
“La filosofia non deve rassicurare, ma turbare”. Su Lev Šestov, il pensatore brutale
Pangea - Monday, June 30, 2025Nel 1920, a Londra (presso Martin Secker) e a New York (per R.M. McBride), viene pubblicato un libro ‘impossibile’, All Things are Possible. Apotheosis of Groundlessness. Il sottotitolo – “Tentativi di un pensare adogmatico” – attrae il più filosofico degli scrittori dell’epoca, David Herbert Lawrence. In origine, il libro era uscito in Russia, nel 1905, come “Apoteosi della precarietà”; l’autore, Lev Šestov, era nato a Kiev quarant’anni prima; avrebbe voluto studiare matematica, avrebbe voluto fare l’avvocato – il padre, di lungimirante intelligenza, guidava una ricca azienda che commerciava in tessuti. Del libro – costruito impilando una serie di micidiali aforismi, tesi a decostruire le illusioni della ragione, le fallaci imprese del filosofare – si parlò a lungo. Nel 1903 Šestov aveva strutturato – sbriciolando ogni ‘sistema’ – la propria Filosofia della tragedia in un lungo studio su Nietzsche e Dostoevskij (edito da De Piante nel 2024, a cura di Luca Orlandini); tra anni prima era uscito L’idea di bene in Tolstoj e Nietzsche (in Italia: Castelvecchi, 2014). Šestov riuscì a incontrare il conte Tolstoj nel 1910, in marzo, pochi mesi prima che il grande scrittore, dopo la grande fuga, precipitasse negli altri mondi, morendo. Tolstoj era atterrito dall’arguzia – lenta, letale – di Šestov; pare che dopo aver sfogliato i suoi libri – così testimonia Maksim Gork’ij – abbia detto: “Che audacia… in sostanza, ha scritto senza mezzi termini che non ho fatto che ingannare me stesso – e che ho ingannato i miei lettori…”.
Nel 1920, Šestov parte per Sebastopoli – da lì, volta a Costantinopoli, a Genova, infine a Ginevra. Inviso ai bolscevichi, aveva da poco pubblicato Potestas Clavium. Dal 1921, si trasferisce in un modesto appartamento, a Parigi – sede, tra l’altro, degli incontri con il suo più luminoso e tragico allievo, Benjamin Fondane. Nel mondo inglese, il libro di Šestov passò per lo più inosservato: come accettare un pensatore impegnato a sregolare i dogmi della ragione, a sfatare ogni ‘buon senso’ in virtù dell’insensatezza del vivere, a mutilare le sirene del ‘progresso’ promuovendo, piuttosto, l’epica del miracolo, l’etica del capriccio? Nella sua introduzione, profetica – “La vera Russia è nata. Presto riderà di noi” – ed estrosa, Lawrence scrisse che Šestov “Non è nichilista – scuote l’umana psiche dai propri logori legami. La sua idea, centrale e positiva, è che l’animo umano deve credere in nient’altro che in se stesso”. Non credo sia questo il cuore del pensare di Šestov – se ci piace, possiamo dare all’egotismo il nome di ascesi e fare liturgia del carpe diem – ma Lawrence – che trascina il russo, come dire, dalla sua parte – la dice bene:
“Nell’inconscio, l’impulso creativo sgorga come il primo moto dell’universo. Aprite la coscienza a questo impulso, levate le vecchie cateratte, annientate le chiuse, le dighe, i canali di scolo. Ogni ideologia, in definitiva, non è che un ostacolo allo sviluppo spontaneo della propria creatività. Scacciamo ideali e ideologie. Lasciamo che ogni individuo segua l’impulso eternamente incalcolabile che è dentro di lui. Non esiste una legge universale. Ogni essere, nella sua più pura forma, è legge a sé, singola, univoca divinità a fronteggiare l’ignoto”.
Secondo Lawrence, “non dobbiamo essere irritati leggendo Šestov, ma divertiti”. In uno dei suoi più riusciti aforismi, Šestov scrive che la filosofia non nasce per confortare ma per turbare, per sconvolgere la comodità delle proprie consuetudini. Proprio per la sua aurorale radicalità, il pensiero di Šestov non trova luogo nelle accademie, non può elevarsi a moda (come accade, da tempo, al pensare, prodigiosamente ondivago e lucido di Emil Cioran). “Il pensiero di Šestov fatica a trovare collocazione all’interno di sistematizzazioni o correnti filosofiche definite… A questo punto il lettore sarà ragionevolmente investito da domande accusatorie: che utilità potrà mai avere un pensiero del genere? Quale insegnamento si può cogliere da questo abuso di libertà e licenza poetica? Ebbene, il pensiero di Šestov è unico proprio perché non si accontenta di enumerare, chiarificare e predicare le sue nozioni, ma preferisce penetrare all’interno dell’esistente e riallacciarsi alla vita, aspirando non a una pratica propedeutica all’utile, ma direttamente a smuovere le montagne con la sua voce” (così Samuele Brullo in: Apologia dell’impossibile. Šestov: la verità in conflitto tra speculazione e rivelazione, Alma Mater Studiorum, 2025).

All’epoca dell’infatuazione per Šestov, Lawrence girava l’Italia, con una predilezione per la Sardegna. Amava leggere Grazia Deledda, aveva scritto alcuni dei suoi libri maggiori, Figli e amanti, L’arcobaleno; proprio quell’anno usciva Donne innamorate. Lawrence scrisse che lo stile di Šestov, “di primo acchito è sconcertante”. Aveva ragione: poco indulgente con i vezzi retorici, con l’aplomb, con la plumbea eleganza dei romanzieri occidentali, Šestov agiva artigliando. Possedeva l’arguzia degli antichi maestri che, passo per passo, zolla per zolla, decostruiscono ogni idolo; infine, resta la carcassa, una stagione di condor, le ossa, bellissime, come candelabri – un intenso desiderio di luce.
I due, lo scrittore inglese e il pensatore venuto dalla Russia, non si incontrarono mai. Probabilmente Šestov avrebbe enumerato Lawrence nella schiera degli scrittori che, al cospetto dell’indimostrabile, si affannano a mostrare la propria intelligenza, a giustificarla. Ma siamo tutti in balia della grazia – una grazia che, a volte, ha la figura della tigre.
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Tentativi di un pensare adogmatico
I
Le oscure strade della vita non offrono la comodità delle arterie principali: niente luce elettrica, niente gas, neppure una mera lampada a cherosene. Nessun marciapiede: il viaggiatore si arrangi al buio. Se vuole la luce, attenda il lampo, oppure, come facevano i primitivi, cominci a sfregare le pietre finché non fiotti una scintilla. Nel lampo, gli accadono profili ignoti; deve cercare di ricordare ciò che ha appena percepito, poco importa se l’impressione è giusta o fallace. Perché non troverà altra luce, a meno che non apra il cranio contro il muro e ne scaturisca un fuoco. Cosa può mai radunare un mero mendicante in questo modo? Come possiamo attenderci resoconti chiari da colui la cui curiosità – chiamiamo così questa forza – lo ha portato a brancolare ai margini della vita? Perché dovremmo confrontare la sua cronaca con quella dei viaggiatori che, ben attrezzati, hanno percorso strade luminose?
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L’uomo ben acconciato, la cui vita è comoda, si dice: “Come può vivere chi non confida nella certezza del domani, come può dormire chi non ha un tetto sopra la testa?”. Quando la sfortuna si accanisce su di lui ed è cacciato da ogni casa, deve tuttavia ripararsi sotto una siepe. Non riesce a dormire, il terrore lo attanaglia. Potrebbero esserci bestie feroci, brutali compagni di vagabondaggio. Ma a lungo andare si abitua a tutto. Si affiderà al caso, vivrà come un mendicante, dormirà il sonno del giusto nei fossi.
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Uno scrittore, meglio se giovane e inesperto, si sente in obbligo di offrire al lettore le risposte a ogni possibile interrogativo. La coscienza non gli permette di volgere lo sguardo dai problemi più ardui, così comincia a discettare di “cose prime e ultime”. Non avendo nulla da dire su tali argomenti – non è dei giovani l’abisso del pensare – annaspa, si agita, urla fino a perdere la voce. Infine, roso dalla stanchezza, tace. Se le sue parole hanno avuto un certo successo presso il pubblico, si stupisce di essere considerato un profeta. A quel punto, è preso da un insaziabile desiderio di preservare tale influenza fino alla fine dei suoi giorni. Ma se è più sensibile e dotato della media, inizia a disprezzare la folla per la sua incurabile credulità e a dileggiare se stesso per essersi atteggiato ignobilmente a pagliaccio, propalando idee elevate che non lo riguardano.

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Il fatto che alcune idee siano materialmente inutili all’umanità non può giustificare il loro rifiuto. Una volta che un’idea esiste, bisogna aprirle le porte. Se chiudiamo le porte, il pensiero si farà strada con la forza, oppure, come la mosca delle favole, si intrufolerà in noi senza che ce ne accorgiamo. Le idee non hanno riguardo per le nostre leggi sull’onore e la moralità.
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Per sfuggire alla presa delle idee dominanti di oggi dovremmo studiare la storia. Le vite di altre uomini in altre terre e in altre epoche ci insegna a comprendere che le nostre “leggi eterne”, le nostre idee infallibili non sono che aborti. Fate un passo avanti, immaginate le creature che vivono oltre questo pianeta, e le nostre eternità terrene perderanno il loro fascino.
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Nulla sappiamo delle realtà ultime della nostra esistenza – mai ne sapremo qualcosa. Rassegniamoci. Ciò non significa che dobbiamo accettare questa o quella teoria dogmatica sul nostro modo di vivere, tanto meno il positivismo, che ha il viso dello scettico. Ne consegue soltanto che l’uomo è libero di cambiare la propria concezione dell’universo ogni qualvolta cambia gli stivali o i guanti e che i principi riguardano soltanto la distanza che abbiamo dagli altri e in quale misura dipendono da noi. Per principio, dunque, l’uomo dovrebbe rispettare l’ordine del mondo esteriore come il caos totale di quello interiore. Per chi trova difficile sopportare tale dualità, si può prevedere un certo ordine dello spirito. Purché costui non se ne vanti, perché è un segno della sua debolezza, meschinità, ottusità.
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La filosofia deve rinunciare al vano tentativo di trovare le “eterne verità”. Il compito della filosofia è insegnare all’uomo a vivere nell’incertezza – proprio perché l’uomo ha una paura suprema dell’incertezza e si nasconde perennemente dietro lo schermo di questo o di quell’altro dogma. In breve, il compito della filosofia non è di rassicurare le persone, ma di turbarle.
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Quando l’uomo scopre un certo difetto di cui non può liberarsi, non gli resta che accogliere quel difetto come una qualità naturale. Quanto più grave e importante è il difetto, tanto più urgente è la necessità di nobilitarlo. Dal sublime al ridicolo il passo è breve e un vizio inestirpabile, negli uomini forti, è ribattezzato virtù.
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Il compito dello scrittore: andare avanti e condividere le proprie impressioni con i lettori. Non è obbligato a dimostrare nulla. Ma egli è perseguitato da quegli agenti di polizia – la morale, la scienza, la logica e così via – e crede di aver bisogno di una buona argomentazione per sedarli. Non deve preoccuparsi troppo, non deve farci credere di essere “interiormente giusto”. È più che sufficiente che continui a usurpare lo spazio che quei guardiani dei sentieri verbali vorrebbero sottrargli.
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Il segreto dell’“armonia interiore” di Puškin. Per Puškin nulla era privo di speranza. Egli vedeva segnali di speranza in ogni cosa. Peccare è piacevole, ed è piacevole pentirsi di aver peccato. È bene dubitare, ma ancor meglio credere. È bello pattinare sul ghiaccio “con i piedini in calzari di cuoio e acciaio” e vagare come zingari, pregare e litigare con un amico, fare pace con un nemico e piangere per un capriccio, ricordare il passato e scrutare il futuro. Puškin sapeva versare lacrime cocenti e chi sa piangere sa sperare.
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Il campo ben curato del pensiero contemporaneo deve essere dissestato. Pertanto, in ogni occasione e circostanza, le verità generalmente accettate devono essere messe in ridicolo: al loro posto, si preferisca proferire paradossi. Poi, vedremo…
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Lodare se stessi è considerato sconveniente; lodare la propria setta, la propria filosofia è un dovere supremo. Perfino i migliori scrittori si sono presi la briga di giustificare la propria filosofia prima ancora di fondarla – avendo successo nel primo più che nel secondo caso. Le loro idee, dimostrate o meno, sono il loro bene più prezioso, autentica consolazione nel dolore, consiglio sagace nello smarrimento. Perfino la morte non è temuta dalle idee: sono le sole imperiture ricchezze. Tutto questo i filosofi ripetono, ripetono e ripetono con la stessa arbitraria eloquenza degli avvocati che perorano la causa di ladri e truffatori. Eppure, nessuno ha mai chiamato un filosofo “mercenario della coscienza”: perché mai tale parzialità?
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L’uomo è abituato ad avere delle convinzioni, dunque, eccoci qui. Nessuno di noi può farne a mene, anche se in fondo le disprezza.
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La letteratura affronta i problemi più importanti dell’esistenza, per questo i letterati sono considerati, tra tutti, le persone più importanti. Un impiegato di banca, sempre lì a distribuire denaro, potrebbe benissimo considerarsi un milionario. L’alta stima attribuita alle questioni irrisolvibili dovrebbe screditare gli scrittori ai nostri occhi. Eppure, questi letterati sono così abili e astuti nell’esporre le proprie tesi e nel rivelare la fondamentale importanza della loro missione, che a lungo andare convincono tutti – soprattutto se stessi. Ciò è dovuto alla loro limitata intelligenza. Gli auguri romani avevano menti più sottili e versatili: ingannavano gli altri senza aver bisogno di ingannare se stessi. Nel loro ambiente non avevano paura di esporre i propri segreti, perfino di screditarli, certi di saper assumere un’espressione solenne nella giusta occasione. Ma i nostri scrittori odierni, prima di pronunciare in pubblico le proprie improbabili affermazioni, devono cercare di convincersi interiormente. Altrimenti, non possono iniziare.
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I moralisti sono le persone più vendicative dell’umanità: usano la morale come la più sottile arma di vendetta. Non si accontentano di disprezzare e condannare il prossimo: vogliono che la condanna sia suprema, universale, cioè che tutta l’umanità si ribelli come un sol uomo contro il condannato. Solo allora saranno pienamente soddisfatti. Nulla al mondo può portare a risultati tanto prodigiosi quanto la moralità.
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Gli eretici venivano perseguitati con la massima crudeltà per minime devianze dalla fede comunemente accettata. Era proprio tale ostinazione a difendere una piccolezza a irritare i giusti fino alla follia. “Perché non possono cedere su una questione tanto insignificante? Non possono avere seri motivi per opporsi. Vogliono soltanto affliggerci, farci dispetto”. Così l’odio monta e montagne di fascine e macchine di tortura apparvero per sfidare quella ostinata malvagità.
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Le rivelazioni più alte e significative giungono al mondo nude, rudi, senza abiti di gala. Trovare le parole per esprimerle è impresa delicata, un’arte. Le banalità e le stupidaggini, al contrario, appaiono subito in abiti confezionati, assai vistosi. Per questo, sono subito pronte a essere presentate al pubblico.
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Essere irrimediabilmente infelici è da svergognati. Una persona irrimediabilmente infelice è al di fuori dalle leggi della terra. Ogni legame tra lui e la società è definitivamente reciso. Poiché prima o poi ogni individuo è destinato a una infelicità irrimediabile, l’ultima parola della filosofia è la solitudine.
Lev Šestov
*In copertina: un disegno di Michelangelo
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