Il ridicolo spettacolo che in questi giorni di torrido caldo estivo va in scena
dal teatro sempre attivo dei social con l’amletico dubbio (si fa per
dire!) “presentazione dei libri, sì o no?” fa lo stesso effetto della mosca che
molesta la pennichella pomeridiana.
A leggere questi messaggi parrebbe che da un giorno all’altro le presentazioni
dei libri siano diventate inutili e soprattutto improduttive: per i librai che
devono mettere a disposizione e allestire i loro ambienti ricavandoci poco o
nulla, per le case editrici che già da tempo investono pochissimi denari in
queste iniziative e, infine, anche per gli stessi scrittori che si sono accorti
(sempre con maggiore lentezza degli altri, sia chiaro) dell’ininfluenza – sulle
vendite e sulla auspicata notorietà – di queste futili sagre dell’ovvio e della
banalità.
Il bello, però, è che ad aggiungersi alla compagnia dei tristi teatranti siano
proprio gli stessi protagonisti della cosiddetta scena culturale che fino a
qualche giorno fa smaniavano per esporsi, per presentarsi, per far parlare di
sé… per coprirsi di ridicolo, insomma. Gli stessi che, pur di mostrare la
copertina del proprio libro, erano disposti a macinare chilometri viaggiando
dalla Pro Loco di Cuneo alla Società Bocciofila di Gioia Tauro anche nella
stessa giornata; i medesimi che avrebbero fatto carte false pur di esporre i
loro modesti prodotti artistici nel primo tinello disponibile a quel cenacolo di
amici e di parenti che (non lo dicono, ma è così!) non ne possono più di avere
nel proprio giro “uno che scrive”.
Nella mia città, una piccola libreria che programma almeno un paio di
presentazioni alla settimana occupa lo spazio di una piazzetta a essa antistante
e là, tra il via vai di chi porta a casa la spesa, tra l’insolenza di chi urla
parlando al cellulare e il bivacco scomposto di chi occupa le gradinate
pubbliche che collegano quella piazza alla strada che vi passa sopra, lo
scrittore di turno prova a interessare qualcuno parlandogli da un microfono con
amplificazione, come i Cristiani Evangelici che testimoniano ai passanti la loro
conversione religiosa e il cammino di fede, della sua ultima fatica che con ogni
probabilità nessuno degli astanti acquisterà e mai leggerà. Recentemente, poi,
ho preso parte alla presentazione del saggio di un filosofo nostrano che si è
tenuta in un bistrot di trenta metri quadri dopo la quale è stato servito, con
la formula della “consumazione obbligatoria”, un aperitivo rigorosamente “a
pagamento”. Ho dovuto inventare uno stratagemma per trovare una via di fuga e
sottrarmi a questa laida estorsione.
Allora, alla luce di tutto ciò, chiedo a voi, scrittori della vanagloria, poeti
da diporto, artisti della fanfaluca: davvero trovate utile e vantaggioso
ciarlare dei vostri raccontini a un pubblico di persone che nella maggior parte
dei casi vi è seduto davanti perché non aveva di meglio da fare o perché in
libreria, al bar, nella saletta parrocchiale in cui vi esibite c’è l’aria
condizionata? Veramente vi piace stordirvi e mostrare le vostre miserie
letterarie alla ridda dei saloni del libro o ai Barnum dell’arte in cui tutto è
soltanto siparietti, convenevoli, spettacolo, caciara e marketing? Ma davvero
trovate divertente e soddisfacente scrivere frasi di circostanza e dediche
fasulle, sotto le quali mettete pure la vostra firma (un’aggravante!), a persone
che non conoscete e che voi, invece di identificare come mitomani, chiamate
impunemente “lettori”? Quante foto che vi ritraggono mostrare giulivi e
soddisfatti la copertina del vostro libro appagheranno il vostro patologico
narcisismo? E quante sedie vuote dovrete ancora contare alle vostre
presentazioni prima di capire, una volta per tutte, che la giostra si è fermata
e che il giostraio è morto?
È vero, lo so, le cose non vanno meglio neppure alle rassegne letterarie e ai
festival del libro. Soprattutto quelli estivi che ora ci attendono, dove
purtroppo al ridicolo si aggiunge inesorabile anche il malcostume.
L’inarrestabile décadence di quest’epoca svaligiata, avvilita e colpevolmente
traviata si manifesta con preoccupazione quando, ahimè, i suoi segni giungono
proprio dagli ambiti artistico-culturali. Se un tempo lo hippie era la reazione
al pettinato conformismo borghese, oggi la sciatteria dei costumi (altro che la
kantiana metafisica!) è essa stessa il conformismo, la regola più che
l’eccezione. Il capellone, il figlio dei fiori, il punk, costituivano il
fenomeno culturale che investiva polemicamente una società chiamata, in un modo
o nell’altro, a farsene carico con confronti e analisi. Oggi, invece, pare che
la parola d’ordine sia soltanto la pigra strafottenza che livella tutto ai
propri confortevoli bisogni, alle proprie trasandate necessità, ai propri
infantili capricci.
E così, non è insolito assistere a festival letterari in cui i travet della
scrittura presentano i loro improbabili capolavori in pantaloncini, bermuda,
camicie hawaiane sbottonate fino all’ombelico, scarponcini da spiaggia e
infradito. Poi, collassati come dei Proust di periferia su poltroncine e cuscini
d’ogni foggia, si avvicendano nel resoconto balbettante del valore artistico del
loro nuovo romanzo (leggasi “esposizione della trama”, “sintesi o riassunto del
racconto”) a un pubblico che, in giornate di arsura estiva, forse meriterebbe di
più per coraggio e resistenza.
Ma tant’è, la conventicola delle nostrane lettere si riconosce anche da
questo glamourstraccione, da questa apparente nonchalance da artista incompreso
che alla fine si riduce allo smercio (magari!) di qualche altra copia del
proprio libriccino, a uno stravagante selfie per Instagram e a poche altre
ridicole bramosie. Che tristezza!
È in questi casi di esasperazione che, maledicendo l’attimo in cui ho deciso di
uscire di casa e di assistere a quest’inesorabile débacle, mi sovviene il
titolo, bizzarro ma implacabile, di quell’anomalo libro di Peter Bichsel: Al
mondo ci sono più zie che lettori, libro che i nostri scrittori e organizzatori
di rassegne letterarie un giorno dovranno leggere e tenere a mente come viatico.
Ahimé, «La vita o è stile o è errore» ebbe a dire un tempo Giovanni Arpino.
Già, un tempo!
Vincenzo Liguori
*In copertina: Giacomo Balla, Autosmorfia, 1900, Collezione privata
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