Due bimbi lerci e bellissimi saltellano verso di noi non appena smontati
dalla maršrutka, ancora ubriachi dall’assurdo viaggio, un serpente di asfalto
lungo precipizi abissali, banchi di nebbia e cumuli di ghiaccio e piramidi di
massi al bordo della carreggiata. Fra le mani reggono delle calze colorate di
lana di pecora, e ce le porgono. La tessitura delle calze di lana di pecora è
una attività del posto in cui ci troviamo, forse l’unica.
Siamo a Khinalig, remoto villaggio dell’Azerbaigian nordorientale, posto su un
cucuzzolo a circa 2.300 metri di altezza fra i picchi del Grande Caucaso. È il
più alto e isolato centro abitato dell’ex repubblica socialista sovietica e uno
di quelli più sperduti e ad altitudine maggiore della regione del Caucaso e di
tutta l’Eurasia.
A Khinalig – Xınalıq in azero – ci si arriva da Quba, popolosa cittadina a nord
di Baku distante circa sessanta chilometri, percorrendo quella che in principio
è una strada di grande comunicazione e di straordinaria impervietà lungo il
letto pietroso del Qudiyalçay, un fiume che senz’altro ha vissuto anni migliori.
Qua e là, sul margine della corsia polverosa, bovini al pascolo, capannelle di
venditori di kebab e contadini che offrono su dei banchetti mobili i frutti
delle loro terre. Sono immagini di un mondo dimenticato, distantissimo dai
processi di integrazione e di mondializzazione del nostro secolo.
Man mano che percorriamo i chilometri alla velocità elevata tipica degli autisti
dell’Est ma di certo non appropriata a questi tragitti, le auto diminuiscono e
la strada si restringe. La civiltà così come la conosciamo è sparita da un pezzo
quando, dopo l’ennesimo curvone coperto dalla bruma, scorgiamo d’improvviso
Khinalig, a dritta, a poche centinaia di metri, nell’anfiteatro naturale che ci
offrono le vette innevate del Tufandağ, del Shahdagh e del Bazardüzü,
quest’ultima la cima più elevata dell’Azerbaigian coi suoi quasi 4.500 metri di
altezza.
Avvolta da una caligine azzurrina, Khinalig consegna di sé istantaneamente
un’immagine fuori dal tempo che attraversiamo. Qua la storia si è davvero
fermata. Ci arrampichiamo sul sentiero roccioso che conduce sulla sommità
dell’abitato. Qua incontriamo altri bambini. Ci scrutano con una vaga
diffidenza, ci seguono, ci indicano il percorso; tutto nel silenzio, ché gli
indigeni di Khinalig parlano una lingua unica, incomprensibile anche agli stessi
azeri, quindi anche alla giovane guida che ci accompagna. In questo mondo in
essenza, anche la parola è superflua. L’idioma è comunque una delle
particolarità del popolo khinalig. Loro lo chiamano ketsh – conosciuto anche
come ketshmits o khinalug – ed è un linguaggio isolato all’interno della
famiglia linguistica del Caucaso nordorientale, più vicino alla parlata del
Daghestan, repubblica russa della Ciscaucasia, appena di là del pizzo bianco del
Bazardüzü, che a quella della patria azera. Il suo alfabeto, definito da alcuni
linguisti nel secolo scorso, è composto da una settantina di lettere, di cui
ventotto vocali.
Località antituristica, non fosse per la sua posizione recondita, per l’assenza
di reali strutture ricettive e per la rigidità del clima per gran parte
dell’anno – in inverno si registrano temperature anche oltre i dieci gradi sotto
lo zero –, Khinalig presenta un’architettura spontanea e razionale, un grappolo
di case abborracciate e consolidate qualche tempo fa grazie all’intervento
diretto del presidente della repubblica d’Azerbaigian Ilham Aliyev.
Le abitazioni di quest’isola fra le montagne sono di pietra di fiume e argilla –
non dissimili a come dovevano essere migliaia di anni fa, al netto
dell’inserimento di alcuni elementi di lamiera e delle coperture in eternit –,
costruite praticamente una a ridosso dell’altra, al fine di fronteggiare al
meglio il clima inclemente e i forti venti della regione. Non è raro imbattersi
in un tetto di una casupola che al contempo funga da terrazza per quella che
sorge al livello superiore. In Europa lo liquideremmo come un accampamento di
nomadi e invece dal 2023 l’insediamento rurale di Khinalig, assieme alla lingua,
alle tradizioni dell’allevamento del bestiame e della transumanza, alla cultura
del villaggio, costituisce il sito patrimonio dell’umanità Unesco del Paesaggio
culturale del popolo khinalig.
Un signore paonazzo, con indosso un completo blu a righe, un po’ liso sulle
maniche, una camicia plumbea senza cravatta – eleganza arcaica, modesta, povera
ma non misera –, ci accoglie nella sua dimora, sbarrata da una porticina color
acquamarina. Premuroso nel suo silenzio, ci guida verso il piano superiore,
passando una parete foderata di tappetti dai colori caldi, costume funzionale
dei Paesi dell’Est. Ci fa accomodare a un tavolo lungo, già imbandito con tè,
caramelle, zollette di zucchero e coppette colme di marmellata di ciliegie. Più
in là, su un mobiletto, il samovar e un altro semplice servizio da tè pronto per
i prossimi ospiti.
Consumata la merenda e ringraziato con lenti inchini e mani sul petto, ci
ritroviamo di nuovo nelle stradine sospese nel tempo di Khinalig, diretti verso
il museo storico-etnografico, allestito all’interno di una rocca di pietra. I
tappeti, i libri antichi, alcune copie del giornale locale – il Xınalıq –, le
terrecotte, i manufatti e i recipienti in rame, gli utensili da lavoro e la
collezione di reperti archeologici risalenti all’Età del Bronzo – circa
cinquemila anni fa, le prime fasi di vita dell’insediamento – conservati nella
sala del piccolo edificio raccontano la storia di un inestimabile tesoro umano e
culturale, la memoria e la storia minima di un luogo e di un popolo capaci
di conservare la propria identità e di resistere a millenni di guerre,
colonizzazioni, commistioni ed evoluzioni della società dei sapiens.
Khinalig, villaggio alla fine e al principio del mondo; sì, perché tradizione
locale di cui i nativi khinalig sono fermamente convinti e orgogliosi vuole che
proprio su questo altopiano delle montagne del Caucaso Noè abbia gettato
l’ancora della sua arca, scampando al Diluvio e dando vita a una rinnovata
umanità. Verosimilmente una delle ventisei tribù della Albania caucasica citate
nel I secolo da Strabone nella Geografia – opera fondamentale per lo studio
della storia del mondo antico –, i khinalig sono un’umanità romita, legata alla
tradizione nomade dell’Asia Centrale, ma non erma e destinata all’estinzione,
ché il villaggio sperduto del Caucaso non conosce la irreversibile crisi
demografica che angaria i paesi dell’interno dell’Europa e dell’Italia in
particolare.
I residenti di Khinalig sono circa duemila – un numero che va pesato in
proporzione alla popolazione totale dell’Azerbaigian, più o meno dieci milioni,
circa un sesto di quella italiana – e la somma dei luoghi sacri – sono ben
cinque le moschee locali con la più importante, la moschea Abu Muslim, risalente
all’ottavo secolo – e l’ammodernamento recente della scuola a servizio
della nutrita popolazione in età verde riescono a parlarci di futuro pur in una
cornice immobile nel tempo, pressoché incontaminata e incorrotta, espressione di
una eccezionale resistenza al durissimo isolamento, una capacità che andrebbe
studiata dagli antropologi, ma pure dagli amministratori, dagli apostoli della
turistificazione forzata e da tutti i saltimbanchi esperti di piani fallimentari
di ripopolamento delle aree interne del Vecchio Continente.
La luce comincia ad affievolire e la temperatura cala rapidamente quando
intraprendiamo la strada del ritorno, accompagnati dai saluti muti di diverse
teste che spuntano dalle bicocche. Chissà se le lasceranno mai, se un giorno
abbandoneranno il loro remoto minareto per cercare nuovi orizzonti altrove.
Chissà se si lasceranno ingannare. Li guardo e penso che abbiano compreso e
raggiunto quello che in Occidente, avviluppati in un vortice di opportunità a
buon mercato, inondati di stimoli e modelli da emulare, dagli infiniti possibili
realizzabili, non riusciamo più a capire e a conquistare: la nostra vera natura.
L’autista ha riacceso l’agonizzante motore della maršrutka. Ritornano i bambini,
fra le mani ancora qualche calza variopinta. Ci scambiamo un ultimo sguardo. Uno
di loro sembra sorridermi, un altro mi guarda inespressivo. Cosa mi trasmettono
i loro occhi? Che li sto abbandonando, anche io, che forse avrei potuto fare
qualcosa di più? Ma cosa? Sarà forse l’insita arroganza dell’uomo occidentale,
la sua formazione eurocentrica, il suo latente senso di superiorità verso tutto
ciò che lo circonda a farmi credere questo? È un tremolio dello stomaco che dura
un attimo; il tempo di salire sulla sgangherata vettura perché tutto svanisca,
nella nebbia che torna a compattarsi sulla strada. Si va via, col presentimento
che quei ragazzini, nella loro primitiva autenticità, luminosa espressione
di un’alterità non traviata, non inquinata dall’opera di corruzione morale del
mondo capitalistico, eredi sì del pastore errante dell’Asia di Leopardi, ma
spogli delle sue penose angosce, non abbiano pensato proprio niente.
Antonio Pagliuso
*Tutte le fotografie scattate a Khinalig sono dell’autore del reportage
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