Ho avuto il piacere, qualche giorno fa, di avere una lunga conversazione
con Valentina Duca. Era da tempo che desideravo incontrarla, ma raramente fa
ritorno in Italia da Gerusalemme, dove ora si trova. Sono stati i suoi studi
nell’ambito della mistica cristiana, e in particolare lo studio sul mistico
siro-orientale Isacco di Ninive e dei suoi autori di riferimento, a condurla lì,
a lavorare come ricercatrice presso l’Università Ebraica.
Su Isacco ha recentemente pubblicato, per Peeters di Lovanio, uno studio, frutto
del suo lavoro di dottorato all’Università di Oxford: “Exploring Finitude”:
Weakness and Integrity in Isaac of Nineveh (per ora accessibile solo in
inglese). Degli scritti inediti di Isacco sta attualmente curando l’edizione
critica (testo siriaco e traduzione inglese). Oltre ad articoli prevalentemente
in inglese, si segnala, in italiano, il contributo “La grazia della debolezza e
il limite della morte”, all’interno degli atti del convegno
internazionale Isacco di Ninive e il suo insegnamento spirituale tenutosi al
monastero di Bose nel 2022, recentemente pubblicati da Qiqajon.
Un giorno, durante un incontro sul mondo siriaco a cui partecipavamo entrambe
presso il monastero di Bose, sono rimasta a lungo a osservarla: ho avuto la
sensazione che fosse una di quelle rare persone che si aggirano come “in punta
di piedi” nel mondo, i cui gesti sono segnati da una sorta di nobile discrezione
e di cura. Mi è parso che in lei la “dimensione spirituale” non fosse una
porzione dell’esistenza, bensì il fondamento. Nel leggere i suoi lavori, così
come nel sentirla parlare, insieme all’attenzione scientifica non si può non
notare questa sensibilità, che mi pare le abbia dato strumenti essenziali per
occuparsi di un autore come Isacco di Ninive.
Chi era Isacco di Ninive?
Isacco di Ninive era un solitario (termine usato qui per coloro che scelgono una
vita semi-eremitica) del VII secolo e dell’area siriaca. Quest’area non fa
riferimento solo a parte dell’attuale Siria, ma a un territorio più vasto:
Isacco, in particolare, era nato nella regione del Qatar, dove nella sua epoca
c’era una fiorente comunità cristiana, e visse in terra mesopotamica. Per breve
tempo divenne vescovo di Ninive: rinunciò a questo incarico per andare a vivere
sulle montagne, vicino a insediamenti monastici. Apparteneva a una chiesa,
quella siro-orientale che, guardata a partire dal mondo latino e greco, poteva
considerarsi marginale poiché “nestoriana” e quindi ritenuta eretica. E tuttavia
era una cultura nient’affatto marginale, che ebbe una grande espansione in
oriente, come in Asia Centrale e in Cina. Isacco è erede di una tradizione
monastica composita, dove ci sono sia autori siriaci, come Giovanni il
Solitario, sia della tradizione greca, con la quale intendiamo soprattutto
autori monastici e mistici di lingua greca, con una forte presenza del mondo dei
padri del deserto e di Evagrio Pontico.
Isacco poi non scrive trattati teologici, ma testi che intendono guidare i
discepoli nell’esperienza. Quando parliamo di lui come “solitario” non ci
riferiamo a una persona isolata, in tutto e per tutto solitaria: veniva da un
contesto di relazioni e letture comuni, apparteneva a una corrente, quella della
mistica siro-orientale, che include vari autori: alcuni a lui contemporanei,
come Simone di Ṭaybuteh e Dadišo‘ Qaṭraya, e altri del secolo successivo, come
Giuseppe Ḥazzaya e Giovanni di Dalyatha. Era un universo quindi, che impedisce
di pensare il solitario come una persona completamente slegata da un contesto di
riferimento.
Caravaggio, San Girolamo in meditazione, 1605 ca.
Nei suoi scritti, parla dell’analisi che Isacco dà della condizione umana: in
cosa consiste?
Isacco colpisce per come è in grado di tracciare una fenomenologia delle
dinamiche interiori: all’interno di queste – come l’incontro con le passioni,
con situazioni di tentazione, o di malattia – l’uomo incontra una condizione di
limitatezza, che Isacco chiama “debolezza” (mḥilutā). Isacco la interpreta come
una condizione ontologica: nei suoi scritti si riferisce ad essa come una
caratteristica della “debole schiera degli uomini” (III 7,6), condivisa con
Adamo, di cui, dice, “portiamo l’odore” (I 5). Questa condizione non è legata
solamente al peccato, quindi a una debolezza di tipo morale, ma è una condizione
di fragilità originaria, non trascendibile. Questa condizione di debolezza
ontologica include anche la soggezione alla morte, che è il problema principale
per le creature assieme alla sofferenza. C’è quindi una precedenza, in Isacco,
del problema ontologico su quello morale. Nella lettera ai Romani Paolo dice, in
riferimento ad Adamo, che il peccato entrò con lui nel mondo e con esso, di
conseguenza, la morte (Rom 5:12). Quindi in qualche modo per Paolo, e per la
maggior parte della tradizione cristiana, è dal peccato che deriva la morte. In
Isacco invece è il contrario: è dalla morte che deriva il problema del peccato
(questa concezione proviene da un autore importante per i siro-orientali,
Teodoro di Mopsuestia). E non si tratta per Isacco di un rapporto così diretto:
non è dalla morte che deriva, quasi necessariamente, l’essere peccatori, ma è
per paura di questa mortalità, di questo limite costitutivo, che avviene la
caduta, che porta a una condizione di limitazione anche morale.
Quindi, è come se il peccato sorgesse da un tentativo di fuga. Le stesse
passioni, in questa prospettiva, possono essere lette come meccanismi difensivi
ed elusivi dell’incontro con questa dimensione di limitatezza creaturale. Isacco
invece delinea un percorso in cui è possibile cercare di relazionarsi con questa
condizione mortale, senza cercare di superarla, perché è insuperabile così come
insuperabile è la nostra condizione creaturale. Nella stessa creazione per lui è
inscritto che l’uomo sia mortale. Se mai ci potrà essere un trascendimento di
questa condizione questo avverrà solo per grazia. Non si tratta di qualcosa di
originario a cui tornare, come se dovessimo ritrovare una condizione edenica, ma
di qualcosa che sta davanti a sé, come dono possibile.
Perché, secondo Isacco, l’uomo è stato creato con questa strutturale mancanza?
Isacco non parla tanto del perché, riflette più che altro su una condizione che
c’è. La sua scrittura è sempre innanzitutto esperienziale e parte dalla
necessità dell’altro, dalla domanda che pone il discepolo. Sul perché di questa
condizione, però, si possono chiamare in causa due elementi. In 2Cor 12 7-10
Paolo dice che “gli è stata data una spina nella carne”, e chiede che questa gli
sia tolta, ma “il Signore” gli risponde: no, “ti basta la mia grazia, la mia
forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Isacco riprende questo
passo paolino per esprimere l’idea che in qualche forma, e grazie a una certa
relazione con la debolezza, si può scoprire l’alterità della grazia.
Oltre a questo, però, c’è l’idea che tramite questa relazione con la debolezza,
non solo si scopre Dio, ma la propria condizione di uomini. Questo secondo
elemento è centrale: l’assunzione di sé come uomo. Il percorso non è: ho la
debolezza e quindi mi merito la grazia, che mi libera da questo problema; ma: ho
la debolezza e me ne faccio carico. Mi relaziono dunque con me stesso, con il
mondo delle passioni, con il mondo del dolore fisico. Ed è solo grazie a questo
scoprirsi uomini, e prendere in carico la propria condizione, che si può anche
entrare in relazione con l’alterità di Dio. Isacco ha un forte senso di questa
alterità, del mistero verticale di Dio. Io credo provenga proprio dalla
percezione di sé come creatura. Anche per questo Isacco può stupirsi della
venuta del Cristo, che discende fin qui. Se non si avesse il senso di questa
trascendenza di Dio non si potrebbe neppure percepire la meraviglia
dell’avvenimento della venuta del Cristo.
Hieronymus Bosch, San Girolamo in preghiera, 1482 ca.
È a questo relazionarsi che Isacco si riferisce quando dice che si deve
“portare” la propria debolezza?
“Portare” (sbal, ṭ‘en, saibar) è un termine che in Isacco indica il “permanere
dentro” a una situazione che può mettere alla prova, il “dimorarvi”. Può essere
una situazione di dubbio, di tensione, di negatività. E questo avviene
mettendosi “sotto” questo elemento negativo, portandolo appunto, nel senso del
sostenerne il peso. In questo sostenere “dimorando a contatto” si sviluppa una
relazione con l’elemento negativo, lo si abita, ed è in questo “abitare” che poi
è possibile una trasformazione. Anche se è vero che per Isacco questa
trasformazione avviene sempre per grazia. Quello che noi come uomini possiamo
fare è appunto abitare, permanere, anche nella contraddizione, nel dubbio. A
fronte di molte narrazioni che bonificano la realtà, credo che Isacco ci aiuti a
mettere al centro la questione del negativo. Come qualcosa che però stimola una
posizione attiva, e non succube, dell’umano. È da questa postazione e da questa
azione, che poi può scaturire una trasformazione.
Isacco dice che il fatto “che una persona possa rimanere nella calunnia senza
tristezza [è] perché il [suo] cuore inizia a vedere la verità” (I 5). In questo
“rimanere in”, “abitare” e “permanere sotto” qualcosa avviene, ed è qualcosa che
non ha a che fare con la nostra volontà: esso accade, si manifesta, “sorge”
(dnaḥ), come Isacco spesso scrive, e noi allora lo riconosciamo come verità, e
lo accogliamo. Per riferirsi a questo Isacco usa, in un passaggio, il termine
“germinare” (II 34,2), che non parla di un atto di volontà, o di possesso, ma di
un misterioso accadere. Quello che noi possiamo fare è portare, sostenere il
negativo, rimanendo aperti. Tanto è vero che Isacco nelle sue Centurie di
conoscenza (II 29) parla di un dolore che viene da Dio ed è per Dio, e un dolore
che invece non viene da lui, come quando ci si sente solo colpevoli del proprio
peccato, e chiusi al suo interno. Questo non è per lui un portare, ma un
soccombere. Il portare, già in sé, mantiene l’apertura alla possibilità di ciò
che con esso può venire.
Quindi attraverso questo “portare” il proprio limite si entra in relazione con
ciò che è altro da sé?
Non solo, anche con quella parte altra di sé, limitata e sofferente, con cui
normalmente non si vorrebbe avere nessuna relazione. Solo dopo che si è fatto
questo si entra in relazione con l’Altro di Dio, che si manifesta come grazia; e
anche con l’altro nel senso dell’altra creatura, anch’essa limitata e
sofferente. In Isacco è nota questa dimensione di amore radicale. In un
passaggio molto conosciuto, alla domanda “che cos’è un cuore misericordioso”,
risponde:
> “È l’ardere del cuore per l’intera creazione: per gli uomini, gli uccelli, gli
> animali selvatici, i demoni e per tutto ciò che esiste. […] Il cuore […] non
> può sopportare di sentire o vedere un danno o una piccola sofferenza di una
> qualche creatura. Per questo, [l’uomo] prega in ogni tempo con lacrime anche
> per gli animali irrazionali, per i nemici della verità, e pure per coloro che
> gli fanno del male, affinché siano protetti e rafforzati – [prega] addirittura
> per i rettili, a causa della grande compassione che si riversa nel suo cuore
> senza misura, a somiglianza di Dio” (I 74).
E come si può, nel concreto, relazionarsi con il limite senza fuggirlo?
In Isacco c’è un’intensa descrizione dell’incontro col negativo. Si può fare un
esempio, che si riferisce alla sua forma più estrema, che Isacco chiama
“tenebra” o “oscurità” (ḥeškā; ḥešōkā;‘amṭānā). Indica uno stato in cui ci si
sente completamente persi, e si perde anche la possibilità della fiducia in Dio.
È “un’ora”, scrive, “piena di disperazione e paura”, in cui “la speranza in Dio”
e “la consolazione della fede”, completamente nascoste all’uomo, vengono meno, e
si è avvolti dal dubbio (pligutā)” (I 48), una parola siriaca che significa
anche “divisione”. Davanti a questo venir meno della fede Isacco ha indicazioni
varie. La prima è gettarsi in ginocchio e pregare, per cercare relazione,
nell’umiltà dell’inginocchiarsi. Ma poi, se la preghiera non basta e viene meno,
scrive: “Se non hai la forza di controllare te stesso e di cadere sul tuo volto
in preghiera, avvolgi il tuo capo nel mantello e dormi, fino a quando l’ora
dell’oscurità non sia passata da te, ma non uscire dalla tua cella” (I 48).
Questo semplice gettarsi a terra ed attendere, questa “azione muta”, in cui non
è tematizzato ciò che si cerca e neppure più si è in grado di cercare, ma si
sceglie tuttavia di “stare”, può veicolare, misteriosamente, un’attesa, e la
speranza che qualcosa in esso possa manifestarsi. Ma in primo luogo è un
“permanere dentro”, un “abitare”, appunto uno “stare”. Si tratta di parole che
trovo interessanti per un contesto contemporaneo, che non necessariamente
include la fede, o la preghiera. L’analisi che dà Isacco è interessante per due
aspetti. Da un lato egli tenta di tenere aperto, nel lettore, un canale, dicendo
che lui stesso più volte ha sperimentato questi stati, e che quel momento
passerà. Ed è importante che il lettore ricordi questa cosa: che passerà.
D’altro canto però dice che, passargli in mezzo, è una “Gehenna noetica” (I 65).
Dunque non bonifica, riconosce il negativo come negativo: dire che passerà non
toglie nulla all’intensità e alla problematicità del passaggio, poiché per colui
che lo attraversa quella è l’unica realtà. In questo modo Isacco onora il
vissuto del sofferente.
Però la tradizione cristiana è stata spesso accusata di aver esaltato questa
dimensione della croce e del patimento. Che differenza c’è invece tra il portare
di cui parla Isacco e un servile sottomettersi al potere?
È vero che un certo tipo di discorso sul dolore può portare a una dimensione che
schiaccia e avvilisce. La differenza però la fa il soggetto che si confronta con
esso, e qui torniamo al tema della relazione, presente in Isacco, e che lo rende
così moderno. C’è una relazione che l’uomo può sviluppare con il proprio dolore.
Il portare in Isacco non è un essere schiacciato dal dolore e neppure solo un
“sopportare”, ma un cercare costantemente di sostenere la relazione con la
prova, e così questo portare forgia la forza del soggetto e veicola in lui
un’apertura e una trasformazione. C’è sicuramente una linea della tradizione
cristiana giustamente criticabile, ma c’è anche una linea che io credo essere
valida e vitale e che ha cercato una relazione con la sofferenza. Quella
posizione attiva e di ricerca di vita chiama l’elemento trasformativo. Molte
persone, non solo i mistici, hanno raccontato di questo: penso a quanto alcuni
hanno scritto di fronte ai drammi del Novecento. Non credo quindi che il
cristianesimo sia il problema, penso che il problema sia la rimozione del
soffrire. La croce, come il Getsemani, sono momenti fondamentali nella nostra
vita di tutti i giorni, centrali nella tradizione cristiana: non possono essere
rimossi. La resurrezione stessa, e la grazia, non sono comprensibili senza
quell’altro aspetto. La sofferenza ci interroga, e facendo ciò è qualcosa che ci
evoca come soggetti, perché se siamo messi alla prova ci chiediamo chi siamo,
cosa desideriamo, dove vogliamo andare.
Isacco, in proposito, riprendendo un passaggio di Macario sui mutamenti, dice
che è come il tempo atmosferico: c’è la pioggia e poi il sole, la grandine e poi
il sereno, così è la vita di noi umani (I 72). È impensabile che ci sia solo il
sole. Isacco è coerente con questo quando dice: “non pensare che io ti possa
nutrire solo di miele” (II 28). Il che non vuol dire che non si deve godere
della bellezza e del sereno, non è un’esaltazione del dolore. Isacco in
proposito ha delle pagine bellissime sull’amore di Dio, sull’amore radicale per
la creazione e per gli altri uomini. C’è in lui, come in molti altri mistici,
tutto un lato di positività e di luce. Ma insieme c’è il tenere conto che la
vita umana è complessa e contraddittoria: accanto alla luce ha il dubbio, ha
l’assenza di fede, ha la sofferenza, e noi non possiamo pensare che la vita
umana non abbia anche questo. O comunque se si tenta di pensare così si perde
tanto.
È in questo che consiste l’ascesi?
Sì, anche. Per Isacco in essa il percepire questa sofferenza e questa mancanza è
un elemento centrale. E questo percepire il dolore si deve sostenere, perché si
può essere feriti, ma poi ritrovarsi distrutti. Invece, si deve sostenere la
ferita. Quindi sì, percezione del dolore, ma anche forza. Il discorso di Isacco
sul portare la debolezza non elude mai il fatto che il soggetto debba esercitare
una forza per portare questa condizione ontologica, uno sforzo di tenuta. In
questo senso l’ascesi è una via, per Isacco, di formazione di sé. Si tratta
anche di tecniche, di modalità, che hanno lo scopo di insegnare a sostenere la
difficoltà, o di relazionarti con i pensieri. L’elemento della pratica, della
disciplina, dell’esercizio è importante, anche se non va sopravvalutato, perché
poi l’incontro con l’inatteso non può essere disciplinato.
Isacco traccia questa distinzione anche nella preghiera. Da un lato parla di
tecniche della preghiera, sia corporee, come le prostrazioni in ginocchio,
simili alle metanie ancora oggi praticate nella tradizione ortodossa, sia
mentali. C’è poi, però, un momento in cui tutto questo, queste tecniche, anche
quelle mentali, cessano, e si entra nella “non-preghiera”: è quando la grazia si
dà, e la tua tecnica finisce. Viene anzi interrotta, e Isacco dice più volte che
se in quel momento tu cerchi di applicarla fai un errore. La tecnica può quindi
sì, diventare una gabbia. Nel momento in cui accade il mistero, e vieni toccato
dal mistero, devi lasciarti andare ad esso.
Cosmè Tura, San Girolamo penitente, 1470 ca.
E in cosa consiste questa dimensione di “non-preghiera”?
Sul tema della “non-preghiera” hanno scritto molti studiosi di Isacco. Si tratta
di quell’oltre in cui l’agire umano si fa da parte, e subentra quello di Dio. In
quel momento si è, per citare il titolo di un articolo di Paolo Bettiolo,
“prigionieri dello Spirito”, cioè si è in un luogo dove l’azione umana, anche la
più nobile, il portare stesso di cui si diceva, cessa, e Dio si dà. Sono luoghi
misteriosi, che proviamo a nominare, ma di cui possiamo capire poco
cognitivamente, però sappiamo che è un oltre l’azione, un oltre il cognitivo, un
oltre il discorsivo, e sappiamo che lì si dà un bene. È interessante che il
pensiero e il comprendere abbiano un limite, oltre il quale si dà qualcosa che è
al di là del soggetto, e che però il soggetto ha preparato, ha cercato in modo
molto attivo. È un po’ la comunione contraddittoria di grazia e libero arbitrio.
L’interazione tra queste due dimensioni esiste ed è indagata da Isacco, nella
consapevolezza però che non c’è tra la grazia e l’esercizio di sé un rapporto
causa effetto: c’è sempre un aspetto di mistero e di non sapere nel venire
di Dio, non programmabile attraverso l’uso di tecniche. L’uomo rimane sempre su
un crinale, dove non sa, e con questo non sapere deve fare i conti. Questo è
anche parte della vita quotidiana: il capire che la vita ha dei ritmi, ha dei
misteri, ha degli arenarsi, delle cose che non si possono controllare.
Ma quando, e perché, questo rapporto col limite e con la morte è venuto meno?
Come studiosa delle fonti spirituali posso dire quello che vedo in questi testi.
C’è stata la perdita di un duplice rapporto: con sé come creatura, e poi con una
dimensione trascendente, altra da sé. Di sicuro nella modernità abbiamo perso il
rapporto col materico, col fisico, che di certo questi autori avevano.
Però, più che capire il come e il perché questa nozione di limite sia andata
perduta, mi pare interessante notare il fatto che, eludendola, essa torni
indietro di rimando nell’esperienza. Dovremmo interrogarla, e interrogare il
limite e noi stessi, ciascuno nel suo intimo. Io non mi sento attratta dai
discorsi ampi sulla società, mi viene invece da chiedere: nel momento in cui
incontro il limite, come individuo, nella mia vita, che ne faccio? Sarò pronto
ad ascoltarlo? A sostenerlo e farne qualcosa, e usare questa prova come
apertura? A usarla come via per vedere me stesso e l’altro? Credo che i percorsi
individuali che cominciano a ragionare così potranno trovare vie nuove di
attraversamento per le difficoltà di oggi. Oltre la pressione del collettivo e
le sue dinamiche di oblio.
Secondo me non è tramite il tentativo di ristabilire la centralità del
trascendente che si ritroverà il rapporto con esso e con il limite, sebbene
comprenda questo tentativo, ma è tramite l’attraversamento dell’esperienza del
limite che ci scontreremo con la necessità di interrogazione sul trascendente.
Lì ognuno di noi sarà solo di fronte al mistero, al cercare una via di fronte al
mistero. Credo, e grazie a Isacco, che solo portando il negativo si entra in
relazione con il proprio limite, con la propria condizione creaturale, e di
conseguenza anche con ciò che è altro da sé. Isacco usa spesso un
termine, argeš, che significa “percepire”. E lo usa in riferimento alla
debolezza, dicendo:
> “beato l’uomo che ha conosciuto la sua debolezza! Questa conoscenza sarà per
> lui fondamento e inizio di ogni cosa buona e bella. Quando un uomo ha
> conosciuto e percepito (argeš) che esattamente e in verità è debole, allora
> trattiene la sua anima dal divagare” (I 8).
C’è quindi un percepire e un conoscere, ed è solo percependo la propria
debolezza, stando dunque in contatto con sé, che è possibile una conoscenza, e
con essa una trasformazione. Credo che questo sia molto moderno, e trascende il
fatto che qualcuno sia un solitario, un monaco o altro; ciascuno nella sua
individualità è chiamato, credo, a fare questo, se gli interessa tentare di
vivere con verità, cercando la verità.
Bianca Cesari
*
Fonti
Prima Collezione
P. BETTIOLO, M. GALLO (trad.), Isacco di Ninive. Discorsi ascetici 1, Roma:
Città Nuova, 1984.
S. CHIALÀ (trad.), Discorsi ascetici. Prima collezione, Magnano: Qiqajon, 2021.
Seconda Collezione
S. BROCK (ed.), Isaac of Nineveh (Isaac the Syrian).“The Second Part”, Chapters
IV-XLI (CSCO, 554-555; Scr. Syri, 224-225), Louvain: Peeters, 1995.
P. BETTIOLO (trad.), Isacco di Ninive. Discorsi spirituali: Capitoli sulla
conoscenza, Preghiere, Contemplazione sull’argomento della gehenna, altri
opuscoli, Magnano: Qiqajon, 1985 (ristampa 1990).
Terza Collezione
S. CHIALÀ (ed.), Isacco di Ninive. Terza Collezione (CSCO, 637-638; Scr. Syri,
246-247), Leuven: Peeters, 2011.
Studio principale:
V. DUCA, “Exploring Finitude”: Weakness and Integrity in Isaac of Nineveh (OLA,
309; Bibliothèque de Byzantion, 28), Leuven: Peeters, 2022.
*In copertina: Maestro dell’Emmaus di Pau, San Girolamo, XVII sec.
L'articolo “È l’ardere del cuore per l’intera creazione”. Dialoghi intorno a
Isacco di Ninive proviene da Pangea.
Tag - cristianesimo
Questa mattina, uscendo di casa, ho notato che c’era un topo, fermo sotto la
pioggia, in mezzo alla corte interna di casa mia. Credo fosse ferito, perché non
è scappato al mio passargli di fianco, e il pelo, fradicio di pioggia, era
sporco di sangue. Stava immobile in mezzo al cortile, solo inclinava la testa su
e giù, davanti a una pozza d’acqua e di sangue; ed era come se con quel
movimento esprimesse un lamento, o una richiesta di aiuto. Al vederlo gli sono
passata di fianco quasi di corsa, inorridita ed impietosita allo stesso tempo.
Ho pensato, come forse è probabile, che qualche gabbiano avesse tentato di
prenderlo, e che lo avesse ferito. I gabbiani, qui a Venezia sono una sorta di
piaga. Sono molto grandi, sempre in cerca di cibo. Più volte mi è capitato
vederli nutrirsi di topi, di pesci presi dalla laguna, o addirittura di
contendersi il corpo senza vita di qualche piccione. In Campo Santa Margherita,
a Venezia, dove abito, ce ne sono sempre moltissimi, soprattutto la mattina,
quando i pescatori allestiscono il banco del pesce. Spessissimo li vedo planare
dall’alto in direzione di qualche malcapitato turista – ignaro di questa assurda
problematica veneziana e strappargli dalle mani una fetta di pizza, o un
panino, o un gelato.
Superato il corpo del topo, uscita dalla corte interna sono sbucata nel campo, e
l’ho attraversato, per dirigermi verso la biblioteca. I gabbiani stavano sempre
lì appostati attorno al banco del pesce. Ce n’erano tre o quattro radunati in un
cerchio, tenevano le ali aperte come in posizione di sfida, e emettevano
quell’orribile e raggelante garrito che in continuazione si sente nel cielo
sopra Venezia. La loro vista e quel suono mi hanno gelata nel sangue, e sono
passata per il campo a testa china, camminando velocemente sotto la pioggia. In
quel momento il mondo mi è sembrato essere di un’ostilità fredda e inquietante,
ed era come se tutto mi fosse nemico, pronto a rapirmi.
Ieri sera invece, durante una delle mie solite camminate serali, avevo provato
tutto l’opposto. A un certo punto mi ero fermata, come spesso faccio, a bere a
una fontanella che si trova a un crocicchio di calli, subito dopo la basilica
della Madonna della Salute, la cui cupola troneggia sopra le case. Una di queste
calli è, piuttosto, un lungo viale che conduce verso la fondamenta, il cui
centro è occupato da un filare di alberi. Per tutto l’inverno, al passarci
davanti durante le mie passeggiate, li avevo osservati, tanto più perché a
Venezia la natura non si impone con forza, e si deve, mi pare, prestare una
certa attenzione per poterla notare. I rami di quegli alberi erano stati, per
tutto l’inverno, spogli, secchissimi e scuri. Ieri sera invece, dopo aver bevuto
alla fontanella, qualcosa mi ha spinta, chissà perché, ad alzare lo sguardo, e
ho notato che i rami avevano preso colore: erano di un marrone più chiaro, e
come più gonfi. Tutta la loro lunghezza era intessuta di piccoli germogli, di un
verde vivo ed acceso. Ho spostato lo sguardo dall’albero che avevo sopra la
testa, e ho osservato, in un solo colpo, tutti quelli che stavano in fila lungo
viale. Erano tutti così: vivi ed accesi allo stesso modo. Io, immobile e in
piedi di fronte a loro, mi sono immaginata la linfa che vi stava scorrendo
all’interno, la terra umida che li nutriva da sotto, e tutto un processo vitale,
invisibile e sconosciuto ai miei occhi, ma che segretamente si stava svolgendo
in quello stesso momento; e mi è sembrato che tutto l’universo, in quel momento,
lodasse e celebrasse la vita. Un profondo e solenne silenzio si è fatto strada
nell’aria, si sentiva solo lo scroscio lieve dell’acqua che dalla bocca della
fontanella cadeva di sotto. Poi, dalla basilica della Salute, un solo rintocco
di campana è suonato. Erano le otto.
A quel rintocco il mio animo si è ridestato dall’incantesimo in cui era caduto.
Sono tornata in me e ho ripreso la mia camminata. Camminando ripensavo a quel
passaggio di Guerra e pace che avevo letto la sera prima, in cui il principe
Andrèj attraversa in carrozza il bosco di betulle che fioriscono in primavera, e
si riscopre incapace di apprezzare la sua armoniosa e celebrativa
bellezza. Nota, piuttosto, una vecchia ed enorme quercia, la cui oscurità si
impone in modo sgraziato nel mezzo del bosco, e pensa che solo lei, solo quella
quercia, ha capito cosa davvero è reale, e che con la sua bruttezza sembra
schernire l’ingenua gioia celebrativa delle betulle. Scrive Tolstoj:
> Sul ciglio della strada si ergeva la quercia. Era probabilmente dieci volte
> più vecchia delle betulle che costituivano il bosco, dieci volte più grossa e
> due più alta di ogni betulla. Era una quercia gigantesca, ci volevano due
> uomini per abbracciarne il tronco, con dei rami già da tempo spezzati, la
> corteccia strappata in più punti, segnata da antiche ferite. Con le sue rozze,
> enormi braccia e dita che si divaricavano sgraziatamente, asimmetricamente,
> essa si ergeva come un mostro vecchio, sdegnato e sprezzante tra le sorridenti
> betulle. Soltanto lei non voleva cedere alla seduzione della primavera, non
> voleva vedere la primavera, né il sole.
>
> “La primavera, l’amore, la felicità!”, sembrava dire la quercia. “Com’è
> possibile che non vi sia ancora venuto a noia questo sciocco, insensato
> inganno! È sempre la stessa cosa, ed è tutto un inganno! Non esiste la
> primavera, né il sole, né la felicità. Guardate questi morti alberi
> schiacciati, sempre solitari, guardate come anch’io ho disteso queste mie dita
> spezzate, scortecciate, dovunque siano cresciute, sul dorso o sui fianchi. Io
> sto sempre così come mi sono cresciute, e non credo alle vostre speranze ai
> vostri inganni.”
Ora, a scriver di questo, mi vengono in mente quelle parole di Pascal, che nei
suoi Pensieri scrive che nulla, nell’ordine dell’universo, permette di dedurre
l’esistenza o l’inesistenza di Dio. Tutto nella natura, sia umana che non, è
intriso di una rete inestricabile di contraddizioni, di miseria e grandezza. Una
mia professoressa, per spiegarci questo a lezione, ci riportava l’esempio di
Leopardi, il quale diceva che al guardare un bellissimo albero in fiore, nel
mezzo di un bosco, non ci accorgiamo che sul suo tronco magari si muovono e
proliferano migliaia di tarme, che divorano la sua corteccia e lo conducono
verso la morte. Niente del mondo o dell’animo umano garantisce per la
convenienza o meno di aver fede in Dio. Forse, semplicemente, non si deve aver
fede per convenienza, ma per speranza, per passione, e per amore.
Ieri sera però, nel dirmi così, mi sono anche detta che stavo facendo, di nuovo,
il medesimo errore di sempre, e che di nuovo pretendevo che quel sentimento
d’amore potesse bastare a se stesso, e darmi lui solo tutta la linfa vitale di
cui avevo bisogno. La verità però è che la vita costringe sempre alla verità di
una mancanza incolmabile, una malinconia, che si traduce in un nobile anelito di
ricerca, uno slancio verso qualcosa. Quel qualcosa credo sia il corpo. Di questo
credo d’essermene resa conto poco tempo fa, quando ho letto un passaggio de I
fratelli Karamazov in cui “I due fratelli fanno conoscenza”, e Ivan e Aleša
hanno quella lunga e bellissima conversazione, che avevo atteso fin dall’inizio
del libro. Al di là di ciò che vien detto in essa, una frase in particolare, al
termine della conversazione, mi aveva colpita. Sono le parole che Ivan rivolge
ad Aleša, quasi come una provocazione, dicendogli:
> “Ti ho portato alla mia confessione, perché essa serve soltanto a te. Non hai
> bisogno di Dio, hai bisogno soltanto di sapere come vive il fratello al quale
> vuoi tanto bene. E io te l’ho detto.”
Ed erano state queste parole, queste parole che ho segnato in corsivo, a
colpirmi violentemente, come una folgorazione. In quel momento ho avuto la
sensazione di capire ciò di cui forse, più di tutto, avevo sofferto per tutta la
vita. E quel qualcosa era la mancanza, nello sguardo degli altri, di Dio, e
dell’amore. È stato nel dirmi questo che ho capito, allora, l’importanza del
corpo, che non è altro che l’importanza degli altri, del loro amore, e della
storia; non è altro che la speranza che i propri desideri e speranze possano
prendere corpo all’esterno, e che non siano invece destinati a rimaner chiusi
nel proprio cuore. Forse, più semplicemente (ma non banalmente), è la speranza
d’essere amati, e non solo d’amare.
Cima da Conegliano, Incredulità di san Tommaso col vescovo Magno, 1505 ca.
Dicendomi questo, a quel punto, ero anche riuscita a spiegarmi un fatto che nei
mesi precedenti avevo notato, che mi aveva molto stupita, e che tuttavia non
riuscivo a comprendere. Notavo infatti che nell’approfondire lo studio del
quarto Vangelo (il Vangelo di Giovanni), come stavo facendo, la mia attenzione
si soffermava su certi passaggi, o su certi episodi, che avevano tutti in comune
una stessa caratteristica, ossia il fatto di essere potenziali indizi circa la
veridicità storica dei fatti narrati. Mi ero stupita, ai tempi, di notare in me
questa cosa, e mi dicevo: perché insistere sulla questione storica? Se venisse
fuori che Cristo non è mai nemmeno esistito, che il Vangelo di Giovanni è il
vangelo di un ciarlatano, continuerei ad avere fede? Continuerei ad amare Cristo
pur sapendo che si tratta in realtà di una figura inventata? Di un personaggio
di finzione? Leggendo Il signore degli anelli, L’idiota, o I fratelli Karamazov,
mi sono innamorata profondamente delle figure di Gandalf, di Frodo, del Principe
Myskin, di Alëša. Queste figure hanno edificato in me l’amore e la fede, con
estrema efficacia (anche pratica), e non ha avuto per me alcuna importanza che
queste siano state il prodotto della mente del loro autore. Ma perché allora con
Cristo io sento che qualcosa è diverso, che a questo dettaglio il mio animo non
è in grado di rinunciare; che se venisse fuori che egli non è mai esistito il
mio cuore e tutte le sue speranze sarebbero ridotte in frantumi? Solo
successivamente, leggendo quel passo de I fratelli Karamazov, ho capito che il
punto di Cristo era proprio questo: che il Verbo si facesse carne.
Quando ho riportato tutti questi pensieri a un mio professore lui mi ha fatto
notare che, al centro di tutto questo, c’era l’evento della resurrezione; che è
forse l’unico e reale aspetto irrinunciabile del cristianesimo. E, nel dirmi
questo, mi ha riportato le parole del suo maestro, che mi sono così tanto
rimaste in mente, secondo il quale, se si venisse a sapere, con assoluta
certezza, che in realtà la tomba non era vuota, e che per davvero al suo interno
giaceva il corpo di Cristo morto, allora certamente il cristianesimo avrebbe
fine.
Per settimane, dopo quella nostra conversazione, mi sono tormentata
all’inverosimile. Leggevo con avidità il libro che mi era stato dato, La
tradizione storica nel quarto Vangelo, di Harold Dodd, e mi pareva d’esser
caduta dentro una rete infinita di indizi e dettagli, al cui centro stava un
mistero impossibile da districare, e che io mai, mai assolutamente sarei giunta
a toccarne e comprenderne la natura. Mi pareva di star precipitando in un vicolo
cieco, ed era come se tutta la terra mi venisse sottratta da sotto i piedi. In
continuazione, in quei giorni, ho pensato a Tommaso, e alla scena descritta nel
Vangelo di Giovanni, in cui il discepolo è invitato a metter la mano nel costato
ferito di Gesù risorto. Nel leggere per l’ennesima volta quel passaggio del
testo avevo pensato, con sconforto, che io non ero affatto Giovanni, bensì ero
Tommaso, e che, senza la prova del corpo, non avrei mai ceduto.
Poi, nei giorni seguenti, è accaduto qualcosa. Mi è capitato infatti, di avere
una lunga conversazione con un altro dei miei professori, e di parlargli di
questi miei ragionamenti. Parlando stavamo seduti su una panchina del cortile
interno della biblioteca di Padova, subito fuori dal roseto che gli è stato
posto nel mezzo. Sopra di noi il cielo di marzo, dal terso azzurro di quella
mattina, iniziava a diventar grigio, e una brezza profumata e frizzante iniziava
a farsi strada nell’aria. Gli uccelli, in sottofondo, continuavano il loro
docile ed ipnotico cinguettio.
Il mio professore parlava, e già in quel momento, ascoltandolo, mi rendevo conto
che nulla di quelle sue parole sarei riuscita in alcun modo a ripetere
successivamente, e che avrei dovuto solo lasciarmi trasportare dalla loro forza
gentile e segreta, e dalla loro limpidezza. Nell’ascoltarlo infatti, per quanto
intendessi ogni cosa, avevo allo stesso tempo la sensazione che dietro le sue
parole vi fosse una chiarezza ben più profonda, e una verità indicibile che in
quel momento l’attraversava, e attraverso di lui si faceva strada verso di me,
come alitandomi addosso. D’un tratto, mentre lui continuava a parlare, sono
stata invasa dalla fortissima sensazione di trovarmi dentro alla verità, e che
per quanto io non fossi davvero capace d’afferrarla completamente lei comunque
stava avvolgendo, e abbracciando, la mia intera persona. È stato in quel momento
che mi sono tornate in mente le parole che il principe Andrèj sente sorgere nel
suo animo, all’udire le convinzioni dell’amico Pierre riguardo a Dio, all’amore,
e alla verità della vita. Tolstoj scrive in quel passo:
> Il principe Andrèj stava in piedi appoggiato al parapetto della chiatta e,
> ascoltando Pierre, guardava, senza staccarne gli occhi, i rossi riflessi del
> sole sull’acqua azzurrastra. Pierre tacque. Regnava un completo silenzio. La
> chiatta era stata attraccata da un pezzo e si udiva soltanto il fievole
> sciabordio della risacca che batteva contro il fondo del battello. Al principe
> Andrèj parve che lo sciabordio della risacca si unisse alle parole di Pierre
> nel dirgli: ‘è la verità, prestagli fede’.
È stato a quel punto che il mio professore ha concluso il suo ragionamento
dicendo, d’un tratto, che se io mi ero innamorata, e sentivo che quella era la
verità, allora quella era l’unica strada che avrei dovuto seguire, perché a Dio
in nessun altro modo sarei arrivata, se non per quella via che è l’amore. Dopo
tutto questo, ieri, sono tornata a casa con un profondo senso di gratitudine
addosso, e con la profonda sensazione che di nuovo qualcosa fosse
irreversibilmente cambiato dentro al mio animo, che un altro strato della
corazza fosse andato in frantumi, e che io fossi ancor più vicina a qualcosa di
enorme, infinito, che sta nascosto dentro al mio cuore.
Matthias Stomer, Incredulità di San Tommaso, 1645 ca.
Appunto, però, quest’amore non può bastare a se stesso: ha bisogno di un corpo,
ha bisogno dell’altro, ed è, in quanto tale, strutturalmente segnato da una
mancanza. Questa mancanza può essere, tuttavia, ciò che attiva il desiderio e
l’amore o ciò che ne segna la condanna e l’impedimento. Questo vale con Dio,
così come nelle relazioni tra le persone.
Questa mattina presto pensavo a tutto questo. Mi trovavo ancora nel letto, la
sveglia non era ancora suonata ma io avevo già perso sonno. Fuori il sole
sorgeva alle spalle di un muro di nuvole grigie, dalle quali cadeva una sottile
pioggia di marzo. Ancora avvolta dal torpore del sonno mi lasciavo trasportare,
per l’ennesima volta, da questi pensieri; e avevo la sensazione che anche nel
corso dell’intera nottata mi avessero occupato la mente: era come se li avessi
sognati. In quel momento pensavo di nuovo a Tommaso, e mi sentivo sempre più in
sovrapposizione con questa figura. Questa sovrapposizione però non mi pareva
più, come mi era sembrato all’inizio, una tragica e disperata condanna, bensì
era come se segretamente, come con gentilezza, cercasse di suggerirmi qualcosa.
Ho pensato, infatti, che, nonostante le numerose rappresentazioni pittoriche di
questa scena (forse la più nota è quella di Caravaggio), Tommaso, stando
all’andamento narrativo del passo, non mette il dito dentro al costato, è solo
invitato a farlo, ed è come se, solo grazie a questo invito, egli cedesse, e
credesse. Ed io, al risveglio di questa mattina, mi sono sentita esattamente
così, e ho pensato che, per quanto fosse importante quel corpo risorto, toccarlo
non sarebbe stato decisivo per la mia fede. Decisivo è solo l’invito, una
chiamata, fatta immemorabile tempo fa, in un tempo antico e avvolto dentro al
mistero; e con lei la risposata, che credo ciascuno, nell’intimità segreta di
ogni mattina, è chiamato a dare.
Bianca Cesari
*In copertina: Caravaggio, Incredulità di san Tommaso, 1600-1601
L'articolo Tra malinconia e inganno. Pensieri sul corpo, l’incarnazione e il
costato. Ovvero: sulla disperata vitalità di Cristo proviene da Pangea.