Sicilia, 1860. Il principe di Salina, esponente dell’antica nobiltà isolana,
traghetta la famiglia attraverso i moti risorgimentali, nel tentativo di
strappare alla Storia uno scampolo di prestigio. Per farlo, dovrà scendere a
compromessi con i nuovi ceti, gli sciacalli che minacciano i “gattopardi”, ormai
ingabbiati nei loro palazzi in declino.
Dopo oltre 60 anni dalla pubblicazione del romanzo di Giuseppe Tomasi di
Lampedusa (1958), dalla sua consacrazione allo Strega (1959) e dal sontuoso
adattamento di Luchino Visconti (1963), Il Gattopardo è approdato a marzo su
Netflix, in una trasposizione seriale prodotta da Indiana Productions e Moonage
Pictures per la regia di Tom Shankland. Luisa Cotta Ramosino[1], Direttrice
delle serie italiane Netflix, ci racconta gli ingranaggi della serie-evento.
Il Gattopardo è il romanzo del “gran rifiuto” di Elio Vittorini per Mondadori ed
Einaudi, e fu pubblicato da Feltrinelli solo dopo la morte dell’autore (1957).
Da sempre divisivo, pesa sull’opera l’accusa di conservatorismo rivolta
all’autore, come del resto al suo protagonista, già dai contemporanei. Eppure,
fa ancora parlare di sé con una serie-evento: cosa lo rende intramontabile?
È un romanzo che già al momento della sua nascita sta riflettendo su sé stesso,
perché parla delle epoche di passaggio, è stato scritto in un’epoca di passaggio
e non a caso noi lo abbiamo riproposto in un momento di grandi passaggi. I suoi
personaggi vivono questo passaggio in maniera drammatica, sia a livello
individuale e famigliare, sia a livello sociale. È un incastro di dimensioni che
rende il romanzo particolarmente forte, perché insiste sui sentimenti umani in
un mondo in cui, un po’ come oggi, tutto è messo alla prova. Un mondo che è
raccontato e, sì, in parte è giudicato, ma non giudicato per guardare al “bel
tempo che fu”, immobilizzato in un tempo perduto. C’è chi prova curiosità per il
mondo che cambia, come Tancredi, e invece chi quel mondo che cambia lo teme, e
chi è affezionato al passato. È una contrapposizione che credo non sia per
niente banale: non si dice che il nuovo è a tutti i costi buono, anzi; ma nello
stesso tempo non si dice neanche che conservare il passato è a tutti i costi
sbagliato. C’è quindi una grande capacità di sfidare il lettore, e poi lo
spettatore, a guardare il mondo con più complessità. E la complessità, per
quanto sia più faticosa da affrontare rispetto a un racconto lineare, è
incredibilmente affascinante.
Che è poi ciò che ha “salvato” il romanzo.
È un romanzo che sfugge a ogni definizione: è stato salvato dal fatto che ognuno
ci vedeva qualcosa di diverso, ed è questa grande complessità a renderlo unico.
“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”: le parole di
Tancredi, nipote del Principe, sono forse le più conosciute del romanzo. Il
mondo cambia, ma assistiamo, a livello nazionale e mondiale, a un fiorire
del period drama, e questo nonostante gli alti costi di produzione: cosa è bene
che rimanga com’è, e cosa è necessario che cambi, quando si racconta il passato
per parlare al presente?
Da una parte i sentimenti umani hanno un’universalità, e spesso e volentieri in
questi personaggi del passato sono come amplificati. Dall’altra c’è il lavoro di
scrittura, questo strano equilibrio per cui quel passato deve essere rievocato,
attraverso i costumi, le scenografie, il racconto di alcuni fatti precisi, e
allo stesso tempo bisogna cercare di fare capire allo spettatore cosa
significassero quei sentimenti per le persone di quel mondo, e cosa di quei
sentimenti conserviamo ancora noi oggi. Raccontare il passato non significa dire
che questi personaggi erano uguali a noi, perché non lo erano. Eppure, avevano
delle cose in comune con noi. Non credo che oggi tante ragazze di fronte al
matrimonio del fidanzato con un’altra si chiuderebbero in convento, però di quel
sentimento di Concetta possono riconoscere l’assolutezza e il dolore nudo da lei
provato in quel momento, e in quello si riconoscono, e lo possono abbracciare.
Come il sentimento di un genitore che vede un figlio che fa una scelta che non
vorrebbe facesse, oppure che si rende conto di aver preferito un figlio a un
altro, come capita a don Fabrizio. Sentimenti presenti nell’oggi, che lì vivono
con una loro grandezza che li rende ancora più evidenti: il period ha questa
capacità di essere come la realtà, ma con un grado più forte.
Viviamo un momento in cui alcune tematiche, fondamentali da trattare e purtroppo
tragicamente urgenti, sono onnipresenti nelle narrazioni che ci circondano e
rischiano, soprattutto nelle ricostruzioni storiche, di essere o di essere
percepite come…
Abusate.
O anacronistiche, calate dall’alto rispetto alla storia, e alla Storia. Penso al
potenziamento delle figure femminili: come avete trovato un equilibrio nella
serie?
Ci sono storie che già da qualche parte esistevano, ma che nessuno raccontava,
perché non erano considerate importanti. C’è poi una differenza tra una serie
storica che vuole essere la rievocazione di un’epoca, e una serie che voglia
accogliere in quel passato un qualcosa che risuona ancora nel presente. Ci sono
serie che spingono sull’attualizzazione, come Lidia Poët, altre che ci portano
in un luogo dove siamo stati mille volte e ci fanno vedere che quel personaggio
c’era, ma non avevamo colto quanto importante fosse, come per esempio le donne
della serie I Medici, che in realtà anche nei libri di storia figurano come
artefici della fortuna della famiglia, ma fino a quel momento erano sempre
rimaste nell’ombra delle figure maschili. Dare attenzione a queste storie è
giusto; forzare alcune linee narrative è meno interessante e richiede un livello
di artificiosità che le rende meno appassionanti. Si trova la misura nel momento
in cui una storia appassiona: se succede, lì c’è della verità. Quando l’autore
deve metterci molto del suo, è perché probabilmente quella storia non ha una
verità da raccontare, e forse si sta prendendo la strada sbagliata.
La scelta de Il Gattopardo è un po’ diversa: il personaggio di Concetta era
quasi invisibile, il fatto di averlo raccontato e reso presente lavorando sui
vuoti è un modo per mettere in primo piano questo personaggio che nel romanzo
esiste quasi solo in funzione degli altri.
A proposito di lavorare sui vuoti: guardando la serie sembra di assistere a uno
spin-off, a un ampliamento del materiale di partenza, al contrario di quanto
avviene normalmente guardando le cosiddette “riduzioni” cinematografiche delle
opere letterarie. Un period drama che diventa family drama, e sembra cercare tra
le pieghe del testo un accenno o un silenzio per costruirvi una
tridimensionalità che può essere abitata da tutta la famiglia dei personaggi, e
non più solo dal protagonista.
Il period tendenzialmente è già “famigliare” – Downton Abbey, per esempio, è la
storia della famiglia. Raccontare la storia di un’intera famiglia permette di
dare più sfumature a un’epoca, soprattutto quando ci si apre a diverse classi
sociali. Non si tratta di un genere che prende il posto di un altro, perché di
fatto i due generi coincidono: la saga famigliare, attraverso i suoi conflitti,
è un modo di esplorare il passato, perché ognuno dei componenti della famiglia
ha un’esperienza diversa di quell’epoca. Il Gattopardo ha al suo interno una
quantità di personaggi che vengono anche solo accennati e aprono un orizzonte
rispetto a quel mondo.
Le parole di Tancredi riflettono alla perfezione anche il concetto stesso di
adattamento transmediale, che spesso è chiamato a “tradire” la lettera
dell’originale per custodirne lo spirito, a cambiare per rimanere come è. Qual è
il più grande “tradimento” della serie nei confronti del romanzo, e perché è
indispensabile?
Il tradimento più grande – e lo dico anche con un certo orgoglio perché ho
spinto molto per questo tradimento – è nel finale. Il finale del romanzo è molto
triste: è la fine di un’epoca, c’è la morte del principe, ci sono le principesse
ormai anziane, il cane imbalsamato… Si percepisce un senso di grande nostalgia
per qualcosa che non c’è più. Inoltre, accade a distanza di alcuni anni rispetto
al celebre ballo. I nostri sceneggiatori tenevano molto a mostrare la morte del
principe, ma dedicarvi un intero episodio inevitabilmente avrebbe dato il senso
di una grande sconfitta. Neppure Visconti lo ha mostrato. Invece il nostro
finale, che è un piccolo finale, e che pure non è un happy ending, dà speranza:
concludere la storia con i due fratelli che riportano dentro la famiglia alcune
proprietà proprio grazie ai soldi del ceto emergente riguadagnati attraverso il
matrimonio di Tancredi, che era stato vissuto come una sconfitta, personale e di
classe, è una rivincita, e apre alla speranza. Come anche l’ultima passeggiata
di Concetta, il nuovo Gattopardo. La tradizione rimane, ma preservare quel
passato non significa immobilizzarlo, imbalsamarlo, perché questo passato,
questa Sicilia che vediamo nella sua bellezza, ha un valore. Il finale non mette
in scena un tramonto, ma un’alba: l’alba di un’epoca nuova, che non si sa cosa
porterà, ma proprio per questo nasconde in sé anche una speranza per il futuro.
Da un certo punto di vista c’è un tradimento del romanzo, però io credo che sia
un tradimento che nell’economia del racconto, in cui Concetta è diventata la
co-protagonista, era giusto dare e ci ha fatto piacere dare.
Ormai la maggior parte delle opere audiovisive è composta da adattamenti: in un
mondo in continua evoluzione, quali sono le storie a cui restare ancorati, per
andare avanti e cambiare in meglio? Perché tutto cambi, cosa deve rimanere come
è?
Non è un caso che ci siano così tanti adattamenti letterari, perché il romanzo
conferisce una naturale profondità ai personaggi che, è vero, si può costruire
anche con storie originali, ma lì si può trovare con una tessitura consolidata
dal tempo che l’autore ha impiegato nel raccontare. E poi spesso, quando si
tratta di classici, esiste anche tutto il discorso che è nato intorno al
romanzo, che è come se avesse dato un ulteriore spazio di apertura. Sembra una
banalità, ma a rendere unica una storia è il fatto di avere dei personaggi
indimenticabili: questo è ciò che attira come il miele l’audiovisivo. La cosa
importante è trovare almeno un personaggio di cui ti innamori e dici: ecco, se
riuscissi a trasferirlo sullo schermo sono sicura che la gente vorrebbe passare
delle ore con questa persona per sentire la sua storia.
L’Italia è un Paese che legge poco. E in generale nel mondo la lettura, così
legata allo sviluppo del pensiero critico e dell’empatia, è minacciata dai tanti
stimoli offerti dalle nuove tecnologie e dalla competitività degli altri media.
L’audiovisivo è un rivale o un alleato? E l’adattamento che ruolo ha in questa
prospettiva?
La tragedia è che, se anche non ci fossero gli audiovisivi, la gente non
leggerebbe comunque. Anzi, forse l’adattamento è un’occasione per invogliare a
leggere il romanzo da cui è tratto. È ovvio che il tipo di fruizione è
completamente diverso, perché il tempo della lettura – che sia su supporto
fisico o digitale, pur nella differenza penso che qualunque forma di lettura sia
da considerare positiva – è un tempo personale, in cui si riflette, ed è un
tempo di solito più lungo rispetto al tempo di fruizione dell’audiovisivo. Spero
però che una cosa non escluda l’altra. E poi il raccontare storie ha un valore
di per sé: ci apre agli altri, perché una storia contiene un’esperienza umana
che non è la nostra, e noi ne abbiamo terribilmente bisogno per non rimanere
ancorati solo a noi stessi. Fruire le storie apre all’empatia, qualunque sia la
forma. E la forma di quest’epoca è spesso quella della serialità televisiva.
E Netflix? Che tipo di storie sta cercando? È alle porte qualche progetto che
vuole (e può) raccontarci?
Ancora non c’è niente di annunciato. Però a me piacciono questo tipo di storie;
è facile perciò che me ne arrivino altre di questo tipo.
Per concludere, c’è qualche aspetto che desidera sottolineare, o aggiungere?
Avevamo il desiderio di raccontare l’identità italiana. Secondo me è stato
esaudito, perché è stato fatto non in maniera teorica, ma attraverso i
personaggi, grandi storie, grandi famiglie, grandi individualità, che ci portano
dentro l’Italia di allora, che poi è anche quella di oggi. Credo che ci siano
dei momenti che definiscono l’identità di un popolo, ed è sempre interessante
raccontarli. L’Italia è un Paese che è arrivato tardi all’Unità: raccontare quel
momento con tutte le sue contraddizioni, e quindi non con una celebrazione tout
court, è sensato in un momento storico in cui i temi dell’identità nazionale
danno vita a guerre. Queste storie hanno una capacità di parlare all’oggi e di
essere urgenti a modo loro.
Chiara Bianchi
*Si pubblica per gentile concessioni delle Edizioni Ares; il servizio è in
uscita su “Studi Cattolici”
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[1] Luisa Cotta Ramosino è Director Local Language Series Netflix per l’Italia e
coordina il team che, di concerto con i partner produttori, si occupa di
sviluppare le serie italiane di Netflix, riportando a Tinny Andreatta. Si occupa
poi direttamente dello sviluppo di alcune serie tra cui “Il Gattopardo”. Prima
di arrivare a Netflix ha lavorato come sceneggiatrice e produttore creativo per
diversi produttori italiani ed è stata responsabile delle coproduzioni
internazionali per Lux Vide.
L'articolo Un romanzo che sfugge a ogni definizione. “Il Gattopardo” cambia per
non cambiare: dal libro alla serie Netflix proviene da Pangea.
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Nella storia del cinema il 1955 fu l’anno di James Dean. Prima di scomparire
alla velocità di una meteora, il giovane ribelle statunitense lasciò dietro la
sua scia tre film indimenticabili, la promessa della fama mondiale e il sogno di
diventare regista.
Eletto a idolo romantico della gioventù degli anni Cinquanta, Dean diede corpo e
voce a personaggi fuori da ogni schema. Per Elia Kazan aveva vestito i panni del
rancoroso ma dolce eroe steinbeckiano di East of Eden (La Valle dell’Eden), nel
superbo Rebel Without A Cause (Gioventù bruciata) di Nicholas Ray si era
trasformato nell’intrepido Jim Stark, chiudendo con aplomb nella parte
dell’orgoglioso Jett Rink in Giant (Il Gigante postumo), a coronare la triade
per cui è ricordato come il “ragazzo d’oro” del cinema americano.
Nello stesso anno, la promessa di Broadway – il debutto in See the Jaguar è del
’52 – fuggiva dalle luci del successo e da lunghe notti insonni, trascinate sui
marciapiedi di New York, per tornare alle sue radici, a Fairmount. Qui poté
finalmente respirare, ancora per qualche tempo, l’aria di casa. Non appena
giunto nella cittadina sonnolenta dell’Indiana s’immerse a capofitto nel torpore
della vita rurale, confondendosi fra i contadini e i manovali del paese.
James ‘Byron’ Dean in compagnia del suo border collie Tuck a Fairmount, Indiana,
1955.
Nato nella vicina Marion, il piccolo Jimmy era cresciuto nella fattoria di
proprietà dello zio Mark Winslow, il quale tornava prodigamente ad ospitarlo.
Accolto a braccia aperte da tutti i suoi cari, riunì attorno a sé i membri di
almeno tre generazioni. L’avrebbe seguito ovunque, dal selciato bagnato di
Times Square ai suoi frugali ambienti domestici, l’obiettivo di Dennis Stock
(lo stesso che ispirerà le pose di Kate Moss e Liz Tyler dopo di lui). Deciso a
tracciarne le orme, per immortalarlo sotto un aspetto più intimo, il cronista
mondano gli avrebbe dedicato una celebre serie di ritratti destinata alle
prestigiose testate di Life. Come riporta l’editor Eliza Berman, l’incontro tra
il fotografo e la futura star ebbe un effetto folgorante:
> “Mentre Stock ascoltava Dean parlare con nostalgia della sua educazione a
> Fairmount, nell’Indiana, pensò bene di cogliere il ritratto di un giovane uomo
> sospeso tra due mondi: quello della fattoria di famiglia, dove i suoi zii lo
> avevano allevato dopo la morte della madre, e quello di Hollywood in cui
> sarebbe stato presto accolto”.
A metterne in luce i turbolenti rapporti si aggiunge in tempi recenti il tributo
offerto da Anton Corbijn ai due artisti, interpretati dai brillanti Robert
Pattinson e Dane DeHann, nel film Life (2015).
Nel febbraio 1955, alla domanda “Dove scattiamo le foto?” Stock aveva proposto
“dove sei più felice”. Da quel momento, l’appeal del saltimbanco nottambulo e
del selvaggio contadino andava fissato in una delle maggiori icone di bellezza
maschile del secolo.
Unico nel suo genere, il volume che raccoglie le fotografie di Stock – ironiche,
stravaganti e familiari –, uscito in Italia come James Dean. Per sempre
giovane (Contrasto, 2005), include anche una nota biografica sull’amico modello,
seguendone passo dopo passo il profilo anticonformista.
> “Jimmy non teneva minimamente al proprio aspetto: due volte su tre si vestiva
> in modo più che trasandato, che si trattasse di una riunione formale o
> informale”.
Aggirato il volto da leggenda, questi scatti delicati e spontanei lanciano uno
sguardo lucido sul ragazzo più autentico, legato alla sua terra e teneramente
devoto alla famiglia.
In quei giorni, la vita dai Winslow procedeva al suo ritmo regolare, essenziale
e aromatica, proprio come l’aveva lasciata prima di ascendere alla luce di Santa
Monica o ai ritmi sfrenati della vita newyorkese. Le ore più calde trascorrevano
in un’atmosfera rustica e serena, imbevuta di reminiscenze d’infanzia di stampo
quacchero e circondato dai suoi affetti.
Steso a pancia in giù sul tappetto del salotto e preso dall’entusiasmo nei
giochi del cuginetto Markie, che aveva visto crescere, Jim si sentiva racchiuso
nel grembo di un’alcova, un rifugio sicuro dove poter essere l’eterno fanciullo
dei suoi sogni. Adesso, più di tutto, il caos della metropoli era svanito
lontano come un’isola del Pacifico, scacciato dal suono del bongo che portava
sempre con sé.
Per sempre giovane. Dean gioca insieme al cugino Marcus Winslow Jr.
Durante il breve soggiorno, l’orgoglio d’Indianapolis ebbe anche il tempo di
visitare le aule della vecchia high school, venendo travolto da un’ondata di
nostalgia per gli anni dell’adolescenza consumati da vero campione tra
eccezionali partite di basket e prime produzioni teatrali. Più tardi, la sua
insegnante di recitazione e prima fan Adeline Nall avrebbe ricordato in toni
sinceri e commossi lo studente di genio che lasciò il segno sul palco
scolastico:
> “Jimmy Dean amava sentire il suolo dell’Indiana sotto ai suoi piedi, e credo
> che traesse da lì gran parte della sua energia.”
Un famoso scatto di Stock, poi rimasto iconico, lo vede davanti a tutta la
famiglia raccolta attorno alla tavola imbandita per il pranzo della domenica. A
un tratto, il nuovo arrivato prese a recitare un noto componimento del sommo
poeta locale James Whitcomb Riley: il preferito della madre che scelse di
chiamarlo James Byron in onore alle proprie passioni letterarie.
Con timbro enfatico e strampalato, la personalissima lettura
di Home-Going (1910), attestava il ritorno a casa attraverso la via diretta
della poesia:
> “Oh! Siamo così bisognosi di casa
> La risata del mondo è come un gemito
> Nei nostri orecchi stanchi, e pure i suoi canti son vani,
> Dobbiamo tornare a casa – dobbiamo tornare di nuovo a casa!
> Dobbiamo tornare a casa:
>
> […] Là dove tutto riposa:
> Il tocco di tenere mani su fronte e capelli –
> Stanze buie, in cui più dolce è la luce del sole –
> L’amore perduto di madre e figlio…”
James Dean declama i versi di James Whitcomb Riley, il poeta dell’Indiana.
Per una singolare nemesi, il giovane eroe del cinema avrebbe fatto nuovamente
ritorno in Indiana, ma stipato dentro un feretro più scomodo di quello in cui si
era adagiato, solo sette mesi prima, durante una buffa visita alle vicine
imprese funebri. La lente incredula dell’amico lo catturava allora, nel presagio
d’un eccesso burlesco, con l’espressione da bambino ferito stampata per sempre
sul volto.
Ma come ha scritto Oriana Fallaci, agli occhi del pubblico e dell’industria
cinematografica, James Dean non poteva rassomigliare in toto a un ingenuo
contadino del suo Stato natale, tanto sfaccettato era il talento che gli
spianava la strada per il mito. Da fervido seguace di Brando, si sarebbe
avvicinato di ruolo in ruolo ai divi moderni come ai vecchi idoli europei:
> “Era la Sagan tradotta in americano, l’adolescente pazzo per noia romantica,
> più vicino all’europeissimo Truman Capote e a Oscar Wilde che ai personaggi
> contadineschi di Peyton Place o ai giovani pazzi ma paesani che si riscontrano
> nei romanzi americani”.
Fissato nell’icona di Hollywood e del viveur di Manhattan, il nuovo “bello e
dannato” sfrecciava verso le stelle di una carriera tutta in ascesa.
A stroncare tragicamente la parabola della sua breve esistenza, sancendone la
consacrazione all’Olimpo californiano, una corsa maledetta sull’asfalto della
U.S. Route 466, sul sedile della temibile “piccola bastarda”, la sua Porsche 550
Spyder. In un amplesso di euforia e bagliori di gloria, rapido come aveva
vissuto, se ne andava in un lampo, direzione Salinas.
Pierluigi Piscopo
L'articolo “Dove sei più felice”. James Dean, il fanciullo dell’Indiana proviene
da Pangea.
Mi sono ripromesso che non leggerò nulla di scritto su Vargas Llosa giusto
perché è morto, nessun articoletto salmodiante tenuto in caldo in attesa della
salma apposita e sfornato per vendere qualche copia in più al mattino, come con
Martin Amis, Paul Auster, e tutti gli altri eccetera all’indietro e in avanti.
Non leggerò nessun aneddoto autobiografico pubblicato per dare l’impressione che
loro, gli aneddotici, siano ancora vivi e lui, Vargas Llosa no, mentre anche
così sarà vero il contrario, o meglio: l’opera letteraria di Vargas Llosa
resterà più viva di chiunque pretenderà di essere nella condizione di poterla
ricordare: è la letteratura che ci ricorda, che ci mette nella condizione di
ricordarci semmai di noi stessi; quando avviene il viceversa non è letteratura,
non lo è mai stata.
Non leggerò nulla su Vargas Llosa in morte di Vargas Llosa se prima non leggerò
qualcos’altro di Vargas Llosa stesso. Di suo proprio di recente ho letto L’orgia
perpetua ripubblicato di recente dalla Settecolori, l’avevo recuperato nel
circuito dell’usato nella precedente edizione con la stessa traduzione, invece
sono passati almeno un paio di decenni dal mio essere uscito frastornato dal
romanzo che ha aveva separato la mia strada da lettore dalla sua di
scrittore: La casa verde, che secondo me in italiano è stata tradotta non come
merita, detto da chi non conosce affatto la lingua originale, ma se La casa
verde è il capolavoro che è, e che non ho dubbio che sia, non può essere il
romanzo che ho letto io nella resa di Enrico Cicogna – così come sono convinto
che Meridiano di sangue di Cormac McCarthy non è quello che leggo nella resa di
Raul Montanari. Un capolavoro tante volte lo è proprio per come lo resta
nonostante le traduzioni che ce la mettono tutta perché non si noti quanto lo
sia.
Meridiano di sangue me lo sogno tradotto dalla Balmelli che ha tradotto Suttree.
Pure vero che La città e i cani, primo romanzo di Vargas Llosa, primo sia nel
senso che è il primo scritto da lui sia che è il primo dei suoi che abbia
letto, che mi conquistò totalmente e che sancì la mia ammirazione inconfutabile,
io l’ho comunque letto nella traduzione del da me vituperato Enrico Cicogna. La
casa verde è romanzo sorprendentemente e formalmente più ardito, però, de La
città e i cani.
Così come le è stato chiesto di ritradurre Cent’anni di solitudine, di Marquez,
a Ilde Carmignani non potrebbero chiedere una nuova traduzione di La casa verde?
La traduzione precedente di Cent’anni di solitudine, tra l’altro, lo scopro
adesso che ho controllato, era di Enrico Cicogna.
Speriamo che essere morto a Vargas Llosa valga almeno la consolazione di essere
ri-tradotto perché possa risorgere come merita in italiano. In lingua originale,
che è l’autentico piano dell’esistenza di uno scrittore che è riuscito a
diventarlo, certo non occorre nulla del genere. Lì Vargas Llosa è diventato
immediatamente immortale, cioè come tutti i grandi lo sarà finché qualcuno
felice d’imparare a leggere-leggere a giro lo si troverà ancora.
Nella morte di uno scrittore io non ci trovo nulla di interessante, nulla di
pertinente, tutto di necrofilo oltre che di ipocrita e opportunistico. Le prime
pagine di giornale potevano aprirle, per esempio, con l’annunciata
pubblicazione del prossimo romanzo di Thomas Pynchon: l’uscita di Shadow
Ticket scagionerà il prossimo 7 ottobre dall’essere solo un infausto
anniversario israelo-palestinese, oltre che mondiale, così come lo sono
diventati il 24 febbraio in Ucraina, l’11 settembre negli Stati Uniti, il primo
settembre in Polonia.
Giovandomi ripetendo: finché a scuotere le popolazioni informate non sarà
l’annuncio di un nuovo romanzo di Aldo Busi o di Peter Handke o di J. M. Coetzee
o di Helena Janeczek o di Herta Müller, per dire, ma il mero pettegolezzo della
morte sempre da mettere in conto di Questo Scrittore o Quella Scrittrice,
saranno più alte le probabilità di un nuovo 5 marzo 1933 in Germania che quelle
di un nuovo 16 giugno 1904 a Dublino.
…Intanto aspetto mi arrivi via posta la copia ordinata della Lettera d’amore a
Giacomo Leopardi, di Antonio Moresco: le rondini in copertina non importa non
facciamo primavera, purché facciano letteratura.
antonio coda
L'articolo Contro i coccodrilli. Ovvero: ecco perché Mario Vargas Llosa è ancora
vivo proviene da Pangea.