveva testi teatrali e poesie. Ne ricalchiamo una, ora, che scrisse prima della fantomatica crisi di Genova. Elevazione della luna L’ombra veniva, i fiori s’aprivano, la mia Anima sognava, E il vento addormentato taceva il suo ululo, La Notte cadeva, dolce la Notte come una donna, Sottile e violetta episcopalmente! Le Stelle sembravano ceri funerari Accesi come in una chiesa nelle sere; E spandendo profumi, i gigli Turiferari Dondolavano dolcemente i fratelli incensieri. Una preghiera saliva in me come un’onda E nell’immensità inazzurrante e profonda, Gli astri raccolti abbassavano i casti occhi!… Allora, apparve! ostia immensa e bionda Poi scintillò, staccandosi dal Mondo Poiché dita invisibili la innalzavano verso Cieli!… È stupendo il canto nel verso. Ancora più meraviglioso, abbandonarlo; quasi per sempre, quasi di schianto, col lampo nella notte a tiranneggiare la mente prodigio. È stupendo poi ritrovarlo il verso, diverso, essenziale, difficile, enigmatico, maturo. Ma come non ritrovare la bellezza già in questi prematuri versi: “Una preghiera saliva in me come un’onda […] Allora, apparve! ostia immensa e bionda/ Poi scintillò, staccandosi dal Mondoˮ. Quella stessa bellezza che Paul raccontava entusiasta a Louÿs in una lettera del 1892:  > «Ciò che non invecchierà mai è il Bateau ivre, e un centinaio di frasi > delle Illuminations, sono i Colloqui di Poe (e quasi tutto il resto), > è Eureka, perché tutto ciò è vicino all’essenza della bellezza, perché è stato > creato, strappato, liberato dalle viscere cosmiche, immerso nella gelida acqua > per risuscitarne limpido, come la spada del giovane Sigfrido. Io faccio mille > devozioni all’unico Poe e al solo Vinci, a quegli stessi angeli Rimbaud, > Mallarmé, Wagner. Nulla esiste al di fuori salvo tenebre, imperfezione, > nauseante incoscienza.» Giorgio Anelli L'articolo “Nell’immensità inazzurrante e profonda”. Paul Valéry, il poeta proviene da Pangea.
June 14, 2025 / Pangea
“Occorre che il poeta somigli alle foreste”. Una poesia di Victor Hugo
La prima volta che ebbi tra le mani un libro di poesie del grande Victor Hugo fu alla biblioteca civica Luigi Maino di Gallarate. Non sapevo affatto ‒ come molti di voi, suppongo, del resto ‒ che il grande narratore francese avesse scritto persino delle poesie. La sorpresa fu doppia, perché una volta aperto il libro, scoprii che (scritto a matita) lo stesso era stato donato da Franco Buffoni alla Biblioteca. Giuro, avrei voluto trafugare il libro!… Va detto che il poeta Franco Buffoni io non lo conoscevo, né mai l’ho conosciuto di persona; eppure il destino ha fatto sì che in alcune circostanze i nostri sguardi e le nostre parole s’incrociassero per imbastire brevi aneddoti, che adesso non starò certo qui a raccontare.  Quel che importa ricordare però, ora, invece, è la potenza della poesia di Hugo. Difatti, lo stesso identico libro di allora (Hugo, Poesie, Mondadori 2002), è tornato a me (non solo tra le mie mani, ma a far parte della mia “piccolaˮ biblioteca). E leggendo di gran carriera ieri sera le poesie raccolte in questa vasta antologia, pubblicata per i duecento anni dalla nascita del poeta, non solo ho goduto assai dal piacere, ma soprattutto mi ci sono ritrovato pienamente. Come se nei suoi versi Victor Hugo mi conoscesse e mi descrivesse perfettamente. Tra l’altro, detto per inciso, sono molte e varie le poesie che egli dedica al poeta. Ma non sono le uniche potenti. La maestria dell’autore francese è rinomata anche nello scrivere versi in tutti gli svariati temi che singolarmente affronta. Su tutte, quella dove mi ci ritrovo completamente s’intitola È bene che il poeta… > È bene che il poeta, assetato d’ombra e di cielo, > Spirito dolce e splendido, che irraggia chiarità, > Che innanzi a tutti cammina, illuminando chi dubita, > Cantore misterioso che trasalendo ascoltano > Le donne e i sognatori ed i saggi e gli amanti, > Diventi in certi istanti un essere terribile. > Talvolta, quando fantastica sul suo libro,  > Ove ogni cosa culla, abbaglia, calma, carezza, inebria, > E l’animo a ogni passo trova polline per il suo miele, > E gli angoli più bui hanno luci celesti; > In mezzo a quell’umile ed alta poesia, > In quella pace sacra in cui cresce il fiore prediletto, > E si sentono scorrere le sorgenti ed i pianti, > E le strofe, uccelli dipinti di mille colori, > Volano cantando l’amore, la speranza e la gioia, > Occorre che, a tratti, si tremi, e si oda, > Di colpo, scuro, grave, tremendo per chi passa, > Dall’ombra un verso feroce uscire ruggendo! > Occorre che il poeta, il poeta dal seme fecondo, > Somigli alle foreste, verdi, fresche, profonde, > Piene di canti, amate dal sole e dal vento, > Incantevoli, in cui d’un tratto s’incontra un leone.  > > Parigi, maggio 1842 Confesso che stare nei boschi di montagna mi ha educato a questo tipo di poesia e di vita. Stare nei boschi di montagna mi ha insegnato ad essere feroce e fecondo, fiore prediletto, speranzoso cantore misterioso. Del resto, che il mio urlo rimbombi tuttora per certe valli e in altrettanti luoghi immersi nella natura e nel sentimento panico, non è cosa affatto scontata e banale. Giorgio Anelli *In copertina: Victor Hugo, Octopus, 1866–69 L'articolo “Occorre che il poeta somigli alle foreste”. Una poesia di Victor Hugo proviene da Pangea.
April 25, 2025 / Pangea