Tag - Viaggio

Viaggio a Khinalig, il villaggio alla fine e al principio del mondo
Due bimbi lerci e bellissimi saltellano verso di noi non appena smontati dalla maršrutka, ancora ubriachi dall’assurdo viaggio, un serpente di asfalto lungo precipizi abissali, banchi di nebbia e cumuli di ghiaccio e piramidi di massi al bordo della carreggiata. Fra le mani reggono delle calze colorate di lana di pecora, e ce le porgono. La tessitura delle calze di lana di pecora è una attività del posto in cui ci troviamo, forse l’unica. Siamo a Khinalig, remoto villaggio dell’Azerbaigian nordorientale, posto su un cucuzzolo a circa 2.300 metri di altezza fra i picchi del Grande Caucaso. È il più alto e isolato centro abitato dell’ex repubblica socialista sovietica e uno di quelli più sperduti e ad altitudine maggiore della regione del Caucaso e di tutta l’Eurasia. A Khinalig – Xınalıq in azero – ci si arriva da Quba, popolosa cittadina a nord di Baku distante circa sessanta chilometri, percorrendo quella che in principio è una strada di grande comunicazione e di straordinaria impervietà lungo il letto pietroso del Qudiyalçay, un fiume che senz’altro ha vissuto anni migliori. Qua e là, sul margine della corsia polverosa, bovini al pascolo, capannelle di venditori di kebab e contadini che offrono su dei banchetti mobili i frutti delle loro terre. Sono immagini di un mondo dimenticato, distantissimo dai processi di integrazione e di mondializzazione del nostro secolo. Man mano che percorriamo i chilometri alla velocità elevata tipica degli autisti dell’Est ma di certo non appropriata a questi tragitti, le auto diminuiscono e la strada si restringe. La civiltà così come la conosciamo è sparita da un pezzo quando, dopo l’ennesimo curvone coperto dalla bruma, scorgiamo d’improvviso Khinalig, a dritta, a poche centinaia di metri, nell’anfiteatro naturale che ci offrono le vette innevate del Tufandağ, del Shahdagh e del Bazardüzü, quest’ultima la cima più elevata dell’Azerbaigian coi suoi quasi 4.500 metri di altezza. Avvolta da una caligine azzurrina, Khinalig consegna di sé istantaneamente un’immagine fuori dal tempo che attraversiamo. Qua la storia si è davvero fermata. Ci arrampichiamo sul sentiero roccioso che conduce sulla sommità dell’abitato. Qua incontriamo altri bambini. Ci scrutano con una vaga diffidenza, ci seguono, ci indicano il percorso; tutto nel silenzio, ché gli indigeni di Khinalig parlano una lingua unica, incomprensibile anche agli stessi azeri, quindi anche alla giovane guida che ci accompagna. In questo mondo in essenza, anche la parola è superflua. L’idioma è comunque una delle particolarità del popolo khinalig. Loro lo chiamano ketsh – conosciuto anche come ketshmits o khinalug – ed è un linguaggio isolato all’interno della famiglia linguistica del Caucaso nordorientale, più vicino alla parlata del Daghestan, repubblica russa della Ciscaucasia, appena di là del pizzo bianco del Bazardüzü, che a quella della patria azera. Il suo alfabeto, definito da alcuni linguisti nel secolo scorso, è composto da una settantina di lettere, di cui ventotto vocali. Località antituristica, non fosse per la sua posizione recondita, per l’assenza di reali strutture ricettive e per la rigidità del clima per gran parte dell’anno – in inverno si registrano temperature anche oltre i dieci gradi sotto lo zero –, Khinalig presenta un’architettura spontanea e razionale, un grappolo di case abborracciate e consolidate qualche tempo fa grazie all’intervento diretto del presidente della repubblica d’Azerbaigian Ilham Aliyev.  Le abitazioni di quest’isola fra le montagne sono di pietra di fiume e argilla – non dissimili a come dovevano essere migliaia di anni fa, al netto dell’inserimento di alcuni elementi di lamiera e delle coperture in eternit –, costruite praticamente una a ridosso dell’altra, al fine di fronteggiare al meglio il clima inclemente e i forti venti della regione. Non è raro imbattersi in un tetto di una casupola che al contempo funga da terrazza per quella che sorge al livello superiore. In Europa lo liquideremmo come un accampamento di nomadi e invece dal 2023 l’insediamento rurale di Khinalig, assieme alla lingua, alle tradizioni dell’allevamento del bestiame e della transumanza, alla cultura del villaggio, costituisce il sito patrimonio dell’umanità Unesco del Paesaggio culturale del popolo khinalig. Un signore paonazzo, con indosso un completo blu a righe, un po’ liso sulle maniche, una camicia plumbea senza cravatta – eleganza arcaica, modesta, povera ma non misera –, ci accoglie nella sua dimora, sbarrata da una porticina color acquamarina. Premuroso nel suo silenzio, ci guida verso il piano superiore, passando una parete foderata di tappetti dai colori caldi, costume funzionale dei Paesi dell’Est. Ci fa accomodare a un tavolo lungo, già imbandito con tè, caramelle, zollette di zucchero e coppette colme di marmellata di ciliegie. Più in là, su un mobiletto, il samovar e un altro semplice servizio da tè pronto per i prossimi ospiti. Consumata la merenda e ringraziato con lenti inchini e mani sul petto, ci ritroviamo di nuovo nelle stradine sospese nel tempo di Khinalig, diretti verso il museo storico-etnografico, allestito all’interno di una rocca di pietra. I tappeti, i libri antichi, alcune copie del giornale locale – il Xınalıq –, le terrecotte, i manufatti e i recipienti in rame, gli utensili da lavoro e la collezione di reperti archeologici risalenti all’Età del Bronzo – circa cinquemila anni fa, le prime fasi di vita dell’insediamento – conservati nella sala del piccolo edificio raccontano la storia di un inestimabile tesoro umano e culturale, la memoria e la storia minima di un luogo e di un popolo capaci di conservare la propria identità e di resistere a millenni di guerre, colonizzazioni, commistioni ed evoluzioni della società dei sapiens.  Khinalig, villaggio alla fine e al principio del mondo; sì, perché tradizione locale di cui i nativi khinalig sono fermamente convinti e orgogliosi vuole che proprio su questo altopiano delle montagne del Caucaso Noè abbia gettato l’ancora della sua arca, scampando al Diluvio e dando vita a una rinnovata umanità. Verosimilmente una delle ventisei tribù della Albania caucasica citate nel I secolo da Strabone nella Geografia – opera fondamentale per lo studio della storia del mondo antico –, i khinalig sono un’umanità romita, legata alla tradizione nomade dell’Asia Centrale, ma non erma e destinata all’estinzione, ché il villaggio sperduto del Caucaso non conosce la irreversibile crisi demografica che angaria i paesi dell’interno dell’Europa e dell’Italia in particolare.  I residenti di Khinalig sono circa duemila – un numero che va pesato in proporzione alla popolazione totale dell’Azerbaigian, più o meno dieci milioni, circa un sesto di quella italiana – e la somma dei luoghi sacri – sono ben cinque le moschee locali con la più importante, la moschea Abu Muslim, risalente all’ottavo secolo – e l’ammodernamento recente della scuola a servizio della nutrita popolazione in età verde riescono a parlarci di futuro pur in una cornice immobile nel tempo, pressoché incontaminata e incorrotta, espressione di una eccezionale resistenza al durissimo isolamento, una capacità che andrebbe studiata dagli antropologi, ma pure dagli amministratori, dagli apostoli della turistificazione forzata e da tutti i saltimbanchi esperti di piani fallimentari di ripopolamento delle aree interne del Vecchio Continente. La luce comincia ad affievolire e la temperatura cala rapidamente quando intraprendiamo la strada del ritorno, accompagnati dai saluti muti di diverse teste che spuntano dalle bicocche. Chissà se le lasceranno mai, se un giorno abbandoneranno il loro remoto minareto per cercare nuovi orizzonti altrove. Chissà se si lasceranno ingannare. Li guardo e penso che abbiano compreso e raggiunto quello che in Occidente, avviluppati in un vortice di opportunità a buon mercato, inondati di stimoli e modelli da emulare, dagli infiniti possibili realizzabili, non riusciamo più a capire e a conquistare: la nostra vera natura. L’autista ha riacceso l’agonizzante motore della maršrutka. Ritornano i bambini, fra le mani ancora qualche calza variopinta. Ci scambiamo un ultimo sguardo. Uno di loro sembra sorridermi, un altro mi guarda inespressivo. Cosa mi trasmettono i loro occhi? Che li sto abbandonando, anche io, che forse avrei potuto fare qualcosa di più? Ma cosa? Sarà forse l’insita arroganza dell’uomo occidentale, la sua formazione eurocentrica, il suo latente senso di superiorità verso tutto ciò che lo circonda a farmi credere questo? È un tremolio dello stomaco che dura un attimo; il tempo di salire sulla sgangherata vettura perché tutto svanisca, nella nebbia che torna a compattarsi sulla strada. Si va via, col presentimento che quei ragazzini, nella loro primitiva autenticità, luminosa espressione di un’alterità non traviata, non inquinata dall’opera di corruzione morale del mondo capitalistico, eredi sì del pastore errante dell’Asia di Leopardi, ma spogli delle sue penose angosce, non abbiano pensato proprio niente. Antonio Pagliuso *Tutte le fotografie scattate a Khinalig sono dell’autore del reportage L'articolo Viaggio a Khinalig, il villaggio alla fine e al principio del mondo proviene da Pangea.
July 3, 2025 / Pangea
Il deserto e il giardino. Ovvero: il viaggio “che ti apre la mente” e quello che muta il cuore
> Cælum, non animum mutant qui trans mare currunt > > Orazio, Epistulae, I, 11, v.27 La retorica inciampa da sola perché è imbranata: tanto se la racconta, tanto se la canta, che gira su sé stessa fino a cadere – come fanno per gioco i bambini. E in effetti, la retorica è infantile: egoriferita, bizzosa, volubile secondo la convenienza. Ma siccome: agere sequitur esse; coloro che la retorica praticano, magari inconsapevolmente che retorica sia, sono come bambini, creature psicologicamente infantili. Scelgono un giocattolo: è l’argomento della loro retorica, ciò che dev’essere giustificato dalle loro chiacchere. Dei vari argomenti/giocattolo uno ci pare sia più diffuso degli altri: il viaggio. E già si prefigura l’immagine del tizio tutto compiaciuto, le gote gonfie come quelle di un pupo, appena tornato da quell’avventura d’una settimana andata esattamente come aveva previsto l’agenzia di viaggi o la premurosa fidanzata, che ti dice: “eeh, viaggiare sì che ti apre la mente” – e tu, stronzo, che non viaggi perché magari quando hai i soldi non c’hai tempo e quando c’hai tempo non c’hai i soldi, o forse soltanto di viaggiare non ti frega niente, perché il senso della tua esistenza non dipende dall’ottemperanza di riti sociali massificati né dall’incontro con il presunto «altro» antropologico… tu, stronzo, t’interroghi su quella curiosa espressione, cercando di capire se in fondo tizio non abbia ragione.  C’è chi crede che il mondo sia il suo giardino, e chi crede invece che il suo giardino sia il mondo. Ma che cos’è un «giardino»? Nell’accezione volgare, per «giardino» s’intende generalmente lo spazio verde che circonda la casa. Tra erba, fiori della mamma o della nonna, magari qualche albero, il giardino è la dimora delle fantasticherie del bambino. Egli lì gioca; ma proprio lì il suo gioco assume un potere diverso rispetto a quanto accade dentro le mura: il giardino è casa, si; ma è anche natura, che, per quanto addomesticata, conserva quella capacità di fascinazione ambigua che la natura ha da sempre sull’Uomo. Il bambino che gioca nel giardino percepisce l’eccitazione dell’avventura vera. Poi però il bambino cresce; dell’avventura rimane solo l’idea, il ricordo nostalgico che pure non cèssa di pungolare la coscienza perché si ribelli al mondo adulto delle convenzioni opprimenti, delle frustrazioni svilenti, degli scopi fuorvianti. In ogni adulto che ha conosciuto da bambino il giardino, resta impressa la traccia dell’avventura.  Ma l’adulto, l’avventura, non sa più viverla. Non sa più viverla perché oramai comprende secondo il criterio dell’estensione quantitativa ciò che da bambino era compreso per intensità qualitativa[1]: al bambino era sufficiente qualche impressione di verde per ritrovarsi in un bosco; all’adulto non è sufficiente l’oceano per bagnarsi, non sono sufficienti i deserti per conoscere la sete, non sono sufficienti le vette per avere le vertigini. In fondo, la sua insoddisfazione, oltre ogni retorica, è dovuta ad un fraintendimento: ricorda l’avventura, ma si è rinchiuso in casa. Il giardino non è più un ponte verso l’altrove; è diventato decorazione perimetrale del suo Ego – ed essendo per lui il mondo il suo giardino; allora: il mondo è ridotto ad oggetto; ad oggetto desiderabile, da possedere, ma anche, fattualmente, inerte.  Albrecht Dürer, Angeli mostrano la Veronica in cui è impresso Cristo, 1513 C’è poi chi crede che il suo giardino sia il mondo. In genere, è colui che viene stigmatizzato dai benpensanti benfacenti come l’“ottuso”, colui che, invece di “aprire la mente” col tirabusciò del viaggio, resta inquilino dell’ignoranza, della superstizione domestica. Forse potrebbero pure avere qualche ragione, se del giardino e del mondo si avesse una comprensione esclusivamente estensiva. Ma siccome è possibile comprenderli diversamente; allora: il piedistallo della loro boria è piuttosto lo scalino su cui inciampano, facendo la figura dei coglioni κατ’ ἀλήθειαν. Del giardino e del mondo si può infatti avere anche una comprensione qualitativa, che ci fa accedere al senso autentico di entrambi. Al giardino dedicò molti anni fa un interessante libello, purtroppo incompiuto, Attilio Mordini[2]. Scrive Mordini:  > […] il giardino, almeno nella storia della nostra civiltà, nasce in > Mesopotamia quale paradiso; vale a dire quale idealizzazione del creato, luogo > di meditazione e di contemplazione intimamente complementare al tempio. [Nasce > e si afferma quale manifestazione di bellezza intesa come espressione di una > verità suprema a cui l’Uomo, elevandosi, aspira e tende sempre più […] È da > una tale idea, da un tale archetipo di giardino che muove ogni altro giardino > nel corso della Storia, accentuando ora in un senso ora in un altro la sua > funzione di porgere all’uomo un significato che, pur modificandosi di luogo in > luogo e di tempo in tempo, è rimasto fondamentalmente lo stesso, almeno fino > agli albori dell’età moderna][3]. Ben lungi dall’essere meramente uno spazio decorativo; il giardino è, o meglio: era un segno di una «verità suprema». Di tale segno, il significante sono gli elementi vegetali e floreali, combinati armoniosamente con elementi artificiali, p.e. fontane, vasche, etc.; mentre il suo significato è offrire all’Uomo l’occasione per accedere al suo intimo Sé, attraverso la meditazione sulla bellezza quintessenziale del Creato.  Questo significato del giardino assume col Cristianesimo una sfumatura peculiare. Dice sempre Mordini:  > Il giardino riappare […] nella contemplazione cristiana come perfezione ultima > della selva, ma non propriamente nel senso cosmico; riappare, invece, > come hortus conclusus, riappare soprattutto come simbolo dell’anima separata > dalla selva del mondo per essere coltivata e curata con l’aiuto della > grazia.[4] Quindi il giardino, con la contemplazione cristiana, viene compreso simbolicamente come l’anima di ogni persona. Ed è in questo giardino, in tale hortus conclusus, che l’Uomo può cogliere ciò che non per caso è stato chiamato: il «fiore dell’anima» (Proclo), ovverosia: incontrare lo Spirito, trasformarsi nello Spirito – compiendo così il gesto fondamentale per la divinizzazione (2Pt I, 4). E allora: colui che crede la propria anima sia il mondo, abiterebbe questo giardino senza aver bisogno d’altro spazio terreno, perché tutta la Terra sarebbe diventata un mondo troppo angusto. Dove andare allora, cosa esplorare, quale “altro” incontrare se l’esigenza fondamentale è andare nella propria anima, esplorarla, affinché non si resti tragicamente stranieri in essa? D’altronde, trovare questo giardino ed abitarlo non è immediato. Esso sta aldilà del deserto. È là che andò a cercarlo s. Antonio abate, e con lui tutti i grandi contemplativi eremiti del Cristianesimo. Una certa vulgata interpreta il gesto di s. Antonio come misantropia: lui volle allontanarsi dagli uomini per sfuggire alla loro corruzione, quasi fossero tutti degli appestati dal peccato che avrebbero potuto contagiarlo. Ma la verità è un’altra: ogni luogo abitato dall’Uomo può diventare un paradiso in Terra, può offrire tutto ciò di cui lo Ego abbisogna o desidera. Tra gli uomini si può infatti trovare una casa in cui abitare comodamente, si può trovare delle attività che ci soddisfino o che ci allietino, si può trovare l’amore per un’altra persona, si possono coltivare speranze terrene – insomma: si può trovare tutto ciò che distrae dalla concentrazione nel Sé[5]. Si capisce che il deserto non era il fine, bensì: il mezzo.  Marco d’Oggiono, Pala dei tre Arcangeli, 1516 ca. Oggi dov’è il deserto? Si potrebbe pensare ch’esso sia fattualmente scomparso: quale luogo della Terra può infatti essere considerato davvero «deserto», quando tutto lo spazio terrestre è abitato dalla telecomunicazione? Quando il cielo è percorso con indifferente alacrità dai satelliti, e tutti noi nuotiamo, annaspiamo, forse: affoghiamo nella banda larga? È opportuno intendersi su cosa sia il «deserto». S. Antonio ce lo ha insegnato: esso è l’assenza di umanità. In questo senso, oggi il deserto è paradossalmente molto più vicino di quanto fosse per lui: in una società come la nostra, disumanizzata e disumanizzante, la sabbia copre già la soglia delle nostre case. Viviamo in un tempo in cui l’umanità pretende di instaurare il paradiso in Terra, ma il paradiso dello Ego non può che essere un inferno – ardente e riarso proprio come un deserto!  L’Uomo contemporaneo si è così ritrovato a vivere una situazione segnata da un’ambiguità drammatica: se per chi cerca il proprio giardino interiore essa offre opportunità sorprendenti; per chi invece non ha il pollice verde della speranza teologale, il deserto è solo un deserto: è la disperazione.  Niccolò Mochi-Poltri *In copertina: William Turner, Studio di un angelo steso al sole, 1841 ca. -------------------------------------------------------------------------------- [1] Cfr. R. Guénon, Il Regno della quantità ed il segno dei tempi, trad. it. di P. Nutrizio, T. Masera, Adelphi, Milano 2009 [2] A. Mordini, Giardini d’Occidente e d’Oriente, a cura di F. Cardini, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2008 [3] Ivi, p. 31 [4] Ivi, p. 58 [5] S. Atanasio di Alessandria, in: Vita di Antonio (l’edizione di riferimento è a cura di L. Cremaschi, Edizioni Paoline, Alba 1984), dice: “5.1. Ma il diavolo, che odia il bene ed è invidioso, non sopportò di vedere in un giovane [s. Antonio] tale proposito di vita e incominciò a mettere in opera anche contro di lui i suoi intrighi abituali. 2. Per prima cosa cercò di distoglierlo dall’ascesi ispirandogli il ricordo delle ricchezze, la sollecitudine per la sorella, l’affetto per i parenti, l’amore per il denaro, il desiderio di gloria, il piacere di un cibo svariato e ogni altro godimento della vita”. L'articolo Il deserto e il giardino. Ovvero: il viaggio “che ti apre la mente” e quello che muta il cuore proviene da Pangea.
June 25, 2025 / Pangea
Tra ascetismo e latitanza, contro gli scrittori “impegnati”, verso l’impossibile. Dialogo con Tom Buron
Tom Buron pare un corsaro. Giovane – classe 1992 –, gioviale, ha esordito con Gallimard con un poema, Les Cinquantièmes hurlants, che va in direzione opposta ai toni dominanti del nostro tempo: lo stile sifilitico, il pallore da confessionale, una scrittura senza febbre, senza sbalzi, spesso anemica, utile al post sui social, gradevole alla lettura pubblica. In una intervista pubblicata di recente su “Zone Critique”, Tom Buron ha detto che “questa è un’epoca che necessita di miti”; si è detto portavoce di “una sorta di lirismo in lotta, di un lirismo violento”; disprezza la “poesia del quotidiano e quella che esiste per rivendicare qualcosa”, come “l’anti-poesia, cioè la poesia ‘che non sembra poesia’”. Nei suoi versi, la foga di Melville e di Lord Byron si mescola al rock, l’epica dilagante di Saint-John Perse dialoga con sonorità elettriche contemporanee. Il mito di Tom Buron è Velimir Chlebnikov, uno dei più prodigiosi inventori di linguaggio del secolo: non credo sia sul comodino di molti scrittori di oggi, in verità, spettri viventi. Come Chlebnikov, anche Tom Buron veste ampie pellicce, indossa uno sguardo spiritato, confida nel neologismo.  Tra i romanzi, preferisce Sotto il vulcano, l’epopea alcolica di Malcolm Lowry, ambientata a Cuernavaca, Messico. Proprio il Messico è uno dei luoghi-totem di Tom Buron – lo fu anche per Antonin Artaud, che laggiù tentava di ritrovare l’origine magica, glossolalica della parola poetica.  Nonostante il gargantuesco, granguignolesco entusiasmo – che è già oro in un’era di palestrati e di depressi – Tom Buron non è un poseur. Ha vissuto a lungo in Ucraina, dove ha terminato Les Cinquantièmes hurlants – ha combattuto, ha sofferto, ma ne sussurra, senza i laboriosi sofismi del retore e del neofita. Esige il rischio, proclama l’avventura come sale per la letteratura, eppure non gioca all’esteta armato. Resta, nonostante tutto, un ragazzo sfuggente – più René Char che André Malraux, per intenderci. Non ama i proclami, sa cos’è l’ispirazione e cosa significhi perdere l’ispirazione – conosce la veglia, la ferita in ambone, l’acquasantiera degli insonni.  Les Cinquantièmes hurlants, a una prima lettura, ha due grandi precedenti: Le bateau ivre di Rimbaud e The Bridge, il poema di Hart Crane, il poeta che ha scelto di morire gettandosi nel golfo del Messico. In ogni caso, è l’elemento marino a dominare il libro di Tom Buron, il disorientamento, la rottura di tutti gli ormeggi del linguaggio – un Antartide tutto attorno, che è poi pari a Minotauro, e venti che scuoiano la pelle fino al sillabario.  Non è stato difficile raggiungerlo – la generosità è parte dell’estro di un poeta; gli altri, quelli che non si imbarcano nelle imprese disperate, continuino a fare le vittime.  Perché la poesia in questo tempo impoetico?  Non è forse questa l’unica arte della nostra epoca a non essere diventata industria? Quali sono i tuoi maestri, i poeti che ritieni decisivi alla tua crescita? Citami una poesia-amuleto, un libro-totem, un lotto di versi che tieni sempre con te.  Velimir Chlebnikov, Conrad Aiken, Roger Gilbert-Lecomte, Hart Crane, T.S. Eliot e Pound, Dylan Thomas, Matthieu Messagier, Saint-John Perse, Cendrars, Majakovskij sono molto importanti per me: il mio amore per loro dura dall’adolescenza. Potrei citare altri poeti dell’Era d’argento russa come Marina Cvetaeva e Anna Achmatova. A questi dovrei aggiungere il sommo Derek Walcott, o ancora Basil Bunting e John Ashbery. Dei francofoni, devo citare Arthur Cravan, un autentico selvaggio, un autentico modello di vita e di energia vivente, ma anche Stanislav Rodanski e Marcel Moureau. Non amo distinguere tra poeti e romanzieri, dunque voglio dirti anche Nikos Kazantzakis, Ernesto Sábato, William Faulkner, Dostoevskij, Melville, Bolaño, Thomas Wolfe (non ho detto Tom…), Joyce… Cormac McCarthy e la sua cavalcata nell’orrore, quel tremebondo poema in prosa faulkneriana che è Meridiano di sangue… A noi più prossimo, devo citare Laszlo Krasznahorkai, uno dei più grandi romanzieri viventi. Amo la lingua francese di Pierre Michon, quella di Albert Cohen, di Drieu e di Morand, di Blondin – amo le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. L’opera che apprezzo di più è quella di Malcolm Lowry. Potremmo dire del desiderio contro il senso di colpa, dell’ossessione per il paradiso perduto, della cerca e della devastazione nell’alcol, di una sublime vulnerabilità e di uno stile che combatte tutti gli stili, ma ciò che ricordo meglio di Lowry è la sua presenza, ovunque, nell’opera, è il rapporto conflittuale con la scrittura, frammentario e doloroso, questo rapporto con l’opera in corso, in corsa, che commenta costantemente e da cui dipende la salvezza dell’uomo, senza condizioni.  Detto questo, è difficile scegliere l’unico libro, il libro-totemico, come dici tu, ma sono disposto al gioco: se dovessi andare in qualche luogo per sei mesi e potessi portare con me un solo libro, beh, allora opterei per le opere degli ultimi anni di vita di Velimir Chlebnikov. Amo la dismisura e le imprese eccessive, la chiave di una soluzione che deve essere ancora trovata, e lui ha tentato di trovarla più di chiunque altro: credo, come Chlebnikov, che il poeta debba essere anche un pensatore – Chlebnikov è il grande poeta dell’impossibile. D’altronde, un grande amore, quando tentiamo di spiegarlo, ci sfugge sempre, non è forse vero? Mi viene in mente quell’aneddoto in cui Caitlin racconta che il marito, Dylan Thomas, di fronte agli amici, cercando di spiegare alcuni suoi versi, si gettò a terra, d’improvviso, rotolandosi sul tappeto, grattandosi come una bestia… Che rapporto esiste tra ‘vita’ e ‘poesia’? O meglio: qual è la tua ‘poetica’ dell’esistere? Mi dirai banale: l’incontro con Rimbaud, a dodici anni, mi ha fatto credere, allora e per sempre, che l’avventura sia legata alla scrittura poetica. Il mio desiderio di scrivere si è sempre manifestato con il gusto per l’avventura e per il rischio: credo, come Hemingway, che bisogna far scontrare il corpo e la mente con la realtà, credo nella viva carne, nel sangue che ribolle. Non riesco a distinguere una dimensione dall’altra, è una sorta di rivelazione ontologica. Già a quel tempo vedevo il poeta come una creatura che scrive e agisce al medesimo tempo, una canaglia capace nel metodo, un essere che oscilla tra ascetismo e latitanza. Byroniani, rimbaudiani, insomma. Credo che occorra andare e ‘vedere’, sperimentare con i nervi e con le ossa. Ci sono cose che non si possono trasmettere né ripetere se non dopo averle vissute, se non dopo l’avventura, quella autentica. L’avventura, come la poesia, è una forma di eccedenza, si tratta di dimensioni che comunicano. Insomma, è una visione un po’ nietzschiana del poeta. La vita non basta – la letteratura neppure. Il mio caro Zorba direbbe: “Vivere, sai cosa significa? Slacciare le cinture e attaccar briga”.  Come nasce “Les cinquantièmes hurlants”, da quale ispirazione? Mi pare che il linguaggio che usi sia diametralmente opposto al minimalismo, alla poesia ‘orizzontale’ in voga in Francia come in Italia. Da dove arriva la tua lingua? Non so dirti da dove arrivi questa lingua: passo il tempo a cercarla, a tentarla. Certamente, deriva in gran parte, oltre che dal mio inesauribile interesse verso la lingua francese, da una preoccupazione per il ritmo, la melodia, l’armonia.  Les cinquantièmes hurlants è un poema che ho portato dentro di me per sei anni. Detto questo, l’ho lavorato a lungo tra il 2020 e il 2022. Volevo terminarlo entro il mio trentesimo compleanno, come mi è riuscito, per poi smettere tutto, certo che sia la migliore delle cose che abbia tentato di fare finora. Due anni dopo, ecco che appare. È un poema che nasce dal desiderio di spiazzare i temi che mi sono cari, di spostarli dalla città all’oceano, lo spazio di ogni rischio. Nasce anche dalla prospettiva di una traversata, una traversata mutila. Tuttavia, ho dato inizio a un movimento, lungo i porti d’Europa, raccogliendo appunti, cercando di dar loro un corpo; sono andato in giro per un anno e mezzo circa, prima di mettere tutto da parte perché non riuscivo a giungere a ciò che volevo da quella distanza. Quando a Est è scoppiata la guerra, sono partito. Prima presso la frontiera polacca, poi in Ucraina, verso il fronte meridionale e orientale, a Charkiv, Zaporižžja, Cherson, Mykolaiv, Pokrovsk… Prima nei ranghi umanitari, la logistica, poi, di recente, dal 2024, nell’esercito. Di questi tre anni, un anno e mezzo è stato consacrato alla guerra. Se ciò non è direttamente ravvisabile nel libro, ciò che ho vissuto lo ha inevitabilmente intriso: di ritorno da una missione, a Ochota, un quartiere di Varsavia dove ho vissuto per alcuni mesi, sono riuscito a sedermi al tavolo, a riprendere il lavoro e a completarlo, nell’autunno del 2022. Finalmente, avevo trovato un’architettura per i miei versi, una lingua per la storia del mio navigatore, un ritmo oceanico e cavalleresco da imprimere a quella traversata, un ordine e una disciplina per tale furia. Poi ho nascosto il manoscritto, ho fatto la valigia, sono ripartito per l’Ucraina.  Riguardo al termine che usi, la poesia ‘orizzontale’: Les cinquantièmes hurlants è l’esatto opposto, è un poema della verticalità. Questa sorta di ‘orizzontalità’ permanente di cui dici, non riguarda soltanto la Francia, ma il mondo occidentale in sé – non riguarda soltanto l’arte letteraria, ma molto di più. Non me ne occupo, ma se vuoi sapere cosa ne penso, dirò soltanto che trovo la ‘produzione’ attuale per lo più deplorevole, perché va di pari passo con il disprezzo per la verticalità, la ricerca incessante, l’opera. Ma non ho tempo per reagire, mi preoccupo di lavorare, mi occupa l’azione. Tutto cambierà in fretta, sono fiducioso.  La poesia è sempre eversiva, sempre ha in sé un linguaggio anarcoide, contro la necrosi linguistica odierna: è davvero così? Quali sono i confini tra la poesia autentica e la falsa poesia, il ‘poetume’ (pattume) di cui è intriso il nostro tempo? Insomma: dove ci porta la poesia?   Mi avventuro di rado nei meandri della teoria letteraria, ma penso che la poesia non abbia nulla a che fare con una forma di ‘comunicazione’. Meglio: poesia è comunicazione suprema. Mi pare che la poesia sia in un certo modo estranea a queste considerazioni. È terra d’invenzione, superamento del linguaggio, significato e pensiero rinnovati. Credo che un poeta autentico debba necessariamente condurre il lettore in una lingua estranea. Nel passato – ma accade ancora oggi – venivo accusato di essere un poeta per poeti. È un modo per squalificarti, per evitare l’ingaggio col pensiero… Allo stesso tempo, credo che in letteratura non si possa che fallire. Questo è ciò che mi spinge a continuare, che mi fa desiderare di andare oltre. Sbagliamo e sbagliamo ancora e torniamo alla battaglia: “Ancora una volta sulla breccia, amici cari, ancora una volta”. Non so se sarò mai in grado di cogliere il segno. Siamo sempre opere incompiute, incomplete. E quando ti concentri sul poema, come nel mio caso, una gara di fondo composta da quindici round, devi stare lì, devi essere sempre vigile riguardo ai tuoi errori, devi arrivare fino alla fine. Penso che il poema sia la forma più completa e sofisticata: non ha nulla a che vedere, mi si perdoni, con una bellissima lirica di quattro strofe. Esiste a tuo avviso un rapporto – di complicità o di avversità – tra ‘poesia’ e ‘politica’? In Les cinquantièmes hurlants, pur in forma remota, c’è la presenza della guerra e delle armi nucleari, riecheggia in forma escatologica ciò che stiamo vivendo oggi. Comprendo dunque la ragione di questa domanda. Detto questo, nonostante il mio interesse per la geopolitica e la storia, non mi addentro in modo frontale in questo tema, ho orrore per quelli che si definiscono “scrittori impegnati”. Trovo che tale atteggiamento manchi di classe e corrompa il lavoro lirico. I poeti non servono alcuna causa. Bob Dylan, che ha dovuto difendersi da molte tentazioni in questo senso, diceva, fin da giovanissimo, “Non esiste il bianco e il nero… Esistono solo l’alto e il basso… E io cerco di andare in alto senza pensare a cose triviali come la politica”. Tornare alla verticalità di cui dicevamo prima: ecco la mia risposta.  Hai viaggiato tanto. Quale viaggio e quale incontro ti hanno formato? È vero. Ho viaggiato in Africa, nelle Americhe, in Asia, poi ho deciso di concentrarmi sul nostro continente e ho girato l’Europa in autostop, con l’autobus, sui treni, come quando ero ragazzo. Mi sento uno scrittore europeo che si esprime in lingua francese e proviene da Omero, Dante, Blake, Nietzsche e Rimbaud. Da giovane alternavo lavori part-time, scrittura e lunghi viaggi con pochi mezzi per il continente.  Tre anni fa avrei risposto a questa domanda in modo diverso. Avrei detto che il Messico mi ha cambiato profondamente. È stato un viaggio che ho scelto nel momento giusto e in cui – cosa rara – tutto è andato per il verso giusto. Potrei parlare dell’Africa, in particolare del Senegal. Tuttavia, è l’Ucraina che occupa ormai un posto enorme nella mia vita. Ciò che ho condiviso lì con alcuni esseri umani, non lo vivrò con nessun altro. Ciò che ho vissuto con certi amici, nel lavoro umanitario come nell’esercito, non sarò mai in grado di raccontarlo come si deve – sono racconti che infine mettono a disagio chi li ascolta, al ritorno, quindi, semplicemente, smetto di parlarne, anche alle persone a me prossime. Almeno, questo vale per me: ne parlo poco, racconto poco, non condivido quasi nulla, ne scrivo, per me solo, però. Penso che tutto questo troverà, col tempo, un suo equilibrio, ma è certo che gli ultimi tre anni mi hanno invaso, hanno mutato in profondità l’uomo che ero.  E adesso… cosa fai? Ho ancora qualche lettura prima dell’estate. Intanto, a Parigi, attorno a una antologia su jazz e poesia che ho curato insieme allo scrittore di jazz Franck Médioni, s’intitola Le nom du son. È la prima antologia in francese su questo tema. Riunisce un centinaio di autori, dunque un centinaio di testi scritti tra il 1917 e il 2024. Leggerò una selezione di testi che comprende poesie di Mina Loy, Michel Bulteau e Bob Kaufman, accompagnato da un musicista, Antoine Berjeaut. Porterò Les cinquantièmes hurlants nel sud della Francia, a Sète, poi a un festival parigino, con un adattamento musicale creato insieme a Fred Aubin dei “La Maison Tellier”, un mio amico trombettista. Abbiamo alcune date da qui a settembre. Da poco, ho ricominciato a scrivere. Come dicevo, dopo aver finito Les cinquantièmes hurlants, alla fine del 2022, ho pensato di smettere con la scrittura. Il silenzio è durato due anni.  ** Da Les cinquantièmes hurlants Alimentiamo questa caduta mercuriale, la magnolia in un concerto di vertigini, una volta soltanto – sole di rame –  tra i flutti di un mandolino catartico ci ha reso vulnerabili. L’odore della meccanica i ronfi dell’Olandese Volante ci lordavano i sandali: “Strano, il babbuino, puah… sublime assillo” Sento lo stesso, di lontano, lo stesso sciaguattare di chiatta, un’ambiguità ontologica e le corde che vibrano lacerando straniere plaghe, strani pelasgi.  Perché occorre dirlo abbiamo dormito poco in quest’ultimo secolo: le radici dissennate divennero torce e ancora recludono lo spasmo delle montagne russe tossicologiche. Non ho detto troppi addio perché sono marchiato dai sigilli, ma, fiacchi di guerra, hanno assolto gli idoli cavi, la vite, un amuleto occulto, l’esca e l’acciarino nell’avventura dello squallore, dello squarcio: tutto spira, l’alba si perde in caricature carminio. La parata d’oro impone trasalimenti i colori si rinnovano come folgorazioni dall’acquarello che popoliamo tra il bronzo e il piombo, convergendo instancabili verso queste tessere del domino che cadono una dopo l’altra nel culto del ricordo.  Così, così, mai l’oblio fu incontrato ma questo vivere se non da mutilati, seguaci di frammenti eremitici, di un deliberato disordine, lo specchio semovente, l’arena regina il combattimento intangibile: Mare, dunque e lì, Mare, e là, la plenitudine del Sud – il pieno Sud.  Tom Buron L'articolo Tra ascetismo e latitanza, contro gli scrittori “impegnati”, verso l’impossibile. Dialogo con Tom Buron proviene da Pangea.
May 16, 2025 / Pangea
Per una poetica della sparizione. Sulla poesia di Nicolas Bouvier
Dev’esserci, nella biografia di ogni poeta, un momento in cui la folgore cade senza preavviso. L’istante in cui la poesia si incista nel destino: le stimmate di una vocazione che è incontro fatale tra telos e contingenza. Per Nicolas Bouvier, questo accade nella valle di Erzurum, quando l’alba si leva verso il Caucaso, annunciata dagli occhi fosforescenti di una volpe: > “in fin dei conti, ciò che costituisce l’ossatura dell’esistenza, non è né la > famiglia, né la carriera, né ciò che gli altri diranno o penseranno di voi, ma > alcuni istanti di questo tipo, sollevati da una levitazione ancora più serena > di quella dell’amore, e che la vita ci distribuisce con parsimonia a misura > del nostro debole cuore”. * La storia è nota, l’esordio ha quasi i contorni della leggenda. È il 1953. Nicolas Bouvier, appena terminati gli studi universitari, parte dalla Svizzera a bordo di una Topolino per raggiungere l’amico Thierry a Belgrado. Insieme, in una sorta di sodalizio creativo e iniziatico, si mettono in viaggio verso est, con l’intento di arrivare fino in India. Attraversano la Turchia, l’Iran, il Pakistan e l’Afghanistan, spingendosi fino alle soglie del Passo Khyber.  Quando Thierry fa ritorno in Europa, Nicolas prosegue da solo. Si dirige in Sri Lanka, dove – preda di un delirio febbrile e visionario – scrive Il Pesce Scorpione. Raggiunge poi il Giappone, che agisce su di lui come un calmante spirituale e gli ispira alcune delle pagine più intense e limpide della sua opera. Il resto è un intreccio di ritorni e nuove partenze, un continuo attraversamento delle stesse rotte e l’invenzione di itinerari futuri. Ma il Passo Khyber, dove La polvere del mondo si arresta, rappresenta nell’itinerario creativo di Nicolas Bouvier un confine simbolico. Oltre quell’imponente sistema montuoso si apre un nuovo orizzonte: quello della creazione e della riflessione poetica. * Bouvier si accosta al linguaggio della poesia relativamente tardi, a 35 anni. Come racconta lui stesso in Routes et déroutes, la sua prima composizione risale al soggiorno a Tabriz, benché la maggior parte dei versi venga scritta in Giappone – il paese che, più di ogni altro, con la sua abbagliante sintesi di ossimori, gli appare come una sorgente inesauribile di ispirazione. Non è un caso, osserva, che proprio nel Sol Levante sia nata la forma dell’haiku, così perfetta nella sua studiata semplicità. All’origine della poesia c’è il soffio che riempie la cassa toracica, il daimon che piega i polsi e getta l’amo nei fiumi della creazione. Scrivere è un atto da rabdomanti, misteriosa trasmutazione alchemica. La poesia, dice, > “era l’unico legame che mi restava con le parole, l’ultima passerella”. Ma non basta. Il dettato poetico esige rigore: una lealtà da asceta, un lavoro in sottrazione che può durare mesi, anni, persino decenni. A colpi d’ascia, fino a raggiungere il cuore dorato del metallo – là dove si fronteggia la frontiera del silenzio. * Nel 2012 esce la versione italiana delle poesie di Bouvier, curata da Luigi Marfè, acuto indagatore del rapporto tra letteratura e viaggio. Il titolo della raccolta – Il doppio sguardo. Le dehors et le dedans – sceglie con l’aggiunta italiana una resa interpretativa, non letterale. Il doppio sguardo richiama infatti l’idea di una visione sdoppiata. Eppure lo sguardo di Bouvier sulle cose mi sembra piuttosto di natura “taoista”: non duplice, ma unitario nel suo accogliere il dentro e il fuori, specchio e fiamma di estremi che si compenetrano. Ecco che così dehors e dedans diventano due volti della stessa medaglia. Il fuori: il mondo nel quale siamo immersi, colto nella sua energia elementare, evocata da ciò che potremmo definire correlativi oggettivi. Il dentro: un’esplorazione implacabile e dimessa di sé, alla ricerca di accorati lampeggiamenti interiori. * Le poesie di Bouvier sono un irrimediabile ma necessario dissolvimento dell’io nella pienezza nuda della natura. Voglio dire: come gettare l’io in pasto ai lupi, seppellirlo sotto il candore della neve e trasfigurarlo nella notturna luce delle costellazioni.  Piuttosto: viaggiare per addestrarsi alla solitudine ferale, al silenzio astrale, agli esordi mai approfonditi. Apprendere a fare della mappa geografica della propria vita il collo dell’imbuto dove smussare e levigare gli angoli taglienti dell’autobiografia. Ritrovarsi sdraiati, come nel sogno di Kafka, alla stessa altezza dello sguardo degli animali. Indagare i miti che da millenni incendiano covoni di grano e spremono il succo dalle vigne.  Il viaggio è la forma più elegante e raffinata per congedarsi dalla tentazione dell’io. Bisogna annientare l’idea del viaggio come carezza esotica, spogliarlo di ogni orpello, liberarlo da ogni illusione di spensierata evasione. Tutto, nelle poesie di Bouvier, parla il linguaggio di una scabra essenzialità, fatta di elementi naturali primari, di superfici rocciose rastremate dalla salsedine, di colori quasi chagalliani: luoghi e parole tra cui si avverta il passaggio dell’aria, come all’inizio dei tempi. * La citazione di un anonimo cinese posta in esergo alla prima sezione della raccolta conferisce a quest’ultima una tonalità poetica del tutto particolare. > “Domani, se qualcuno si preoccupa del nostro amico d’oltremare, > dite che, posati i sandali, è tornato a casa a piedi nudi”. E in effetti i versi sono sospesi in una levità quasi aerea, dove la scelta delle parole e l’evocazione delle immagini sono al tempo stesso un’aspirazione alla leggerezza e un richiamo alla condizione terrestre. Nuvole che ammantano il cielo, piogge che strizzano lembi di azzurro, fumi che si levano da spiagge nere. E ancora: mormorii, cantilene, sussurri e bozzoli che volteggiano nell’aria. Ma anche fieri cavalli di concreta carnalità, pozzanghere e campi disertati, stazioni di treni e mercati orientali. Personaggi, luoghi e scenari naturali costituiscono il serbatoio da cui il poeta attinge per le sue composizioni poetiche. Molti degli episodi che danno vita alle poesie si ritrovano anche nelle opere in prosa di Bouvier. A ben vedere, i temi ricorrenti nello scrittore svizzero sono gli stessi: hanno a che fare con la sciarada del viaggio, con la consapevolezza del tempo che passa, con l’avvistamento dell’ultima dogana, la morte. Ciò che colpisce, nell’iterazione di queste immagini, è che il dettato poetico di Bouvier, pur recalcitrante all’io, si declina infine in una forma di poesia perfettamente classica, di stampo lirico-elegiaco. La poesia di Bouvier è pura epifania: un’improvvisa rivelazione suggerita da un’immagine, una visione, un suono. Può accadere contemplando un tramonto iraniano, osservando dei pellegrini in cammino dal Tibet verso l’India, o ascoltando un motivo jazz suonato per strada a New York. Ciò che importa è che sempre, a un certo momento, il tempo sembra raggrumarsi: quando il vasto e misterioso respiro del mondo spira nel dettato poetico e l’animo vi aderisce intimamente, in un attimo di agnizione -dissolvendosi completamente nello sguardo muto dell’universo.  Nella seconda parte della raccolta, Le dedans, assistiamo all’irruzione del tu, come se l’interiorità non potesse prescindere da un’intimità relazionale, oltre che grammaticale. Le tre composizioni poetiche del ciclo Love Song sembrano accendere schegge di lirismo. In realtà, ogni picco di emozione viene trattenuto, smagato. Come il viaggio e la scrittura, anche l’amore spoglia l’io da ogni scoria. Rimane sempre, a sigillare tutto, una sorta di misterioso ritegno: > “ma che la neve caduta questa notte > sia come un dito sulla tua bocca” * Nicolas Bouvier aveva in mente di scrivere un ciclo di libri intitolato Livre des Merveilles. Vi avrebbe dovuto appartenere anche Le vide et le plein, forse l’opera più intensa del Bouvier prosatore, dove la scrittura aderisce con rara levità alle asperità e ai declivi dell’anima. Livre des merveilles: un titolo che richiama alla mente i libri di viaggio medievali, i mirabilia, popolati da tempeste procellose, mostri marini e apparizioni miracolose; o che evoca le peregrinazioni cartografate da celebri mercanti veneziani. Tuttavia, è bene non divagare. Nei racconti cinesi, il pittore delle nuvole, dopo aver dato l’ultima pennellata al suo capolavoro, avvolge i pennelli e li fissa alla cintura, prima di mettersi in cammino. I manipolatori delle marionette Bunraku, presenti sulla scena insieme alle loro figure, indossano un cappuccio quando sono ancora novizi; i maestri, invece, agiscono a volto scoperto: sono diventati a tal punto il personaggio che animano, da risultare, letteralmente, invisibili allo sguardo.  Scrivere, come viaggiare, vuol dire scomparire. Scaraventare carta e inchiostro e fuggire nel caldo ventre della terra.  Lorenzo Giacinto ** Ulisse A sud del parapetto, non c’è più nulla fino alla Terra Antartica. Leviatani e sirene solcano questi pascoli marini, questo portolano increspato d’onde, dove immense porzioni di cielo si abbattono in scrosci spossati, senza che Dio stesso ne sia messo al corrente. Ogni sera guardi il calice del sole tuffarsi urlando nel mare a chiazze, tra gli ammiccamenti dei grossi gatti di bordo accovacciati tra le gomene. I pescespada blu sfrecciano davanti alla prua, come una banda di gioiellieri in fuga. Sono mesi che non ricevi una lettera, sei l’ultimo dei paria a bordo di questa nave, il cuore sfatto, uno straccio di stoppa in mano, già tutto nero di ricordi. Ti annulli nel fremito delle eliche, ascolti l’antico canto del sangue nelle orecchie –  coaguli di sole della memoria, e l’inventario delle meraviglie, quando sapevi vivere di poco, e la vita ti seguiva come uno sciame d’api, e pagavi, senza mercanteggiare, il prezzo esorbitante della bellezza. * Hira – Mandi Ultima bottega ancora aperta nella notte della città –  ghirlande di peperoncini, samovar e falene, alone bianco dell’acetilene. La barba del padrone è tinta di un rosso birichino. Tre uomini vestiti di cuoio sorseggiano il tè versato nei piattini. Alti zigomi, che brillano nei volti color rame sotto la frangia di cappelli informi. Sono pellegrini del Tibet, in cammino verso l’India del Gange per appendere il loro mulinello da preghiera ai rami del fico del Buddha, prima di tornare alle loro terre a fiato corto, a piccoli passi, attraverso quei confini impraticabili che passano sopra le nuvole. Anch’io ho un appuntamento con un albero. E in ogni caso non c’è più verso di dormire quando la luna veleggia come una vela gonfia, così brillante, così veloce, che persino l’anima ne proietta un’ombra. * Love Song III Quando attizzare le parole per un po’ di colore non sarà più compito tuo, quando il rosso del sorbo e le curve delle ragazze non ti faranno più rimpiangere la tua giovinezza, quando un nuovo volto, tutto scheggiato d’assenza, non farà più tremare ciò che credevi solido, quando il freddo avrà salutato il freddo e l’oblio dirà addio all’oblio, quando tutto avrà assunto la silenziosa opacità del vischio –  quel giorno, qualcuno ti aspetterà al margine della strada per dirti che è stato giusto così, che dovevi concludere il tuo viaggio senza più nulla, del tutto disarmato, allora forse… ma che la neve caduta questa notte sia anche come un dito sulla tua bocca. Nicolas Bouvier Traduzione di Lorenzo Giacinto L'articolo Per una poetica della sparizione. Sulla poesia di Nicolas Bouvier proviene da Pangea.
April 29, 2025 / Pangea