Debellati gli aggettivi con la corazza, quelli che piacciono alla critica – a
ciò che ne rimane, a ciò che razzola tra la cenere –: finalmente, la scoperta di
un poeta primigenio, senza lignaggio. Un poeta senza paladini né palafreni né
padrini in parata.
Un poeta, cioè, che comporta l’abbandono delle norme ortografiche, delle
grammatiche cattedratiche, di ogni forma di subdola tattica; alieno
all’abbondanza dei retori del quieto vivere e del quieto amare. Non dovrebbe
fare così un poeta: interrare il vocabolario, pio stendardo, e sfoderare l’ascia
del verbo? “Insegnaci a pregare”, implorano gli inebetiti discepoli al maestro:
Gesù sbriciola per loro le scarne parole del Pater – mai un dio è stato così
prossimo, così grano e spada, e noi fummo il suo pasto, il suo desco, il suo
desinare e il suo destino a morire di sete.
Insegnaci a parlare, dovremmo chiedere ai poeti.
Ricorda: si prega nei luoghi desolati, dove vagano, in tormento, gli spiriti
impuri, dove appaiono in Appalachia di zampe gli angeli. Non altrove si deve
scrivere.
Così, questo libro di Blu Temperini va letto insieme ai trattati di falconeria,
ai bestiari medioevali, alle carte celesti dove gli astri, con strenua pazienza,
indossano il volto del leone e del cavallo, dell’eroe e della vergine.
Questo libro – un esordio mai così antichissimo – è requie e cinghia, nuovo
culto al di là dai cultori dell’odierno lirismo. Potremmo chiamarlo – come si
diceva una volta, senza essere iniziati ad alcunché che all’obbedienza –
“ufficio delle tenebre”.
Non c’è linea di continuità, intendo, tra questo poeta – d’indecente precocia,
di sfiancata facondia – e la quadrupede tradizione dei poeti recenti, altra è la
sua biada, altitudine diaccia, propria di chi frequenta i ghiacciai, le
inimmaginabili alture.
Hanno gli artigli, il becco e le cangianti penne queste poesie.
A esasperare lo spaesamento, una lista di avi e di archivi costruiti a casaccio,
in casa, da autodidatta, piccoli idoli di legno: Sergio Solmi e Guido Ceronetti,
Giovanni Boine ed Egle Marini, Maria Maddalena de’ Pazzi, Tommaso Landolfi,
Maria Banuș, che tanto piacque ad Andrea Zanzotto. La formula, cioè, di
addobbarsi estranei al proprio tempo, di ancheggiare in un altrove di trine,
come se l’Eden, in fondo, non fosse altro che un decalogo di candele.
Nella più piena spoliazione – tolti dalla bocca gli ultimi nutrimenti, la
particola poetica che ci rende soddisfatti del ‘buon lavoro’ – Blu Temperini
reca l’estremismo di Alejandra Pizarnik, la premura oracolare di una visionaria
dell’anno mille. Poesia, cioè, come frammento mesolitico e contrafforte in
selce; turba del toro primordiale da cui estrarre il corallino per aggiornare a
luce le latebre grotte.
Lingua che ci precede, da assumere tenendo l’orecchio confitto al tronco e alla
nubile nube. Parola impareggiabile, allora, nel senso che neppure il poeta –
scriba senza arte di concia – sa dire da dove quel dire provenga, da quale piaga
o plaga.
Da qui, l’ostinato cicaleccio dei morti, l’orma bivalve del verbo penitente, i
celesti fatti paglia. Tutto un sistema divinatorio per costringere le stelle,
ancora, a brucare nella brocca delle nostre mani, a bruciarci. Il resoconto di
questa ecchimosi: poesia.
Che a Torino – città d’elezione di Blu – sia custodita la Sindone e si celi, tra
cunicoli a forma di serpe e di capra, il Graal (o la sua ombra, è lo stesso), è
sintomatico di una scrittura che non si coagula nell’iride né nella mente, che
restituisce il sangue degli andati in statura di rosa, in sutura.
Si sarebbe tentati di sussurrare la parola sacro; semplicemente, come accade
nella poesia autentica, rarissima, si tratta del cuore Lancillotto, del cuore
cavalleggero, senza cavilli, di cui, a fine lettura, non resta che la brace, un
bronzeo da primo giorno del mondo, il santo pudore.
**
La violenza è maestosa, nel suo presente
anche il domani, prima del tempo;
e la brama si ostina laddove
non può essere disimparata,
nel filamento partecipe e
non partecipe dell’attenzione.
Il futuro è nell’oltrepassare
le cose vedute alla fine.
*
Miracolo
Da falce e creta è nutrito il tuo
corpo in questo abbraccio e
vedi solo il prestito del cuore
compiere un arco nel risveglio.
Una colomba trasvola nella stanza:
migrano da parete a parete
– vuote – le coordinate del miracolo.
*
Non più vincitori vorrebbe il cielo
Sul nome d’oggi termini la fabula,
l’opera che nell’amichevole cuore
nasconde il rifiuto ad ogni benevolenza,
tragitto di ambedue – vincitori
e vinti – per gli annali di innocenza.
Ma solo i vincitori trapassano sulla
più violenta sponda che si inclina;
di ogni vittima innamorati sono
i primi a sommare il fuoco con la frode.
Giustizia stessa si reca su uno solo
e con gli altri vagabonda.
*
Ogni ultima cosa la chiamo notizia
ed è sadico dover dire sì alla vita
che miete le sue vittime, dire sì
all’agnello distrutto nel coro,
all’insetto fratello della perdita,
ma più sadico è festeggiarne l’indolenza,
più sadico è restare attesi nell’ordinario sangue.
Tra le voci perdenti dell’effimero
nell’effimero lume del mondo
il torto è fatto, ogni ultima
cosa la chiamai vantandomi
e fui punita, puniti i miei anni.
– Umiliati! –
*
Non ho altra volontà
– dicono gli innocenti –
che ardere su due paragoni:
prima schiavi, poi trasparenza
dovunque riletta, trafugata
da ospiti tutti attesi, tutti danneggiati.
In uno scrigno di irriconoscibili
difetti d’amore è possibile trovarli,
fedeli alla doppiezza del gesto;
e se il mondo non potrà morire
sarà un innocente a vivere.
*
I tonni o della fame di forme
Non esiste l’uscita materna,
tutto è contorta fluttuazione;
nessuna immagine e nessun
disegno, tutto è somigliante
nel branco e non ha difetto.
Poi l’artificio pesante dell’azzurro
accomuna la fame di forme.
*
La serpe o della degradazione
Forse prima celebrava messe
col capo sollevato ed era attrezzo
di individuo contrariato dallo spirito,
sola tolleranza che esibiva il sangue.
Ora intransigente si inchina
a questa sospensione e si
arricchisce dell’ombra sua
come di ogni oggetto spezzato.
*
Gli uccelli o dell’esilio
Gli uccelli abitano alte impressioni
e nel tornare alla fonte si contorcono:
la terra brucia per quelli che volano.
Sotterrano con l’unica lastra
di sguardi ogni rivalsa:
nel cielo una radice sfigurata,
la prova di un altro mondo che ripugna.
*
Da Elemento (Uno studio)
(VII)
Nella caccia segnali di rupe,
le terre già improntate:
lusinghe, bestiame.
Il cacciatore, la ricerca
e l’estinzione gettata in questi obblighi:
operazione, opere di rinuncia.
Le carni fedeli al carnefice,
i sensi alla vittima:
un prodigio i doppi umori.
*
(XIV)
Dove è passata la terra
fu niente l’immagine, il suono;
fu il lavorio delle cose interminabili,
dei mattini impietositi.
Da nulla è lasciato intendere
quale sole, quale tempo inganna
e sulle tavole non le scritture, i gesti.
Blu Temperini
*I testi, pubblicati per gentile concessione, sono tratti da: Blu Temperini,
“Nel principio infondato”, Crocetti, 2025
**In copertina: Frida Kahlo, “Il cervo ferito”, 1946
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