> Cælum, non animum mutant qui trans mare currunt
>
> Orazio, Epistulae, I, 11, v.27
La retorica inciampa da sola perché è imbranata: tanto se la racconta, tanto se
la canta, che gira su sé stessa fino a cadere – come fanno per gioco i bambini.
E in effetti, la retorica è infantile: egoriferita, bizzosa, volubile secondo la
convenienza. Ma siccome: agere sequitur esse; coloro che la retorica praticano,
magari inconsapevolmente che retorica sia, sono come bambini, creature
psicologicamente infantili. Scelgono un giocattolo: è l’argomento della loro
retorica, ciò che dev’essere giustificato dalle loro chiacchere. Dei vari
argomenti/giocattolo uno ci pare sia più diffuso degli altri: il viaggio. E già
si prefigura l’immagine del tizio tutto compiaciuto, le gote gonfie come quelle
di un pupo, appena tornato da quell’avventura d’una settimana andata esattamente
come aveva previsto l’agenzia di viaggi o la premurosa fidanzata, che ti dice:
“eeh, viaggiare sì che ti apre la mente” – e tu, stronzo, che non viaggi perché
magari quando hai i soldi non c’hai tempo e quando c’hai tempo non c’hai i
soldi, o forse soltanto di viaggiare non ti frega niente, perché il senso della
tua esistenza non dipende dall’ottemperanza di riti sociali massificati né
dall’incontro con il presunto «altro» antropologico… tu, stronzo, t’interroghi
su quella curiosa espressione, cercando di capire se in fondo tizio non abbia
ragione.
C’è chi crede che il mondo sia il suo giardino, e chi crede invece che il suo
giardino sia il mondo. Ma che cos’è un «giardino»? Nell’accezione volgare, per
«giardino» s’intende generalmente lo spazio verde che circonda la casa. Tra
erba, fiori della mamma o della nonna, magari qualche albero, il giardino è la
dimora delle fantasticherie del bambino. Egli lì gioca; ma proprio lì il suo
gioco assume un potere diverso rispetto a quanto accade dentro le mura: il
giardino è casa, si; ma è anche natura, che, per quanto addomesticata, conserva
quella capacità di fascinazione ambigua che la natura ha da sempre sull’Uomo. Il
bambino che gioca nel giardino percepisce l’eccitazione dell’avventura vera. Poi
però il bambino cresce; dell’avventura rimane solo l’idea, il ricordo nostalgico
che pure non cèssa di pungolare la coscienza perché si ribelli al mondo adulto
delle convenzioni opprimenti, delle frustrazioni svilenti, degli scopi
fuorvianti. In ogni adulto che ha conosciuto da bambino il giardino, resta
impressa la traccia dell’avventura.
Ma l’adulto, l’avventura, non sa più viverla. Non sa più viverla perché oramai
comprende secondo il criterio dell’estensione quantitativa ciò che da bambino
era compreso per intensità qualitativa[1]: al bambino era sufficiente qualche
impressione di verde per ritrovarsi in un bosco; all’adulto non è sufficiente
l’oceano per bagnarsi, non sono sufficienti i deserti per conoscere la sete, non
sono sufficienti le vette per avere le vertigini. In fondo, la sua
insoddisfazione, oltre ogni retorica, è dovuta ad un fraintendimento: ricorda
l’avventura, ma si è rinchiuso in casa. Il giardino non è più un ponte verso
l’altrove; è diventato decorazione perimetrale del suo Ego – ed essendo per lui
il mondo il suo giardino; allora: il mondo è ridotto ad oggetto; ad oggetto
desiderabile, da possedere, ma anche, fattualmente, inerte.
Albrecht Dürer, Angeli mostrano la Veronica in cui è impresso Cristo, 1513
C’è poi chi crede che il suo giardino sia il mondo. In genere, è colui che viene
stigmatizzato dai benpensanti benfacenti come l’“ottuso”, colui che, invece di
“aprire la mente” col tirabusciò del viaggio, resta inquilino dell’ignoranza,
della superstizione domestica. Forse potrebbero pure avere qualche ragione, se
del giardino e del mondo si avesse una comprensione esclusivamente estensiva. Ma
siccome è possibile comprenderli diversamente; allora: il piedistallo della loro
boria è piuttosto lo scalino su cui inciampano, facendo la figura dei
coglioni κατ’ ἀλήθειαν. Del giardino e del mondo si può infatti avere anche una
comprensione qualitativa, che ci fa accedere al senso autentico di entrambi.
Al giardino dedicò molti anni fa un interessante libello, purtroppo incompiuto,
Attilio Mordini[2]. Scrive Mordini:
> […] il giardino, almeno nella storia della nostra civiltà, nasce in
> Mesopotamia quale paradiso; vale a dire quale idealizzazione del creato, luogo
> di meditazione e di contemplazione intimamente complementare al tempio. [Nasce
> e si afferma quale manifestazione di bellezza intesa come espressione di una
> verità suprema a cui l’Uomo, elevandosi, aspira e tende sempre più […] È da
> una tale idea, da un tale archetipo di giardino che muove ogni altro giardino
> nel corso della Storia, accentuando ora in un senso ora in un altro la sua
> funzione di porgere all’uomo un significato che, pur modificandosi di luogo in
> luogo e di tempo in tempo, è rimasto fondamentalmente lo stesso, almeno fino
> agli albori dell’età moderna][3].
Ben lungi dall’essere meramente uno spazio decorativo; il giardino è, o meglio:
era un segno di una «verità suprema». Di tale segno, il significante sono gli
elementi vegetali e floreali, combinati armoniosamente con elementi artificiali,
p.e. fontane, vasche, etc.; mentre il suo significato è offrire all’Uomo
l’occasione per accedere al suo intimo Sé, attraverso la meditazione sulla
bellezza quintessenziale del Creato.
Questo significato del giardino assume col Cristianesimo una sfumatura
peculiare. Dice sempre Mordini:
> Il giardino riappare […] nella contemplazione cristiana come perfezione ultima
> della selva, ma non propriamente nel senso cosmico; riappare, invece,
> come hortus conclusus, riappare soprattutto come simbolo dell’anima separata
> dalla selva del mondo per essere coltivata e curata con l’aiuto della
> grazia.[4]
Quindi il giardino, con la contemplazione cristiana, viene compreso
simbolicamente come l’anima di ogni persona. Ed è in questo giardino, in
tale hortus conclusus, che l’Uomo può cogliere ciò che non per caso è stato
chiamato: il «fiore dell’anima» (Proclo), ovverosia: incontrare lo Spirito,
trasformarsi nello Spirito – compiendo così il gesto fondamentale per
la divinizzazione (2Pt I, 4). E allora: colui che crede la propria anima sia il
mondo, abiterebbe questo giardino senza aver bisogno d’altro spazio terreno,
perché tutta la Terra sarebbe diventata un mondo troppo angusto. Dove andare
allora, cosa esplorare, quale “altro” incontrare se l’esigenza fondamentale è
andare nella propria anima, esplorarla, affinché non si resti tragicamente
stranieri in essa?
D’altronde, trovare questo giardino ed abitarlo non è immediato. Esso sta aldilà
del deserto. È là che andò a cercarlo s. Antonio abate, e con lui tutti i grandi
contemplativi eremiti del Cristianesimo. Una certa vulgata interpreta il gesto
di s. Antonio come misantropia: lui volle allontanarsi dagli uomini per sfuggire
alla loro corruzione, quasi fossero tutti degli appestati dal peccato che
avrebbero potuto contagiarlo. Ma la verità è un’altra: ogni luogo abitato
dall’Uomo può diventare un paradiso in Terra, può offrire tutto ciò di cui lo
Ego abbisogna o desidera. Tra gli uomini si può infatti trovare una casa in cui
abitare comodamente, si può trovare delle attività che ci soddisfino o che ci
allietino, si può trovare l’amore per un’altra persona, si possono coltivare
speranze terrene – insomma: si può trovare tutto ciò che distrae dalla
concentrazione nel Sé[5]. Si capisce che il deserto non era il fine, bensì: il
mezzo.
Marco d’Oggiono, Pala dei tre Arcangeli, 1516 ca.
Oggi dov’è il deserto? Si potrebbe pensare ch’esso sia fattualmente scomparso:
quale luogo della Terra può infatti essere considerato davvero «deserto», quando
tutto lo spazio terrestre è abitato dalla telecomunicazione? Quando il cielo è
percorso con indifferente alacrità dai satelliti, e tutti noi nuotiamo,
annaspiamo, forse: affoghiamo nella banda larga? È opportuno intendersi su cosa
sia il «deserto». S. Antonio ce lo ha insegnato: esso è l’assenza di umanità. In
questo senso, oggi il deserto è paradossalmente molto più vicino di quanto fosse
per lui: in una società come la nostra, disumanizzata e disumanizzante, la
sabbia copre già la soglia delle nostre case. Viviamo in un tempo in cui
l’umanità pretende di instaurare il paradiso in Terra, ma il paradiso dello Ego
non può che essere un inferno – ardente e riarso proprio come un deserto!
L’Uomo contemporaneo si è così ritrovato a vivere una situazione segnata da
un’ambiguità drammatica: se per chi cerca il proprio giardino interiore essa
offre opportunità sorprendenti; per chi invece non ha il pollice verde della
speranza teologale, il deserto è solo un deserto: è la disperazione.
Niccolò Mochi-Poltri
*In copertina: William Turner, Studio di un angelo steso al sole, 1841 ca.
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[1] Cfr. R. Guénon, Il Regno della quantità ed il segno dei tempi, trad. it. di
P. Nutrizio, T. Masera, Adelphi, Milano 2009
[2] A. Mordini, Giardini d’Occidente e d’Oriente, a cura di F. Cardini, Edizioni
Settimo Sigillo, Roma 2008
[3] Ivi, p. 31
[4] Ivi, p. 58
[5] S. Atanasio di Alessandria, in: Vita di Antonio (l’edizione di riferimento è
a cura di L. Cremaschi, Edizioni Paoline, Alba 1984), dice: “5.1. Ma il diavolo,
che odia il bene ed è invidioso, non sopportò di vedere in un giovane [s.
Antonio] tale proposito di vita e incominciò a mettere in opera anche contro di
lui i suoi intrighi abituali. 2. Per prima cosa cercò di distoglierlo
dall’ascesi ispirandogli il ricordo delle ricchezze, la sollecitudine per la
sorella, l’affetto per i parenti, l’amore per il denaro, il desiderio di gloria,
il piacere di un cibo svariato e ogni altro godimento della vita”.
L'articolo Il deserto e il giardino. Ovvero: il viaggio “che ti apre la mente” e
quello che muta il cuore proviene da Pangea.