Paolo Nori conclude il suo assai smilzo repertorio di “poesie russe”
– s’intitola E questo cielo, e queste nuvole, Crocetti, 2025 – con una poesia
italiana di Angelo Maria Ripellino, “un poeta che è stato anche russista e
boemista”. Un gesto di onestà prima che di grazia. Ripellino è l’autore della
formidabile Poesia russa del ’900 (Guanda, 1954; poi, dal 1960, Feltrinelli):
antologia superba, pionieristica per sapienza, folleggiare antiaccademico,
creatività, titanomachia dei luoghi comuni, eccedenza del linguaggio. Perché al
posto di commissionare a Nori un’esangue antologia della poesia russa – fiacca
per estro & per autori antologizzati –, in cui l’autore parla di sé e dei libri
suoi e dei fatti suoi, non ripubblicano l’antologia di Ripellino? L’antologia di
Ripellino è un atto d’amore, quella di Nori un atto d’ufficio, un compitino. A
pagina 95 (la penultima) Nori scrive che “quello che mi interessa… non sono i
premi letterari”: intanto, è nella cinquina dello Strega con un libro dedicato a
un grande poeta, Raffaello Baldini. Auguri.
*
Ma non è questo il punto.
A pagina 34 Paolo Nori antologizza Gli Sciti, poemetto straordinario – e
straordinariamente feroce – di Aleksandr Blok. Il testo – bello di per sé, senza
ma né se – è emblematico per capire la distanza cosmica tra Russia ed Europa,
fin dall’attacco:
> “Voi siete milioni. E noi miriadi miriadi miriadi.
> Provateci a combattere con noi!
> Sì, noi siamo sciti! Sì, noi siamo asiatici,
> Dagli occhi avidi e obliqui!”
Blok rimodella un topos della letteratura russa – la ‘missione’ della Russia, il
panslavismo, il suo essere alle frontiere dell’Asia, né Ovest né Est, nutrice
d’Occidente, alcova d’Oriente, nazione del destino, totalmente ‘altra’ –
conferendogli un ritmo di cembali e tamburi, un ritmo dionisiaco. Forse Gli
Sciti è una delle poesie più violente mai scritte. La Russia è simboleggiata
dalla “Sfinge” e dall’“enigma”; la fratellanza che promette stritola.
“…Nessuno di voi sa amare da tempo!
Avete dimenticato che al mondo c’è l’amore,
Che brucia e che distrugge!
Noi amiamo tutto: e il calore dei freddi numeri,
E il dono delle visioni divine,
A noi tutto è chiaro: e l’acuto spirito gallico
E il tenebroso genio germanico…
Noi amiamo la carne, e il suo gusto e colore,
E l’odore soffocante, mortale della carne…
Siamo forse colpevoli se scricchiola il vostro scheletro
Tra le nostre pesanti, tenere zampe?”
Ricalco, qui, dalla vecchia traduzione di Eridano Bazzarelli – I Dodici. Gli
Sciti. La patria, Bur, 1998 – il quale, a differenza di Nori, fa capire il
contesto in cui è stato scritto il poema e il suo significato, per così dire,
‘politico’ (o ‘geopoetico’): “Il poeta si rivolge agli europei: o venite e state
con noi come fratelli o noi, questa volta, lasceremo che l’orda asiatica vi
distrugga”.
Secondo Angelo Maria Ripellino, Blok “apparve ai contemporanei in una luce di
leggenda, angelo caduto fra le paludi di Pietroburgo… e intorno a lui si formò
un alone di favola e nacque un culto”. In Blok, cioè, la figura del poeta e del
profeta convergono, fino al punto d’ustione, d’incendio. I Dodici e Gli Sciti,
scritti intorno alla Rivoluzione, sono l’esito estremo – apocalittico – della
sua poesia: il poeta, ora, vive in un’aura di fiamma, in nozze col rogo.
*
Affastello qui una serie di dati per capire lo stivaggio simbolico del testo di
Blok.
Gli Sciti sono i leggendari abitanti del Ponto: abili nell’arco e
nell’addestrare i cavalli, prodigiosi nella razzia e nell’arte orafa. Erodoto
dice, nel libro quarto delle Storie, che “quando uno scita abbatte il primo
nemico, ne beve il sangue”, lo scotenna e usa la sua pelle per foggiarsi
mantelli e faretre. Il cranio del nemico più odiato viene rivestito d’oro e
voltato per farne delle coppe.
Quando un re degli Sciti muore, il suo corpo viene “completamente spalmato di
cera; il ventre aperto, ripulito, riempito di cipero tritato, di aromi, di semi
d’apio e di aneto”. Per onorare il triste evento, vengono strangolati cinquanta
cavalli, i più potenti – svuotati di viscere, il corpo è rimpinguato di paglia
perché resti prestante nell’altro mondo – e cinquanta giovani.
La testimonianza più bella della postura esistenziale degli Sciti ci viene però
dallo storico romano Curzio Rufo. Nel settimo libro delle Storie di Alessano
Magno – tradotte in Italia per la Fondazione Valla – si dice dell’impossibilità
del grande re macedone, durante le razzie in Battriana, di sgominare gli Sciti.
Alessandro accoglie nella sua tenda una delegazione di Sciti perché “non hanno
un’intelligenza grossolana e primitiva e alcuni di loro coltivano la sapienza”.
Il più anziano di questi pronuncia parole che spiazzano il sommo guerriero:
> “Dall’Europa vai in Asia, dall’Asia passi in Europa; poi, se avrai sconfitto
> tutto il genere umano, muoverai guerra alle foreste, alle nevi, ai fiumi e
> alle bestie feroci… Eppure: anche il leone è stato qualche volta il pasto di
> piccolissimi uccelli, e la ruggine corrode il ferro. Niente è così forte che
> non possa essere messo in pericolo anche dal debole… Oltrepassa pure il Tanai:
> saprai quanto siano grandi i territori che occupano, ma non raggiungerai mai
> gli Sciti. La nostra povertà sarà più veloce del tuo esercito, che trasporta
> il bottino di tanti popoli”.
Così si coltiva, lungo la criniera dei secoli, la leggenda degli Sciti, il
popolo irraggiungibile.
*
Molti anni fa, nel 1964, il Saggiatore pubblicava, nella collana ‘Il
Marcopolo’, I popoli delle steppe, uno studio dell’archeologo tedesco Karl
Jettmar. È un libro bellissimo, ricco di immagini, che mostra i manufatti degli
Sciti: placche d’osso, spade, pettini e fibbie d’oro, tappeti e diademi. Quasi
sempre, gli Sciti ritraevano animali: il cervo e l’aquila, il grifone e il
cavallo. A volte, le bestie sono stilizzate, a nitor di simbolo. Tra le immagini
più audaci: un serpente che accerchia il lupo, fino a soffocarlo – sembra
sussurrargli frasi incantatorie. Un sapere tanto esatto prevede adorazione e
dialogo tra il guerriero scita e la bestia, una sorta di immedesimazione. Dilaga
la magia.
*
Ancora grazie a Eridano Bazzarelli, scopriamo la dimensione ‘lirico-politica’
dell’inno di Blok. L’epica degli Sciti viene rinnovata dagli artisti
‘rivoluzionari’: Skify (Gli Sciti) “gruppo di letterati e poeti, di intonazione
mistica”, guidati da Ivanov Razumnik e da Andrej Belyj, “proclamavano che base
della nazione e della rivoluzione doveva essere la coscienza nazionale russa… La
Rivoluzione avrebbe vinto in tutto il mondo perché i suoi portatori erano i
russi, un popolo giovane, fresco, selvaggio”. Alla Rivoluzione sociale, costoro
anteponevano quella spirituale e artistica. Nella rivista “Skify” – durò un paio
di numeri, editi tra il 1917 e il ’18 – apparvero testi di Sergej Esenin, di
Belyj e di Evgenij Zamjatin, l’autore di Noi. Ben presto, il movimento
d’avanguardia, quella oreficeria dell’anima, quello scrivere con l’arco a
tracolla, entrò in contrasto col regime bolscevico. L’arcangelico Aleksandr
Blok, che prestò voce e aiuto ai fasti della Rivoluzione, fu falciato dal
sospetto, dalla guerra civile, dal cupo inverno. Un mondo di speranze era mutato
nel sabba delle iene.
*
Nel febbraio del 1921, in memoria dell’ottantaquattresimo anniversario dalla
morte di Puškin, Aleksandr Blok, già alieno dalla storia, pronunciò un discorso
memorabile, La missione del poeta (lo trovate qui: A. Blok, L’intelligencija e
la Rivoluzione, Adelphi, 1978). Disse che “il poeta è figlio dell’armonia”, che
il poeta deve “liberare i suoni dalla nativa anarchia degli elementi in cui sono
immersi” e “condurre quei suoni all’armonia”. Soprattutto, osò dire che “pace e
libertà sono indispensabili al poeta per la liberazione dell’armonia”; osò
scagliarsi contro
> “quei funzionari che si preparano a indirizzare la poesia su rotte da loro
> prestabilite, attentando così alla sua segreta libertà, impedendole di
> adempiere alla sua misteriosa missione”.
Al poeta non restava che morire – “Noi moriamo, e l’arte rimane”, disse. Morì
pochi mesi dopo, era agosto – “la Rivoluzione, che doveva essere l’inizio di un
rinnovamento non solo della Russia, ma cosmico, si trasformò in un fatto
politico, poliziesco, burocratico” (Bazzarelli). Il cuore scita del poeta
dismise la sella, obliò le briglie. Cavalcava a pelo nudo, per sempre insicuro,
verso le praterie celesti – il suo sibilo, lassù, fu urlo; gli angeli decisero
per la calvizie.
*In copertina: Aleksandr Blok e la moglie Ljubov’ Dmitrievna, nel 1903
L'articolo “Noi amiamo tutto”. Aleksandr Blok, l’arcangelo della poesia russa (o
il mito degli Sciti) proviene da Pangea.