> “Nel quadro, una figura femminile, bianca e luminosa, procede da est a ovest,
> tenendo tra le mani un libro e i fili del telegrafo (…); alle sue spalle, e
> nella stessa direzione, procedono i vagoni di un treno, mentre alla sua
> sinistra, più in primo piano nel dipinto, uomini armati di aratro camminano
> con calma su una strada dritta. I tre personaggi, la donna, il treno e i
> farmers, avanzano lungo tracciati paralleli e ordinati. La parte sinistra del
> quadro, quella a ovest, è invece occupata da figure disposte in modo
> decisamente più irregolare: si tratta di nativi e animali che fuggono
> incivilmente, spinti fuori campo dall’incedere rassicurante del progresso”.
>
> (Andrea Laquidara, John Ford e il cinema americano, Mimesis 2019, pp.29-30)
Nel dipinto del 1872 American Progress di John Gast, artista statunitense dalle
venature naïf nato a Berlino, specializzato in litografie, la donna splendente
con la stella sulla fronte che procede levitando verso Ovest (a cui si ispira il
personaggio della DC Comics Wonder Woman) incarna la famosa dottrina
ottocentesca del Manifest Destiny: il progresso inarrestabile visto come una
missione divina, affidata agli Stati Uniti, i quali avevano il dovere di
espandersi sul continente per portare la luce della civiltà verso la natura
oscura e selvaggia – e ostile – da colonizzare. Una civiltà che ha costruito la
sua identità in modo cruento, nell’inevitabile confronto/conflitto con il
selvaggio, che andava allontanato, piegato, addomesticato, e nelle fasi estreme
di guerra andava sterminato, proprio in nome del Destino Manifesto. Il termine,
coniato dal giornalista-editore John L. O’Sullivan, divenne popolare nel 1845
nella disputa territoriale per l’Oregon e nell’annessione del Texas: una
rivendicazione per «il diritto del nostro destino manifesto di diffonderci per
l’intero continente, che la Provvidenza ci ha dato per lo sviluppo di un grande
esperimento di libertà e di autogoverno federato». Termine che venne usato per
la prima volta in un discorso al Congresso da Robert Winthrop nel 1846: «I mean
that new revelation of right which has been designated as the right of our
manifest destiny to spread over this whole continent. (…) The right of our
manifest destiny! There is a right for a new chapter in the law of nations; or
rather, in the special laws of our own country; for I suppose the right of a
manifest destiny to spread will not be admitted to exist in any nation except
the universal Yankee nation!».
Per riprendere questo tema vogliamo tornare al saggio di Andrea Laquidara John
Ford e il cinema americano, ovvero la rimozione di Dioniso (Mimesis 2019), di
cui già abbiamo parlato a proposito della Diligenza per Lordsburg, trasposta al
cinema con il celeberrimo Stagecoach, ovvero Ombre rosse. Abbiamo visto che John
Ford ha segnato la storia del cinema per aver costantemente tematizzato il
confronto con il selvaggio, proprio attingendo alla tradizione dell’immaginario
statunitense ottocentesco. E il suo primo film di grande successo, quello che
gli diede notorietà e peso, risale al 1924, in pieno cinema muto: The Iron
Horse, una grande epopea che racconta la costruzione della prima linea
ferroviaria transcontinentale americana negli anni successivi alla Guerra
Civile. La pellicola venne girata in gran parte negli altopiani desertici vicino
a Reno, Nevada, e impiegò centinaia di comparse, che comprendevano operai
cinesi, irlandesi e indiani Paiute. Il racconto prende episodi fondamentali
della storia americana: la Guerra Civile, la presidenza di Lincoln, l’espansione
verso Ovest e gli scontri con gli indiani, e mostra come la costruzione della
ferrovia transcontinentale si sposava indefettibilmente con l’ideologia
del Manifest Destiny, sostenuta come necessaria e inevitabile.
Il progetto della ferrovia transcontinentale venne elaborato per la prima volta
nel 1845, ma il Congresso non riuscì a dargli una fisionomia definitiva a causa
dei contrasti sul percorso da scegliere. In seguito, la secessione degli stati
del Sud e la guerra conseguente favorirono la scelta, appoggiata dai nordisti,
di un percorso che tagliasse le regioni centrali degli Stati Uniti, e nel 1862
il Congresso approvò il Pacific Railway Act, che autorizzava la compagnia Union
Pacific Railroad a costruire in direzione ovest a partire da Omaha, mentre la
Central Pacific Railroad of California ottenne il permesso di costruire la linea
in direzione est, partendo da Sacramento. Era un’impresa di enorme difficoltà,
trattandosi di regioni isolate e quasi disabitate: tutto quanto, le traversine,
il pietrisco, i binari di ferro, il materiale rotabile, i macchinari dovevano
essere trasportati sui luoghi del cantiere da molto lontano, insieme alle
provviste e ai rifornimenti per migliaia di operai – in buona parte immigrati e
veterani dell’esercito dell’Unione smobilitati – che, spesso, erano costretti a
lasciare i picconi e a imbracciare i fucili per respingere gli immancabili
attacchi degli indiani.
In John Ford e il cinema americano, Andrea Laquidara si spinge ancora più
indietro rispetto al periodo canonico anni ’30 – anni ’60, considerato il più
significativo nella maggioranza delle monografie sul regista, per analizzare
proprio The Iron Horse del 1924, Il cavallo d’acciaio, la maestosa ricostruzione
dell’impresa ferroviaria ottocentesca. Abbiamo il topografo David Brandon Sr che
porta con sé il figlio David Jr in un viaggio esplorativo, nel sogno di
realizzare un giorno la grande ferrovia transcontinentale; ma i due vengono
assaliti da una banda di Cheyenne, il cui capo – un bianco travestito da
selvaggio – uccide il padre lasciando il figlio solo e abbandonato a sé stesso.
Anni dopo, l’imprenditore Marsh, padre di Miriam, la ragazzina che il piccolo
David Brandon aveva dovuto lasciare per seguire il padre, presiede la Union
Pacific, incaricata di costruire il tratto fra il Nebraska e lo Utah; Miriam è
fidanzata con Jesson, ingegnere al servizio del padre. Il ricco possidente
Deroux, il villain della storia, fa di tutto per impedire che la ferrovia segua
un percorso lineare, cercando di convincere l’imprenditore Marsh a farla deviare
nelle sue terre. Ma il provvidenziale rientro in scena di David Brandon, ora
impiegato come pony express, manda all’aria il suo intento: il giovane
suggerisce a Marsh una scorciatoia, lo shorter pass che aveva individuato col
padre in quel tragico viaggio. Va da sé che il malvagio Deroux cerchi di
eliminare David, con la complicità dell’ingegnere Jesson, geloso per l’amore che
sta rifiorendo fra i ritrovati David e Miriam, ma l’intento non riesce: “dunque
a Deroux non rimane che scatenare un gruppo di agguerriti Cheyenne: questi
aggrediscono i lavoratori, li accerchiano, e rischiano di interrompere
definitivamente il progredire della ‘civiltà’, se non fosse che l’intera
cittadina di Cheyenne City, costituita da immigrati irlandesi, cinesi, italiani
(un po’ riluttanti questi ultimi), si anima e corre in aiuto degli operai”.
Ora fermiamo il riassunto, lasciando il finale a chi voglia guardare la
pellicola, e partendo da qui dialoghiamo con l’autore, studioso, regista e
insegnante di Cinema all’Università di Urbino, per ragionare su alcuni aspetti –
anche sorprendenti – di questo film.
Dopo alcune scaramucce con gli indiani, risolte dalla determinazione degli
operai che si difendono a fucilate, il grande assalto alla ferrovia da parte dei
Cheyenne arriva dopo circa due ore: Ford filma l’aggressione, che si sviluppa
“at the end of the track”, con i lavoratori guidati da David Brandon che
“imbracciano le armi e si rifugiano sotto i vagoni, tra i binari, immediatamente
trasformati in trincea”. È interessante vedere la coreografia dell’assedio dei
Cheyenne: la provenienza da sinistra, ovvero da Ovest – che ricorda gli avispici
eseguiti dagli àuguri nella nostra antichità – e il senso antiorario della
corsa: tutti elementi carichi di significato.
Nel cinema – nel buon cinema – vi è sempre una compresenza di esplicito e
implicito, di non detto e dichiarato: significati, valori, visioni del mondo
arrivano allo sguardo dello spettatore tramite elementi evidenti del contenuto,
ma soprattutto grazie a scelte stilistiche insieme sottili e clamorose. Nella
scena della battaglia di The Iron Horse vi sono dettagli di regia densissimi di
richiami alla filosofia che pervade l’immaginario statunitense dai tempi della
Rivoluzione americana – probabilmente anche da prima.
I Cheyenne attaccano dalla sinistra dello schermo, dal West, da una terra non
ancora civilized, muovendosi in direzione opposta al simbolo più esemplare della
marcia del progresso, la ferrovia. Il percorso dei nativi (i “selvaggi”)
confluisce in un cerchio, e Ford ce lo mostra con chiarezza in una serie di
campi lunghissimi alternati con perizia a piani più stretti: il cerchio
(antiorario, perdipiù) contraddice la linea, la stasi selvaggia si oppone al
progresso razionale. Progresso borghese, potremmo aggiungere.
C’è poi un aspetto di grande rilevanza legato al taglio delle inquadrature e al
meccanismo di identificazione che esso determina nello spettatore. Per tutta la
sequenza della battaglia, i primi piani o le mezze figure sono riservati
esclusivamente ai lavoratori vittime dell’attacco, mentre i Cheyenne sono
inquadrati sempre con totali, pienamente assorbiti nella grigia e
ostile wilderness. Il pubblico è dunque indotto a empatizzare con le vittime,
mentre i nativi assumono il solo ruolo di mere e anonime minacce – inseriti nel
paesaggio, come le rocce e gli animali, ci dice Sandro Bernardi in una
riflessione interessantissima sul cinema di Ford.
Si tratta di un espediente retorico largamente presente nel cinema
hollywoodiano, anche in tempi più recenti. Mi viene in mente American Sniper, di
Clint Eastwood, un western “mediorientale”: la scena iniziale (il cecchino Chris
ha appena ucciso una donna intenta a lanciare una bomba contro un carro armato
statunitense; un bambino la raccoglie e prosegue la corsa verso l’obiettivo;
Chris prende la mira, ma esita per qualche istante) viene lasciata in sospeso
per consentire agli spettatori un approfondimento del contesto e dei personaggi.
Per quasi mezz’ora, un flashback ci accompagna nella memoria del cecchino, alla
ricerca di risposte ai nostri interrogativi: perché è qui con un fucile in mano?
Perché punta un bambino? Che educazione ha avuto? Cos’è accaduto agli Stati
Uniti negli ultimi trent’anni? A ben vedere, tuttavia, si tratta di un trucco,
anche piuttosto scorretto: per quale motivo Eastwood non dedica altrettanto
tempo ai due aggressori? Perché non approfondisce anche la loro storia? Come mai
sono lì con una bomba in mano? Che educazione hanno avuto? In che condizioni si
trova il Medio Oriente da almeno cinquant’anni? No, mamma e figlio sono solo due
pericolosi terroristi anonimi, e dunque il duplice omicidio messo in atto da
Chris (uno dei tanti difensori della civiltà hollywoodiana) è presentato sì come
terribile, ma necessario.
Il fatto che il cerchio contraddica la linea diritta del progresso ci rimanda al
simbolo del tempo per gli indiani d’America: per loro il tempo diurno, il tempo
notturno e le fasi della luna sarebbero posti sopra il mondo, e il tempo
dell’anno sarebbe un cerchio intorno al bordo del mondo. E questa circolarità,
come lei osserva, si imparenta con l’Ewige Wiederkunft del Gleichen, l’eterno
ritorno dell’uguale teorizzato da Friedrich Nietzsche.
Il discorso sul tempo, sulla filosofia del tempo che fonda le nostre identità, è
trattato spesso con frettolosità, o addirittura trascurato, mentre si tratta di
un tema urgente, che richiederebbe una riflessione molto ampia. A proposito
della teoria dell’Eterno ritorno di Nietzsche, credo si tratti di un’intuizione
sfuggente ed enigmatica, a volte fraintesa. Ho sentito opinioni (di semplici
amatori e di addetti ai lavori) che interpretano il ritorno nietzschiano come
ripetitività routinaria, da cui il filosofo ci inviterebbe a liberarci, come un
fiume smuove e ripulisce l’acqua torbida di uno stagno. In realtà la circolarità
del tempo di cui parla Nietzsche è tanto insopportabile quanto gioiosa: è una
potente affermazione della vita che divincola dalla perenne attesa di un mondo
altro. “Quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più
nient’altro!”, ci dice il demone ne La gaia scienza. Se osserviamo con
attenzione, dobbiamo constatare che la configurazione del tempo lineare, inteso
come una freccia tesa verso altrove, getta l’uomo in una condizione di attesa
speranzosa e pessimistica, che svaluta la vita presente, la vita terrena
tangibile. Una simile configurazione si colloca a fondamento tanto della
metafisica cristiana, quanto della società capitalista contemporanea, che
comanda il sacrificio del presente, in vista del conseguimento futuro di un
guadagno infinito. Un fantasma di guadagno, in realtà, ma efficacissimo come
punto di fuga per l’esistenza umana. Nel puritanesimo in cui affonda le radici
la cultura statunitense sono presenti entrambe le istanze, quella cristiana e
quella capitalista. È chiaro che, osservato dalla locomotiva che galoppa lineare
sui binari d’acciaio del progresso, il tempo ciclico dei nativi – proprio di
tante altre culture, antiche e contemporanee – non è altro che una torbida fase
di ristagno, l’avaria del motore, l’interruzione della linea: “The line went
dead”, afferma un soldato in Stagecoach, comunicando al comandante che il
selvaggio Geronimo ha tagliato la linea del telegrafo.
Vediamo come si arriva a quella specie di suprematismo che informava la dottrina
ottocentesca del Destino Manifesto, il motore dell’intera macchina
colonizzatrice dell’Uomo Bianco. Si parte da J. Hector St. John de Crèvecœur con
il suo Letters from an American Farmer del 1782, dove si definisce una
distinzione netta fra le due sponde dell’Atlantico: la vecchia Europa come
terreno ormai sterile e il suolo americano che può offrire una rigenerazione e
dar vita a una nuova umanità. Poi abbiamo Thomas Hart “Old Bullion” Benton,
primo senatore del Missouri che a partire dal 1820 teorizza l’espansione verso
il Pacifico come simbolo della libertà e della grandezza dell’America. Ora, dopo
duecento anni, sembra che questa dottrina stia trovando echi inquietanti anche
nell’America di oggi, in questa pirotecnica seconda presidenza di Donald Trump
con il suo Make America Great Again, con le dichiarate velleità espansionistiche
– ai limiti del grottesco – verso il confinante Canada e verso la Groenlandia,
definite “necessarie” per lo sviluppo americano e il progresso verso la
felicità, e le improvvise azioni guerresche che incendiano definitivamente il
Medio Oriente. Siamo di nuovo di fronte a un “tempo che ritorna”?
Non si tratta del ritorno nietzschiano come affermazione coraggiosa della vita,
tutt’altro: le narrazioni statunitensi sono piuttosto pervase di paura
dell’Altro, una forza centripeta che genera inevitabilmente chiusura e
conflitto. A proposito di questa immaginifica rigenerazione che avrebbe prodotto
l’uomo nuovo, l’americano, oltre ai personaggi già citati, de Crèvecœur, Benton,
vale la pena ricordare Frederick Turner e la sua interpretazione della frontiera
americana, proposta sul finire dell’Ottocento. Lo storico distingue le frontiere
europee (plurali), che separano una cultura da un’altra cultura, dalla frontiera
americana (singolare), che distingue cultura da wilderness. Questo confronto
arcaico, originario col grado zero della civiltà avrebbe rigenerato lo svigorito
uomo europeo, dando vita all’americano, l’uomo nuovo di frontiera, in grado di
riaffermare le leggi eterne che Dio ha dato alla Natura. Sembra la storia di
Superman… Noi sappiamo che si tratta di una gran bella menzogna: l’Europa non
era popolata da fiacchi individui occhialuti, malati di civiltà, e di là dal
recinto americano non c’era affatto una terra caotica in cui portare la
razionalità divina, ma una miriade di culture antiche e complesse che popolavano
un paesaggio ricco e vario. Tuttavia questa narrazione è stata efficacissima per
giustificare la chiusura verso le proprie origini e lo sterminio attuato ai
danni dei nativi. Il metodo è stato mantenuto nei decenni successivi, sempre più
evoluto, divincolato dalla dimensione esclusivamente territoriale: si legga al
riguardo il bel saggio di Ilaria Moschini Il grande cerchio. Theodore Roosevelt,
già nel 1904, investe gli Stati Uniti del ruolo di polizia internazionale,
chiamata a intervenire “elsewhere”, ovunque l’ordine e la stabilità sia messa in
pericolo; noi tutti ricordiamo l’“esportazione della democrazia” proposta
generosamente al mondo da George W. Bush, a inizio millennio, giustificata
dall’attentato alle Twin Towers. Per arrivare ai giorni nostri, ritengo che i
capricci e le pagliacciate di Trump siano l’ultimo aggiornamento di queste
narrazioni: armi di distrazione di massa che, al pari delle storie e dei
miti westerndi cento anni fa, servono a occultare un piano ben ordinato,
razionale, lineare di assimilazione, di appiattimento, di omologazione
dell’altro ai propri fantasmi ideali. Un’identità fragile difficilmente si apre
all’alterità. Chissà se alla Casa Bianca stanno già lavorando a un video che
prefiguri le meraviglie dell’Iran futuro…
Tornando a The Iron Horse, lei ha fatto riferimento alla frammentazione etnica
del corpo lavoratori, che con scavi e martellate posavano binari e traversine
con grande lena – anche in una specie di “gara” fra le due compagnie per
riuscire a completare il proprio tratto per prima. Nel film questa molteplicità
culturale, di indole e di espressioni verbali si vede anche nei pannelli delle
didascalie, dove a volte i dialoghi degli operai sono espressi in un americano
allegramente deformato, forse dalla spensieratezza lessicale degli sradicati.
Sì, in The Iron Horse è presentato quest’aspetto costitutivo della società
statunitense, punto d’incontro di traiettorie provenienti da origini molteplici.
Anche in questo fenomeno troviamo una interessante ambivalenza, una compresenza
di apertura e chiusura. Per lungo tempo si è parlato degli Stati Uniti come di
un Melting Pot, un calderone che raccoglie ingredienti di provenienza varia e li
compone insieme, formando una nuova, laboriosa società cosmopolita. Il termine è
ripreso dall’opera teatrale omonima di Israel Zangwill, che nel 1908 immaginava
l’America come il crogiuolo di Dio, in cui si entra italiani, cinesi, tedeschi,
irlandesi, e miracolosamente si esce americani. Vi è naturalmente il rischio
concreto di vivere un processo di omologazione, di assimilazione. Nel film di
Ford, la battaglia difensiva contro i nativi è in qualche modo il calderone che
impasta e compatta i lavoratori immigrati, trasformandoli in orgogliosi
statunitensi.
Mi viene in mente Jacques Feyder, grande regista francese, precursore del
Realismo poetico, e la gustosa descrizione che egli ci offre della sua
esperienza hollywoodiana, avuta negli anni Venti e Trenta. La riassumo in poche
righe. Stanchi dei loro prodotti piuttosto ripetitivi, gli americani decidono di
dare nuova linfa alla propria estetica chiamando qualche regista europeo alla
propria corte. E così Feyder approda a Hollywood, ci racconta i numerosi
incontri con i produttori, il confronto sul soggetto giusto, la sceneggiatura
appropriata, i compromessi, le incomprensioni, le strette di mano; e ancora
l’inizio della lavorazione, straordinariamente efficace e lineare: tutto
funziona alla perfezione, “tutto viaggia sul velluto”. Finché il film è
concluso, e ci si incontra per l’anteprima. È lì che il regista, seguendo sullo
schermo il fluire di un film che viaggia senza alcun intoppo, deve confessare a
se stesso: “E’ venuto molto bene, ma non è il mio film”. Non sono io. E a
conclusione della proiezione, sui volti di tutti i membri della produzione,
legge lo stesso pensiero: “Ma perché abbiamo chiamato dall’Europa uno che ha
girato un film che qualsiasi nostro regista avrebbe potuto dirigere?”. I pochi
cineasti che, chiamati a lavorare negli Stati Uniti, sono riusciti in qualche
modo a conservare la propria identità professionale – Stroheim, Renoir,
Antonioni – sono stati fortemente osteggiati da Hollywood. Anche in questo caso,
il cinema è metafora di una dinamica sociale fortemente radicata nella cultura
occidentale.
John Ford si è grandemente impegnato a inquadrare il Caos, ovvero la wilderness,
in diverse prospettive e da diverse angolazioni, dedicandosi all’epopea del West
quasi come un adepto alla sua religione. E lo ha fatto da uomo del suo tempo e
della sua cultura, in un orizzonte – come lei dice – denso di richiami agli
ideali illuministi, alla concezione borghese del viaggio, alla tecnologia come
strumento di dominio. In cosa credeva e come si gratificava John Ford nello
sviluppo della sua carriera, e in cosa smise di credere verso la conclusione
della sua parabola artistica?
John Ford era considerato il più affidabile dei registi hollywoodiani. E questa
affidabilità io ritengo sia dovuta anche al suo modo di inquadrare
la wilderness, allo sguardo che gettava – o credeva di gettare – al di là della
frontiera, in linea con lo sguardo di Hollywood. Prendendo a prestito il lessico
lacaniano, si può dire che sin dalle sue origini, il cinema americano abbia
collocato un’immagine della wilderness davanti alla wilderness stessa, per
rimuovere l’angoscia che essa può provocare, per evitare di esserne bewildered,
disorientato. Ho già citato Jean Renoir, grande regista francese, coevo di Ford.
Non è un caso che, nel suo periodo americano (gli anni Quaranta), fu fortemente
osteggiato dai produttori hollywoodiani proprio perché adoperava la macchina da
presa come strumento di apertura, di esplorazione, come espressione di curiosità
verso un territorio sconosciuto e inquieto.
La visione fordiana della wilderness, proprio per il suo carattere di chiusura,
era destinata a un’inesorabile decomposizione, destrutturata dall’interno
dall’autoreferenzialità che la fonda. Il che, lo ribadisco, la rende
rappresentativa dell’intera cultura occidentale dominante. Lindsay Anderson, nel
suo volume sul cineasta americano, registra negli ultimi anni della vita e della
filmografia di Ford un progressivo incupimento, un nichilismo ruvido che
impregna alcune delle ultime pellicole fordiane. Ce ne sono due, a mio parere,
significative, entrambe dirette negli anni ’60, quando il mondo e il cinema
erano ormai mutati e reclamavano un cambiamento di prospettiva dai cineasti. La
prima è Cheyenne Autumn: dopo decenni di demonizzazione degli “indiani”, il
regista western per eccellenza sembra fare ammenda e riconoscere valore alla
cultura dei nativi. Viene tuttavia mantenuta l’antipatica abitudine
hollywoodiana di far interpretare Comanche, Cheyenne, Sioux da attori che di
nativo non hanno nulla: messicani, italiani, spagnoli, etc, solo perché
rispondono al cliché del volto esotico. In più, leggendo le interviste
rilasciate in quegli anni dal regista, può lasciare perplessi il carattere
assimilazionista nascosto in alcune affermazioni: “Ho un enorme affetto per gli
Indiani. È un popolo molto morale […] hanno una letteratura […] amano i bambini
e gli animali”. Il valore dell’altro cresce proporzionalmente alla somiglianza
con l’identico.
L’altra pellicola è The Man Who Shot Liberty Valance. In questo film si avverte
la necessità di Ford di prestare orecchio alle istanze del nascente cinema
moderno, e, nello specifico, la forte influenza di quel capolavoro che
è Rashomon di Kurosawa. Ricorderete che nel film del regista giapponese, con una
serie di flashback, si cerca di definire cosa sia davvero accaduto nelle ore
precedenti al processo, e chi sia l’assassino dell’uomo ritrovato per caso da un
contadino di passaggio. Ciascuna delle testimonianze offre una prospettiva
diversa e ridisegna i personaggi, le azioni, le relazioni. Anche Ford costruisce
una narrazione prevalentemente orientata al passato, inquadrando un evento
cruciale accaduto decenni prima, sulla frontiera, l’uccisione del bandito
Liberty Valance, e, attraverso una duplicazione del flashback, si chiede chi lo
abbia ucciso davvero: il senatore Ransom (James Stewart), come la storia
ufficiale racconta, o il rude Tom (John Wayne)? Se però a conclusione
di Rashomon dobbiamo constatare che il regista ha inquadrato da tante
angolazioni un’oggettività sfuggente, invitandoci ad accettare l’assenza di una
verità unica, Ford adopera una tecnica simile ma con uno scopo diverso: svelare
la menzogna ufficiale e affermare la verità nascosta. È Tom – un americano vero,
direbbe Turner – che ha liberato la città dal bestiale Valance, è a lui che si
deve la fondazione della civiltà, anche se la storia lo ha voluto dimenticare.
C’è una fatica, una resistenza caparbia a rinunciare alla prospettiva certa, al
pensiero unico, alla Verità, una pericolosa fede nel proprio punto di vista che
non limita solo l’estetica cinematografica, ma la visione stessa della realtà,
fuori dalla finestra.
Paolo Ferrucci
*In copertina: John Gast, American Progress, 1872, rappresentazione allegorica
del “Destino manifesto” degli Stati Uniti
L'articolo “Manifest Destiny”: il progresso come missione, o del carisma degli
Stati Uniti. Dialogo con Andrea Laquidara proviene da Pangea.