Nel 1991, per Adelphi, esce un libro sconvolgente. Un libro-boato, un
libro-baratro. S’intitola Sulla bilancia di Giobbe, l’autore si chiama Lev
Šestov. In pochi conoscevano Lev Šestov: in Italia, alcuni suoi testi erano
stati pubblicati negli anni Quaranta da Bocca, grazie ad Augusto Del Noce, un
pioniere. Anche oggi il nome di Lev Šestov – a dispetto di pensatori meno
radicali come Husserl e Heidegger, su cui impalcano cattedre accademiche, per
non dire di altri, i filosofi proni all’attualità, pronti all’uso, prêt-à-porter
– è susurrato nei sottoscala; se lo nomini ti tacciano di eresia, ti tacitano
con un dito a cucire le labbra. Perché? Perché Lev Šestov denuncia le subdole
manovre della filosofia, le menzogne della ragione, il disastro scientista,
sporgendosi sulla soglia dell’assoluto. Perché Šestov scommette sul mistero,
smantellando il calcolo. Dopo aver devastato sistematicamente ogni idolo e ogni
“sistema”, Šestov ci getta tra le fauci del Dio vivente – col rischio che non
esista altro che il Suo latrato, il deserto, il mirabile miraggio.
Insomma: Šestov non si può addomesticare. Intorno all’assurdo e
all’esistenzialismo hanno edificato università, cattedrali catafalchi del
niente; perfino Emil Cioran è diventato di moda, lo pubblicano a spron battuto
come se i suoi spietati aforismi fossero le veline dei Baci Perugina. Lev Šestov
no, rimane insondabile, inattingibile, reca il marchio del maniaco, del pazzo.
Così, viene stampato alla macchia, qua e là: appena Bompiani lo ha introdotto,
di diritto, nella nobile collana del “Pensiero occidentale”, con alcuni dei suoi
libri più importanti – Atene e Gerusalemme, Speculazione e rivelazione, Potestas
Clavium –, quasi subito è stato espulso. Il suo, in effetti, è un pensiero
dell’inappartenenza e della latitanza. Lev Šestov, nato a Kiev l’ultimo giorno
di gennaio del 1866, non ha affinità con i filosofi: è della stirpe degli Isaia
e dei Geremia, porta la parola fiammante di San Paolo, alterna anatema e grazia.
Fa coincidere gli opposti e parteggia per gli impossibili, si schiera contro gli
araldi del bene comune e i retori del nichilismo d’accatto; Lev Šestov è
l’autentico nemico del “progresso”, è l’avversario dell’oggi. Come considerare
uno che dichiara a chiare lettere che “non vi è nulla in comune fra la scienza e
la filosofia: non solo non si aiutano né si completano a vicenda, come si è
soliti pensare, ma lottano sempre fra loro”? Come trattare questo infallibile
terrorista del pensiero, ostile all’acquiescenza, al benessere, alle glorie
della tecnica, quando scrive che “una esistenza pacifica, gradevole, equilibrata
sopprime l’umano nell’uomo, lo riduce a pura vita vegetativa, lo immerge di
nuovo nel grembo di quel nulla da cui una forza enigmatica lo ha estratto”?
Proprio ora, più che allora – Lev Šestov muore nel 1938, nell’esilio parigino,
circondato da un generico timore reverenziale – questo pensatore integerrimo va
silenziato: è il solo a mettere in scacco il “mondo delle evidenze”, a
disintegrare i falsi dèi della scienza, della morale corrente, delle istituzioni
vigenti, dei “principi” ipocriti necessari a sancire la nostra beata
sottomissione. Nella sua strenua Lotta contro le evidenze – così il titolo di
uno dei testi più clamorosi, del 1922 – Lev Šestov, tramite una cruenta catabasi
nell’opera di Dostoevskij, marginalizza “la ragione, che uccide il mistero e la
verità”, insegna che “Dio non è dimostrabile. Non si può cercare Dio nella
storia. Egli è il ‘capriccio’ incarnato, che respinge ogni garanzia” e che
> “le verità sono per natura inutili: ogni tentativo di renderle utili, buone a
> tutti per sempre, ossia universali e necessarie, le trasforma immediatamente
> in errori”.
Già, ma come è possibile vivere senza appigli, nella protervia dell’urlo,
autenticamente liberi, cioè scevri dalla “conoscenza, l’autorità incontestabile,
infallibile, ai cui piedi tutti insieme possiamo prosternarci”? Come vivere
consapevoli che “verità e conoscenza scientifica sono inconciliabili”? Verità
vuol dire sapere che “Dio esige sempre l’impossibile”, vuol dire “vivere ore,
giorni, anni in un’atmosfera di evidenze contraddittorie che si escludono a
vicenda”, compiere gesti che al prossimo appaiono irrazionali e apocrifi,
proprio come fanno gli uomini del sottosuolo raccontati da Dostoevskij,
riconoscere
> “che quaggiù tutto comincia ma nulla finisce; che il capriccio ha diritto a
> garanzie, che il fantastico è più reale del naturale; che la vita è la morte e
> la morte è la vita”.
Figlio di un commerciante di tessuti dal piglio autoritario, Šestov studiò
Diritto a Mosca; scoprì tardi la vocazione al pensiero randagio, dedicando i
primi lavori a Shakespeare e a Tolstoj. Vide nella letteratura lo spiraglio alle
angustie della filosofia sistematica. Fece di tutto per sobillare se stesso, per
spogliarsi di ogni attributo intellettuale. Da bambino, era stato rapito per sei
mesi da un gruppo di anarchici; di stirpe ebraica, sposò clandestinamente una
giovane ortodossa: per anni, tennero nascosta la loro relazione, vagando di
città in città. Intruppato nella flotta dell’Armata rossa, perse il figlio,
Sergej, al fronte; nel 1921, disgustato dagli esiti della Rivoluzione, Šestov
approdò a Parigi, in un minuscolo appartamento. I suoi soli discepoli, pensatori
dalla singolarità disarmante, morirono entrambi in circostanze terribili:
Benjamin Fondane ad Auschwitz, nel ’44, nelle camere a gas; Rachel Bespaloff per
scelta, con il gas, nell’esilio americano, a South Hadley, Massachusetts.
A Genova, nel 1900, Lev Šestov mise a punto la sua Filosofia della tragedia,
dopo un geniale attraversamento nell’opera di Nietzsche e di Dostoevskij (edito
nel 1903, il libro è edito, per la cura di Luca Orlandini, dall’editore De
Piante). Cronachista della notte oscura dell’anima, temerario nel sondare il
lato oscuro di ogni idea, Šestov si appoggia ai soli, disperati autori che hanno
osato scarcerarci dai canoni del pensare comune, dichiarando che ciò che per
tutti è vero è menzogna, che l’idea del bene è altro dal Bene, che la giustizia
terrena è una truffa.
> “Dostoevskij e Nietzsche non tengono più conto dei bisogni dei buoni e dei
> giusti (Mill e Kant). Poiché hanno capito che il futuro dell’umanità, ammesso
> che l’umanità abbia ancora un futuro, non è nelle mani di coloro che oggi
> trionfano nella convinzione di possedere il bene e la giustizia, ma, al
> contrario, è nelle mani di coloro che, non conoscendo sonno, riposo o gioie,
> lottano e cercano e, abbandonando i vecchi ideali, vanno incontro a una nuova
> realtà, per quanto terribile e ripugnante possa sembrare loro”.
Questa “nuova realtà” passa dalla violenza dell’individuo sovrano – che non
accetta di farsi gregge, al trogolo del “buon senso”, e volta le spalle al
proprio tempo – alla voracità insaziabile del Dio vivente, il terribile, non
quello di cui si fa mercimonio nelle cattedrali, di cui si avverte l’eco da
ambigui amboni.
Šestov sapeva che lui e i suoi lettori sarebbero stati additati come “pazzi,
immorali, condannati e irrimediabilmente perduti”. Si sentiva in sintonia con
Pascal e con Spinoza, amava Plotino, quello che insegna che “la verità ultima…
ci viene dall’esterno, all’improvviso, grazie a un’illuminazione istantanea”,
che occorre “aspirare al miracolo”.
Albert Camus scrisse di lui nel Mito di Sisifo: quel pensatore che “esalta la
rivolta dell’uomo contro l’irrimediabile” lo aveva superato. Assiso sulla sua
poltrona, Šestov, uomo di scarsa ironia, dallo sguardo triste come l’eroe di un
poema di Puškin e dalla barbetta a machete, aveva sferrato l’attacco più
prodigioso mai tentato contro il nostro tempo.
*In copertina: una immagine da “Stalker”, il film di Andrej Tarkovskij del 1979
L'articolo Aspirare al miracolo. Un articolo per “pazzi, immorali, condannati e
irrimediabilmente perduti” proviene da Pangea.
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Nel 1920, a Londra (presso Martin Secker) e a New York (per R.M. McBride), viene
pubblicato un libro ‘impossibile’, All Things are Possible. Apotheosis of
Groundlessness. Il sottotitolo – “Tentativi di un pensare adogmatico” – attrae
il più filosofico degli scrittori dell’epoca, David Herbert Lawrence. In
origine, il libro era uscito in Russia, nel 1905, come “Apoteosi della
precarietà”; l’autore, Lev Šestov, era nato a Kiev quarant’anni prima; avrebbe
voluto studiare matematica, avrebbe voluto fare l’avvocato – il padre, di
lungimirante intelligenza, guidava una ricca azienda che commerciava in tessuti.
Del libro – costruito impilando una serie di micidiali aforismi, tesi a
decostruire le illusioni della ragione, le fallaci imprese del filosofare – si
parlò a lungo. Nel 1903 Šestov aveva strutturato – sbriciolando ogni ‘sistema’ –
la propria Filosofia della tragedia in un lungo studio su Nietzsche e
Dostoevskij (edito da De Piante nel 2024, a cura di Luca Orlandini); tra anni
prima era uscito L’idea di bene in Tolstoj e Nietzsche (in Italia: Castelvecchi,
2014). Šestov riuscì a incontrare il conte Tolstoj nel 1910, in marzo, pochi
mesi prima che il grande scrittore, dopo la grande fuga, precipitasse negli
altri mondi, morendo. Tolstoj era atterrito dall’arguzia – lenta, letale –
di Šestov; pare che dopo aver sfogliato i suoi libri – così testimonia Maksim
Gork’ij – abbia detto: “Che audacia… in sostanza, ha scritto senza mezzi termini
che non ho fatto che ingannare me stesso – e che ho ingannato i miei lettori…”.
Nel 1920, Šestov parte per Sebastopoli – da lì, volta a Costantinopoli, a
Genova, infine a Ginevra. Inviso ai bolscevichi, aveva da poco
pubblicato Potestas Clavium. Dal 1921, si trasferisce in un modesto
appartamento, a Parigi – sede, tra l’altro, degli incontri con il suo più
luminoso e tragico allievo, Benjamin Fondane. Nel mondo inglese, il libro
di Šestov passò per lo più inosservato: come accettare un pensatore impegnato a
sregolare i dogmi della ragione, a sfatare ogni ‘buon senso’ in virtù
dell’insensatezza del vivere, a mutilare le sirene del ‘progresso’ promuovendo,
piuttosto, l’epica del miracolo, l’etica del capriccio? Nella sua introduzione,
profetica – “La vera Russia è nata. Presto riderà di noi” – ed estrosa, Lawrence
scrisse che Šestov “Non è nichilista – scuote l’umana psiche dai propri logori
legami. La sua idea, centrale e positiva, è che l’animo umano deve credere in
nient’altro che in se stesso”. Non credo sia questo il cuore del pensare
di Šestov – se ci piace, possiamo dare all’egotismo il nome di ascesi e fare
liturgia del carpe diem – ma Lawrence – che trascina il russo, come dire,
dalla sua parte – la dice bene:
> “Nell’inconscio, l’impulso creativo sgorga come il primo moto dell’universo.
> Aprite la coscienza a questo impulso, levate le vecchie cateratte, annientate
> le chiuse, le dighe, i canali di scolo. Ogni ideologia, in definitiva, non è
> che un ostacolo allo sviluppo spontaneo della propria creatività. Scacciamo
> ideali e ideologie. Lasciamo che ogni individuo segua l’impulso eternamente
> incalcolabile che è dentro di lui. Non esiste una legge universale. Ogni
> essere, nella sua più pura forma, è legge a sé, singola, univoca divinità a
> fronteggiare l’ignoto”.
Secondo Lawrence, “non dobbiamo essere irritati leggendo Šestov, ma divertiti”.
In uno dei suoi più riusciti aforismi, Šestov scrive che la filosofia non nasce
per confortare ma per turbare, per sconvolgere la comodità delle proprie
consuetudini. Proprio per la sua aurorale radicalità, il pensiero di Šestov non
trova luogo nelle accademie, non può elevarsi a moda (come accade, da tempo, al
pensare, prodigiosamente ondivago e lucido di Emil Cioran). “Il pensiero di
Šestov fatica a trovare collocazione all’interno di sistematizzazioni o correnti
filosofiche definite… A questo punto il lettore sarà ragionevolmente investito
da domande accusatorie: che utilità potrà mai avere un pensiero del genere?
Quale insegnamento si può cogliere da questo abuso di libertà e licenza poetica?
Ebbene, il pensiero di Šestov è unico proprio perché non si accontenta di
enumerare, chiarificare e predicare le sue nozioni, ma preferisce penetrare
all’interno dell’esistente e riallacciarsi alla vita, aspirando non a una
pratica propedeutica all’utile, ma direttamente a smuovere le montagne con la
sua voce” (così Samuele Brullo in: Apologia dell’impossibile. Šestov: la verità
in conflitto tra speculazione e rivelazione, Alma Mater Studiorum, 2025).
All’epoca dell’infatuazione per Šestov, Lawrence girava l’Italia, con una
predilezione per la Sardegna. Amava leggere Grazia Deledda, aveva scritto alcuni
dei suoi libri maggiori, Figli e amanti, L’arcobaleno; proprio quell’anno
usciva Donne innamorate. Lawrence scrisse che lo stile di Šestov, “di primo
acchito è sconcertante”. Aveva ragione: poco indulgente con i vezzi retorici,
con l’aplomb, con la plumbea eleganza dei romanzieri occidentali, Šestov agiva
artigliando. Possedeva l’arguzia degli antichi maestri che, passo per passo,
zolla per zolla, decostruiscono ogni idolo; infine, resta la carcassa, una
stagione di condor, le ossa, bellissime, come candelabri – un intenso desiderio
di luce.
I due, lo scrittore inglese e il pensatore venuto dalla Russia, non si
incontrarono mai. Probabilmente Šestov avrebbe enumerato Lawrence nella schiera
degli scrittori che, al cospetto dell’indimostrabile, si affannano a mostrare la
propria intelligenza, a giustificarla. Ma siamo tutti in balia della grazia –
una grazia che, a volte, ha la figura della tigre.
***
Tentativi di un pensare adogmatico
I
Le oscure strade della vita non offrono la comodità delle arterie principali:
niente luce elettrica, niente gas, neppure una mera lampada a cherosene. Nessun
marciapiede: il viaggiatore si arrangi al buio. Se vuole la luce, attenda il
lampo, oppure, come facevano i primitivi, cominci a sfregare le pietre finché
non fiotti una scintilla. Nel lampo, gli accadono profili ignoti; deve cercare
di ricordare ciò che ha appena percepito, poco importa se l’impressione è giusta
o fallace. Perché non troverà altra luce, a meno che non apra il cranio contro
il muro e ne scaturisca un fuoco. Cosa può mai radunare un mero mendicante in
questo modo? Come possiamo attenderci resoconti chiari da colui la cui curiosità
– chiamiamo così questa forza – lo ha portato a brancolare ai margini della
vita? Perché dovremmo confrontare la sua cronaca con quella dei viaggiatori che,
ben attrezzati, hanno percorso strade luminose?
*
L’uomo ben acconciato, la cui vita è comoda, si dice: “Come può vivere chi non
confida nella certezza del domani, come può dormire chi non ha un tetto sopra la
testa?”. Quando la sfortuna si accanisce su di lui ed è cacciato da ogni casa,
deve tuttavia ripararsi sotto una siepe. Non riesce a dormire, il terrore lo
attanaglia. Potrebbero esserci bestie feroci, brutali compagni di vagabondaggio.
Ma a lungo andare si abitua a tutto. Si affiderà al caso, vivrà come un
mendicante, dormirà il sonno del giusto nei fossi.
*
Uno scrittore, meglio se giovane e inesperto, si sente in obbligo di offrire al
lettore le risposte a ogni possibile interrogativo. La coscienza non gli
permette di volgere lo sguardo dai problemi più ardui, così comincia a
discettare di “cose prime e ultime”. Non avendo nulla da dire su tali argomenti
– non è dei giovani l’abisso del pensare – annaspa, si agita, urla fino a
perdere la voce. Infine, roso dalla stanchezza, tace. Se le sue parole hanno
avuto un certo successo presso il pubblico, si stupisce di essere considerato un
profeta. A quel punto, è preso da un insaziabile desiderio di preservare tale
influenza fino alla fine dei suoi giorni. Ma se è più sensibile e dotato della
media, inizia a disprezzare la folla per la sua incurabile credulità e a
dileggiare se stesso per essersi atteggiato ignobilmente a pagliaccio,
propalando idee elevate che non lo riguardano.
*
Il fatto che alcune idee siano materialmente inutili all’umanità non può
giustificare il loro rifiuto. Una volta che un’idea esiste, bisogna aprirle le
porte. Se chiudiamo le porte, il pensiero si farà strada con la forza, oppure,
come la mosca delle favole, si intrufolerà in noi senza che ce ne accorgiamo. Le
idee non hanno riguardo per le nostre leggi sull’onore e la moralità.
*
Per sfuggire alla presa delle idee dominanti di oggi dovremmo studiare la
storia. Le vite di altre uomini in altre terre e in altre epoche ci insegna a
comprendere che le nostre “leggi eterne”, le nostre idee infallibili non sono
che aborti. Fate un passo avanti, immaginate le creature che vivono oltre questo
pianeta, e le nostre eternità terrene perderanno il loro fascino.
*
Nulla sappiamo delle realtà ultime della nostra esistenza – mai ne sapremo
qualcosa. Rassegniamoci. Ciò non significa che dobbiamo accettare questa o
quella teoria dogmatica sul nostro modo di vivere, tanto meno il positivismo,
che ha il viso dello scettico. Ne consegue soltanto che l’uomo è libero di
cambiare la propria concezione dell’universo ogni qualvolta cambia gli stivali o
i guanti e che i principi riguardano soltanto la distanza che abbiamo dagli
altri e in quale misura dipendono da noi. Per principio, dunque, l’uomo dovrebbe
rispettare l’ordine del mondo esteriore come il caos totale di quello interiore.
Per chi trova difficile sopportare tale dualità, si può prevedere un certo
ordine dello spirito. Purché costui non se ne vanti, perché è un segno della sua
debolezza, meschinità, ottusità.
*
La filosofia deve rinunciare al vano tentativo di trovare le “eterne verità”. Il
compito della filosofia è insegnare all’uomo a vivere nell’incertezza – proprio
perché l’uomo ha una paura suprema dell’incertezza e si nasconde perennemente
dietro lo schermo di questo o di quell’altro dogma. In breve, il compito della
filosofia non è di rassicurare le persone, ma di turbarle.
*
Quando l’uomo scopre un certo difetto di cui non può liberarsi, non gli resta
che accogliere quel difetto come una qualità naturale. Quanto più grave e
importante è il difetto, tanto più urgente è la necessità di nobilitarlo. Dal
sublime al ridicolo il passo è breve e un vizio inestirpabile, negli uomini
forti, è ribattezzato virtù.
*
Il compito dello scrittore: andare avanti e condividere le proprie impressioni
con i lettori. Non è obbligato a dimostrare nulla. Ma egli è perseguitato da
quegli agenti di polizia – la morale, la scienza, la logica e così via – e crede
di aver bisogno di una buona argomentazione per sedarli. Non deve preoccuparsi
troppo, non deve farci credere di essere “interiormente giusto”. È più che
sufficiente che continui a usurpare lo spazio che quei guardiani dei sentieri
verbali vorrebbero sottrargli.
*
Il segreto dell’“armonia interiore” di Puškin. Per Puškin nulla era privo di
speranza. Egli vedeva segnali di speranza in ogni cosa. Peccare è piacevole, ed
è piacevole pentirsi di aver peccato. È bene dubitare, ma ancor meglio credere.
È bello pattinare sul ghiaccio “con i piedini in calzari di cuoio e acciaio” e
vagare come zingari, pregare e litigare con un amico, fare pace con un nemico e
piangere per un capriccio, ricordare il passato e scrutare il futuro. Puškin
sapeva versare lacrime cocenti e chi sa piangere sa sperare.
*
Il campo ben curato del pensiero contemporaneo deve essere dissestato. Pertanto,
in ogni occasione e circostanza, le verità generalmente accettate devono essere
messe in ridicolo: al loro posto, si preferisca proferire paradossi. Poi,
vedremo…
*
Lodare se stessi è considerato sconveniente; lodare la propria setta, la propria
filosofia è un dovere supremo. Perfino i migliori scrittori si sono presi la
briga di giustificare la propria filosofia prima ancora di fondarla – avendo
successo nel primo più che nel secondo caso. Le loro idee, dimostrate o meno,
sono il loro bene più prezioso, autentica consolazione nel dolore, consiglio
sagace nello smarrimento. Perfino la morte non è temuta dalle idee: sono le sole
imperiture ricchezze. Tutto questo i filosofi ripetono, ripetono e ripetono con
la stessa arbitraria eloquenza degli avvocati che perorano la causa di ladri e
truffatori. Eppure, nessuno ha mai chiamato un filosofo “mercenario della
coscienza”: perché mai tale parzialità?
*
L’uomo è abituato ad avere delle convinzioni, dunque, eccoci qui. Nessuno di noi
può farne a mene, anche se in fondo le disprezza.
*
La letteratura affronta i problemi più importanti dell’esistenza, per questo i
letterati sono considerati, tra tutti, le persone più importanti. Un impiegato
di banca, sempre lì a distribuire denaro, potrebbe benissimo considerarsi un
milionario. L’alta stima attribuita alle questioni irrisolvibili dovrebbe
screditare gli scrittori ai nostri occhi. Eppure, questi letterati sono così
abili e astuti nell’esporre le proprie tesi e nel rivelare la fondamentale
importanza della loro missione, che a lungo andare convincono tutti –
soprattutto se stessi. Ciò è dovuto alla loro limitata intelligenza. Gli auguri
romani avevano menti più sottili e versatili: ingannavano gli altri senza aver
bisogno di ingannare se stessi. Nel loro ambiente non avevano paura di esporre i
propri segreti, perfino di screditarli, certi di saper assumere un’espressione
solenne nella giusta occasione. Ma i nostri scrittori odierni, prima di
pronunciare in pubblico le proprie improbabili affermazioni, devono cercare di
convincersi interiormente. Altrimenti, non possono iniziare.
*
I moralisti sono le persone più vendicative dell’umanità: usano la morale come
la più sottile arma di vendetta. Non si accontentano di disprezzare e condannare
il prossimo: vogliono che la condanna sia suprema, universale, cioè che tutta
l’umanità si ribelli come un sol uomo contro il condannato. Solo allora saranno
pienamente soddisfatti. Nulla al mondo può portare a risultati tanto prodigiosi
quanto la moralità.
*
Gli eretici venivano perseguitati con la massima crudeltà per minime devianze
dalla fede comunemente accettata. Era proprio tale ostinazione a difendere una
piccolezza a irritare i giusti fino alla follia. “Perché non possono cedere su
una questione tanto insignificante? Non possono avere seri motivi per opporsi.
Vogliono soltanto affliggerci, farci dispetto”. Così l’odio monta e montagne di
fascine e macchine di tortura apparvero per sfidare quella ostinata malvagità.
*
Le rivelazioni più alte e significative giungono al mondo nude, rudi, senza
abiti di gala. Trovare le parole per esprimerle è impresa delicata, un’arte. Le
banalità e le stupidaggini, al contrario, appaiono subito in abiti confezionati,
assai vistosi. Per questo, sono subito pronte a essere presentate al pubblico.
*
Essere irrimediabilmente infelici è da svergognati. Una persona
irrimediabilmente infelice è al di fuori dalle leggi della terra. Ogni legame
tra lui e la società è definitivamente reciso. Poiché prima o poi ogni individuo
è destinato a una infelicità irrimediabile, l’ultima parola della filosofia è la
solitudine.
Lev Šestov
*In copertina: un disegno di Michelangelo
L'articolo “La filosofia non deve rassicurare, ma turbare”. Su Lev Šestov, il
pensatore brutale proviene da Pangea.