Quando lungo il vespro del 1926 Joseph Roth fu inviato in Russia per conto
della Frankfurter Zeitung una cosa lo colpì più di tutte, tanto da ribaltarne
radicalmente l’opinione su quel mondo in rivolta che lo aveva entusiasmato negli
anni dell’Ottobre: il rapidissimo imborghesimento subito dalla società civile
russa.
In una incendiaria decade, il popolo russo era passato dall’impostazione
pressocché feudale dell’epoca zarista – socialmente in ritardo di un secolo
rispetto agli europei – e dal furore guerresco, dostoevskianamente demoniaco,
dei socialrivoluzionari al sistema conformista della vita piccolo-borghese,
propedeutica alla stritolante burocrazia, germe che contaminò ogni buco della
vita pubblica, della politica, del lavoro e delle arti.
In pochi anni la Rivoluzione bolscevica, madre del primo governo proletario
della storia, e la politica economica del voennij kommunizm, il comunismo di
guerra vigente durante la fase passionale della guerra civile, avevano, col
“fuoco tranquillo che si diffonde a consumare tutto”, attingendo dalla poesia di
Aleksandr Blok, di fatto cancellato lo spirito russo, la sua anima più
autentica, mutato antropologicamente il Paese. Era stato rifatto “l’uomo dalle
budella”, per dirla con Viktor Šklovskij.
> > > > “Dopo il terrore rosso esaltante, sanguinoso della rivoluzione attiva,
> > > > venne in Russia il terrore ottuso, silenzioso, nero della burocrazia, il
> > > > terrore della penna e del calamaio.” (J. Roth, Viaggio in Russia,
> > > > Adelphi 1981)
La penna e il calamaio che, abilmente, lungi dalle luci della ribalta, causarono
repressione, paura e morte, in maniera affine al più manifesto, lampante terrore
della guerra civile. Non è calcolabile il numero di scrittori, accademici,
religiosi, scienziati e intellettuali che, fra arresti, esili ed esecuzioni,
furono colpiti dalla mannaia del terrore bolscevico prima e, con ancora più
vigore e perizia, della dittatura staliniana poi. Lungo i decenni, tanti
esponenti illustri dell’intelligencijatradita hanno raccontato – diversi finché
ne hanno avuto il tempo… – i drammi del bolscevismo e del susseguente nuovo
ordine sovietico. Da Nikolaj Gumilëv ad Aleksandr Blok, da Andrej Belyj a Marina
Cvetaeva, passando per Sergej Esenin, Vladimir Majakovskij, Boris Pil’njak,
Michail Bulgakov e Osip Mandel’štam, il poeta acmeista che in un verso della
primavera del ’18 celebrava sommessamente “il crepuscolo della libertà”.
In pochi, però, hanno descritto tali orrori dal di dentro, dalle fauci del
mostro, dall’epicentro del diluvio, ché in ogni tempo e a ogni latitudine la
memorialistica è fatta quasi esclusivamente dalle vittime, dai reduci, dai
sopravvissuti alla tirannia, anziché dagli oppressori. Eccezione in tal senso è
il carnefice della Rivoluzione leninista e trockista Andrej Srubov, il
personaggio uscito dalla penna di Vladimir Zazubrin, giornalista e scrittore
nato nel 1895 a Penza, città rurale sulle alture del Volga, e rivoluzionario
bolscevico della prima ora.
Antizarista, nel 1914 Zazubrin – al secolo Vladimir Jakovlevič Zubcov – entrò
nelle fila dei rivoluzionari comunisti per infiltrarsi nella Ochrana, la polizia
segreta di Nicola II. Ai primi bagliori della Rivoluzione d’ottobre partecipò
nel comitato rivoluzionario della scuola militare di Pietrogrado. Negli anni
della lotta fratricida fra Rossi e Bianchi, Zazubrin si ammalò di tifo e durante
il periodo di convalescenza iniziò la stesura del suo Dva mira – Due mondi –,
pubblicato nel ’21 e apprezzato da Gor’kij e financo da Lenin. Il testo è da
molti studiosi indicato come il primo romanzo sovietico. La sua biografia non si
prolunga di molto, ché dopo l’espulsione, nel 1928, dall’Unione degli scrittori
siberiani e dal Pcus per essersi opposto alla linea sempre più rigida del
partito, il nome di Vladimir Zazubrin comincerà gradualmente a liquefarsi, fino
a sparire completamente nel 1938, risucchiato nella voragine delle Grandi purghe
di Stalin.
“Così nel nostro secolo nascevano, creavano e morivano gli scrittori russi,
anche quelli che avevano consacrato le loro opere e i loro giorni a Lei e solo a
Lei” scrive l’insigne slavista Serena Vitale nel suo commento conclusivo a La
scheggia, titolo tagliente di un breve romanzo che Zazubrin non riuscì a
pubblicare in vita, respinto da Sibirskie ogni – Luci siberiane –, il giornale
di Novosibirsk per il quale lo scrittore era segretario di redazione. Il
racconto scomparì per oltre sessant’anni, fino a quando nel 1989, con l’Unione
Sovietica agli estremi palpiti, una ricercatrice lo rinvenne in qualche scaffale
polveroso della Leninka, la Biblioteca di stato di Mosca.
“Lei e solo Lei.” Chi era Lei?
Lei è la vera protagonista della povest’ di Zazubrin: la Rivoluzione. È per Lei
che Andrej Srubov, voce narrante del racconto, lavora. È Lei la ragione ultima
della sua vita.
Figlio dell’Ottobre di Lenin e Trockij e responsabile della Commissione
straordinaria di tutte le Russie per combattere la controrivoluzione e il
sabotaggio – ovvero la famigerata Čeka –, il compagno Srubov organizza la
distruzione dei nemici di Lei, il loro abbattimento, come una foresta di
“bianche betulle”. Srubov è un taglialegna – il suo cognome è plasmato dal
verbo srubit’, tagliare –, ma percepisce costituirsi attorno a sé anche la
funzione del “vuotacessi della Rivoluzione”, giacché è suo compito punire gli
uomini che provano a insozzare dove lui è chiamato a fare pulizia. Suo dovere è
“prevenire l’inquinamento” delle pure fonti di Lei, “crudele e bellissima”,
l’ideale superiore per il quale “anche uccidere è una gioia”.
La voce della Scheggia – Ščepka in russo – assiste alle regolari esecuzioni
compiute dai cekisti all’interno dei sotterranei di un palazzo dalle mura
biancosporche. I controrivoluzionari vengono raccolti a gruppi di cinque, fatti
spogliare e giustiziati con un colpo di revolver alla nuca. Nudi, perché “coi
vestiti addosso ammazzano solo gli assassini”. Avanti i prossimi: cinque uomini
vestiti sostituiscono cinque uomini nudi, cinque “parassiti” al momento vivi
danno il cambio a cinque carcasse. E Srubov sovrintende ai lavori della
“fabbrica”. Una fabbrica di smaltimento.
Nei sotterranei gelidi del palazzone – “un pozzo di pietra a tre piani” – si
respira un’aria pesante, di sudore, di feci, di carne sanguinolenta, di
poltiglia fumante, mitigata dal clima di euforia collettiva e da un traviato
senso di giustizia. Per la Revoljutsija si uccide, per Lei si muore.
Quel che colpisce del romanzo breve di Zazubrin è – e lo ravvisò già Valerian
Pravduchin nella prima prefazione del testo – il numero di mostruosità presenti
in un insieme così ristretto di pagine, “una quantità di orrori assolutamente
inconcepibile su una così piccola tela”.
> “Un doloroso colpo alle orecchie. Bianche carcasse di umida carne si
> afflosciarono sul pavimento. I cekisti corsero rapidamente indietro con i
> revolver fumanti in mano, e subito fecero schioccare di nuovo i grilletti. Le
> gambe dei giustiziati ebbero una contrazione. L’uomo grasso tirò l’ultimo
> respiro con un sibilo stridente. Srubov pensò: «Esiste l’anima, o no? È forse
> l’anima che esce sibilando?».”
È così che il perfetto cekista Srubov crolla. Segue il processo di introspezione
del taglialegna della Rivoluzione – e con lui dello scrittore. Fuori dal
sottosuolo del terrore, nel boia si insinua il sospetto devastante che il
bolscevismo sia soltanto un “fenomeno patologico temporaneo” che ha colpito il
popolo russo e ne ha drogato orientamento e identità; che il comunismo
universale sia una utopia degenerante e che in futuro l’umanità non
approverà “questa «felicità» costruita sul sangue umano” e presenterà il suo
conto.
> “La rivoluzione non è mica filosofia.”
D’altra parte, lo avrebbe riconosciuto senza addolcimenti Mao Tse-tung, il
dittatore della Cina comunista, che
> “la rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un
> disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità
> e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e
> magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il
> quale una classe ne rovescia un’altra”.
Anche a costo di abbattere tutto il bosco, far schizzare le schegge dovunque e
condannare un popolo intero a un processo morale senza fine. Tutto per Lei e
solo Lei.
Antonio Pagliuso
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bolscevico proviene da Pangea.
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Due bimbi lerci e bellissimi saltellano verso di noi non appena smontati
dalla maršrutka, ancora ubriachi dall’assurdo viaggio, un serpente di asfalto
lungo precipizi abissali, banchi di nebbia e cumuli di ghiaccio e piramidi di
massi al bordo della carreggiata. Fra le mani reggono delle calze colorate di
lana di pecora, e ce le porgono. La tessitura delle calze di lana di pecora è
una attività del posto in cui ci troviamo, forse l’unica.
Siamo a Khinalig, remoto villaggio dell’Azerbaigian nordorientale, posto su un
cucuzzolo a circa 2.300 metri di altezza fra i picchi del Grande Caucaso. È il
più alto e isolato centro abitato dell’ex repubblica socialista sovietica e uno
di quelli più sperduti e ad altitudine maggiore della regione del Caucaso e di
tutta l’Eurasia.
A Khinalig – Xınalıq in azero – ci si arriva da Quba, popolosa cittadina a nord
di Baku distante circa sessanta chilometri, percorrendo quella che in principio
è una strada di grande comunicazione e di straordinaria impervietà lungo il
letto pietroso del Qudiyalçay, un fiume che senz’altro ha vissuto anni migliori.
Qua e là, sul margine della corsia polverosa, bovini al pascolo, capannelle di
venditori di kebab e contadini che offrono su dei banchetti mobili i frutti
delle loro terre. Sono immagini di un mondo dimenticato, distantissimo dai
processi di integrazione e di mondializzazione del nostro secolo.
Man mano che percorriamo i chilometri alla velocità elevata tipica degli autisti
dell’Est ma di certo non appropriata a questi tragitti, le auto diminuiscono e
la strada si restringe. La civiltà così come la conosciamo è sparita da un pezzo
quando, dopo l’ennesimo curvone coperto dalla bruma, scorgiamo d’improvviso
Khinalig, a dritta, a poche centinaia di metri, nell’anfiteatro naturale che ci
offrono le vette innevate del Tufandağ, del Shahdagh e del Bazardüzü,
quest’ultima la cima più elevata dell’Azerbaigian coi suoi quasi 4.500 metri di
altezza.
Avvolta da una caligine azzurrina, Khinalig consegna di sé istantaneamente
un’immagine fuori dal tempo che attraversiamo. Qua la storia si è davvero
fermata. Ci arrampichiamo sul sentiero roccioso che conduce sulla sommità
dell’abitato. Qua incontriamo altri bambini. Ci scrutano con una vaga
diffidenza, ci seguono, ci indicano il percorso; tutto nel silenzio, ché gli
indigeni di Khinalig parlano una lingua unica, incomprensibile anche agli stessi
azeri, quindi anche alla giovane guida che ci accompagna. In questo mondo in
essenza, anche la parola è superflua. L’idioma è comunque una delle
particolarità del popolo khinalig. Loro lo chiamano ketsh – conosciuto anche
come ketshmits o khinalug – ed è un linguaggio isolato all’interno della
famiglia linguistica del Caucaso nordorientale, più vicino alla parlata del
Daghestan, repubblica russa della Ciscaucasia, appena di là del pizzo bianco del
Bazardüzü, che a quella della patria azera. Il suo alfabeto, definito da alcuni
linguisti nel secolo scorso, è composto da una settantina di lettere, di cui
ventotto vocali.
Località antituristica, non fosse per la sua posizione recondita, per l’assenza
di reali strutture ricettive e per la rigidità del clima per gran parte
dell’anno – in inverno si registrano temperature anche oltre i dieci gradi sotto
lo zero –, Khinalig presenta un’architettura spontanea e razionale, un grappolo
di case abborracciate e consolidate qualche tempo fa grazie all’intervento
diretto del presidente della repubblica d’Azerbaigian Ilham Aliyev.
Le abitazioni di quest’isola fra le montagne sono di pietra di fiume e argilla –
non dissimili a come dovevano essere migliaia di anni fa, al netto
dell’inserimento di alcuni elementi di lamiera e delle coperture in eternit –,
costruite praticamente una a ridosso dell’altra, al fine di fronteggiare al
meglio il clima inclemente e i forti venti della regione. Non è raro imbattersi
in un tetto di una casupola che al contempo funga da terrazza per quella che
sorge al livello superiore. In Europa lo liquideremmo come un accampamento di
nomadi e invece dal 2023 l’insediamento rurale di Khinalig, assieme alla lingua,
alle tradizioni dell’allevamento del bestiame e della transumanza, alla cultura
del villaggio, costituisce il sito patrimonio dell’umanità Unesco del Paesaggio
culturale del popolo khinalig.
Un signore paonazzo, con indosso un completo blu a righe, un po’ liso sulle
maniche, una camicia plumbea senza cravatta – eleganza arcaica, modesta, povera
ma non misera –, ci accoglie nella sua dimora, sbarrata da una porticina color
acquamarina. Premuroso nel suo silenzio, ci guida verso il piano superiore,
passando una parete foderata di tappetti dai colori caldi, costume funzionale
dei Paesi dell’Est. Ci fa accomodare a un tavolo lungo, già imbandito con tè,
caramelle, zollette di zucchero e coppette colme di marmellata di ciliegie. Più
in là, su un mobiletto, il samovar e un altro semplice servizio da tè pronto per
i prossimi ospiti.
Consumata la merenda e ringraziato con lenti inchini e mani sul petto, ci
ritroviamo di nuovo nelle stradine sospese nel tempo di Khinalig, diretti verso
il museo storico-etnografico, allestito all’interno di una rocca di pietra. I
tappeti, i libri antichi, alcune copie del giornale locale – il Xınalıq –, le
terrecotte, i manufatti e i recipienti in rame, gli utensili da lavoro e la
collezione di reperti archeologici risalenti all’Età del Bronzo – circa
cinquemila anni fa, le prime fasi di vita dell’insediamento – conservati nella
sala del piccolo edificio raccontano la storia di un inestimabile tesoro umano e
culturale, la memoria e la storia minima di un luogo e di un popolo capaci
di conservare la propria identità e di resistere a millenni di guerre,
colonizzazioni, commistioni ed evoluzioni della società dei sapiens.
Khinalig, villaggio alla fine e al principio del mondo; sì, perché tradizione
locale di cui i nativi khinalig sono fermamente convinti e orgogliosi vuole che
proprio su questo altopiano delle montagne del Caucaso Noè abbia gettato
l’ancora della sua arca, scampando al Diluvio e dando vita a una rinnovata
umanità. Verosimilmente una delle ventisei tribù della Albania caucasica citate
nel I secolo da Strabone nella Geografia – opera fondamentale per lo studio
della storia del mondo antico –, i khinalig sono un’umanità romita, legata alla
tradizione nomade dell’Asia Centrale, ma non erma e destinata all’estinzione,
ché il villaggio sperduto del Caucaso non conosce la irreversibile crisi
demografica che angaria i paesi dell’interno dell’Europa e dell’Italia in
particolare.
I residenti di Khinalig sono circa duemila – un numero che va pesato in
proporzione alla popolazione totale dell’Azerbaigian, più o meno dieci milioni,
circa un sesto di quella italiana – e la somma dei luoghi sacri – sono ben
cinque le moschee locali con la più importante, la moschea Abu Muslim, risalente
all’ottavo secolo – e l’ammodernamento recente della scuola a servizio
della nutrita popolazione in età verde riescono a parlarci di futuro pur in una
cornice immobile nel tempo, pressoché incontaminata e incorrotta, espressione di
una eccezionale resistenza al durissimo isolamento, una capacità che andrebbe
studiata dagli antropologi, ma pure dagli amministratori, dagli apostoli della
turistificazione forzata e da tutti i saltimbanchi esperti di piani fallimentari
di ripopolamento delle aree interne del Vecchio Continente.
La luce comincia ad affievolire e la temperatura cala rapidamente quando
intraprendiamo la strada del ritorno, accompagnati dai saluti muti di diverse
teste che spuntano dalle bicocche. Chissà se le lasceranno mai, se un giorno
abbandoneranno il loro remoto minareto per cercare nuovi orizzonti altrove.
Chissà se si lasceranno ingannare. Li guardo e penso che abbiano compreso e
raggiunto quello che in Occidente, avviluppati in un vortice di opportunità a
buon mercato, inondati di stimoli e modelli da emulare, dagli infiniti possibili
realizzabili, non riusciamo più a capire e a conquistare: la nostra vera natura.
L’autista ha riacceso l’agonizzante motore della maršrutka. Ritornano i bambini,
fra le mani ancora qualche calza variopinta. Ci scambiamo un ultimo sguardo. Uno
di loro sembra sorridermi, un altro mi guarda inespressivo. Cosa mi trasmettono
i loro occhi? Che li sto abbandonando, anche io, che forse avrei potuto fare
qualcosa di più? Ma cosa? Sarà forse l’insita arroganza dell’uomo occidentale,
la sua formazione eurocentrica, il suo latente senso di superiorità verso tutto
ciò che lo circonda a farmi credere questo? È un tremolio dello stomaco che dura
un attimo; il tempo di salire sulla sgangherata vettura perché tutto svanisca,
nella nebbia che torna a compattarsi sulla strada. Si va via, col presentimento
che quei ragazzini, nella loro primitiva autenticità, luminosa espressione
di un’alterità non traviata, non inquinata dall’opera di corruzione morale del
mondo capitalistico, eredi sì del pastore errante dell’Asia di Leopardi, ma
spogli delle sue penose angosce, non abbiano pensato proprio niente.
Antonio Pagliuso
*Tutte le fotografie scattate a Khinalig sono dell’autore del reportage
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