Rilke è l’amato. Il molto amato. L’angelo amato da tutti. Il bambino angelico
costretto all’esercito. La sua personalità ne risentirà. La sua personalità lo
salverà da questo e altri traumi.
Rainer è lo studente interessato e geniale. Colui che sceglie e decide di essere
poeta. Risoluto. Mai fisso nello stesso luogo.
Lui è il poeta giardiniere, colui che ama la rosa. Rilke, il viaggiatore
instancabile.
Era l’uomo dei salotti, il poeta di Parigi. Era l’uomo delle infinite
solitudini.
Un rigore, il suo, che premierà qualsiasi sacrificio.
Rainer Maria Rilke dall’anima delicatissima. Poeta dotato di una sensibilità
dell’altro mondo.
Una vita consacrata alla poesia, consumata dalla poesia. Poesia totemica, poesia
totale la sua.
Fu il vero amante di Lou Andreas Salomè. Lui, che ebbe il coraggio di
abbandonare la figlia.
Oltre a Valéry, tra gli altri, conobbe Rodin, Pasternak, Tolstoj. Viaggiò per
raggiungere la Russia, inspiegabilmente conoscendone la lingua, per poi
dimenticarsela. Tradusse dall’inglese la Browning, amava Hermann Hesse e Georg
Trakl.
Venerato nei salotti e nei castelli più prestigiosi dell’epoca, viaggiò molto,
all’inverosimile; passò spesso per l’Italia e non solo. Per lui ogni castello
era la vita. Per lui ogni donna, una mecenate.
Scrisse lettere a una poetessa orfica: Catherine Pozzi. Ne nacque un epistolario
magnetico e immortale.
Fu fine traduttore appunto, tanto che dal francese fu forgiata l’opera sua.
Tanto che dall’amore tra Paul Valéry e Catherine Pozzi, senza saperlo, lui venne
influenzato, ultimando due opere estreme e meravigliose: le Elegie Duinesi e
i Sonetti a Orfeo.
Ogni castello era la vita: una fine solitudine che doveva attraversarlo
compiutamente.
Rilke, poeta dallo sguardo irresistibile. Rilke che asseconda tutto.
Tutto deve essere affrontato per lui; il bene e il male non hanno differenze.
Occorre assentire nella vertiginosa curva della vita, anche quando la malattia
lo pressa e lo preme.
Egli è il poeta che si sente sempre più attirato ad acconsentire dalla sua
posizione provvisoria a quel Tutto in cui vita e morte si compenetrano e si
fondono costantemente.
Rilke, poeta dal sangue vivo ‒ poeta dal sangue malato.
Una malattia del sangue ce l’ha portato via, dopo una sofferenza affrontata fino
all’ultimo rifiutando la morfina. Il viaggiatore instancabile così svanisce, in
un sanatorio svizzero, a Valmont. Svanisce però dopo aver vissuto intensamente
la sua vita, dopo aver vissuto intensamente il reale; dopo esser stato,
compiutamente e fino in fondo, poeta.
La sua scelta l’ha reso consapevole di ciò che era. La costanza premia l’uomo.
La costanza del sapere che siamo nulla, e che tutto possiamo.
(Giorgio Anelli)
> Chi non ha casa adesso, non l’avrà.
> Chi è solo a lungo solo dovrà stare,
> leggere nelle veglie, e lunghi fogli
> scrivere, e incerto sulle vie tornare
> dove nell’aria fluttuano le foglie.
>
> (Da: Giorno d’autunno, traduzione di Giaime Pintor)
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Pangea.
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Catherine Pozzi è una poetessa. È la poetessa francese che ammaliò Valéry e
Rilke. È il trait d’union delle lingue nella poesia. Genio tubercolotico, con la
voce della notte, insegnava danzare alle parole. Concisa. Poco incline al
compromesso, fu tutta sentimento. Proprio per questo pagò cara la tresca con il
più grande poeta francese di quel tempo: Paul Valéry.
Essenza e umore sfuggenti facevano di lei una donna solitaria, poco affine ai
salotti dell’epoca.
Le sue poesie sono lampi provenienti da un cielo a margine, sospeso tra
dimensione terrena e immaginaria. Le sue poesie, una volta scritte, comportano
un cordoglio, e mestizia, per la morte del poeta stesso che le ha create.
Scrisse soprattutto sei grandi liriche, tutte pubblicate postume, tranne
una, Ave (apparsa sulla “NRFˮ il 1° dicembre del 1929), preghiera-ode,
cantico-celebrazione per quell’«altissimo amore» innominabile e irraggiungibile,
nel quale il corpo si frantuma e dissolve.
Quasi addio (Vale)
Il grande amore che mi hai dato
Il vento dei giorni l’ha mandato in frantumi ‒
Dove fu la fiamma, dove fu il destino,
Dove eravamo, dove per mano stretta
Noi stavamo
Il nostro sole, il cui ardore era pensato
Il mondo per noi di essere senza un secondo
Il secondo cielo di un’anima divisa
Doppio esilio dove il doppio si fonde
Il suo luogo per te appare cenere e paura,
I tuoi occhi verso di lui non l’hanno riconosciuto
La stella incantata che sviava lo sguardo
L’estremo istante del nostro unico abbraccio
Verso l’ignoto.
Ma il futuro che ti aspetti di vivere
È meno presente del bene scomparso.
Qualsiasi raccolto che alla fine ti porta
Lo berrai senza poter essere così ubriaco
Del vino perso.
Io ho ritrovato il celeste e il selvaggio
Il paradiso dove l’angoscia è desiderio.
L’altisonante passato che cresce di età in età
È il mio corpo e sarà il mio senso
Dopo la morte.
Quando in un corpo la mia gioia dimenticata
Dove fu il tuo nome, prenderà la forma del cuore
Io rivivrò il nostro grande giorno,
E questo amore che ti ho dato
Per il dolore.
*
Maya
Scendo i gradini di secoli e di sabbia
Che ritornano a voi nell’istante disperato
Terra di templi d’oro, entro nella vostra favola
Atlantico adorato.
Da un corpo che non mi appartiene più, la fiamma finalmente fugge
L’Anima è un nome disprezzato dal destino ‒
Lascia che il tempo si fermi, lascia che la cornice crolli,
Ritorno sui miei passi verso l’abisso infantile.
Gli uccelli planano sul vento nell’Occidente marino,
Devi volare, felicità, nella vecchia estate,
Tutti profondamente addormentati dove cessa la riva
Rocce, il canto, il re, l’albero lungamente cullato,
Stelle da tempo legate al mio primo volto,
Sole stupefacente incoronato di calma.
Intransigente e severa critica di se stessa, Catherine Pozzi visse con l’anima
aperta sul mondo, trasponendo in versi dal temperamento mistico la sua intensa
fame d’assoluto e il suo non meno sconcertante desiderio di calarsi nel regno
tumultuoso della notte oscura.
«Quello che non può diventare notte o fiamma», confessava la poetessa, musa e
amante tradita di Paul Valéry, «lo si deve mettere a tacere».
Poetessa pura, genio giovanile come il suo amato/odiato Paul, non poteva che
lasciarci un diario denso e intenso, intriso di canto e lirica. Intraprende i
suoi studi con sete di conoscenza enciclopedica: si interessa a materie diverse
come la filosofia greca, la teologia, la fisica e la chimica, nonché ai misteri
orfici e al pensiero orientale. Il suo bisogno di razionalità da un lato e di
assoluto dall’altro non conosce limiti.
Tutto ciò fa di lei persino una fine traduttrice, che ha saputo però gestire il
genio, comprendendo e godendo pienamente dalla lettura le poesie della Browning
tradotte da Rilke, e le poesie di Rilke tradotte da Valéry. Infatti, senza
entrare nel merito del suo rapporto con Catherine, Valéry pregò Rilke di
inviarle le sue traduzioni dei Sonetti dal portoghese di Elizabeth
Barrett-Browning, precisandogli che la sua «amica» era ben qualificata per
apprezzarle, considerata la sua ottima conoscenza dell’inglese e del tedesco, ma
soprattutto in ragione della sua ammirazione sconfinata per la poetessa inglese.
Questo fu il la, tra l’altro, per la nascita di un carteggio assoluto tra Rainer
Maria Rilke e la Pozzi.
Nyx
A Louise anche lei di
Lione e d’Italia
O voi mie notti, o nere attese
O paese orgoglioso, o segreti ostinati
O lunghi sguardi, o nudi ardenti
O volo consentito oltre i cieli chiusi.
O gran desiderio, o diffusa sorpresa
O bel cammino dello spirito incantato
O male peggiore, o grazia discesa
O porta aperta dove nessuno era passato
Non so perché muoio e annego
Prima di entrare nella dimora eterna.
Non so di chi sono la preda.
Non so di chi sono l’amore.
*
Ave
Altissimo amore, se è possibile che io muoia
Senza sapere da dove vi ho preso,
In quale sole era la vostra casa
In quale passato il vostro tempo, in quale ora
Io vi amavo,
Amore altissimo che fuggite il ricordo,
Fuoco senza focolare di cui ho fatto tutta la mia giornata,
In quale destino avete tracciato la mia storia,
In quale sonno si vedeva la vostra gloria,
O mia dimora…
Quando sarò persa con me stessa
E divisa nell’abisso infinito.
Infinitamente, quando sarò sopraffatta,
Quando il presente di cui sono rivestita
Avrà tradito,
Per l’universo in mille corpi sbriciolata,
Di mille istanti non ancora raccolti,
Dalla cenere ai cieli fino al nulla setacciato,
Lo rifarete per una strana annata
Un unico tesoro
Voi rifarete il mio nome e la mia immagine
Di mille corpi portati via ogni giorno,
Viva unità senza nome e senza volto
Cuore dello spirito, oh centro del miraggio
Altissimo amore.
Sei poesie non sono molto per assegnare una gloria letteraria, ma per Catherine
Pozzi non serviva altro: «Ho scritto
VALE, AVE, MAYA, NOVA, SCOPOLAMINE, NYX. Vorrei che se ne faccia una plaquette.
Saffo non ha attraversato il tempo con più parole.»
Il futuro ha esaudito il suo desiderio…
*L’articolo e la traduzione delle poesie sono di Giorgio Anelli; traduzione da
“Oeuvre poétique”, Éditions de La Différence, 1988
L'articolo “Verso l’ignoto”. Catherine Pozzi, la poetessa notturna proviene da
Pangea.
Che sia un solo verso, a volte, a colpirci, lo sappiamo. La potenza di alcune
parole irretisce retina e cuore. L’intelletto gode, l’emozione si fa scossa.
Brivido è la colonna vertebrale. Così è quando leggo: Dovrò prepararmi a
fiorire, e subito la fantasia immagina poesie che si estendono da questa gemma
primordiale.
Ho con me in mano un libro, che di quel verso ne ha fatto il titolo. Si tratta
di un’antologia, curata e tradotta da Faezeh Mardani e Francesco Occhetto, che
dà voce a Forugh Farrokhzād, Bitā Malakuti, Leila Kordbacheh, Parvin Salājeghe,
Fereshteh Sāri e Grānāz Moussavi. È la prima rassegna italiana della poesia
femminile di un Paese quale l’Iran da sempre abituato ad affidare al canto
poetico tutte le componenti della propria vitalità esistenziale e spirituale.
> Ardue prove mi offrì il giardiniere del firmamento
> ma che si può dire al predatore dei tempi?
> Che si può fare se il destino è morire?
> Sei giunto al giardino e noi ce ne andammo,
> colui che qui ti condusse ci prese e ci portò via.
> In questo libro di vittoria il cielo
> conteggiò per noi l’incalcolabile.
> Il fiore, appena vide acqua e aria,
> ignaro di dover presto appassire sbocciò.
> Il coppiere della taverna del mondo è Destino,
> tutti beviamo il vino dalla sua coppa.
>
> Parvin Eʻtesāmi (1907-1941)
Che sia la poesia a farsi bandiera universale è bene ricordarlo sempre. Poesia
che si dimentica ai più, ma che ci costituisce. Poesia cellula, atomo, big-bang
del mondo. Poesia che garrisce. Poesia che sta nel vento, fa frusciare l’erba,
inventa rivoluzioni. Poesia che è voce e protesta ‒ bellezza incontinente.
Fruscia essa stessa nell’esondazione del peccato.
È bene ricordare, quindi, come ci ricorda il libro stesso, che in Iran è ancora
centrale la figura del poeta quale profetico testimone della storia di un intero
popolo cui è stata privata la libertà ma non il sentimento di profonda
appartenenza a una millenaria tradizione artistica e letteraria.
Perché in occidente ‒ forse, maldestramente ‒ ce lo siamo dimenticato? La poesia
è del popolo, e sta tra il popolo, ne dà voce. Senza poesia, il terrore
prevarica su tutto.
E anche un giardino ‒ che sia pieno di rose, o di parole, o di pesci e sorgenti
‒ come ci insegna Forugh Farrokhzād nella prossima poesia, va coltivato e curato
finché si è in vita, prima che esso diventi immortale o moribondo, e ci
abbandoni al nostro, forse vuoto, forse triste, destino. E anche un cortile va
curato, affinché la memoria si perpetui, e la parola continui a raccontare e a
raccontarsi nel cuore dell’uomo attraverso la tradizione.
Mi fa pena il giardino
Nessuno pensa ai fiori,
nessuno pensa ai pesci,
nessuno vuole credere
che il giardino sta morendo,
che il suo cuore si gonfia sotto il sole
e la sua memoria si svuota lentamente
del ricordo del verde
e il suo sentire astratto
si consuma in solitudine.
Il cortile di casa nostra è solo,
il cortile di casa nostra
sbadiglia in attesa di una pioggia sconosciuta.
Vuota la vasca nel cortile,
dagli alberi cadono per terra
piccole ingenue stelle.
La notte dalle pallide finestre
si sentono colpi di tosse
nella casa dei pesci.
Il cortile di casa nostra è solo.
Dice mio padre:
«È troppo tardi,
è troppo tardi per me.
Ho portato il mio peso
e ho fatto tutto quel che potevo».
Da mattina a sera, nella sua stanza
legge il Libro dei re o il Compendio delle storie.
Mio padre dice a mia madre:
«Al diavolo i pesci e gli uccelli.
Quando sarò morto,
che differenza farà
se ancora ci sarà
il giardino oppure no.
Mi basta la pensione».
L’intera vita di mia madre
è un tappeto da preghiera
steso sulla spaventosa soglia dell’inferno.
Mia madre in fondo a ogni cosa
cerca le orme del peccato,
e pensa che la bestemmia di una pianta
abbia contaminato il giardino.
Mia madre prega tutto il giorno.
Mia madre è peccatrice per natura
e per esorcizzare ogni peccato
soffia sui fiori e sui pesci,
soffia su sé stessa.
Mia madre aspetta la venuta del Promesso
e le grazie che ne discenderanno.
Mio fratello chiama il giardino cimitero.
Conta i cadaveri dei pesci imputriditi
sotto l’acqua infetta
e si beffa dei confusi grovigli dell’erba.
Mio fratello è malato di filosofia.
Per lui la cura del giardino
consiste nella sua distruzione.
Si ubriaca.
Dà pugni sui muri, sulle porte
e prova a mostrare
quanto è triste, stanco e disperato.
Porta in strada e al bazar
la sua disperazione
come se fosse una carta d’identità,
un’agenda, un fazzoletto, un accendino, una penna.
Ma la sua disperazione
è così piccola che svanisce
nella calca dell’osteria tutte le sere.
Mia sorella, che era amica dei fiori
e quando mia madre la picchiava
raccontava le pene del cuore
a quei fiori gentili e silenziosi
e invitava ogni tanto la famiglia dei pesci
a una festa di dolcetti e sole,
ora abita dall’altra parte della città.
Lei, nella sua casa finta,
con pesciolini rossi finti,
protetta da un marito finto,
sotto i rami di un melo finto,
canta canzoni finte
ma partorisce figli veri.
Mia sorella,
ogni volta che viene a trovarci
e si sporca l’orlo della gonna
con la miseria del giardino,
fa un bagno nell’acqua di colonia.
Lei,
ogni volta che viene a trovarci,
è incinta.
Il cortile di casa nostra è solo,
il cortile di casa nostra è solo.
Tutto il giorno, dietro la porta,
si sente il frastuono
di scoppi e crolli.
I nostri vicini
nei loro giardini
al posto dei fiori
piantano granate e mitragliatrici.
I nostri vicini ricoprono
le vasche di maiolica del cortile
che controvoglia diventano
depositi di polvere da sparo
e i ragazzi del nostro quartiere
riempiono le borse
di piccole bombe.
Il cortile di casa nostra è stordito.
Ho paura
di questo tempo che ha perduto il suo cuore
ho paura
dell’immagine di queste mani vuote
di questi volti sconosciuti.
Io, come una scolaretta
che ama follemente
le lezioni di geometria, sono sola
e penso che si possa portare il giardino all’ospedale
penso…
penso…
penso…
e il cuore del giardino si gonfia sotto il sole
e la sua memoria si svuota lentamente
del ricordo del verde.
(Giorgio Anelli)
*In copertina: Forough Farrokhzad (1934-1967)
L'articolo “Che si può fare se il destino è morire?” Qualcosa sulla poesia
iraniana contemporanea proviene da Pangea.
Valéry è il poeta. Valéry è il poeta francese tra i più importanti di sempre. Il
suo intelletto sovrasta ogni ragione. Lui è matematico, magmatico e filosofo;
nel senso che per lui la filosofia è tutt’altro che filosofare. La sua mente ha
ragione su tutto.
Il sentimento non lo scalfisce. Nemmeno l’istinto. Eppure ha due crisi
importanti nella sua vita.
La prima, a Genova: durante la nuit de Gênes, decide di abbandonare la poesia
per lungo tempo, privilegiando riflessione e autoanalisi. Difatti, per
cinquantun anni, quasi ogni giorno, fra le quattro e le sette-otto del mattino,
Paul Valéry scrisse i suoi Quaderni: ne rimangono duecentosessantuno, in totale
circa ventisettemila pagine. Quando chi li scriveva avvertiva un qualche
movimento nella casa, smetteva. Diventava un altro, diventava Paul Valéry,
l’illustre poeta e saggista. Si era guadagnato il «diritto di essere stupido
fino alla sera». Ma che cos’era prima? Una pura attività mentale che scrive se
stessa. All’origine di Valéry c’è una folgorazione: la scoperta dell’«impero
nascosto» della nostra mente. Prima di diventare parole e significati, tutto ciò
che ci succede è un evento mentale. Valéry volle essere uno «strumento
d’osservazione» di questa scena mentale, uno strumento del quale si imponeva di
«aumentare la precisione».
Genova, città materna: “Questa città tutta visibile e presente a se stessa,
rifilata con il suo mare, la sua roccia la sua ardesia, i suoi mattoni, i suoi
marmi. In lavorio continuo contro la montagna”, annotava il poeta.
La sua, dunque, fu una vera e propria crisi esistenziale.
La seconda crisi però, non meno importante della prima, fu l’innamorarsi di una
donna in particolare, una poetessa anch’essa: Catherine Pozzi. Per otto anni i
due si amarono, si odiarono, si sfinirono vicendevolmente. Passione, enigma,
mistero dell’esistenza. Fiumane di parole riportate nelle lettere e nei diari e
nei quaderni. Ogni attimo scritto: eternato nella passione!
La ragione contro il sentimento. La precisione della disciplina che ostacolava
l’amore istintuale. Due geni non solo a confronto: due geni in incontro, ad
attraversarsi il cuore con le parole.
Paul Valéry. Il poeta del Cimitero marino è stato anche questo. È stato
soprattutto un ragazzo prodigio, che già a quindici anni scriveva testi teatrali
e poesie. Ne ricalchiamo una, ora, che scrisse prima della fantomatica crisi di
Genova.
Elevazione della luna
L’ombra veniva, i fiori s’aprivano, la mia Anima sognava,
E il vento addormentato taceva il suo ululo,
La Notte cadeva, dolce la Notte come una donna,
Sottile e violetta episcopalmente!
Le Stelle sembravano ceri funerari
Accesi come in una chiesa nelle sere;
E spandendo profumi, i gigli Turiferari
Dondolavano dolcemente i fratelli incensieri.
Una preghiera saliva in me come un’onda
E nell’immensità inazzurrante e profonda,
Gli astri raccolti abbassavano i casti occhi!…
Allora, apparve! ostia immensa e bionda
Poi scintillò, staccandosi dal Mondo
Poiché dita invisibili la innalzavano verso Cieli!…
È stupendo il canto nel verso. Ancora più meraviglioso, abbandonarlo; quasi per
sempre, quasi di schianto, col lampo nella notte a tiranneggiare la mente
prodigio.
È stupendo poi ritrovarlo il verso, diverso, essenziale, difficile, enigmatico,
maturo.
Ma come non ritrovare la bellezza già in questi prematuri versi: “Una preghiera
saliva in me come un’onda […] Allora, apparve! ostia immensa e bionda/ Poi
scintillò, staccandosi dal Mondoˮ. Quella stessa bellezza che Paul raccontava
entusiasta a Louÿs in una lettera del 1892:
> «Ciò che non invecchierà mai è il Bateau ivre, e un centinaio di frasi
> delle Illuminations, sono i Colloqui di Poe (e quasi tutto il resto),
> è Eureka, perché tutto ciò è vicino all’essenza della bellezza, perché è stato
> creato, strappato, liberato dalle viscere cosmiche, immerso nella gelida acqua
> per risuscitarne limpido, come la spada del giovane Sigfrido. Io faccio mille
> devozioni all’unico Poe e al solo Vinci, a quegli stessi angeli Rimbaud,
> Mallarmé, Wagner. Nulla esiste al di fuori salvo tenebre, imperfezione,
> nauseante incoscienza.»
Giorgio Anelli
L'articolo “Nell’immensità inazzurrante e profonda”. Paul Valéry, il poeta
proviene da Pangea.
La prima volta che ebbi tra le mani un libro di poesie del grande Victor Hugo fu
alla biblioteca civica Luigi Maino di Gallarate. Non sapevo affatto ‒ come molti
di voi, suppongo, del resto ‒ che il grande narratore francese avesse scritto
persino delle poesie. La sorpresa fu doppia, perché una volta aperto il libro,
scoprii che (scritto a matita) lo stesso era stato donato da Franco Buffoni alla
Biblioteca. Giuro, avrei voluto trafugare il libro!…
Va detto che il poeta Franco Buffoni io non lo conoscevo, né mai l’ho conosciuto
di persona; eppure il destino ha fatto sì che in alcune circostanze i nostri
sguardi e le nostre parole s’incrociassero per imbastire brevi aneddoti, che
adesso non starò certo qui a raccontare.
Quel che importa ricordare però, ora, invece, è la potenza della poesia di Hugo.
Difatti, lo stesso identico libro di allora (Hugo, Poesie, Mondadori 2002), è
tornato a me (non solo tra le mie mani, ma a far parte della mia “piccolaˮ
biblioteca). E leggendo di gran carriera ieri sera le poesie raccolte in questa
vasta antologia, pubblicata per i duecento anni dalla nascita del poeta, non
solo ho goduto assai dal piacere, ma soprattutto mi ci sono ritrovato
pienamente. Come se nei suoi versi Victor Hugo mi conoscesse e mi descrivesse
perfettamente.
Tra l’altro, detto per inciso, sono molte e varie le poesie che egli dedica al
poeta. Ma non sono le uniche potenti. La maestria dell’autore francese è
rinomata anche nello scrivere versi in tutti gli svariati temi che singolarmente
affronta.
Su tutte, quella dove mi ci ritrovo completamente s’intitola È bene che il
poeta…
> È bene che il poeta, assetato d’ombra e di cielo,
> Spirito dolce e splendido, che irraggia chiarità,
> Che innanzi a tutti cammina, illuminando chi dubita,
> Cantore misterioso che trasalendo ascoltano
> Le donne e i sognatori ed i saggi e gli amanti,
> Diventi in certi istanti un essere terribile.
> Talvolta, quando fantastica sul suo libro,
> Ove ogni cosa culla, abbaglia, calma, carezza, inebria,
> E l’animo a ogni passo trova polline per il suo miele,
> E gli angoli più bui hanno luci celesti;
> In mezzo a quell’umile ed alta poesia,
> In quella pace sacra in cui cresce il fiore prediletto,
> E si sentono scorrere le sorgenti ed i pianti,
> E le strofe, uccelli dipinti di mille colori,
> Volano cantando l’amore, la speranza e la gioia,
> Occorre che, a tratti, si tremi, e si oda,
> Di colpo, scuro, grave, tremendo per chi passa,
> Dall’ombra un verso feroce uscire ruggendo!
> Occorre che il poeta, il poeta dal seme fecondo,
> Somigli alle foreste, verdi, fresche, profonde,
> Piene di canti, amate dal sole e dal vento,
> Incantevoli, in cui d’un tratto s’incontra un leone.
>
> Parigi, maggio 1842
Confesso che stare nei boschi di montagna mi ha educato a questo tipo di poesia
e di vita. Stare nei boschi di montagna mi ha insegnato ad essere feroce e
fecondo, fiore prediletto, speranzoso cantore misterioso. Del resto, che il mio
urlo rimbombi tuttora per certe valli e in altrettanti luoghi immersi nella
natura e nel sentimento panico, non è cosa affatto scontata e banale.
Giorgio Anelli
*In copertina: Victor Hugo, Octopus, 1866–69
L'articolo “Occorre che il poeta somigli alle foreste”. Una poesia di Victor
Hugo proviene da Pangea.