È un sabato pomeriggio d’aprile. Parigi pare celebrare l’arrivo della primavera.
La musica della vita invade le strade, la gente affolla i locali della Rive
Gauche, forse nascono nuovi amori. In me risuonano le parole di Olga Ivinskaja,
la donna che ha condiviso gli ultimi quattordici anni della vita di Boris
Pasternak:
> “E dirò a me stessa sospirando
> nell’impietosa luce del giorno:
> sì, sarò stata malvagia, e peccatrice,
> ma pur con tutto questo m’hai amata.”
Tengo strette le sue memorie, Prigioniero del tempo. La mia vita con Pasternak,
mentre mi appresto ad incontrare Irina Emelianova, sua figlia.
Mi accoglie sulla soglia di casa, con limpidi e sereni occhi azzurri. Vedere
quello sguardo terso, che ha incrociato quello di Pasternak, Ariadna Efron,
Varlam Šalamov… mi commuove nel profondo. Mi toglie il fiato. Ma la sua
gentilezza, il sorriso aperto, mi fanno subito sentire “a casa”, come se ci
conoscessimo da sempre. Respiro familiarità, quello stesso calore che emerge dal
suo libro Légendes de la rue Potapov, il leggendario appartamento a venti minuti
dal centro di Mosca, dove l’amore, la gioia e la poesia hanno convissuto con le
tragedie, le perquisizioni, gli arresti, le separazioni.
Mentre osservo le fotografie che campeggiano nel suo salotto, mi trovo a pensare
che se il verbo ha un potere, è proprio quello di far risorgere la “vera vita”.
Nel momento in cui Boris Pasternak muore, nel 1960, il suo romanzo, Il dottor
Zivago, conosce un destino eccezionale, un successo planetario. Sappiamo che
Olga Ivinskaja ha ispirato il personaggio di Lara e Irina quello della piccola
Katia. Ecco: ora, davanti a me, c’è Katia, il riflesso di Lara, non più due
eroine, simboli romantici, ma due donne vive, in carne ed ossa, che hanno
suggerito a Pasternak la concezione di un’esistenza e di un amore fuori dal
comune.
Sul treno che da Torino mi ha condotto a Parigi ho riletto per l’ennesima volta
il capitolo finale di Zivago, quello in cui Lara ripercorre la sua storia con
Jurij, di fronte alla sua salma, avanti all’inesorabilità della morte. In quelle
pagine, Zivago-Pasternak pare anticipare la sua fine, come per donare a
Lara-Olga gli strumenti per affrontarla, il diritto di piangere per lui da sola,
nella certezza d’un amore unico, fondato sulla più intima conoscenza reciproca,
qualcosa “che non veniva dal ragionamento, ardente, mutua. Istintiva, diretta”.
Come mi suonano vere, oggi, quelle parole… Irina mi mostra le foto di famiglia e
il verbo si fa carne. “Oh, che amore era stato il loro, libero, inaudito,
diverso da ogni cosa al mondo! Pensavano, come altri cantavano. Si sono amati
non perché fosse ineluttabile, non perché ‘travolti dalla passione’, come si
dice, falsando i fatti. Si sono amati perché così voleva tutto ciò che li
circondava: la terra sotto di loro, il cielo sopra alle loro teste, le nuvole e
gli alberi… Mai, mai, nemmeno nei momenti della felicità più gratuita, immemore,
li aveva abbandonati qualcosa di più elevato e appassionante: il godimento al
cospetto della generale armonia del mondo, il sentimento della loro appartenenza
a tutto ciò, la sensazione di essere parte della bellezza di tutto quello
spettacolo, di tutto l’universo. Da loro emanava questa comunione”.
È una comunione cristiana quella che emerge da Zivago e Pasternak la sperimenta
in prima persona con Olga Ivinskaja.
Mentre il poeta ci osserva dall’alto della libreria, Irina mi racconta le loro
tribolazioni: il primo arresto della madre, nel 1949, cui seguirono quattro anni
di reclusione nei gulag. Lei ha undici anni. Boris la “adotta” e le permette di
sopravvivere alla più grande miseria. In quegli stessi anni lo scrittore è in
corrispondenza con Ariadna Efron, la figlia di Marina Cvetaeva, al confino
aTuruchansk, nel nord della Siberia. È grazie al suo sostegno morale e
finanziario se Ariadna sopravvive a condizioni esistenziali estreme. Irina e
Ariadna divengono così le “figlie adottive” del poeta, figlie della sua anima,
in un autentico “arcipelago di cuori” che li legherà fino alla fine.
Tutto questo passa attraverso le parole di Zivago, una lezione di vita,
un’autentica “attrezzatura spirituale” che affonda le sue radici nel Vangelo,
nell’amore per il prossimo
> “questa forma suprema dell’energia vivente, che riempie il cuore dell’uomo ed
> esige di espandersi e di essere spesa”.
Queste le parole chiave che mi trovo a condividere con Irina, testimone vivente
di quell’amore straordinario
> “l’apice di una reciproca
> compatibilità di intenti
> che non ammette gradazioni
> e in cui nessuno sta sopra o sotto,
> è un’equivalenza di intenzioni
> dell’essere pieno nella sua interezza”.
Ripercorriamo assieme le Tre variazioni sull’amore, là ove Pasternak ne canta la
“selvaggia tenerezza”. Su tutto, prevale l’ottica di un “amore superiore” che si
stacca dalla terra per elevarsi verso il cielo. Dall’abbandono negli abbracci,
la sensualità dei corpi si fa “anima e dolcezza”, veicolo di elevazione:
> “ognuno degli istanti,
> in cui ci viene addosso come un alito
> d’eternità il fremito della passione,
> è un momento di rivelazione,
> di un approfondimento
> di noi stessi e della vita”.
Versi da incidere nel cuore, cui aggrapparsi come a un deltaplano. Rileggendoli,
ho sempre pensato: questo è “l’amore come dovrebbe essere” e ora ne sono
pienamente consapevole.
Grazie ad Irina Emelianova vivo un momento di autentica rivelazione. La
letteratura si fa vita. E quello che emerge è il quadro – umanissimo – di un
amore vissuto come “empatia, indulgenza, comprensione, compassione”, così me ne
parla Irina. Pasternak era lacerato tra l’amore per Olga e il matrimonio con
Zinaida Neuhaus, ma “mia madre lo rassicurava…”, mi racconta, “era felice con
lui, non gli ha chiesto di lasciare la sua famiglia… perché complicargli la
vita? Con la sua età e tutto il resto?”. Ecco un sorprendente sustine et
abstine, pronunciato con un tale equilibrio di forze da commuovermi.
“Mia madre ed io”, continua Irina, “abbiamo vissuto un secondo arresto due mesi
dopo la morte di Pasternak. Il potere, l’incarnazione del male, si è vendicato
sull’anima del poeta per questa ‘passione illegale’. Questo è stato il prezzo
che mia madre ha dovuto pagare, scontando nove anni in prigione. Il 30 maggio di
quest’anno avremo il nostro ‘giubileo’, a 65 anni dalla morte di Pasternak e dal
nostro arresto.”
Mi affretto a trascrivere queste parole sul taccuino: Irina le pronuncia in
francese e le ripete in russo. In questa comprensione-compassione, in questo
prezzo da pagare (per vivere e amare), c’è tutto Il dottor Zivago. Zivago, Lara
e Katia… ma soprattutto: Pasternak, Olga e Irina. Cuori pulsanti, sanguinanti,
attraverso cui passa la vita. Quella vera: la testimonianza di una grande luce
sulle persone che ne sono state irradiate, a cui essere grati, nel riflesso di
una lezione universale.
Marilena Garis
*In copertina: Boris Pasternak insieme a Olga e alla figlia, Irina
L'articolo Un arcipelago di cuori. Incontro con Irina Emelianova, la figlia
“adottata” da Pasternak proviene da Pangea.
Tag - letteratura russa
Memorie dal sottosuolo, pubblicato nel 1864, si palesa come una delle opere più
emblematiche di Fëdor Dostoevskij, segnando una svolta epocale nel suo percorso,
sia narrativo che filosofico. Questo romanzo, che ad un primo sguardo potrebbe
sembrare un semplice monologo psicologico, è in realtà un dedalo intricato di
riflessioni che sfidano il lettore a confrontarsi con questioni le più profonde
dell’umana vicenda.
Se la sua superficie può essere interpretata come la confessione di un uomo
recluso nel suo mondo interiore, la struttura ed il contenuto si rivelano come
critica diretta alla modernità, alle sue certezze ed alle sue illusioni – a
tratti le due cose assieme. In Memorie dal sottosuolo, Dostoevskij non si limita
a sondare l’animo umano, ma lo fa in un contesto che estrinseca la condizione
dell’uomo del suo tempo: un tempo in cui le grandi verità universali e i
tradizionali capisaldi morali sembrano essere non più valevoli, sostituiti da
un’intelligenza calcolatrice e razionale che si sforza di ridurre l’essere umano
a mero ingranaggio di una macchina sociale secondo un meccanicistico e
deterministico principio di ascendenza scientifica.
In questo contesto, il protagonista, l’“uomo del sottosuolo”, diviene simbolo di
una civiltà in crisi, un uomo che ha rinunciato alla speranza di trovare una
risposta filosofica congeniale alle grandi domande della vita, e si ritira nelle
latebre della propria identità interiorizzante: luogo oscuro dove la psiche è
preda delle sue contraddizioni più forti e delle sue fratture più dolorose. Il
sottosuolo, in questa accezione, non è tanto un luogo fisico, quanto l’emblema
della disgregazione dell’individuo, del suo allontanamento da una razionalità
confacente ai massimi sistemi morali (ontologici e tradizionali come della
società organizzata) e dello iato tra l’uomo e l’impronta della sua autentica
essenza.
L’opera, quindi, non si limita a esplorare unicamente la psicologia del
protagonista, ma si erge a riflessione teorica e filosofica sulla natura
dell’essere umano e sulla sua condizione esistenziale. Se da un lato l’uomo del
sottosuolo rifiuta la razionalità delle scienze positive come leva di progresso
e conseguimento della felicità, dall’altro lato non riesce a fuggire dalla
consapevolezza del suo essere nudato e esposto a ridde di stimoli esuli da
risposte attive: condannato alla solitudine, incapace di agire secondo una
logica di autodeterminazione e imprigionato nelle proprie ritorte elucubrazioni
interiori, nelle proprie nevrosi, nei sensi di colpa. La riflessione filosofica
che attraversa l’opera è lontana da ogni sistema dogmatico e metafisico, eppure
incapace di sfuggire dalla propria condizione di inadeguatezza.
Nel contesto della società che Dostoevskij descrive, l’individuo moderno è
costretto a fare i conti con il carattere di crescente meccanicità della vita
quotidiana, con una razionalità elefantiaca, con la riduzione dell’umano a
schemi e calcoli matematici, previsioni scientifiche, dove ogni emozione, ogni
impulso, ogni azione sembrano essere ricondotti ad una funzione deterministica.
In un tal mondo, l’individuo si percepisce come ingranaggio che opera secondo
regole prestabilite, incapace di emergere dalla sua condizione di prigionia
entro una realtà che non sente più sua. Eppure, nonostante il rifiuto del
razionalismo ottocentesco, l’uomo del sottosuolo non si consola nella sua
solitudine, né trova la liberazione nella ribellione contro i “due più due
quattro”: la sua coscienza si torce in una spirale di auto-accusa e di
impotenza, dove la riflessione non si traduce mai in soluzione concreta o
liberatrice, attiva e tale da forgiare il proprio senso al mondo, non risentita
e creatrice, ma in un continuo, straziante interrogarsi senza soluzione di
continuità.
La caratteristica principale di Memorie dal sottosuolo è proprio questa: l’opera
non offre risposte semplici. Al contrario, ogni risposta sembra aprire un nuovo
abisso, ogni apparente conclusione porta con sé la scia di nuovi interrogativi.
Dostoevskij non ci consegna un sistema filosofico coerente e consolatorio, ma ci
obbliga a confrontarci con l’inquietante verità della condizione umana:
l’incapacità di raggiungere una conoscenza definitiva, l’impossibilità di
liberarsi dalle proprie contraddizioni, il fallimento della razionalità come
perno di comprensione totale del mondo. Il sottosuolo, quindi, non è solo un
luogo spinoso di un estenuante cogito e di un’aspra sofferenza individuale, ma
diventa metafora di una condizione universale: quella di ogni essere umano che,
pur nella ricerca incessante di una verità possibile, è costretto a confrontarsi
con i limiti intrinseci della propria esistenza.
La riflessione sul “sottosuolo” come spazio oscuro ed inesplorato della psiche è
centrale nell’opera e ci abbrivia a un viaggio nell’interiorità che non conduce
mai a liberazione, ma solo a una permanente tensione tra il desiderio di
comprendere e la consapevolezza che ogni comprensione collide con
l’irrazionalità dell’esperienza umana. In tal senso, questa si configura come
un’opera irrazionalista che mette in crisi ogni tentativo di definire l’essere
umano attraverso categorie universali. L’uomo neoterico è troppo complesso,
troppo frantumato, contraddittorio, per essere ridotto ad un insieme di leggi
modellistiche frutto di calcolo e previsione. Eppure, nonostante questa
consapevolezza della propria condizione di impotenza, continua a cercare, ad
interrogarsi, a lottare con sé stesso in una spirale che non conduce a un solo
esito certo.
In questo complesso romanzo, quindi, Dostoevskij non ci offre una filosofia
dell’uomo che possa essere facilmente assimilata o sistematizzata, ma ci
presenta un tragitto senza meta, che costringe a confrontarci con le nostre
stesse inquietudini, i nostri dubbi, le nostre paure, e senza nessuna promessa
di riscatto. Questo è il grande paradosso dell’opera: la ricerca di senso non è
mai fruttuosa, ma è proprio in questa incessante ricerca che risiede la sua
potenza. L’autore, con maestria, riesce a dipingere la psiche in tutta la sua
prismatica complessità, senza cedere alla semplificazione o risolvere i
conflitti che ne emergono. L’opera diventa così un’autentica meditazione
sull’essere umano che pur nella sua dogliosa inadeguatezza, come per una
coazione a ripetere, insiste incessantemente a far ritornare il pensiero su sé
stesso fino a una sorta di spasmo intellettuale. Memorie dal sottosuolo non è,
dunque, solo un romanzo psicologico, ma una riflessione filosofica di un
esistenzialismo ante litteram che sollecita a confrontarsi con l’angoscia ed il
paradosso della nostra irredimibile condizione senza offrire mai la consolazione
di risposte conchiuse.
La struttura del romanzo non è semplicemente un espediente narrativo, ma
manifestazione tangibile della visione dostoevskijana della psicologia umana,
che, come il protagonista, si muove nella snervante, convulsa poiesi di pensieri
contraddittori ed inconciliabili. La narrazione è divisa in due parti, ma questa
divisione non è mai un semplice schema: specchia, in modo mirabile,
l’irrazionalità e la frammentazione della mente del protagonista, il quale
sperimenta l’inestricabile farragine dei propri pensieri secondo un avvicendarsi
di elementi non lineari eppure sottilmente ficcanti. La sua riflessione è
ciclica, sghemba, irrequieta. La mente, simile a uno sprofondo, non si
pacifica: ogni tentativo di risolvere la confusione interiore si dissolve in
spirali di dubbi e di incertezze che non hanno niente di apodittico e perspicuo.
Nella prima parte del romanzo, l’“uomo del sottosuolo” si rivolge direttamente
al lettore in un flusso di coscienza che è espressione massima dell’alienazione
e della solitudine più inciprignita. Così, in queste pagine, egli si svela senza
diaframmi, senza una maschera sociale che lo nasconda, e lo fa in un modo che
sfida ogni convenzione letteraria. Non si tratta di una riflessione pacata e
distaccata, ma di un fiume di pensieri che si accavallano, si contraddicono, si
disperdono in mille rivi senza mai trovare conclusione soddisfacente (il
protagonista è uno scontento cronico) e in tale flusso, non c’è unità di
pensiero, ma anzi si moltiplicano le fratture: il desiderio di affermare la
propria individualità e la consapevolezza che essa è solo una forma di cattività
e autoinganno conducono l’uomo del sottosuolo a una solitudine insostenibile.
Non vi sono cartografie esistenziali di condotta giusta e confacente al
raggiungimento della felicità ma solo una continua oscillazione tra il rimpianto
e la disillusione, tra la speranza che il pensiero possa fare luce su un senso
auspicabile e la disillusione più aspra. La narrazione stessa riflette questo
confliggere, questo andamento franto e nevrotico, spostandosi incessantemente
tra il disprezzo per la razionalità e l’impossibilità di eluderla.
La seconda parte del romanzo, in cui l’uomo del sottosuolo racconta alcuni
episodi significativi della sua vita, non cerca di ricreare una narrazione
cronologica o lineare. Gli eventi che descrive sono scuciti, sconnessi,
rapsodici come le sue stesse esperienze emotive e psichiche. Piuttosto che una
storia coerente, ciò che emerge è un mosaico di scene, ambiti e considerazioni
che, pur sembrando disarticolati, servono proprio a dare concretezza alla
sofferenza e all’impotenza.
I tentativi di relazionarsi con gli altri, di inserirsi nella vita sociale, non
sono altro che un protratto fallimento, un puntuale appuntamento con la propria
inadeguatezza. Ogni episodio che il protagonista rievoca diventa l’occasione per
una riflessione che non porta a chiarimento, ma che, quasi, inasprisce la
condizione di frustrazione esistenziale che lo connota. La vita di quest’uomo
kafkiano che non riesce a essere “neanche un insetto” è attraversata da un
eterno conflitto tra il desiderio di affermarsi ed il timore di essere
fatalmente sopraffatto dal mondo esterno, un conflitto che, come le sue
riflessioni, non trova mai una via di fuga, men che meno ariosa.
La sua condizione, quindi, è il perfetto riflesso della sua psiche lacerata,
ipertrofica, incapace di conciliare le proprie pulsioni più profonde con le
aspettative della società. Ma il sottosuolo in cui si rifugia è metafora di una
condizione esistenziale che travalica il semplice isolamento sociale. L’uomo del
sottosuolo è un individuo che ha scelto la solitudine, e non solo come ritiro
dal mondo, ma anche come forma di resistenza. Resistenza non tanto contro le
forze esterne, ma contro la propria stessa natura, contro il senso di impotenza
che prova di fronte ad una realtà che è incapace di soddisfare le sue esigenze
più ime. Il sottosuolo, in quest’ottica, è luogo di punizione, di
autoafflizione: l’isolamento, per il protagonista, non è mai liberatorio, ma
preferibilmente un incessante tormento che lo costringe a fare i conti con
pletore di fallimenti, con illusioni smarrite, con il decadere di ogni
possibilità di redenzione. Questo rifugio interiore è l’unico spazio in cui
l’individuo può ancora agire, ma in un contesto cervellotico e involuto che non
si traduce in scelte fattive ed è senza possibilità di riscatto o di
pacificazione.
Inoltre, egli si presenta come un “outsider” in senso totale, un individuo che
non appartiene a nessun gruppo, a nessuna ideologia, un essere che non accetta
nessuna mediazione tra sé ed il mondo. Questo rifiuto totale della mediazione
sociale (quella del pensiero è invece fin troppo invadente e elaborata, reattiva
e risentita in senso nietzschiano) lo rende incapace di inserirsi in qualsiasi
compagine sociale, sia essa religiosa, politica o culturale. Egli conduce
un’esistenza spettrale e defilata, che si esprime esclusivamente attraverso il
proprio rifiuto della realtà. Non è uomo che si oppone ad una società ingiusta o
che si ribella ad un ordine oppressivo, ma individuo che rifiuta ogni forma di
riconoscimento da parte del mondo esterno. Il suo isolamento è condanna a vivere
privo di strutture di significato e coordinate inclusive o di inserimento. In
fondo egli è cattivo (anche nel senso latineggiante di “prigioniero”) perché
rifiuta la dativa semplicità di ciò che è buono e elargivo di sé, ed è appunto
ostaggio di non altro che della propria bizantina, capricciosa e accidiosa
libertà di pensiero autoriferito.
Il “sottosuolo”, dunque, non è solo il luogo di una riflessione sulla condizione
dell’individuo moderno, ma anche simbolo rivelatore della crisi esistenziale che
segna un’epoca. Lì l’individuo non è mai in grado di liberarsi dei propri ceppi
interiori. La sua battaglia contro sé stesso è incessante e senza speranza, una
teoria di specchi in cui si perde dell’identità persino il pedissequo riflesso
singolo, a favore di una proliferazione di immagini; ed è proprio questa lotta
senza fine che rende l’opera dostoevskijana così potente e tragica. L’uomo del
sottosuolo continua a scavare, ad interrogarsi, a provare a superare il
conflitto che lo rode da dentro come un tarlo della ragione. Questo conflitto,
questa continua scissione tra il desiderio di azione e l’incapacità di agire, è
la vera essenza del sottosuolo: luogo in cui l’individuo si consuma e estenua
nella solitudine, nel suo senso di carenza e insufficienza e nella sua
incapacità di riconciliarsi con il mondo e con sé. Il sottosuolo è l’arena in
cui si svolge la lotta infinita tra la natura dell’uomo e le aspettative della
società, una lotta che non trova mai conciliazione.
Una delle questioni più urgenti e più pungenti che Dostoevskij affronta
in Memorie dal sottosuolo è quella che riguarda la tensione tra la razionalità
illuminista e l’irrazionalità magmatica che intrinsecamente caratterizza il
tragitto umano. Il protagonista si erge come un contro-esempio, radicale e
disilluso, alla visione ottimistica dell’essere umano, quella che immagina la
ragione ed il progresso come soluzioni che, se ben operanti, potrebbero condurre
alla felicità, alla realizzazione ed alla pace sociale. Questa concezione, che
si fonda sull’idea che ogni uomo possa essere guidato da principi morali e
scientifici, e che anzi essi possano sovrapporsi, che la razionalità possa
effettivamente orientare il corso degli eventi, viene demolita con una lucidità
ed una durezza che rasentano la ferocia. Il protagonista rigetta fermamente
l’idea di un uomo “razionale”, come quella che lo vede quale zoon politikon che
vive seguendo leggi universali e previsioni deterministicamente orientate,
nell’alveo di una vita socialmente condivisa. La sua esistenza si scontra
frontalmente con questo ideale dell’uomo come macchina razionale (“punta di
organetto” e tavola di calcoli); eppure, è proprio nella negazione di questa
razionalità che emerge l’essenza di una profonda crisi ammantata di superiorità
morale.
L’uomo del sottosuolo, per Dostoevskij, incarna la consapevolezza acuta che il
raziocinio, lungi dall’essere una chiave per la liberazione, diventa prigionia
asfissiante. La sua ribellione non è tanto contro il progresso o la scienza in
sé, ma contro la pretesa di considerare l’uomo come entità che può essere
completamente spiegata e regolata da calcoli:
> “…Allora, dite voi, la scienza stessa insegnerà all’uomo (benché questo sia
> già un lusso, secondo me) che in realtà egli non ha né ha mai avuto volontà né
> capriccio, e che egli stesso non è altro che una specie di tasto di pianoforte
> o di puntina d’organetto; e che, inoltre, al mondo ci sono anche le leggi di
> natura; sicché, qualsiasi cosa egli faccia, avviene non già per suovolere, ma
> da sé, secondo le leggi di natura. Di conseguenza, basta solo scoprire
> queste leggi di natura, e l’uomo non dovrà più rispondere delle sue azioni e
> vivere gli sarà estremamente facile. Tutte le azioni umane, s’intende, saranno
> calcolate allora secondo quelle leggi, matematicamente, come una tavola dei
> logaritmi, fino a 108.000, e riportate sul calendario; oppure, meglio ancora,
> usciranno delle benemerite pubblicazioni, sul tipo degli attuali dizionari
> enciclopedici, in cui tutto sarà elencato e indicato così esattamente, che al
> mondo ormai non ci saranno più né azioni, né avventure…”
L’infelice protagonista è scettico verso ogni visione che cerchi di ridurre la
complessità e la contraddittorietà del suo sé ad una formula. Riconosce con
dolore e lucidità che ognuno è capace di autolesionismo, di contraddizione, di
follia, di gesti che sfidano ogni previsione logica e scientifica, ma i suoi
viluppi di pensieri non lo conducono se non a una falsa libertà. La libertà,
certo, non può essere definita da un ordine logico predeterminato, ma se la
ragione è una prigione, essa non può che essere qualcosa che si sottrae a ogni
edificazione razionale.
Il protagonista si oppone in modo deciso a ogni concezione ottimistica della
società come sistema razionale e ordinato in cui ogni individuo trova una
propria collocazione data, contribuendo al bene collettivo secondo un pensiero
utilitaristico (si legga qui utilitarismo come dottrina filosofica e non nel suo
senso deteriore invalso). Questo ordine sociale non è altro che un paramento
dietro cui si cela la disumanizzazione dell’individuo, esattamente come avviene
nella “macchina sociale” evocata da Michelstaedter ne La persuasione e la
rettorica:
> “Si sono fatti una forza della loro debolezza, poiché su questa comune
> debolezza speculando hanno creato una sicurezza fatta di reciproca
> convenzione… mossi e motori ad un tempo, infallibili e sicuri tutti, in quanto
> attraverso di loro viva la vita del grande organismo con la sua previsione
> complessa e squisita, cristallizzata negli ingegni delicati e potenti che
> eliminano dal campo della vita umana ogni contingenza… E come perché uno metta
> in un organo meccanico una data moneta e giri l’apposita leva, la macchina
> pronta gli suona la melodia desiderata, poiché nei suoi congegni è
> cristallizzato il genio musicale del compositore, e l’ingegno tecnico
> dell’organista, così al determinato lavoro che l’uomo compie per la società,
> che gli è familiare e istintivo nel modo, ma oscuro nella sua ragione e nel
> suo fine, la società gli elargisce sine cura tutto quanto gli è necessario,
> poiché nel suo organismo s’è cristallizzato tutto l’ingegno delle più forti
> individualità accumulato dai secoli…”
Si vede, in definitiva, come ognuno sia privo di un legame autentico con il
mondo: simile a frammento che non può essere ridotto a ideologia collettiva o a
modello sociale organizzato. Tuttavia, dalla ribellione, emerge un dolente
paradosso. L’uomo del sottosuolo non ha il coraggio di abbracciare una libertà
autentica, quella che avrebbe richiesto un atto consapevole di
autodeterminazione, un passo che implica la scelta di una vita concreta, pur con
i suoi limiti, le sue imperfezioni e le sue sofferenze: la sua è una libertà
apocrifa, infatti, che non edifica ma distrugge. È distruttiva e
autolesionistica, accidiosa e stagnante: insiste dove duole proprio come “il
demone della perversità” di Poe, persevera nel desiderio di annientamento. La
consapevolezza di essere liberi allora tormenta, perché questa libertà non porta
con sé alcuna possibilità di adempimento di sé o di soddisfazione, ma solo il
peso di una continua, insostenibile emarginazione. L’incapacità di scegliere una
via, di agire secondo una volontà autentica, di formulare progetti concreti
spinge verso un’esistenza vacua, segnata dalla rassegnazione e dal tormento, ma
anche dalla paura di cedere alle stimolazioni del mondo esterno.
La critica alla razionalità, tuttavia, non si configura come un abbraccio
irrazionale della follia o del caos. E Dostoevskij, pur rifuggendo da ogni
romanticismo che celebri l’irrazionalità come un valore in sé, solleva una
domanda più radicale: fino a che punto possiamo veramente considerare l’uomo
libero? Se anche il pensiero più puntuto e risolto non è la via per la libertà,
se il rifiuto della razionalità porta solo a un’arte della distruzione, allora
che cos’è essa veramente? La riflessione è ben più profonda e inquietante:
l’uomo neoterico, nonostante la pretesa di essere libero, fa della sua stessa
coscienza una trappola, irretito nelle pulsioni più profonde, in angosce
inconfessabili e in passioni autodistruttive. La libertà, dunque, lungi
dall’essere una conquista, diventa una condanna, un dissidio interiorizzante e
risentito che non può essere risolto attraverso una razionalità progettante. Una
risposta né ontologica né illuministica ma esistenzialista potrebbe essere
quella di affrontare la realtà attraverso l’accettazione delle sue implicazioni
più tragiche.
L’ineguagliabile autore russo irrompe nel cuore della modernità sollevando la
domanda esistenziale fondamentale: che cosa significa essere veramente liberi,
se la libertà stessa è inestricabilmente legata alla sofferenza e alla
disillusione? La sua critica al razionalismo è un invito a riconoscere la
fragilità e la contraddittorietà dell’essere umano, la sua necessità
inestinguibile di trascendere persino ciò che è logico e perspicuo o più
auspicabile, scollinare modelli meccanicistici e segnati da cinghie di cause e
effetti, e ci ricorda infine che è troppo complesso e composito per essere
risolto da un modello teorico coerente e totale, che la sua libertà non può mai
essere pienamente definita, e che la sua vera natura è perennemente esposta alla
lacerante tensione tra desiderio di ordine e caos interiore.
La solitudine che pervade l’esistenza del sottosuolo è, al contempo, una scelta
deliberata e, come detto, una condanna irrevocabile. Da un lato, essa si
configura come difesa: una ritirata strategica dal mondo che l’individuo non
riesce più a comprendere, né ad accettare. Il protagonista rifiuta di essere
parte di una collettività che gli appare estranea, un sistema che non riesce ad
offrire risposte soddisfacenti alle sue domande e esigenze più ime. Egli non è
semplicemente un emarginato, un individuo che si ritira per scelta o per
necessità, ma un pensatore tormentato che si identifica in modo coestensivo, e
fino a coincidervi, col proprio spazio mentale come ultima risorsa per fuggire
il vuoto della vita quotidiana. Le convenzioni, le aspettative sociali ed il
progresso razionalistico non hanno nulla da offrire a chi, come lui, percepisce
il mondo come meccanismo alienante, incapace di adempiere alle urgenze più nude
dell’anima umana. In questo rifiuto, l’uomo del sottosuolo si palesa come una
figura solitaria, ma anche come una sorta di “testimone” di una condizione che,
pur dolorosa, appare ineludibile.
Tuttavia, questa solitudine diventa presto un dispositivo da tortura: non solo
lo allontana dagli altri, ma lo intrappola in un circolo vizioso di pensieri
ossessivi e di riflessioni che non conducono mai a una catarsi. Essa non è
liberatoria, ma un sortilegio che imprigiona la sua psiche, atrofizza l’azione,
tra sensazioni dolorose e autocritiche incessanti. L’esistenza diventa segnata
dal conflitto tra il desiderio di allontanarsi da un mondo indiscernibile e la
crescente consapevolezza che la solitudine stessa non offre alcuna risposta ad
un acuto tormento, ad un rimuginio che non approda né a soluzioni né a
rivelazioni.
Qui l’uomo non può trovare zona franca, come facevano gli eroi romantici, nella
solitudine come spazio di riflessione pura, di autoconsolidamento o elevazione
spirituale. Mentre per gli eroi romantici la solitudine era uno perno creativo,
un laboratorio dell’anima dove l’individuo poteva avvicinarsi a sé e alle verità
universali, per l’uomo del sottosuolo è la prigione della sua impotenza. La
ricerca della verità, allora, non è atto di liberazione, ma processo che si
rivela sterilmente doloroso: interminabile maelstrom che non porta mai alla
purificazione o al superamento del dolore. Lì non si costruisce una nuova
visione del mondo, ma il rifugio ultimo di chi ha praticato la rinuncia a
qualsiasi anelito di salvezza, il luogo dove il dolore esistenziale non può
essere elaborato.
L’uomo del sottosuolo non è pari al compiere scelte decisive, è drastico solo
nella negazione, non riesce a superare l’apatia che lo immobilizza acuendo il
suo stato tormentoso. L’esistenza stessa, in quest’ottica, è sofferenza senza
redenzione, un susseguirsi di riflessioni auto-assolutorie ma che non riescono
mai a raggiungere una verità definitiva o una pace. Lungi dall’essere una
condizione passeggera o un semplice rifugio provvisorio, diventa l’emblema
stesso della sua impotenza. La sua esistenza si nullifica, scivolando lentamente
nell’indifferenza e nell’autoafflizione. Soffre di soffrire, il suo patimento
rasenta l’astrazione: egli è la propria stessa malattia.
La tensione tra libertà ed azione, centrale in Memorie dal sottosuolo, svela la
natura profondamente ambigua e lacerata, sdrucciola e elusiva di una libertà
che, pur essendo riconosciuta come un diritto fondamentale, non è mai facilmente
conducibile alla capacità di agire. A ben vedere l’individuo non è incapace di
agire, ma sceglie deliberatamente l’inazione. La sua azione si limita
all’introspezione, a un vertiginoso flusso di pensieri che non si attua mai in
un movimento esterno, in un gesto che abbia una valenza trasformativa. La sua è
una riflessione autofaga.
Appare qui il passato come isola e fardello morale, come luogo di una vis
inattiva. Decifrare un ordine nel caos dell’esistenza porta solo ai segni di
un’astrusa alienazione, ciclo infinito che non approda a nulla di concreto.
Libertà come maledizione: condanna all’immobilità, all’impossibilità di fare
esperienza del mondo in modo autentico. L’intellettualismo del protagonista
diventa intrico di parole e concetti che non hanno alcuna relazione con il mondo
esterno, avvitandosi su un oggetto che non esiste.
In fondo il cuore della visione dostoevskjiana è lo smascheramento spietato di
una libertà malintesa (quella di poter scegliere arbitrariamente come mero
esercizio astrattivo che ha in sé il suo fine) a favore di una, ben più ariosa,
che riconosce l’ineluttabilità della condizione umana, la sua dimensione finita
e tragicamente contraddittoria.
Ma, come detto, la libertà del protagonista è una macchina da tortura.
L’uomo del sottosuolo è, in fondo, la rappresentazione di un’umanità moderna
che, pur avendo conquistato una via di uscita dal giogo delle convenzioni e
della tradizione, si ritrova incapace di utilizzarla per creare nuovi
significati nella tensione lacerante tra libertà e destino, tra il desiderio di
autodeterminazione e la fatalità che sembra legare ogni individuo a uno stato di
prostrante paralisi: il destino non è più visto come una forza esterna da cui
l’individuo è condannato a essere schiacciato, ma come un dramma interiore che
ha per teatro la sola mente del protagonista, un destino che è inevitabile non
per degli influssi esterni, ma per incapacità personale di affrontarlo. È così
che si allarga la forbice tra l’individuo e il mondo che lo circonda. Ma la
società lo soffoca non più del tanfo della sua stagnazione, del disfacimento
della propria stessa individualità che da essa si voleva riscattata.
Dostoevskij sfida il lettore nella sua capacità di non cedere al nichilismo più
sterile o al fatalismo pur esplorando le zone più latebrose della psiche, con
una lucida ma dolorosa analisi della realtà non mistifica né ignora, ma mostra
la condizione patologica di una “volontà di potenza” alla rovescia, di un
esecrabile e mortifero eterno ritorno che il protagonista compie su sé,
avvitandosi in una stagnazione spiraliforme.
L’opera suggerisce che la vera sfida per l’individuo moderno non sta nel cercare
soluzioni o risposte univoche, ma nel creare una propria interna tensione attiva
e liberatrice, proprio in limine tra autodeterminazione e azione, pensiero come
atto di autocoscienza e volontà di progettare per edificare un senso che non
eluda la fragilità dell’esistere.
Il sottosuolo è così la metafora di una disarmonia tipica della vita moderna e
l’opera di Dostoevskij, gioiello senza tempo e figlio del suo tempo, si presenta
dunque come una sfida ancora aperta.
Massimo Triolo
*In copertina: un ritratto di Valentin Serov
L'articolo Nelle latebre della psiche. “Memorie dal sottosuolo”: storia di un
outsider totale proviene da Pangea.
Speranza contro speranza non è il titolo di un libro – è un titolo d’onore.
Nella liturgia del 19 marzo scorso, che ruotava intorno a San Giuseppe, la
seconda lettura, dalla lettera ai Romani di Paolo, dice: “Egli credette, saldo
nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli”. Il
memorabile libro di memorie di Nadežda Mandel’štam, Speranza contro speranza –
ora in catalogo Medhelan – insegna che bisogna avere fede nella poesia. La
Storia potrà pure uccidere il poeta – deve ucciderlo, ai fini della sua riuscita
–, potrà ridurlo ai margini, a mendicare, ostaggio della propria fame – la
poesia resterà.
A Iosif Brodskij, Nadežda Mandel’štam fece l’effetto di “una minuscola brace che
brucia se la tocchi”. L’aveva incontrata nel 1972, prima di lasciare, per
sempre, l’Unione Sovietica. La brace divenne incendio – la donna martoriata e
senza parto fu la levatrice di migliaia e migliaia di poeti.
Non è inesatto chiamare Osip Mandel’štam, nelle notti a secchiate, con il tono
con cui si dice padre.
*
È curioso: i poeti seppelliscono il proprio cuore – un cuore, si dirà, capace in
radici o in tentacoli, a seconda della belva che anima quel rantolo – altrove.
Mandel’štam ha messo il cuore in Armenia, luogo che svasa in leggenda, dove il
cristianesimo primeggiò con forza di ribes, di mora selvatica. Boris Pasternak
preferiva la Georgia che nello stemma ha l’eroe che trafigge il drago. Anche in
questo si intuisce lo stigma di uno stile. A Tbilisi, Pasternak trova poeti
complici, amici – il più caro, Tician Tabidze, il Dylan Thomas georgiano, farà
la stessa fine di Osip: rapina stalinista, arresto, fucilazione, è il ’37 e come
da prassi nessuna notizia sulla sua fine allenta, per anni, la spossante attesa
dei cari. A Savan, a Suchum, “città di lutto, di tabacco e di aromatici olii
vegetali”, a B’hurakan, “celebre per la caccia ai galletti” che “rotolavano per
terra come palline gialle sacrificate al nostro cannibalesco appetito”,
Mandel’štam sta alla larga dai poeti. I suoi interlocutori sono geologi,
archeologi, chimici; scienziati, insomma. A Mandel’štam interessa
l’immaginazione ‘empirica’, il punto che congiunge poesia e scienza. Gli
interessa, per così dire, la zoologia del fraseggio, il modo in cui si sviluppa,
per gemmazione e potatura, quella boscaglia di versi. Così scrive in un
taccuino: “Fin da bambino sono stato abituato a considerare Darwin un ingegno
mediocre. La sua teoria mi sembrava sospettosamente stringata: selezione
naturale”. In Armenia – filo mancante a ricucire un cuore malmenato –
Mandel’štam trova il luogo di fusione tra letteratura e scienza:
> “Con Darwin ho concluso una tregua. Nella mia biblioteca immaginaria l’ho
> messo accanto a Dickens. Se pranzassero insieme, il terso della compagnia
> sarebbe Mister Pickwick. Non si può non lasciarsi incantare dalla bonomia di
> Darwin. È un umorista preterintenzionale”.
Anni dopo, in altro contesto, Italo Calvino scrisse che Galileo Galilei era “il
più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo” (rispondeva ad
Anna Maria Ortese dal trono del “Corriere della sera”, era il Natale del 1967).
In quel caso, era una opzione ‘letteraria’, di fatue ‘inclinazioni’; per
Mandel’štam è una questione di vita, di clinamen.
*
In Armenia, tra l’altro, Mandel’štam scansa le grandi città; preferisce i laghi,
le montagne, i borghi col broncio. Ad Aštarak “ho avuto la fortuna di vedere le
nuvole che celebravano sacre funzioni al dio Ararat”. In un passo del reportage,
il poeta cita Baloo, l’orso del Libro della giungla di Kipling. Nella mia
fragile mente, mi piace pensare al poeta come Mowgli: conosce la lingua di tutte
le bestie, è inaccettabile alla giungla come al mondo degli uomini – è scaltro e
innocente, canta e uccide.
Chissà quando Mandel’štam ha letto il Libro della giungla; chissà se imitava
Shere Khan, la tigre, o se preferiva i serafici silenzi di Bagheera, la pantera
nata dall’oscurità. Mandel’štam non è poeta abile nel ruggito; ha un passo
felpato, conosce l’arte dell’assalto, l’arte dell’indiarsi nelle attese.
Mentre è in Armenia, nella primavera del 1930, Mandel’štam è ammutolito dalla
“notizia oceanica” della morte di Majakovskij, il poeta leonino alla
Rivoluzione. Eccolo, un poeta che ruggisce! Capisce che con la morte di
Majakovskij qualcosa è morto per sempre – l’idea stessa, pur impaniata di
sangue, della Rivoluzione. Il viaggio in Armenia è pure questo, nel pudore:
compianto sul corpo morto di Majakovskij. I poeti sono come quelli che vanno in
battaglia sventolando il vessillo della Vergine: credono nelle milizie angeliche
più che nella forza dei droni. Che muoiano, seguaci dell’assurdo, è il loro
vanto.
*
Intendo dire: pur in viaggio ‘ufficiale’, Mandel’štam diffidava degli ufficiali
di partito, tramutò il compito in officio inaccettabile, in un’officina del
linguaggio che potremmo chiamare “Ufficio delle tenebre”.
Oh, sì, Mandel’štam sarà pur morto, come dicono, in un campo di transito presso
Vladivostok, nel dicembre del 1938; in realtà, egli si è creato un sepolcro in
Armenia. Egli è sepolto in quelle tombe che sembrano pietre che levitano: i
sepolcri dei santi e dei re, dove si rilassano i migratori tra un’Asia e
l’altra, perché il cielo è riposto lì, proprio lì, in quell’anfratto, piegato,
come un fazzoletto.
*
Prima di partire per l’Armenia, Mandel’štam lavorava al “Moskovskij komsomolec”,
un “giornaletto” che permetteva al poeta una “paga così basso che il denaro era
sufficiente solo per pochi giorni”. Nel secondo tomo delle sue memorie, Speranza
abbandonata – che è poi, un abbandonarsi alla speranza, anche se la speranza, a
volte, ha i tratti della iena; questo libro, in Italia, è in catalogo
Settecolori – Nadežda Mandel’štam scrive che “nella redazione tutti credevano
nel radioso avvenire e si sforzavano di accelerarne la venuta”.
A Mandel’štam l’Armenia pare il nuovo mondo: poco prima di partire, si licenzia.
“Ricevette un’attestazione di benevolenza in cui lo si diceva che apparteneva al
novero degli intellettuali a cui si poteva dare un lavoro, ma sotto la
supervisione dei capi del partito”. Per un poeta da tempo bandito dalle case
editrici statali – le uniche in azione – era un gesto di inattesa bontà.
Mandel’štam si infuriò, non accettava attestati, aiuti, pericopi di
partitocrazia ipocrita – i redattori di quel giornale, durante le purghe, furono
decimati.
*
Viaggio in Armenia – in Italia: edizione Adelphi, cura mirabile di Serena
Vitale – è un libro fantomatico, di araldica bellezza, che non si può
circoscrivere in generi. Varia dal reportage al bozzetto, dal poema in prosa al
trattato d’arte, dal dibattito scientifico al sulfureo lirismo. Il suo modello è
il folgorante Viaggio ad Arzrum di Puškin, il suo delfino è Bruce Chatwin.
Un libro del genere, va da sé, scontentò tutti, soprattutto chi aveva permesso
al poeta quel vagabondaggio. Incurante degli obblighi intellettuali verso la
patria, Mandel’štam comincia, dopo il Viaggio in Armenia, la propria catabasi
negli inferi del sistema sovietico. Vent’anni dopo, nel 1950, Marietta Šaginjan
firma il libro che avrebbe dovuto scrivere Osip: il suo Viaggio nell’Armenia
sovietica, affascinante resoconto delle sorti progressive dell’impero
stalinista, fu tradotto nel resto del mondo, le permise il Premio Stalin. Amica
di Sergej Rachmaninoff, armena d’origine, poetessa per vizio, si orientò a
Stalin, divenendone fedele – e feroce – scriba. Scrisse un romanzo su Lenin di
catastrofico successo.
Naturalmente, Nadežda ha per la Šaginjan, “minuscola e incartapecorita”, parole
violente: in un passo, descrive il suo “modo ripugnante di baciare la mano alla
Achmatova quando le capitava di incontrarla”.
*
Da tempo, Silvio Castiglioni lavora nell’opera di Osip Mandel’štam: Un po’ di
eternità è andato in scena la prima volta a Lucca, nel 2013 (regia di Giovanni
Guerrieri, storico sodale di Silvio). Improprio nominare “spettacolo” questo
atto sacro pensato “per Osip e Nadežda Mandel’štam”. Qualche giorno fa l’ho
rivisto, in un antro di Cattolica, un ostensorio di pietra, qualcosa come un
caravanserraglio, con i tappeti volanti intorno; metteva in scena Viaggio in
Armenia. Hanno ragione a chiamare quel libro “luminosissimo addio; un rito
d’addio”.
Per chi non lo ha mai visto, Silvio Castiglioni è sempre sbalorditivo. È l’unico
attore che conosco a farti capire che la mano è la mano – e la mano è in scena,
recita anche lei. Che il dito è un dito, l’unghia un’unghia, il naso è proprio
il naso. Castiglioni recita, ovvero: non dice delle parole scritte da altri in
uno spazio detto scena. Recinta il corpo nella recita. D’altronde: parola-corpo,
verbo che si fa carne; dunque: falange falena, mano lupo, gambe patriarca, gambe
binario morto, gambe Orient Express!
Castiglioni è all’oreficeria dell’arte attoriale. Castiglioni ha un corpo
soffiato nel vetro – pasta malleabile, sottoposta al fuoco dell’addestramento.
Un corpo che può farsi cigno e stoviglia, sfera e sfuriata.
Il rito dura, credo, quarantacinque minuti. Castiglioni interpreta il libro – un
libro piccino, indifeso, inaccettato – come lo sono le cose davvero
mastodontiche, regali. Castiglioni è Viaggio in Armenia; e dunque: è il
burocrate dall’“erudizione troppo chiassosa”, è la biblioteca di cactus e la
ragazza bionda, è Osip, il poeta – in fuga dallo stare in scena, troppo cristico
per inscenarsi – e le nuvole che flottano su Sevan; è la lama di rasoio sotto la
scarpa, per ogni evenienza; è l’uovo sodo – cotto nell’atto – che piaceva tanto
al poeta; è una teca di vetro che soffoca il poeta, farfalla sotto lo spillo
stalinista; è la poesia sul “montanaro del Cremlino” e il frutto rosso che
spergiura un Eden alle labbra. È il coccio, la cocciniglia, la coccinella. E
poi: Silvio che si leva brandelli plastici di faccia, lo sfacciato (ergo: una
Storia che ti soffia l’identità, la Storia avvolta di senza volto); Silvio che
sfila un lenzuolo, lo ondeggia, nostra signora Sherazade, mentre si proiettano
immagini dell’Armenia di allora; Silvio che si toglie le burocratiche calze, le
ufficiose scarpe, per svelare un piede dorato, spudorato riflesso di voluttuosa
regalità; Silvio che regola il viso sotto la panca, s’incapsula lì, e recita
quell’ultima, feroce pagina del Viaggio in Armenia, la leggenda del re recluso,
e “il sonno ti avvolge di pareti, ti mura”.
Silvio Castiglioni è Viaggio in Armenia
Ogni applauso è improprio – al rito segue: sprofondare nel sé – alcuni, al posto
dell’anima hanno giunchiglia, infinite stazioni di acquitrini, gli aironi a fare
la posta.
*
Ha qualcosa di simile al clown e al pope, Castiglioni. Occhi dalla scrittura
armena: divorano e possono piangere di ciò che hanno divorato. Se ha valore la
parola ‘invasato’, allora, poi, occorre rompere i vasi – che vuol dire, dare
rifugio all’acqua, concedere ai cocci di essere Micene, Mosca, kamen, la pietra-
Mandel’štam da cui, dopo la distruzione, ripartirà il respiro.
Lapidare, lapidazione di labbra.
*
Eccolo, lui:
> “Le mosche divorano i bambini, si attaccano a grappoli agli angoli degli
> occhi.
> Il sorriso di un’anziana contadina armena ha un’inesprimibile bellezza: è
> pieno di nobiltà, di sofferta dignità, e del particolare, solenne fascino
> della donna maritata.
>
> Vidi la tomba di un gigantesco curdo dalle dimensioni fiabesche e la presi
> come una cosa ovvia”.
Fiaba e calcolo, canicola e canini, Van Gogh e Linneo. Fu Adamo, in Armenia,
Mandel’štam.
I morti non urlano più, li abbiamo resi alla betulla, in corde, allievi del
merlo e della rupe cincia.
L'articolo “Al nostro cannibalesco appetito”. In Armenia con Mandel’štam
proviene da Pangea.
È un romanzo? Forse. È un’autobiografia? Può essere. È una biografia
immaginaria? Probabile. Confesso che questa ricerca di una definizione non mi
appassiona più di tanto. Preferisco andare al sodo e dire, forte e chiaro, che è
un libro meraviglioso. Mi sto riferendo a La vita di Arsen’ev di Ivan Bunin
(1870-1953), primo scrittore russo a ricevere il Premio Nobel per la letteratura
nel 1933. Figlio di aristocratici decaduti, un’infanzia isolata vissuta in
campagna a contatto con la natura, nel 1920 abbandonò la Russia comunista
rifugiandosi in Francia dove visse fino alla fine dei suoi giorni. Leggendolo è
facile capire che la sua avversione alla Rivoluzione bolscevica e al comunismo
era pre-politica e aveva ben poco a che fare con l’ideologia; nasceva piuttosto
dal suo animo prima ancora che dal suo cervello. Per le stesse ragioni durante
gli anni del suo esilio in Francia fu uno strenuo oppositore del nazismo.
Autore di grande raffinatezza, ne La vita di Arsen’ev Bunin ha messo
osservazioni, sensazioni, riflessioni legate all’esistenza del
protagonista Arsen’ev, un cinquantenne di origini nobili cresciuto nella
profonda e sconfinata provincia russa, esperienza molto simile a quella di Bunin
stesso, che ricorda la propria infanzia e giovinezza.
Considerato un legittimo erede dei giganti della letteratura russa, da Turgenev
a Gončarov da Puškin a Tolstoj, fu amico e discepolo di Čechov al quale lo
accomuna un realismo scarno, preciso, alieno da ogni affettazione, Bunin è prima
di ogni cosa un cantore dell’anima russa:
> «Non v’è dubbio che proprio quella sera mi sfiorò per la prima volta la
> coscienza che ero russo e vivevo in Russia (…) e d’un tratto la sentii, questa
> Russia, sentii il suo passato e presente, le sue selvagge, terribili e
> tuttavia affascinanti caratteristiche e il mio legame di sangue con essa…».
La vita di Arsen’ev è un libro sostanzialmente di sentimenti profondi, di
atmosfere e psicologie più che di trama, inseriti in un tempo ormai perduto in
modo irrimediabile fatto di nostalgie e di passioni. Il protagonista ricorda gli
anni della sua infanzia e poi della sua giovinezza, esplorando i temi della
nostalgia, del passare del tempo e dell’inevitabile perdita che accompagna la
crescita personale. Splendidi i ritratti della natura che accompagnano il
viaggio interiore del giovane.
Acutamente Andrea Tarabbia nella Prefazione all’edizione pubblicata dalla casa
editrice Medhelan riferisce che per Bunin lo scrittore non è un narratore, un
raccontatore di storie, ma un osservatore e ricorda che l’autore amava definire
il proprio libro un “poema in prosa”. Non a caso in realtà Bunin nasce come
poeta e tale resta anche nei suoi lavori in prosa. In effetti leggendolo è
facile accorgersi, pagina dopo pagina, che a farla da padrona è la vena lirica
delle sensazioni e dei sentimenti che hanno toccato il suo animo. Il
protagonista Arsen’ev viene guidato dai suoni, dai colori, dagli odori che
arrivano dai suoi ricordi giovanili. Sono quegli istanti, magici e irripetibili,
che ci segnano una volta per tutte. Un imprinting emotivo indelebile destinato a
segnare la nostra vita e le nostre relazioni con gli altri per sempre. Andando
avanti con gli anni ci accorgeremo che è questo il tesoro più prezioso che ci
portiamo dentro, molto più importante degli avvenimenti che hanno costellato la
nostra esistenza o delle opinioni che abbiamo avuto.
> «In questo viale una bella signorina ci veniva incontro con le amiche… e lei,
> di sotto al bizzarro cappellino, si illuminò tutta di un sorriso sinceramente
> gioioso. Dinanzi al padiglione zampillava una fontana dal getto a ventaglio;
> mi sono rimasti impressi per sempre la sua freschezza e l’odore delizioso dei
> fiori che essa irrorava e che, come seppi dopo, si chiamavano semplicemente
> ‘tabacco’. Mi sono rimasti impressi perché quell’odore si associò per me a un
> sentimento di innamoramento, di cui per la prima volta in vita mia fui
> dolcemente malato per alcuni giorni. Grazie a lei, a quella signorina
> provinciale, non posso ancor oggi sentire senza emozione l’odore del tabacco,
> e lei non ha nemmeno mai saputo che io sia esistito e che sempre durante tutta
> la mia vita ricordavo lei e la freschezza della fontana non appena soltanto
> sentivo quell’odore…»
La vita di Arsen’ev è il capolavoro di queste epifanie emotive; posso
testimoniare che leggerlo significa scoprire un autentico libro del cuore da
tenere sempre a portata di mano, in modo particolare nei momenti difficili della
nostra vita. Un balsamo emotivo in grado di lenire le tante ferite che
l’esistenza ci inferisce. Quando descrive certe sensazioni Bunin ha lo
straordinario potere, per certi versi magico, di trasformare la percezione
dell’attimo, tramutando piccoli eventi personali quasi insignificanti in valori
universali capaci di superare ogni confine di tempo e di spazio. Per capirli,
farli propri e tenerseli stretti non è necessario avere vissuto nella sperduta
campagna russa di un secolo e mezzo fa come Arsen’ev, basta aprire il proprio
animo al senso più autentico dell’esistenza.
Silvano Calzini
L'articolo Su Ivan Bunin, il cantore della selvaggia e terribile Russia.
Leggerlo è un balsamo proviene da Pangea.