Tag - Vincenzo Liguori

La musica non ama le parole, non ama le inutili ciance, il chiacchiericcio, il futile trastullo salottiero
La solerzia con cui spesso si attribuiscono alla musica virtù che naturalmente le sono estranee, induce molte menti deboli a produrre lavori o a esprimere giudizi di una scandalosa e sconcertante vacuità. Il brusio molesto di certe considerazioni fatte a piena voce o il grafismo isterico di anonimi e sedicenti teorici, sovente dimenticano l’aspetto più importante della faccenda: la musica non ama le parole. Dopotutto è la smania interpretativa ad alimentare la fastidiosa chiacchiera che di volta in volta nasce intorno a un’opera d’arte o a un concerto. Senza un così chiassoso stimolo, questa imbarazzante pratica finirebbe motu proprio. Ma per fortuna, l’opera è chiusa, serrata su sé stessa, fortemente protetta da un’impenetrabile solitudine. Così, tra la musica e la parola agisce una considerevole distanza. Piedi, miglia, incalcolabili chilometri le separano. Come per le Vite parallele di Plutarco, è solo la circostanza artistico-letteraria a renderle affini, null’altro le lega, niente le tiene insieme. E una solenne estraneità ne celebra il mistero. La musica non ama le parole se non sono canto. Non ama l’insolenza del parlato o di qualsiasi discorso che intenda sottrarle lo scettro regale col quale essa impone le sue diaboliche leggi. La musica tollera soltanto il verso misurato di un refrain, la sillaba pronunciata in accordo con i suoni, il soffio sottile di un’ugola leggera. Come un violento sbuffo di maestrale essa ci rammenta i suoi severi comandamenti dinanzi ai quali timidamente chiniamo il capo. La parola le si affida con lo stesso candore con cui il discepolo segue il maestro. E come gli antichi pitagorici, spesso non fa domande. La musica non ama le parole se non sono canto. Non ama le inutili ciance, il chiacchiericcio, il futile trastullo salottiero. Come ogni spasimo d’amore è flatus vocis, così l’introduzione al concerto, la didascalia o il programma di sala non sono che ridicoli esercizi di stile, vuoti accademismi, ékphrasis. Tuttavia qui la parola non accampa pretese, fa quello che deve e ritorna in silenzio da dov’era venuta. Si dice che Beethoven componesse a parole, che sul suo taccuino, anziché note, scrivesse frasi. Così qualcuno chiedeva perplesso: «Cosa fa?», e mentre il maestro continuava i suoi nervosi appunti, un altro rispondeva: «Compone musica». Ma Beethoven amava un solitario grafismo. Scriveva parole di canti immaginari o per una musica che soltanto lui ormai sentiva. I taccuini erano il suo nervo acustico e sostituivano le sue orecchie malate. Con la scrittura cercava di rievocare suoni che aveva perso per sempre. Adesso ascoltava soltanto con gli occhi. Antonio Donghi, Strumenti musicali, 1935 Dicendo che il poeta – un musico in potenza – conosce il segreto della parola e il suo insondabile mistero, non si afferma nulla di nuovo. La rima, l’enjambement, l’anafora, l’ossimoro assecondano lo stupore e annullano la frustrazione che il parlato quotidianamente imprime alla voce ma, bisogna dirlo, la poesia non è ancora musica in senso assoluto. I sussulti del tenace Rousseau per le opere di Pergolesi sono certo legati ai melodiosi accenti della lingua italiana, eppure qualcosa gli sfuggì. Ciò che egli non comprese mai è che parlare è tutt’altro che scrivere, tutt’altro che cantare. Il suo agognato ritorno alle meravigliose sonorità di una lingua primitiva si sfasciò proprio dinanzi all’impossibilità che il segno linguistico o la parola scritta assomigliassero, una volta per tutte, al canto. Insomma, la sua sfrenata convinzione che il linguaggio fosse nato esclusivamente per esprimere i sentimenti, gli fece trascurare tutto il resto. Cosicché un Da Ponte non compose arie o cavatine semplicemente mettendo insieme endecasillabi o alessandrini. Non intrecciò scene o sgranò versi distillando dello stupido sentimentalismo. Egli, invece, cesellò preziosi monili che il solito Mozart mise in musica divinamente. Ci sono ancora troppe parole sulla musica o nell’amalgama di suoni che proviene da quest’Occidente malato e ormai alla fine. (E non si ricorra al solito Spengler per darmi ragione ma si leggano i nostri Ceronetti o Sgalambro e poi ne riparliamo). Che la musica debba essere spiegata, commentata o discussa, mi annoia. Che qualcuno debba dirmi questo o quello su un quartetto di Haydn o su una sinfonia di Mahler m’immusonisce. È come se dinanzi a L’origine del mondo di Gustave Courbet, dinanzi, cioè, a quella fica pelosa d’altri tempi, dovessimo dire chissà che, invece di rimanere in silenzio o in voluttuosa contemplazione. Non so come dire, ma il commento al Cinque maggio manzoniano o la parafrasi de L’infinito di Leopardi si muovono ancora nel campo dell’adaequatio rei et intellectus. Lo spiegone sul significato delle quattro celebri note all’inizio della Quinta di Beethoven, invece, appartiene alla categoria delle cose vana et futilia o, per così dire, a quella delle chiacchiere da bar. Fintanto che la parola commenta sé stessa, rende un servizio all’umanità. L’esegesi di un testo antico, il commento rabbinico alla Scrittura, la recensione di un romanzo e finanche la postilla giornalistica a un articolo uscito qualche giorno prima rendono il loro apostolato. Ma quando la parola prende il sopravvento e sgomita in ambiti che non le competono o in cui è addirittura esclusa, non si può che subirne l’irritazione. Evaristo Baschenis, Accademia musicale, 1665 ca. In un saggio del 1838, con una sola frase, Robert Schumann dà un’idea della musica e dello stile di Chopin come chiunque dotato di senso della misura dovrebbe fare in questi casi:  > «Chopin – dice costui – ormai non può più scrivere nulla, che alla settima od > ottava battuta non debba farci esclamare: è suo!».  Anteponendo l’ammirazione agli inutili e superflui tentativi di analisi, alle congetture fasulle o addirittura alle chiacchiere, Schumann evita di parlare della musica di Chopin lasciando intendere che quella musica parla già da sé.  Un tempo la musica dovette sopportare l’affronto della notazione. In un attimo il suono si trasformò in segno e, come si è detto, in un grafismo isterico. Così, da un giorno all’altro, dall’orecchio la musica passò all’occhio. Il suo mondo di fluttuanti vibrazioni, alieno dalla scrittura e dalla parola, improvvisamente inciampò nella grossolana ovvietà della grafia. Una mole di ruvida carta stampata oggi sopravanza alla delicata vita dei suoni.  Senza tener conto che ogni parola è un fenomeno extramusicale, Mauricio Kagel si lascia andare a questa dichiarazione che mette i brividi per la sua poca lucidità:  > «L’errore del passato fu credere che la musica non avesse, in quanto arte > autonoma, bisogno di un commento esemplificativo, un’illusione che non > corrispondeva ai fatti. Entrambe, sia l’arte che la musica, non possono fare a > meno della parola per coinvolgere in un costante processo educativo quanti > siano pronti ad accoglierle e percepirle».  > > (Sulla consapevolezza e i compiti dell’artista, 1979) Qui siamo nell’ambito della pedagogia o in quella che, meno sprezzante del solito, Adorno chiamava «musica pedagogica». Si vuole che la musica diletti, che intrattenga e, quando non lo fa o non ci riesce, quando cioè il pubblico si annoia o, come spesso accade, “non capisce”, si ricorre alla parola «in un costante processo educativo». Educare è compito della scuola (quando ci riesce), delle parrocchie e, in extremis, di quelli che una volta si chiamavano Istituti di correzione e pena. All’arte sia lasciato il piacere di stupire, di meravigliare e infine di sabotare il mondo. Alla musica, invece, sia ridato ciò che le spetta: l’acustica delle cattedrali e il silenzio memorabile dell’ascolto. È vero, si è detto che la musica non ama le parole se non sono canto. Ma del resto, per il canto, non ci sono già gli usignoli? Vincenzo Liguori *In copertina: Hendrick ter Brugghen, Donna che suona il liuto, 1624 ca. L'articolo La musica non ama le parole, non ama le inutili ciance, il chiacchiericcio, il futile trastullo salottiero proviene da Pangea.
October 28, 2025 / Pangea
Graffi, grafie e graph. L’eresia della scrittura musicale
> Viviamo nell’era del dio della Carta. La musica ne è soggetta proprio come > tutto il resto. Se escludiamo il jazz o le orchestre di musica leggera, che > hanno conservato i concetti di un tempo, abbandonati dalla musica classica, > […] non c’è più una singola nota di un fugace arpeggio nella musica > occidentale odierna – la nostra musica – che non sia stata precedentemente > disegnata con un cerchio, una coda e piccoli uncini, né una singola sfumatura > o inflessione che non sia stata segnalata, come un rallentamento in > autostrada, da un piccolo disegno o da un segno ad hoc, su un foglio di cinque > righi o suo equivalente, da quell’altra divinità mitica che è diventato il > Compositore. > > Jacques Chailley, La Musique et le Signe, Edition d’aujourd’hui, > Plan-de-la-tour, France, 2004, p. 5 (trad. mia). Che la grafia sia segno o lasci un segno è cosa nota e per lo più scontata. Lo scrivere, atto innaturale e volgare che infatti i re e le divinità concedevano a scribi e profeti, dopotutto è quella cosa lì, tracciare sulla cera, sulla carta, sul muro o sulle porte delle latrine le proprie bêtises. Eppure, che a un certo punto la musica abbia sentito la necessità di dotarsi di una grafia, di un segno, di qualcosa che la rappresentasse, lascia interdetti. Benché questo segno non le sia congeniale e con essa non abbia alcuna contiguità, la musica ne ha voluto uno tutto per sé come la zitella che non vedeva l’ora di prendere marito. Cosicché il suo mondo dirozzato dal segno grafico e dalla parola improvvisamente inciampa, diciamo così, nella grossolana ovvietà della grafia che, nel suo caso, diventa notazione. La musica, insomma, come un linguaggio qualsiasi, avverte l’inspiegabile necessità di dotarsi di un segno e infine lo ottiene, ma in un attimo perde la noblesse che il phàrmakon della scrittura proditoriamente le ha sottratto. Musicisti e strimpelloni dovrebbero tenerne conto invece di scimunirsi con Études d’exécution transcendante e Gradus ad Parnassum. A costoro farebbe bene adottare un po’ di quell’intransigenza con la quale nel Fedroplatonico Thamus schivò le blandizie del dio Theuth che gli presentava le miracolose virtù della scrittura. Invece il loro grafismo isterico e il loro ottuso narcisismo trascurano la parte più importante della faccenda: la musica non ama l’insolenza del segno o di qualsiasi discorso che intenda sottrarle lo scettro regale con il quale impone le sue diaboliche leggi. Con il nobile pretesto di tracciare una provvisoria e non esaustiva storia della Scuola pianistica a Napoli dall’Ottocento a oggi, Girolamo De Simone (Napoli, 1964) è tra i pochi musicisti contemporanei che si è posto il problema della grafia musicale concettualizzandolo. L’esito di questo lavoro è depositato nell’ultimo capitolo del suo nuovo saggio intitolato, appunto, Graffi e Grafie. Pianismi e pianisti a Napoli. Non che per le sue composizioni De Simone abbia completamente abbandonato la tradizionale notazione musicale (già perlopiù deformata o adattata alla nuova frontiera della sua espressione artistica), ma ciò che qui si fa interessante e si impone per novità di pensiero è l’adozione e l’uso personalissimo del graph, del «segno mobile» che egli prende dalla lettura e dallo studio delle poche e quasi sconosciute opere di Aldo Braibanti (1922-2014), il libero pensatore piacentino che alla fine degli anni Sessanta subì un processo per plagio – credo unico in Italia – culminato con la sua condanna a quattro anni di carcere. Il graph, afferma Girolamo De Simone, deve poter attestare e garantire la «totale mobilità formale» necessaria alla ricerca e alla nascita di nuovi linguaggi sonori. Perciò esso, più che segno vero e proprio, più che forma cristallizzata e stantia di notazione musicale, è l’idea stessa che incoraggia il cambiamento, è ciò che «trascorre al di là della dialettica», è il nome dato allo «sforzo di ricondurre lo strumento inorganico all’organo». Per tale motivo, il graph deve essere libero, deve potersi muovere, poter scorrere, scavare, solcare e ferire come il graffio con il quale condivide esiti e assonanze linguistiche. Dunque, il graph di Braibanti nella ripresa concettuale che ne fa De Simone si accresce di senso fino al punto che la sua mobilità diventa sinonimo di passaggio generazionale, di attraversamento, di transito verso nuovi codici e nuovi stili. La stagnazione del pensiero che produce il tanfo mucido delle accademie è assolutamente ostile a Girolamo De Simone che in Graffi e Grafie si confronta con il pensiero acratico dell’“eretico” Braibanti. Sì, acratico è l’aggettivo che Braibanti preferiva al più comune anarchico. («Acrazia, e anticrazia come suo aspetto operativo, vogliono essere non tanto parole da sostituirsi alle classiche parole dell’anarchia storica, quanto indicazioni eloquenti della necessità di estendere l’indagine anarchica al di là delle sue accezioni strettamente politiche, cercandone l’origine e i fondamenti in uno spazio più comprensivo»: A. Braibanti, Impresa dei prolegomeni acratici). È in questo sistema di libertà che opera il graph di Braibanti e muove la sua reinterpretazione in chiave storico-musicale Girolamo De Simone. Il graffio sfregiante che il musicista napoletano individua in origine nella scrittura rarefatta delle composizioni di Luciano Cilio (1950-1983) fino a quella concettuale e al limite del silenzio di Gabriele Montagano (1960) e poi nella musica di Enrico Renna (1952), di Lorenzo Pone (1991), per prolungarsi, in linea di continuità, con la propria produzione musicale, come nel recente Liturgie du souffle,sfruttando il trait d’union generazionale di Eugenio Fels (recentemente scomparso), conferma la lucidità della sua intuizione. La mobilità acratica del graph che se ne sbatte del potere costituito e della tignosa supponenza delle élites accademiche è la radice comune della produzione artistica dei compositori che a Napoli, città ingrata come poche, hanno operato nella seconda metà del Novecento e che, con più difficoltà che altrove, continuano ancora oggi la loro ricerca sonora. Una ricerca che, per ora, è registrata in dettaglio e con pignoleria nell’agile saggio di Girolamo De Simone pubblicato da Konsequenz. Vincenzo Liguori *In copertina: Theodoor Rombouts, Il suonatore di liuto, 1620 ca. L'articolo Graffi, grafie e graph. L’eresia della scrittura musicale proviene da Pangea.
July 16, 2025 / Pangea
Le rassegne letterarie ai tempi del narcisismo della mediocrità
Il ridicolo spettacolo che in questi giorni di torrido caldo estivo va in scena dal teatro sempre attivo dei social con l’amletico dubbio (si fa per dire!) “presentazione dei libri, sì o no?” fa lo stesso effetto della mosca che molesta la pennichella pomeridiana. A leggere questi messaggi parrebbe che da un giorno all’altro le presentazioni dei libri siano diventate inutili e soprattutto improduttive: per i librai che devono mettere a disposizione e allestire i loro ambienti ricavandoci poco o nulla, per le case editrici che già da tempo investono pochissimi denari in queste iniziative e, infine, anche per gli stessi scrittori che si sono accorti (sempre con maggiore lentezza degli altri, sia chiaro) dell’ininfluenza – sulle vendite e sulla auspicata notorietà – di queste futili sagre dell’ovvio e della banalità. Il bello, però, è che ad aggiungersi alla compagnia dei tristi teatranti siano proprio gli stessi protagonisti della cosiddetta scena culturale che fino a qualche giorno fa smaniavano per esporsi, per presentarsi, per far parlare di sé… per coprirsi di ridicolo, insomma. Gli stessi che, pur di mostrare la copertina del proprio libro, erano disposti a macinare chilometri viaggiando dalla Pro Loco di Cuneo alla Società Bocciofila di Gioia Tauro anche nella stessa giornata; i medesimi che avrebbero fatto carte false pur di esporre i loro modesti prodotti artistici nel primo tinello disponibile a quel cenacolo di amici e di parenti che (non lo dicono, ma è così!) non ne possono più di avere nel proprio giro “uno che scrive”. Nella mia città, una piccola libreria che programma almeno un paio di presentazioni alla settimana occupa lo spazio di una piazzetta a essa antistante e là, tra il via vai di chi porta a casa la spesa, tra l’insolenza di chi urla parlando al cellulare e il bivacco scomposto di chi occupa le gradinate pubbliche che collegano quella piazza alla strada che vi passa sopra, lo scrittore di turno prova a interessare qualcuno parlandogli da un microfono con amplificazione, come i Cristiani Evangelici che testimoniano ai passanti la loro conversione religiosa e il cammino di fede, della sua ultima fatica che con ogni probabilità nessuno degli astanti acquisterà e mai leggerà. Recentemente, poi, ho preso parte alla presentazione del saggio di un filosofo nostrano che si è tenuta in un bistrot di trenta metri quadri dopo la quale è stato servito, con la formula della “consumazione obbligatoria”, un aperitivo rigorosamente “a pagamento”. Ho dovuto inventare uno stratagemma per trovare una via di fuga e sottrarmi a questa laida estorsione. Allora, alla luce di tutto ciò, chiedo a voi, scrittori della vanagloria, poeti da diporto, artisti della fanfaluca: davvero trovate utile e vantaggioso ciarlare dei vostri raccontini a un pubblico di persone che nella maggior parte dei casi vi è seduto davanti perché non aveva di meglio da fare o perché in libreria, al bar, nella saletta parrocchiale in cui vi esibite c’è l’aria condizionata? Veramente vi piace stordirvi e mostrare le vostre miserie letterarie alla ridda dei saloni del libro o ai Barnum dell’arte in cui tutto è soltanto siparietti, convenevoli, spettacolo, caciara e marketing? Ma davvero trovate divertente e soddisfacente scrivere frasi di circostanza e dediche fasulle, sotto le quali mettete pure la vostra firma (un’aggravante!), a persone che non conoscete e che voi, invece di identificare come mitomani, chiamate impunemente “lettori”? Quante foto che vi ritraggono mostrare giulivi e soddisfatti la copertina del vostro libro appagheranno il vostro patologico narcisismo? E quante sedie vuote dovrete ancora contare alle vostre presentazioni prima di capire, una volta per tutte, che la giostra si è fermata e che il giostraio è morto? È vero, lo so, le cose non vanno meglio neppure alle rassegne letterarie e ai festival del libro. Soprattutto quelli estivi che ora ci attendono, dove purtroppo al ridicolo si aggiunge inesorabile anche il malcostume. L’inarrestabile décadence di quest’epoca svaligiata, avvilita e colpevolmente traviata si manifesta con preoccupazione quando, ahimè, i suoi segni giungono proprio dagli ambiti artistico-culturali. Se un tempo lo hippie era la reazione al pettinato conformismo borghese, oggi la sciatteria dei costumi (altro che la kantiana metafisica!) è essa stessa il conformismo, la regola più che l’eccezione. Il capellone, il figlio dei fiori, il punk, costituivano il fenomeno culturale che investiva polemicamente una società chiamata, in un modo o nell’altro, a farsene carico con confronti e analisi. Oggi, invece, pare che la parola d’ordine sia soltanto la pigra strafottenza che livella tutto ai propri confortevoli bisogni, alle proprie trasandate necessità, ai propri infantili capricci.  E così, non è insolito assistere a festival letterari in cui i travet della scrittura presentano i loro improbabili capolavori in pantaloncini, bermuda, camicie hawaiane sbottonate fino all’ombelico, scarponcini da spiaggia e infradito. Poi, collassati come dei Proust di periferia su poltroncine e cuscini d’ogni foggia, si avvicendano nel resoconto balbettante del valore artistico del loro nuovo romanzo (leggasi “esposizione della trama”, “sintesi o riassunto del racconto”) a un pubblico che, in giornate di arsura estiva, forse meriterebbe di più per coraggio e resistenza.  Ma tant’è, la conventicola delle nostrane lettere si riconosce anche da questo glamourstraccione, da questa apparente nonchalance da artista incompreso che alla fine si riduce allo smercio (magari!) di qualche altra copia del proprio libriccino, a uno stravagante selfie per Instagram e a poche altre ridicole bramosie. Che tristezza! È in questi casi di esasperazione che, maledicendo l’attimo in cui ho deciso di uscire di casa e di assistere a quest’inesorabile débacle, mi sovviene il titolo, bizzarro ma implacabile, di quell’anomalo libro di Peter Bichsel: Al mondo ci sono più zie che lettori, libro che i nostri scrittori e organizzatori di rassegne letterarie un giorno dovranno leggere e tenere a mente come viatico. Ahimé, «La vita o è stile o è errore» ebbe a dire un tempo Giovanni Arpino. Già, un tempo!  Vincenzo Liguori *In copertina: Giacomo Balla, Autosmorfia, 1900, Collezione privata L'articolo Le rassegne letterarie ai tempi del narcisismo della mediocrità proviene da Pangea.
June 28, 2025 / Pangea
Senosofia, un’ontologia del seno. Ovvero: per la nascita di una nuova disciplina filosofica
Che io insista a volere a ogni costo che la filosofia dica qualcosa sul seno, che, per così dire, faccia sentire la sua voce, è qualcosa che avverto come un’esigenza che altri chiamerebbero ossessione (al pari di quella, per capirci, di Russ Meyer per le attrici procaci e giunoniche alla Lorna Maitland). Per altri versi non mi meraviglierei neppure se sul fondo di questa fissazione scorgessi una vera e propria resa come quella che Pierre Bordieu denuncia in apertura delle sue Meditazioni pascaliane:  > «Se mi sono deciso a porre qualche problema che avrei preferito lasciare alla > filosofia, l’ho fatto perché mi è parso che quest’ultima, pur così > problematica, non se li ponesse, e che continuasse a sollevare […] questioni > che non mi sembravano tali da imporsi».  Ecco, questo è l’atteggiamento di abdicazione della filosofia, la sua debolezza o impotenza, cioè porre e continuare a sollevare «questioni che non mi sembravano tali da imporsi» e lasciare che altre discipline le pongano in sua vece. Così, adesso è qui davanti a me la «questione» del seno di fronte alla quale non retrocedo.  La difficoltà del compito che mi attende non mi spaventa affatto, perciò, con l’imperturbabilità dell’asceta, mi immergo nella delicata ricerca. Ma sempre con metodo filosofico al quale, malgrado tutto, non intendo rinunciare. Il metodo della ricerca filosofica, garantisce Hegel nell’Introduzione allaFenomenologia dello Spirito, percorre essenzialmente il «sentiero del dubbio» (Weg des Zweifels), ma poi, correggendo il tiro, dice «sentiero della disperazione» (Weg der Verzweiflung). È su questo sentiero, dunque, che muovo i miei passi. E sebbene afflitto dal sentimento della disperazione, procedo temerario e senza indugi auspicando presto la nascita di una nuova disciplina, la senosofia. * Il supposto sapere sul seno, quello che banalmente sembra essere alla portata del volgo, annaspa nella vischiosa pania delle dòxai, delle stupide opinioni. Compito della filosofia, perciò, sarebbe quello di fuggirle a gambe levate giacché dagli idola già Bacone un tempo ci mise in guardia. Tuttavia il discorso filosofico non può né prescindere né trascurare quanto è linguisticamente e tradizionalmente acquisito (un gigantesco cumulo di macerie che ci sovrasta e schiaccia come fossimo formiche), e cioè non può ignorare che la parola «seno» indichi (almeno per ora) una parte anatomica del corpo femminile. Cosicché, quando l’argomento che riguarda il seno intenzionalmente sfiora la mente del filosofo, il territorio del femminile – della sua carne, per intenderci – primariamente si schiude. È da questo luogo troppo spesso martoriato o frainteso, confuso o esaltato, che egli comincia la sua fredda e «disperata» speculazione evitando i soliti luoghi comuni, gli atti di cortesia e i salamelecchi. Sant’Agata secondo Elisabetta Sirani * La percezione del seno, il suo puro apparire o il suo improvviso rivelarsi non sono semplici nuancesma interpellanze. Esse richiamano un sapere a lungo trascurato e nascosto. Compito della senosofia, perciò, è la sua rivelazione. La speculazione filosofica parte da qui, però poi, con un hegeliano «sentimento di disperazione», va inevitabilmente altrove: ta metà ta physikà, si diceva un tempo. «Oltre ciò che è carne», diciamo noi oggi. Indagando il seno la speculazione filosofica irrompe nell’ontologia. Anche questo va tenuto presente. Il corporeo, cioè, travalica sé stesso e si fa concetto, idea. Essenzialmente ontologico è l’affaire, dunque. E così bisogna trattarlo. * Che neanche la donna sappia cos’è il seno, non lo si deve a una sua distrazione o presunta incapacità. Del resto anche un uomo, messo di fronte a questo enigma, saprebbe soltanto bofonchiare come a lungo ha fatto, pure con più zelo e presunzione, con la dimostrazione dell’esistenza di Dio. Il punto è che ella sa del seno abbastanza per non saperne nulla, vale a dire che sa del seno almeno quanto ne sa della sua cistifellea. In altre parole, ciò che il suo corpo custodisce in termini di organi non necessariamente genera conoscenza come un tempo in medicina un polmone, un rene o un cuore conferivano allure a questa scienza empirica e davano uno scopo alla dissezione dei cadaveri. E poi, diciamolo, il seno non è un organo. Come un amante esperto, invece, la conoscenza penetra una donna soltanto quando in lei irrompe la consapevolezza dell’essere che noi qui identifichiamo con il nome senosofia. Cosicché la donna comincia a sapere qualcosa del seno soltanto quando, per così dire, il “trattamento ontologico” in lei fa finalmente il suo lavoro. Soltanto allora un po’ di luce taglia l’oscurità e il seno ha la possibilità di compiere timidamente la sua epifania. Tuttavia non è un atto scontato. Prima di giungere al seno occorre superare la mammella, sbarazzarsene, insomma. Occorre, cioè, evitare quella prisca ed eterna ambiguità che la confonde con il seno e che essa produce con la sua sola vorace presenza. * Ora che il seno non scandalizza più, ciò che ancora sconvolge è la sua impenetrabilità, il suo interrogativo mutismo. Tuttavia ciò che una donna o un uomo devono imparare è che il seno non si trova soltanto là dove essi credono che sia. Fallaci congetture hanno agito in tal senso. Sebbene ami rivelarsi (ne siamo sicuri?) sul corpo di una donna come la muffa si abbarbica su una parete umida, questo corpo è per il seno un pretesto, un’occasione alla quale esso non rinuncia. Su questo corpo il seno sperimenta la sua delicata esistenza poi, come dicevamo, va altrove, ta metà ta physikà. Il suo manifestarsi dipende dalla nostra capacità di riconoscerne i contorni oppure, diciamo così, dalla nostra consapevolezza senosofica. Il seno, dunque, non appartiene al corpo, o almeno non gli appartiene più di quanto possa appartenergli un abito o un paio di mutande. Molti uomini, e per molto tempo, si sono accontentati di un’illusione, di quella parvenza che hanno poi chiamato «seno». Ma il fatto è che non tutti hanno dimestichezza con l’ontologia. E da oggi in poi, questa sarà una considerazione da tenere presente. Sant’Agata secondo Francisco de Zurbarán * Se la mammella vive alla luce, il seno abita il crepuscolo. Nessuna donna espone il seno con la sfrontata e appagante disinvoltura con cui una puerpera tira fuori dall’abito la sua zampogna gonfia di latte. Fortunatamente per il seno, questo è anche ciò che gli garantisce quell’esistenza particolare ed eterna. Persino nelle ricorrenti immagini erotiche in cui il seno è mostrato con disinvoltura appare, prima di lui, una mammella. Al seno, purtroppo, spetta il secondo tempo, l’ombra o la parte da comprimario. Pare che il seno gradisca soltanto la nudità erotica degli amanti, e invece il seno è là, da secoli in penombra, che aspetta l’occasione per manifestarsi.  * Se la mammella giace tronfia nei manuali di medicina e chirurgia, non vedo perché il seno non possa avere il suo posto d’onore in un trattato di ontologia. Eppure non si deve pensare che l’ontologia che qui si sta auspicando, e che ho chiamato senosofia, apprezzi le fanfaluche, la ciarla e il fatuo vagheggiare. Come si è detto, è dalla carne che essa trae ispirazione. Il corpo è il suo primo interlocutore e con questo corpo deve fare i conti. La fenomenologia ci impone «la cosa» così com’è, così come la vediamo. Ma il seno non ha niente di fenomenologico perché noi, de visu, non lo percepiamo. Quello che percepiamo, lo ripeto, è la mammella, una vescica di latte. Con il seno si tratta perciò di concentrare lo sguardo e l’attenzione su un argomento a prima vista non filosofico e farlo diventare di pertinenza esclusiva della filosofia. Fare ontologia, insomma, con quello che rimane, con ciò che è stato tagliato fuori, con i resti, gli scarti del corpo e della filosofia. Il senosofo – ossia colui che fa dell’ontologia del seno il suo principale impegno – è il solo che può occuparsene. Soltanto lui ha di mira questo traguardo. Suo è il compito di rispondere finalmente alle interpellanze del seno. Se per il metafisico ciò che è soltanto qui e non altrove non è degno di interesse, per il senosofo – questa figura silenziosa e imperturbabile a lui più vicina – non esistono che seni. E di questi e della loro misteriosa vita perenne, vuole sapere tutto quello che c’è da sapere. Vincenzo Liguori *** Sullo stesso argomento e dello stesso autore si veda anche: * https://www.pangea.news/seno-anatomia-femminile-liguori/ (14 luglio 2023) * https://www.pangea.news/senologia-filosofia-liguori/ (12 settembre 2023) *In copertina: Giovanni Lanfranco, Sant’Agata in carcere, 1614 ca.  L'articolo Senosofia, un’ontologia del seno. Ovvero: per la nascita di una nuova disciplina filosofica proviene da Pangea.
March 28, 2025 / Pangea