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I leoni in città. Ovvero: “La mia Africa” nella calura piemontese o dell’arte di rompere gli specchi
L’umidità, le escrescenze di nebbia, il sole a brandelli, un sole lebbroso e inguaiato di guaiti: tutto consegna Orbassano, pallida periferia torinese, alla savana. Da un momento all’altro, nel latteo parco che congiunge, con minuzia da sarta, il cimitero alle palazzine di fresco conio, sbucherà un leone.  Le montagne, alle spalle, visibili appena, per bianchi picchi – restano Alpi ma sembrano il Kilimangiaro.  Eppure, sono le cornacchie (Corvus cornix) a dominare gli apparati cittadini e le abitudini orfiche degli abitanti. Sono loro, ovunque, a spiarci – presto, ci soppianteranno: la loro intelligenza è violenta. Nel disastro nebbioso, sono iene.  * Mi madre amava La mia Africa; io ho amato Karen Blixen. Nella biografia di Ole Wivel, Karen Blixen. Un conflitto irrisolto – stampa Iperborea; ma per capire qualcosa su Karen Blixen bisogna leggere la biografia di Rossella Pretto (Karen Blixen. Il coraggio, l’amore e l’ironia), edita di recente da Ares  –, non per forza bella, spiccano alcune fotografie di Karen da giovane: è più affascinante di Meryl Streep. Anche Denys Finch-Hatton, audace rampollo dell’antica aristocrazia inglese, educato a Eton, capace nel volo, spicca, nelle rare fotografie, con uno sguardo magnetico non inferiore a quello – più pittorico ma meno pittoresco – di Robert Redford.  Ad ogni modo. Seduto sul balcone della casa popolare di mia madre, mi sembra di essere in “una fattoria ai piedi degli altipiani del Ngong”. * I libri di Karen Blixen sono tra i rari cimeli della biblioteca di famiglia, quando stavamo in un’altra casa, da ospiti, opliti alle incurie parentele. La casa, della fine dell’Ottocento, aveva un giardino con matrona magnolia in mezzo – un alto cancello mi separava dal mondo. Non era difficile sognare l’Africa – la biblioteca pareva un baobab.  Resiste, dalla dispersione di tutto, alla persecuzione del fato, la maschera di legno di un guerriero giapponese – di chi sia e da dove provenga lo ignoro.  * La mia Africa, per la avventuriera singolarità, mi è sempre parso un libro meraviglioso. A differenza di Hemingway, che racconta l’Africa con la tempra dell’uomo nuovo, del disperso disperato, Blixen mantiene un aplomb micidiale nel dire le bestie e i boschi, le savane e i safari. La nostalgia con cui intride le frasi è quella di una divinità antica, nordica, priva di compassione, consapevole che di quel sole australe puoi nutrirti una volta per sempre – dopo averlo dissanguato, resta una conchiglia, l’eco di evi. È vero, Le nevi del Kilimangiaro è il racconto onnipossente di Hemingway, ma alcune pagine de La mia Africa non sono meno belle – ‘Papa’ lo sapeva, e ricamò, in pubblico, più volte la sua ammirazione per Karen.  Nella veranda, a Orbassano, sognando un Africa che non vedrò mai, ho letto le pagine in cui Blixen racconta una battuta di caccia ordita con Finch-Hatton: i leoni stavano ammazzando diverse bestie della sua mandria.  > “L’aria del primo mattino, sugli altipiani d’Africa, è fresca e così > palpabilmente frizzante da spingerci di continuo alla stessa fantasticheria: > pare di trovarsi non sulla terra ma immersi in una profonda acqua scura e di > avanzare sul fondo del mare”. Da qualche parte, mi pare, Karen Blixen ha scritto che il senso della vita è nella sua insensatezza – che per questo è bene vivere sempre nell’anatema e nel rischio.  Senza sfoggio di aggettivi, con l’accuratezza di chi sa infierire, con astuzia, nel linguaggio – disinnescando trappole e confessioni –, Blixen racconta di una caccia notturna con Denys, tra le latebre, maneggiando una lanterna che potremmo chiamare Delfi.  > “L’Africa, di colpo, divenne sconfinatamente grande, e Denys e io, lì, in > piedi, infinitamente piccoli. Non c’era che buio oltre la luce della lampada. > Nel buio due leoni caduti in due punti diversi, e dal cielo la pioggia. Ma > quando il rantolo si spense, niente si mosse più”.  Chi può uccidere il figliastro del sole? Karen ha difeso la propria fattoria – che andrà in disastro, comunque, secondo i precordi del destino, poco dopo.  * Per scampare alle malie della periferia, bisogna sognare i leoni.  Sono le cornacchie, piuttosto, a ripotarmi al vero – la calura infetta i giochi dei bambini, in basso: in due su una jeep giocattolo; in tre con la palla. Un molosso, dalle siepi, abbaia; il padrone sbraita; tutto vive per consunzione.  Ballata per piccole iene esce nel 2005; Manuel Agnelli ha leonina la voce; l’ascolto più tardi, in autostrada, come un’appendice alle memorie di Karen Blixen. “Fra piccole iene/ Anche il sole sorge/ Solo se conviene…”. Preferisco questo brandello, che sa di un amore moribondo: > “Aiutami a trovare > Qualcosa di pulito > Uccidi, ma non vuoi morire > Uccidi, ma non vuoi morire”. Cosa c’è di pulito nell’amare? Amare è un effluvio di carcasse. Pulire cioè: eliminare le scorie; dare alle ossa tornitura di tuono. Che le ossa brillino, allora, come un collier.  Karen Blixen (1885-1962) * Ma prima c’era qualcos’altro, non per forza attinente. Qualche giorno fa, in liturgia, la Seconda lettera ai Corinzi: “Noi tutti, svelati nel volto alla gloria di Dio, vedendo come in uno specchio la sua immagine, veniamo trasformati in essa, di gloria in gloria, dallo Spirito di Dio” (3, 18). Il testo contrappone il velo allo specchio, la legge alla libertà, l’icona all’idolo. Esoptron è uno specchio metallico, non vitreo; Paolo usa lo stesso termine in 1 Cor 13,12 dicendo qualcosa di diverso: “Adesso noi vediamo nell’enigma, come attraverso uno specchio; allora [vedremo] faccia nella faccia”.  Nel primo caso, lo specchio è il tramite per trasformarsi in Dio; lo specchio è come la placenta del Volto – nel secondo caso, lo specchio è un enigma.  Nella Bibbia, lo specchio è citato di rado: soltanto sei volte; soltanto tre nel Primo Testamento.  Chissà se Paolo conosceva la leggenda dello “specchio [katoptron] di Dioniso”.  > “Dioniso, dopo aver posto la sua immagine nello specchio, la seguì e fu > infranto nel Tutto”. Così scrive Olimpiodoro, e così commenta Angelo Tonelli: “Dioniso è l’Assoluto che si fa molteplice frammentandosi in una pluralità di riflessi o apparenze che originano perpetuamente da esso” (in: Negli abissi luminosi. Sciamanesimo, trance ed estasi nella Gracia antica, Feltrinelli, 2021).  I termini in contrasto sono immagine e immaginazione, riflesso e riflessione, somiglianza e idolo. Se l’uomo, fatto ‘ somiglianza’, confida nel proprio riflesso, è incarcerato dallo specchio, suo trono e patibolo.  Da un lato – Dioniso – il dio è puntiforme, si dissemina in frammenti (“Per questo dicono anche che Efesto fabbricò uno specchio per Dioniso e che il dio guardando dentro di esso e contemplando la propria immagine si slanciò alla fabbricazione di tutta la pluralità”: così Proclo). Dall’altro, Dio è davvero nello specchio, è l’uno e non il molteplice, è l’enigma e la sua soluzione: lo specchio è il punto d’ustione del sole. Trasformarsi: incenerire il viso, incendiare l’identità ‘specchiata’ per tradursi in quella veritiera. Farsi fuoco. Nati incendio.  Rompere lo specchio – evento dionisiaco – prevede spargimento di sangue; penetrare nello specchio – evento paolino – è affondare in un lago, sprofondare. Serviranno branchie.  * Per un attimo, la periferia torinese ha rispecchiato la mia idea di Africa – per un po’, mia madre è stata lo specchio di Karen Blixen, la scrittrice in cui si è specchiata Meryl Streep. Due specchi contrapporti – diceva Borges – creano un labirinto: ci rendono infiniti, infinitamente prigionieri.  La vicina di casa si rifiuta di possedere specchi: li ritiene di malaugurio, come un vento nefasto, pieno di insetti. Vorrebbe dimenticarsi di sé – non abusa di veli né di velami.  *In copertina: Eugène Delacroix, Studio di leoni reclini, 1860 ca. L'articolo I leoni in città. Ovvero: “La mia Africa” nella calura piemontese o dell’arte di rompere gli specchi proviene da Pangea.
June 14, 2025 / Pangea