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“Io sono il sole”. Due poesie ritrovate di Dario Villa, o dell’Apocalisse col papillon
Nell’ala del libro infine più noto di Dario Villa, Abiti insolubili, l’anonimo – in realtà: Giovanni Raboni – scrive di un poeta dotato dell’“innocenza e la grazia di un visitatore angelico”. Come si sa, il “visitatore angelico”, quando fa visita, porta un messaggio di separazione. La sua bellezza atterrisce: il gloria è marziale, attende al disastro, al dispaccio della lacerazione. L’emblema dell’angelo non è il giglio ma la spada – la notizia offerta alla madre bambina, Maria, è un grembo che sarà sepolcro, un ventre che sarà fiore e buco nero, un figlio che per esplodere in luce verrà crocefisso.  Creatura indivisa, l’angelo divide.  In Abiti insolubili un angelo “quasi orgoglioso/ dell’opera quasi compiuta” appare a pagina 87. È un angelo che tenta di fabbricare un umanoide – “ma in che accozzo di membra avrò cacciato/ il cazzo l’anima la pelle il mastice/ la scintilla vitale?” –; gli viene fuori un “golem mancato”, che caccia “giù, nel mondo o agli inferi”. A dire – ancora, ancora… – che l’opera di Villa è eminentemente sapienziale: edotto in Blake – di cui ha tradotto, per l’edizione delle Opere curate da Roberto Sanesi per Guanda nel 1984, Vala or the Four Zoas, brani da Jerusalem e i Poems from the Pickering Manuscript –, il poeta si muove puntellando il mondo di gnostiche chiose; è un Messia irreparabile, una specie di Sabbatai Zevi della poesia italiana – l’ironia vela il vero per farlo rifulgere.  Abiti insolubili uscì nel febbraio del 1995; dieci anni prima, con Lupsus in fabula (edito a Milano da Società di Poesia), Dario Villa aveva ottenuto il Premio Mondello – sarebbe morto l’anno dopo, nel marzo del ’96. Giovanni Raboni scrisse della sua morte il 10 marzo, sul “Corriere della sera”; nel titolo del colonnino, Il poeta che credeva nelle ombre, la misura ctonia, da messaggero oscuro, latore di fiamme negli inferi, di Villa. Così scrisse, tra l’altro, Raboni: > “Dario Villa è morto cinque giorni fa, dopo una malattia lunga e terribile > vissuta con una consapevolezza, una dignità e un coraggio meravigliosi. > All’infuori della piccola cerchia dei suoi amici, né la sua malattia né la sua > morte hanno fatto notizia: e mi sembra giusto così. A ogni poeta, a ogni > scrittore, a ogni artista che scompare sarebbe bello, in fondo, poter pensare > come Dario ha pensato a se stesso riflettendo sul mistero e insieme sulla > ‘normalità’, sulla quotidiana, famigliare imminenza della propria scomparsa: > ‘è più simile a me/ l’ombra che resta in piedi quando cado/ di quanto non sia > io’”.  È proprio del poeta angelico morire senza dar notizia di sé: natura d’elitra e di foglia la sua, divino ectoplasma – a crollare, a frantumarsi, a rovinare sono gli uomini. Quelli che l’angelo-poeta ammanta con parole piene di odori d’erba – e denti al collo.  È strano – fino a un certo punto – che Giovanni Raboni, il doge della poesia e della cultura del tempo, sentisse un’affinità così totale con un totale outsider come Villa: in lui, forse, intuiva il genio della poesia in purezza. Nella mitica, semicladestina edizione di Tutte le poesie di Dario Villa – a cura di Katia Bagnoli, stampata da Seniorservice Books, dunque da Carlo Feltrinelli, nel 2001 – Giovanni Raboni ritorna ancora sul tema della grazia. Dario Villa, a suo dire, è stato uno dei “pochissimi poeti italiani, negli ultimi decenni del secolo appena trascorso… costantemente, oserei dire insistentemente frequentati dalla grazia”. Ritorniamo nell’ambito da cui siamo partiti, nel portento del sacro, nel suo portamento, tra paramenti celestiali: l’angelo si rivolge a Maria, la ragazza, come alla “piena di grazia” perché “Dio è con te”. Dalla grazia (charis) discendono i carismi, i doni dello Spirito: non c’è dono che non si sconti in sacrificio, che non si scontri. La pienezza di Maria è anche pienezza nel dolore. Grazia che ingravida e che graffia.  Definito “il migliore, il più sicuro talento della sua generazione” – ancora Raboni, nell’articolo del “Corriere della sera” – eppure, pur sempre ai margini, smangiato da una tragica leggiadria, da una leggenda che ha finito per perseguitarlo, si disse che Villa era apparentato a “un Corbière, un Laforgue” (poeti, tra l’altro, fondamentali per il primo tempo della poesia di Thomas S. Eliot); nella nuova edizione che raccoglie l’Opera in versi di Villa (Crocetti, 2025) si dice che “Villa fu senz’altro il Rimbaud della Milano postmoderna” (Alessandro Giammei). Di mio – nel gioco delle figurine – aggiungo che Villa mi pare – per tono, per impeto, per imperiale genio linguistico – prossimo a David Gascoyne – autore che pure ha tradotto. Giochi, maschere, burattini volanti. La necessità di circoscrivere Villa entro la museruola di autori analoghi è data dal fatto che Villa non appartiene a nessuno, pare non avere parenti tra i tedofori della poesia italiana; insieme a rari altri, lari di una lingua d’altrove – Lorenzo Calogero, Ivano Fermini, Gian Giacomo Menon, Claudia Ruggieri – fa parte di un canone ‘avverso’, avversato, fallato dal frainteso, dall’aporia esistenziale, fino a farsi afoni all’oggi.  Tornando alla figura primaria – l’angelo – pare che Villa, in certe folgoranti lasse, abbia tentato le “lingue degli angeli”, quella lingua slinguata, sdilinquito delinquere, paradisiaca barbarie, tra il latrato e il sussurro, di cui dice Paolo nel capitolo tredici della Prima lettera ai Corinzi. Scrittura ‘pentecostale’ la sua? Figurarsi. Villa – trasfigurato sempre in altro da sé – non assiste alle lingue di fuoco che calano dall’alto, dall’attico di Dio: il cielo è plumbeo, piove a macerie e ciò che macera dà volto a bestie in fuga, uomini col volto del capro e della locusta. Poeta apocalittico col papillon, Villa, che giunge a disastro compiuto: > (siamo un’ombra del caso > procediamo da cause sconosciute > precipitiamo come nebulose > in un fuoco di rose) Corroborante, Villa, proprio oggi, come avesse scritto per noi, ora, nell’era del linguaggio al dileggio, della lingua vezzeggiata, dei poeti che proseguono, senza atto di veggenza, una ‘tradizione’ di stantie stanze – meri lotofagi dell’io – o che s’impennano in esperimenti altrettanto vetusti, inverati dal vento, esametri della scemenza, semenzaio di nequizie. Dario Villa pareva, appartato, partigiano dell’oltre, non appartenere neppure alla vasta serie di poeti, più o meno coetanei, più o meno bravi, avvalorati, in quegli anni, da pubblicazioni di successo: Valerio Magrelli, Milo De Angelis, Roberto Mussapi, Cesare Viviani, Patrizia Valduga, per dire. Nella collana ‘Marsilio poesia’, diretta da Raboni dal 1994 al 2000, uscirono, tra gli altri, Toti Scialoja, Ferruccio Benzoni, Elio Pagliarani e Jolanda Insana. È interessante – per un puro dato di storia del costume editoriale – assistere alla classifica dei “Libri più venduti nella settimana” in cui è morto Villa. Spiccano gli italiani: Baricco (Seta), Susanna Tamaro (Va’ dove ti porta il cuore, da cinquanta settimane in classifica…), Stefano Benni (Elianto), Andrea De Carlo (Due di due). Tra “I primi dieci”, tre sono libri di poesia: di Charles Bukowski (dichiarato “poeta ‘maledetto’”), di Nazim Hikmet e Montale.  Tra le poesie di Villa, Raboni preferiva questa, che è poi un angelo che annuncia se stesso, il suo eccesso: non saprei dire  quando con precisione imparai a nuotare ma non a volare credevo nelle ombre             credevo alla perfezione             non ero labile come la storia             né fui mondo da scoria             finché non mi calai nel tempo quando vidi la luce: la inondai con una strana colla diceva cose molto sporche e belle credo che fosse vestita di nero             certo un dettaglio – ma tant’è – che importa –              ero ormai uomo fatto…             anche se poi, per qualche tempo,             continuai a osservare un gioco d’ombre mi ci studiavo – ci vedevo poco –  davo il polmone al gatto mi muovevo ogni anno di venti venticinque centimetri almeno             “ah” pensavo giocando alle parole             “gli altri sono le nubi io sono il sole” Indifferente ai clamori dell’epoca – perché ne sentiva l’odore, la portata di bestia al macello – Villa, angelico flâneur del verso, perseguiva una sua via autarchica. Amava dissiparsi – come i poeti abitati da un talento all’eccesso, esondante, incapace dunque di ‘sistemarsi’ e di sistemare i propri versi in libri, opere, propaganda editoriale varia. Così, l’altro giorno, a Milano, mi si fa di fronte un ragazzo – fronte larga, ispirati e lunghi i capelli, ispido cappotto, insipida la sera, polverizzata in pioggia. Amico di Giampiero Neri, il poeta, mi fa – si chiama Alessandro Pancotti, e con rigore pari alla grazia mi porge due fogli. Due poesie di Dario Villa. Inedite. O meglio. Dimenticate. Nell’Opera in versi – oceanica opera, necessaria, salutare: finalmente Villa ritorna tra noi! – non ci sono. Sono state pubblicate sul numero 4 (Ottobre-Dicembre 1985) de “lo Spazio Umano”, Rivista internazionale di scienze umane arte e letteratura, diretta da Enrico R. Comi. Tra i tantissimi, sulla rivista collaboravano, in quegli anni, Jannis Kounellis e Roberto Sanesi, Georg Baselitz, Keith Haring, Lou Reed, Sebastiano Vassalli e David Maria Turoldo. In quel numero, spiccano un testo di Gillo Dorfles, le poesie di Maurizio Cucchi e Kenneth Koch.  Le poesie di Villa, qui riproposte, recano una data: 1980. Come sempre, alternano calembour a sentenze epigrammatiche, il gioco all’oracolo. Un deambulare tra previsioni ed eversioni. In fondo, paiono i cartoni preparatori di un’opera – lo studio del cranio di un angelo.  ** la luce bacia le bucce dei pensieri mondati: lucida sulla credenza riluce la polpa nuda dell’idea – che agrume, che succo acido agli orli rasenta sguardi travolti, le bocche aperte, sedie rovesciate? inchiodata al suo senso, fissa per sempre la scena (il tempo il luogo) del ribaltamento, e la penombra che perdura, macchia il centro della tavola? qui sembra il mondo, acciottolii di finepasto, fragore incerto, l’occhio di qualcuno rapito in sogni anatomici, le gambe intraviste che intessono sotto la tavola quel gioco puro, supporto di successivi svolgimenti: istinto ed evento che vibrano, muovono, filano in un solo volere: negare tanta immobilità, darsi alla luce.  * per poi tornare a ripetere passi, figure, il muschio cresciuto tardi sul pasto della natura: rovine riconquistate dall’edera, riconvertite in foresta, cocci dispersi, emblemi in cui s’inciampa e nelle circonvoluzioni del labirinto, l’etere ripermea freddo l’orecchio: musiche, rumori, voci già sillabanti e la spirale vacilla di una memoria che torna nei suoi residui a sgomentare l’ora che s’infutura e ricade, altro intreccio in qualche comodo fodero arabescato starà sognando la lama rosa da molte ruggini dello spirito insonne: cosa faremo, sciabole di mucillagine stampate su ciò che resta di un muro, riflessi senza pretesto, ombre di gesto vegetalizzato.  Dario Villa *In copertina: Dario Villa (1957-1996) in un ritratto fotografico di Antonio Ria L'articolo “Io sono il sole”. Due poesie ritrovate di Dario Villa, o dell’Apocalisse col papillon proviene da Pangea.
November 24, 2025 / Pangea
“L’assoluto opera nel nulla”. Dialogo con Raoul Schrott
Questa storia, in cui tutto è possibile, inizia – o finisce – all’abbazia di Pomposa, folgorante edificio del IX secolo, nel ferrarese, dove si dirama, divorandosi, il Po. Affreschi e sculture, spesso arcani, incutono sacro terrore. Qui pare sia stato redatto, nel XVII secolo, il De arte nihil credendi; dello scrittore, Matteo Cnuzen, altrimenti detto Matthias Knutzen, predicatore tedesco, ateo, si ignora la data di morte. Il testo – di cui non si ha altra notizia – è custodito presso la Biblioteca Classense, “non è mai stato pubblicato… ho potuto solo farne una copia a mano”, scrive l’autore. Un fascicolo dal titolo analogo porta la firma di Geoffrey Vallée, anticlericale estremista: in quel libello – titolato, in verità, La béatitude des Chrétiens ou le Fléau de la foy – l’autore dimostra che la fede, fondata sull’ignoranza e sul timore di Dio, riduce l’uomo a una bestia, a uno schiavo. Vallée fu arrestato, impiccato e passato al rogo il 9 febbraio del 1574: aveva ventiquattro anni.  Il testo di Knutzen – che mesce, in cocktail micidiale, reminescenze di Lucrezio e di Spinoza, di Garlandus Compotista e di Levi Smolinides, di Gregorio di Narek e di Sabinus Serrat (faccio scoprire a voi chi di questi è un personaggio fantomatico, fittizio) – è utilizzato dal poeta austriaco Raoul Schrott come monito per un libro dal titolo emblematico, L’arte di non credere a nulla, uscito in Germania, presso Hanser Verlag, dieci anni fa, tradotto ora da Federico Italiano per Crocetti. I brani dell’incendiario pamphlet di Knutzen – veri, verosimili, inventati? l’autore rifiuta spiegazioni – sono corrosivi, perciò corroboranti. Ne cito alcuni: > “sono avido se voglio tutto ciò che si può ottenere dalla vita – avere amici e > allo stesso tempo stare solo? ciò che desidero è difficile da raggiungere – > eppure una volta in mio possesso sono insoddisfatto come se avessi raggiunto > nulla”; > “sii come la neve che si scioglie: dal silenzio nascono i fiori – la lingua > sia il loro bocciolo”; > “tutto inizia con il sangue · inzuppati di sangue veniamo al mondo a testa in > giù: tutto inizia con una separazione e in un mondo capovolto · avvinghiati a > un seno non vediamo che oscurità: ora vivi amaro e cupo · da bambini > scorrazziamo qui e là: e inquieti rimarremo · nella giovinezza ci dissolviamo > sentendoci estranei: è solo un periodo di traviamento e confusione · con la > vecchiaia la mente si annebbia: non aspettarti quindi la beatitudine da vecchi > strampalati · così perplessi procediamo nelle tombe: senza riconoscere da > nessuna parte un’anima o qualcosa di puro – solo imperfezione” Siamo nei dintorni dell’atroce Albert Caraco più che in quelli dell’ardito Zenone, il protagonista de L’opera al nero, il romanzo di Marguerite Yourcenar. Nella prefazione, Schrott cita la Basilica di Sant’Apollinare Nuovo e il Mausoleo di Galla Placidia, a Ravenna e il magnetico trattato De tribus impostoribus, di cui si discute – senza traccia di testo – dal XIII secolo: sarebbe piaciuto a Borges. I legami con il maestro argentino, però, finiscono qui: le poesie di Schrott – affratellate ai violenti aforismi del fatidico Knutzen – non hanno nulla dell’enciclopedica freddezza di Borges. Al contrario, è la vita presente, quotidiana, quella convocata da Schrott: nei suoi testi ci sono il pizzaiolo e lo stilita (“qualcuno disposto a stare sull’orlo del precipizio”), la cassiera (“il mondo è fatto di cose standard/ che mangiamo · beviamo · trasformiamo in esistenza”), il macellaio (“siamo e diventiamo ciò che mangiamo/ con gli occhi spalancati rivoltandoci al pungolo…/ carne trafitta in via di macellazione verso l’assoluto”). L’arte di non credere a nulla è un libro che dà credito alla carne, in crepitio di eros; è un libro pieno di corpi esposti e di rapporti cannibali. In lo sguardo di dio si canta “la vita baciata e gettata come un pezzo di pane”; in una poesia si imitano i toni di una single – donna – fine quaranta; è bello il finale: “la dolcezza · sale tra le mie gambe · orma d’animale selvatico”. In viaggi notturni – forse, il testo più bello – c’è una donna “nuda sul sedile distesa/ lo sguardo rivolto verso il nord che manca come casa”: “il compendio della nostra vaga esistenza/ tali scrupoli appena li considera:/ nomina il desiderio · vuole vederlo divenire realtà/ ma biasima ogni indifferenza”.  Il libro è sigillato – va da sé – dal motto riassuntivo del trattatello di Knutzen: “l’assoluto opera nel nulla”. Quando l’autore – troppo intelligente per cadere nella trappola del refuso – mi dice che il modello de L’arte di non credere a nulla è la Vita nuova di Petrarca (ovviamente, è di Dante), so che mi sta sfidando. D’altronde, Raoul Schrott è una delle menti più sfrenate e sofisticate della letteratura tedesca: mi ricorda, per impeto, Werner Herzog. Nato a Landeck, Tirolo, nel 1964 – ma ha detto, a volte, di essere nato a San Paolo, in Brasile, quando non in nave – è cresciuto tra Tunisi e Zurigo; insegna all’Università di Vienna, dopo aver insegnato a Napoli, a Berlino e a Tubinga, insieme allo scrittore Christoph Ransmayr. Romanziere, poeta, studioso, Schrott è a abituato alle imprese impossibili: ha scritto resoconti tratti dalle sue esplorazioni nel deserto (Il deserto di Lop è stato pubblicato da La Grande Illusion nel 2022); ha partecipato a una spedizione, supportata dall’Università di Colonia, in luoghi del Ciad ancora inesplorati. Da ragazzo, ha studiato il Dadaismo, è stato il segretario di Philippe Soupault, a Parigi; ha tradotto Derek Walcott e Seamus Heaney, la Teogonia di Euripide e l’Epopea di Gilgamesh; nel 2008 ha pubblicato la sua traduzione – sgargiante, a dire dei più – dell’Iliade: la tesi secondo cui Omero fosse uno scriba greco al servizio degli assiri, vissuto a Karatepe, in Cilicia, gli attirò critiche. Tra l’altro, Schrott ha scritto romanzi audaci in immaginario, imprevedibili fin nel titolo (uno di questi fa pressappoco, Racconto del vento, ovvero dell’artigliere tedesco che circumnavigò il mondo una prima volta e poi una seconda e una terza volta); ha vinto premi. Con Erste Erde (2016), libro di magnetica forza, ha tentato di dire in versi la storia del mondo, dal Big Bang a oggi.  L’ultimo progetto – benché non strettamente letterario – è altrettanto ‘mostruoso’: l’“Atlante dei cieli stellati” (Atlas der Sternenhimmel), pubblicato da Hanser lo scorso anno, raccoglie – dispiegandoli – diciassette cieli; le costellazioni degli antichi egizi e degli aborigeni australiani, degli Inuit, dei Tuareg e dei Boscimani. Si narra, così, la storia dell’uomo e di ogni civiltà, a partire dal rapporto con gli astri. Quasi che il cielo sia una bibbia, le stelle una scrittura piena di brusii, vocalizzi, grida.  Insomma, abbiamo preteso Raoul Schrott al dialogo.  Preliminari: esiste davvero il “Manuale dell’esistenza transitoria” o è frutto della sua transitoria immaginazione? Esiste? Tutto ciò che scriviamo e leggiamo – che sia romanzo, poesia o filosofia – esiste: è il frutto della nostra immaginazione.  Come è nata l’idea di accostare le poesie a un trattato del XVII secolo? Qual è stato il ‘metodo’ di costruzione del libro? Vedo, ad esempio, che le poesie non sono disposte in ordine cronologico. In sostanza, le poesie riferiscono di una visione atea della vita e dell’amore, da prospettive differenti. Per me, poesia è un modo di pensare più concentrato e compiuto: ecco perché tutti i miei libri in versi sono centrati su un tema – gli hotel; il sublime; il sacro; l’assenza – e incorniciati da un saggio. Qui si tratta, letteralmente, dell’arte di non credere a nulla. Per costruire un contesto alle poesie la – sbalorditiva – breve storia dell’ateismo mi è parsa più che appropriata.  La maggior parte delle poesie sono ritratti di individui che ostentano le loro opinioni, plasmate dal lavoro che svolgono, dai desideri, dalle circostanze. È una galleria di professioni (di cui ho incidentalmente dimenticato il maestro). Sono raggruppate tematicamente, poi completate da alcuni versi tratti dal Manuale dell’esistenza transitoria, per dare a ogni poesia un significato ulteriore. Se crede, il modello è la Vita nuova di Petrarca (sic!). Come costruisce le proprie poesie? Intendo: parte da un concetto, da un insieme di parole che combaciano audacemente assieme, da una ‘scena’, da una idea narrativa… Tutti questi elementi concorrono: intuizione, esperienza, l’incontro con qualcuno (il cassiere del supermercato che ho incontrato sul treno per Berlino non smetteva più di parlare). Questi elementi consegnano, come diceva Valéry, il vers donnés su cui poi la poesia si sviluppa in vers calculés. In queste poesie, il calcolo provvede alle rime (comunque discrete, difficili da scovare). Tuttavia, la parola in rima di rado ha a che fare con la parola con cui rima, introduce un elemento imprevisto, un frammento del mondo in generale – così che il procedere pensando deve fermarsi in stazioni diverse. Questo rende la scrittura, almeno per me, uno stupore continuo.   Come penetra nel suo linguaggio la lingua delle origini, dei testi che ha tradotto, Iliade, Gilgamesh, Teogonia? La loro lingua non penetra nella mia. Tradurre quei testi, però, ha significato comprendere la tradizione e approfondire il mestiere: per scrivere da quel centro del presente.  Che senso ha, oggi, la poesia? La poesia è la macchina di tutto ciò che è umano, individuale, soggettivo. Ci pensi: i romanzi, in quanto finzione, sono menzogne realistiche (presentano una verità in modo elegante e persuasivo, certo), narrazioni che si basano su trame e personaggi plausibili. La poesia, invece, non può che essere veritiera; esprime i pensieri e le emozioni più profonde: è autentica. Tutto il contrario della plausibilità. Questo vale anche per le poesie peggiori, in cui non si capisce un cazzo [in italiano, ndt], tanto sono autoreferenziali. Dunque: autenticità. Inoltre: la poesia sincronizza le tre modalità cognitive dell’essere: le immagini in cui pensiamo; il linguaggio con cui ci esprimiamo; la musica – metro e ritmo – che corrisponde ai battiti del cuore, al ritmo del respiro, al moto delle ciglia. Ditemi quale altra arte riesce a fare tutto questo con così pochi mezzi! Che rapporto esiste, a suo dire, oggi, tra poesia e storia, la poesia e ‘politica’? Credo che la poesia sia a-storica, nella misura in cui esprime intuizioni senza tempo (pur se fugaci), verità soggettive che nella loro individualità sono sempre in contrasto con la storia come fenomeno di massa. La poesia è il rifugio e l’espressione di tutto ciò che è umanamente possibile, pensabile, sperimentabile in tutta la sua stranezza e bellezza, in tutta la sua assurdità, in tutto il suo orrore. La letteratura è sempre a-politica e a-morale. Non si preoccupa e non deve occuparsi delle ideologie e dell’etica di una comunità, altrimenti diventerà agitprop, slogan, un manifesto, insomma. La letteratura – e in particolar modo la poesia – deve esprimerci come individui, con tutte le nostre emozioni e pensieri, positivi o negativi essi siano, senza vincoli, liberi, per essere autenticamente veritiera. Almeno, così è sempre stato.  Mi racconti qualcosa del suo “Atlante dei cieli stellati”: come nasce il progetto, perché, come si insinua nel suo lavoro poetico? L’Atlante dei cieli stellati non ha a che fare con la mia scrittura. A parte la visibile poesia che raffigurano le costellazioni, è un lavoro accademico: come professore di letteratura comparata ho compiuto ricerche per rintracciare i cieli stellati di diciassette diverse culture del pianeta. Benché l’Unesco li abbia dichiarati patrimonio culturale immateriale dell’umanità, non sono mai stati studiati in modo esauriente: le costellazioni, graficamente ricostruite; il simbolismo e la sapienza che le accompagna; la storia della tradizione astronomica che le spiega; i miti delle origini che narrano la creazione del cielo e della terra, del sole, della luna, delle stelle. Ci sono voluti sette anni di lavoro per ricostruire il cielo dei babilonesi e dei cinesi, degli inuit e dei boscimani, degli inca e degli arabi, dei tahitiani e dei maori… ciò che questa ricerca ha prodotto (con mio grande stupore) sono settantamila anni di storia culturale di cui nessuno sapeva nulla.  *In copertina: Raoul Schrott in un ritratto fotografico di Barbara Seyr L'articolo “L’assoluto opera nel nulla”. Dialogo con Raoul Schrott proviene da Pangea.
November 18, 2025 / Pangea
“Fu la tua ora e non è finita”. Pier Paolo Pasolini, il poeta
Il Pasolini poeta maturo si inserisce in un generale movimento verso la ‘prosa’ che caratterizza la poesia italiana del dopoguerra. Sarà sufficiente fare i nomi di Attilio Bertolucci, di Vittorio Sereni, di Mario Luzi. In realtà Pasolini nelle Ceneri di Gramsci (1957) unisce questa passione prensile e quasi plastica della scrittura poetica, che si direbbe tipica di una prosa saggistica (tra i suoi maestri ci fu il grande storico dell’arte Roberto Longhi), a un uso raffinato e insieme libero della metrica. Il Pasolini delle Ceneri innesta la prosa nel furore metrico (che fu proprio ad esempio di un altro poeta decisivo del secondo Novecento, Giorgio Caproni). La gettata lavica del discorso pasoliniano, che potrebbe tracimare, annullare la poesia, viene fatta solidificare dentro la forma metrica, in particolare la terzina, dantesca e pascoliana (ma anche in altre forme: ad esempio l’imitazione e la ripresa della forma-canzone o i distici tendenzialmente a rima baciata). Questo ci porta al cuore stesso della poesia pasoliniana, che è tutta nutrita del sentimento di una contraddizione. Non per caso una delle figure fondamentali del suo discorso poetico è l’ossimoro (si pensi, ad esempio, al titolo di un poemetto del libro Poesia in forma di rosa, del 1964: Una disperata vitalità). Pasolini nutre la sua poesia di un sentimento irrisolto e lacerante della vita e della cultura: all’altezza delle Ceneri di Gramsci, in particolare, vorrebbe da una parte aderire a una visione chiara, razionale, lucida, ispirata all’ideologia marxista (ma Pasolini stesso nell’introduzione alle Poesie del 1970 parlerà del suo «marxismo mai ortodosso», rimproveratogli del resto da un lettore come Fortini); dall’altra è trascinato da una pulsione vitalistica, irrazionale, che prende corpo nel mito dei ragazzi delle borgate romane, del proletariato pre-ideologico, quasi pre-storico (si ricordi il romanzo Ragazzi di vita, 1955). Pasolini ha piena coscienza di questa contraddizione e ne fa il tema della sua poesia.  Nel poemetto che intitola la raccolta del 1957, all’inizio della parte quarta si mette a tema lo scandalo della contraddizione, con riferimento a Gramsci e al suo pensiero. È un passo celebre, spesso riportato nei saggi e nei manuali:  “Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere; […] attratto da una vita proletaria a te anteriore, è per me religione la sua allegria, non la millenaria sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza […]”.  Nella sua produzione poetica (peraltro di vastissime proporzioni e quasi ingovernabile, come documentano i due tomi di Tutte le poesie nei “Meridiani”, a cura e con uno scritto di Walter Siti, Saggio introduttivo di Fernando Bandini, Cronologia a cura di Nico Naldini, Mondadori, 2003, da cui provengono tutte le citazioni) Pasolini ha tentato molte forme diverse: è partito dalla poesia in dialetto, dal sogno delle origini romanze, in una lingua vergine (il friulano di una piccola località) e in una forma rigorosa, quasi arcaizzante, con le Poesie a Casarsa del 1942. Anche in italiano, Pasolini ha scritto una poesia lirica e solitaria, ispirata al mondo marginale della campagna e del borgo: si pensi a L’Usignolo della Chiesa Cattolica (uscito nel 1958 solo per ragioni editoriali, ma precedente alle Ceneri di Gramsciquanto a composizione). Nei libri seguenti alle Ceneri, che è in qualche modo il libro-cerniera della sua carriera di poeta, cioè La religione del mio tempo (1961), Poesia in forma di rosa (1964), Trasumanar e organizzar (1971), si verifica una compresenza di ragionamento e impegno ideologico, da una parte, e persistenza di una certa forma di lirismo, se anche impura, dall’altra (già nelle Ceneri un poemetto come Una polemica in versi andava verso l’uso della poesia come strumento oratorio e di intervento). Così si capisce che la poesia è per Pasolini e per molti poeti del secondo Novecento un organismo instabile, un ibrido tenuto in equilibrio di un soffio sopra la prosa in modo sempre compromissorio. Si diceva delle tante forme esperite da Pasolini: ne La religione del mio tempo (1961) ci sono due sezioni di epigrammi, in cui Pasolini polemizza con poeti e intellettuali o prende a bersaglio altre figure pubbliche. Come esempio di questo genere prendiamo dalla serie Nuovi epigrammi il testo A Luzi: “Questi servi (neanche pagati) che ti circondano,/ chi sono? A che vera necessità rispondono?/ Tu taci, dietro a loro, con la faccia di chi fa poesie:/ ma essi non sono i tuoi apostoli, sono le tue spie”. Nel rivolgersi al poeta fiorentino, di qualche anno maggiore di lui (nato nel 1914), Pasolini (nato nel 1922) si rifà ad una propria recensione a Onore del vero uscita in rivista nel 1958 e poi raccolta in Passione e ideologia (1960), che contestava a Luzi, pur ammirato dal punto di vista estetico, “una insensibilità di fronte ai fenomeni della vita umana e della storia”; rifluisce inoltre nell’epigramma una discussione maturata sulle pagine della rivista “La Chimera” sul tema del realismo (1954), che vide contrapposti appunto Luzi e Pasolini. Queste punte polemiche, neanche satiriche, che appaiano Pasolini a un altro epigrammista inflessibile del Novecento, cioè Fortini, rivelano un aspetto irriducibile della personalità del poeta: il suo porsi come contraddittore, arbitro, giudice, polemista, in nome parte di una ideologia, parte (è la solita contraddizione) del suo superamento vitale e narcisistico.  Le polemiche di Pasolini, letterarie e ideologiche, sono state numerose. Alcune ci appaiono ingenerose. È il caso, credo, di quella con Montale, attaccato duramente su “Nuovi argomenti” per Satura, libro definito, pur con qualche affondo di intelligente critica stilistica, come un “pamphlet antimarxista” e ancora come un libro “tutto fondato sulla naturalezza del potere”, con un esito, per il poeta dalla lunga storia, “reazionario e quasi teppistico”. Montale rispose con discrezione e insieme con forza, scrivendo un testo poetico tutto centrato su Pasolini ma che di Pasolini tace il nome sotto un senhal, cioè Lettera a Malvolio, in Diario del ’71 e del ’72. Al di là della reticenza, il bersaglio è colpito con decisione da Montale, mentre la polemica non fa che portare alla luce una incomprensione di fondo tra i due covata a lungo. Ecco i versi 17-29 del testo montaliano, che mettono a fuoco dal lato del ligure la situazione culturale del dopoguerra e una figura come quella di Pasolini:  “Ma dopo che le stalle si vuotarono l’onore e l’indecenza stretti in un solo patto fondarono l’ossimoro permanente e non fu più questione di fughe e di ripari. Era l’ora della focomelia concettuale e il distorto era il dritto, su ogni altro derisione e silenzio. Fu la tua ora e non è finita. Con quale agilità rimescolavi materialismo storico e pauperismo evangelico, pornografia e riscatto, nausea per l’odore di trifola, il denaro che ti giungeva”.  Si noterà che l’“ossimoro permanente” sembra proprio stigmatizzare, prima di accuse più virulente e dirette, la posizione sempre contraddittoria di Pasolini (pur essendo anche il contrassegno di un’epoca), il quale come poeta-intellettuale continua ad apparirci nelle vesti di un provocatore assai ideologico e non privo di acredine (si prendano ancora in Trasumanar e organizzar le punture denigratorie e maldicenti verso questo o quel collega: “[…] – e mettiamoci anche/ un po’ di tenerezza per le vecchie tettine di Palazzeschi”; “[…] e lo scialbo Pavese”). D’altra parte nella poesia di Pasolini, come già Le ceneri ci insegnano, c’è sempre una pulsione alla verità, alla confessione dolente, alla visceralità: è il meccanismo di quello che Montale, con tagliente acume, definirà appunto “ossimoro permanente”. Così in Poesia in forma di rosa si legge un componimento come Supplica a mia madre, da cui si possono citare alcuni versi (si tratta di distici):  “Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore. Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia”.  Si può avvicinare a questo impulso alla confessione anche un’altra celebre dichiarazione pasoliniana, ancora da Poesia in forma di rosa:  > “Io sono una forza del Passato. > Solo nella tradizione è il mio amore. > Vengo dai ruderi, dalle chiese, > dalle pale d’altare, dai borghi > abbandonati sull’Appennino o le Prealpi, > dove sono vissuti i fratelli”.  E poi, in chiusa: “E io, feto adulto, mi aggiro/ più moderno di ogni moderno/ a cercare fratelli che non sono più” (Poesie mondane, brano 10 giugno 1962). Il libro poetico forse più impuro di Pasolini è Trasumanar e organizzar (1971): fin dal titolo, esso mette insieme l’esperienza dantesca del trasumanar (Paradiso I 70-71: “Trasumanar significar per verba/ non si poria […]”, brano evocato in più punti del libro da Pasolini, così come più volte è allusa la figura di san Paolo e il suo essere rapito al Terzo cielo) e l’organizzare politico, la prassi, vale a dire due dimensioni tra loro incommensurabili. Molti testi sono ragionamenti in versi, discorsi, declamazioni, dibattiti: la poesia è messa in questione nella sua autonomia, eppure non è del tutto negata. Continua, si direbbe, a vivere dall’interno della sua messa in crisi, nella sospensione delle sue forme riconosciute, dunque in modo problematico. Viene meno la funzione della metrica chiusa, si tende a uno stile informale. Certamente Pasolini mira a rovesciare il suo discorso precedente, in particolare la stabilità e saldezza formale faticosamente raggiunta nelle Ceneri di Gramsci. E quanto a questo movimento di auto-negazione, di palinodia tutta in negativo si potrà pensare al caso esemplare della Seconda forma de “La meglio gioventù”, la raccolta che nel 1974 (per essere poi ripresa ne La nuova gioventù del 1975) riscrive a contrasto La meglio gioventù del 1954, a partire dalle Poesie a Casarsa (basta leggere la riscrittura del testo d’apertura, la Dedica). D’altra parte, a confermare la pluralità delle forme e degli esperimenti, tra il 1971 e il 1973 Pasolini compone una serie di sonetti, ritornando dunque ad una forma chiusa (mentre nella sua poesia ufficiale, pubblica, liquida quell’esperienza), anche se si tratta di una forma usata con grande libertà (l’autore l’aveva del resto già sperimentata: si ricordi in particolare la serie Sonetto primaverile, costituita da 14 sonetti, risalente al 1953 e pubblicata nel 1960). La corona L’hobby del sonetto, tutta dedicata a Ninetto Davoli e uscita solo postuma, è una straziata confessione affettiva, di una natura che si direbbe privata (è costituita da 112 esemplari, ma alcuni sono allo stato di abbozzo o di frammento). È l’ultima riprova: la verità di Pasolini sta nel suo contraddirsi, nel suo essere contro di sé e contro ogni principio acquisito e raggiunto, contro ogni programma e progetto. Pasolini vive di una continua tensione vitalistico-mortuaria, come se la vita e l’opera fossero un tutt’uno, anelanti a uno sbocco, a una catastrofe, a un martirio, a un togliersi di mezzo per sanare (come fosse l’unico modo possibile) la lacerazione, il contrasto, la pretesa assoluta e narcisistica del soggetto, prepotente e distruttiva insieme. La notte del suo assassinio all’idroscalo di Ostia, tra l’1 e il 2 novembre 1975, giusto cinquant’anni fa, era in qualche modo preannunciata e forse presupposta dal poeta. Daniele Piccini ** Le ceneri di Gramsci IV Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere; del mio paterno stato traditore – nel pensiero, in un’ombra di azione –  mi so ad esso attaccato nel calore degli istinti, dell’estetica passione; attratto da una vita proletaria a te anteriore, è per me religione la sua allegria, non la millenaria sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza; è la forza originaria dell’uomo, che nell’atto s’è perduta, a darle l’ebbrezza della nostalgia, una luce poetica: ed altro più io non so dirne, che non sia  giusto ma non sincero, astratto amore, non accorante simpatia… Come i poveri povero, mi attacco come loro a umilianti speranze,  come loro per vivere mi batto ogni giorno. Ma nella desolante  mia condizione di diseredato, io possiedo: ed è il più esaltante  dei possessi borghesi, lo stato più assoluto. Ma come io possiedo la storia, essa mi possiede; ne sono illuminato: ma a che serve la luce? * Da Poesia in forma di rosa Supplica a mia madre È difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio. Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore. Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia. Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data. E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame d’amore, dell’amore di corpi senza anima. Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù: ho passato l’infanzia schiavo di questo senso alto, irrimediabile, di un impegno immenso. Era l’unico modo per sentire la vita, l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita. Sopravviviamo: ed è la confusione di una vita rinata fuori dalla ragione. Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. Sono qui, solo con te, in un futuro aprile… Pier Paolo Pasolini *Si pubblica per gentile concessione il servizio di Daniele Piccini edito nell’ultimo numero di “Poesia” (n. 34, Crocetti, 2025) In copertina: Pasolini durante le riprese romane de “Il fiore delle Mille e una notte” (1973). Foto di Gideon Bachmann L'articolo “Fu la tua ora e non è finita”. Pier Paolo Pasolini, il poeta proviene da Pangea.
November 10, 2025 / Pangea
“Estinguerci sarebbe una benedizione – ma possiamo provare a risvegliarci”. Dialogo con Jorie Graham
Nel 1997 il “New Yorker” dedica un ampio servizio a Jorie Graham, “the most celebrated American poet of her generation”. L’articolo, Big Poetry, è bello, ardito, arioso. Stephen Schiff ha agio nel mostrarci la poetessa “vestita di nero dalla testa ai piedi, con un numero sufficiente di bracciali, collane e anelli da far venire l’ernia a una danzatrice del ventre”. Studenti, studiosi, passanti le fanno spazio “con tenero riguardo e cenni di assenso”. Nella fotografia che ingioiella l’articolo, la Graham ha uno sguardo colpevolmente innocuo. Il giornalista la descrive così: “occhi vasti, vispi; fronte aperta, bocca che sboccia nel broncio e dappertutto una massa di capelli scuri”. Alcuni – compreso Mark Strand, il poeta – sussurrano, “è un genio”.  Nata a New York da Curtis Bill Pepper – inviato speciale per “Newsweek”, scrittore, autore, tra l’altro, di un romanzo biografico centrato sulla vita di Leonardo da Vinci – e da Beverly Pepper, scultrice, cresciuta a Roma, studi alla Sorbona e alla New York University, la Graham è stata, da ragazza, assistente di Michelangelo Antonioni: voleva fare la regista. Esordisce alla poesia nel 1980 con Hybrids of Plants and of Ghosts, subito elogiato dal “NY Times” – dissero di “una poetessa di enormi ambizioni, dal ritmo spericolato” –; seguono libri pressoché infallibili – The End of Beauty, 1987 e Region of Unlikeness, 1991, ad esempio – fino al “Pulitzer for Poetry”, ottenuto nel 1996 con The Dream of the Unified Field. “Poetry” la definisce “uno dei poeti statunitensi più noti e celebrati della generazione post-bellica”: ogni suo libro è – per natura lirica tellurica – un ‘caso’. Jorie Graham, potremmo dire, esercita una politica attraverso la poetica. Per dirla in modo più frugale, usando le parole del critico americano Calvin Bedient, la Graham “è una campionessa mondiale nel porre le domande più radicali… Ciò che le importa è la speranza insita nell’interrogativo, non la risposta”. Anche l’ultimo libro, 2040, è un libro interrogativo, è un libro-scavo – dacché ogni domanda prevede una zappa, una pala, il desiderio di dissotterrare qualcosa interrando qualcos’altro. Scritto dal 2020, pubblicato nel 2023, tradotto quest’anno da Crocetti, 2040 ha per interrogativo l’estinzione dell’uomo e il massacro del creato. “Protagonista principale di questa raccolta poetica è una speakerautobiografica che vaga, sola e disorientata, in uno spazio avvolto nel silenzio, in limine fra un mondo che non esiste più e a un passo dalla potenziale estinzione dell’umanità e della sua storia millenaria”, scrive Antonella Francini, la traduttrice della Graham in Italia, nella partecipe introduzione al libro, Il potere della memoria. Il libro ruota intorno a una lettera Al 2040 – p.78 della versione italiana – di cocente bellezza:  “Gli anni spinsero la loro durata in noi come lunghe corde bagnate, e noi ci aggrappammo, ci tennero appesi per andare avanti, & in alto, ci impedirono di annegare nei minuti terribili. Una volta mi sedetti & piansi mentre guardavo sorgere il sole & i fiocchi cadere come ignara del movimento dalla notte al giorno – ci sia almeno una differenza – altrimenti qualsiasi cosa rimanda del desiderio se ne andrà – altrimenti non ci sarà  nulla di ciò che ho salvato – nulla da salvare – fate rifiorire il giorno in un segmento di tempo – fa freddo – il sogno è cosa difficile da scorgere” Il libro alterna parti in prosa a vertigini in versi, estreme cupezze ed estreme tenerezze. Si vedono boschi, nevi, uccelli a sciami, sciabordio di bestie – e malinconia, rapimento, rabbia. Pochi umani in giro.   > “Non ho nulla da offrire. > Il mondo è sempre stato > pronto per il mondo.  > Il fiume in secca. > Vedo pesci sulle rive senza uccelli. > Cuore umano, mi dico, cosa ci fai qui, questo è troppo > per posarci > lo sguardo. > I pesciolini galleggiano nel salmastro.  > La corrente rallenta. Gridi di uccelli della sera come vetro infranto, > un grido e hanno finito”. Non è, fieramente, un poeta facile, Jorie Graham. Non è poeta di proclami, bensì di rivelazioni e di affondi. È stata la prima donna, ad Harvard, ad aver coperto la cattedra di “Rethoric and Oratory” che fu – tra gli altri – di Seamus Heaney. Per capire il ‘personaggio’ – o meglio: l’impeto politico di una intellettuale totale –: Jorie Graham è tra i produttori di The Voice of Hind Rajab, il film che ha straziato la scorsa Mostra internazionale del cinema di Venezia – da cui ha raccolto il Leone d’argento – e che racconta l’uccisione di una bambina palestinese, Hind Rajab, appunto, da parte dell’esercito israeliano.  L’ultimo libro di Jorie Graham è previsto per il prossimo anno. S’intitola Killing Spree. Il suo ‘metodo’ lirico mescola i modi di Wallace Stevens ai toni del contemporaneo, i ‘modernisti’ alla modernità. I temi sono quelli di oggi, urticanti: “devastazione ambientale, senso della perdita, instabilità politica”. Credere nel potere della parola, nel segreto sussurrato dal verbo, penso – dopo tutto, confidare con sciamanica ostinazione in un qualche risveglio.  Mi pare che 2040 sia un libro, allo stesso tempo, potentemente poetico e fortemente “politico”. Esprime una poetica della politica. Come è nato – e perché? La poesia è in primo luogo uno strumento in grado di mettere in moto l’intera anima (“dell’uomo”), come ci ricorda Coleridge. Quindi, siccome vivo in un mondo che va verso l’autodistruzione e siccome la poesia nasce dall’esperienza del poeta – corpo, mente, anima – non c’è altra esperienza che possa guidare la mia scrittura. Non ho altro corpo se non questo corpo mortale. Come ci ricorda Aristotele, siamo per natura “animali politici”. Vorrei sottolineare questa nostra caratteristica di mammiferi capaci di intuire nei minimi dettagli i pericoli, anche lontani, come se li percepissimo attraverso i nostri pori. Siamo attraversati da una profonda intuizione. Il nostro obiettivo è sopravvivere. La poesia è uno dei grandi strumenti che lo spirito umano ha sviluppato per esprimere e approfondire gli istinti della sua natura animale e spirituale. Potremmo dire che i nostri millenni di poesia sono il nostro manuale d’istruzioni per quanto riguarda ciò che serve a rimanere umani in mezzo a tutte quelle forze – interne e esterne – che gravano su di noi allo scopo di disumanizzarci o indurci a distruggere il resto del creato. Mi risulta che anche il termine “umano” venga oggi messo in discussione. Abbiamo fatto così tanto male, e continuiamo a farlo. Forse la nostra estinzione sarebbe una vera benedizione per questa terra. Ma credo, tuttavia, che in noi esista ancora l’istinto di provare a risvegliarci. Ecco dove la poesia e la politica si incontrano. Che rapporto c’è tra “politica” – nel senso ampio, greco del termine – e “poesia”? Intendo dire: cosa significa per un poeta, per lei, “prendere posizione”? Cosa significa per un poeta la parola “impegno”? In questo momento, negli Stati Uniti – come altrove – proprio le parole che usiamo implicano il rischio concreto di essere presi di mira politicamente dal governo – se così possiamo chiamarlo. Per noi il cui mestiere ha a che fare interamente con le parole – e con le attività palesi e occulte svolte dalle parole nell’animo umano, nella coscienza, nella memoria, sulla realtà e il suo senso – è strano vedere il loro potere (e la storia e l’immaginario che esse evocano) andare in questa direzione. Proprio mentre ci stavano convincendo che la nostra vita è interamente immersa in una “cultura dell’immagine”, l’uso di una parola come “genocidio” può portare a essere licenziati, molestati, arrestati o fatti sparire dalle nostre forze di polizia private e pubbliche. L’effetto che tutto questo ha su ciò che abbiamo tra le mani quando si mette la penna sulla carta è notevole. Nel mio nuovo libro, Killing Spree, che uscirà a maggio negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ci sono momenti, ovunque in quelle poesie, in cui le decisioni che devo prendere su quali parole usare implicano considerazioni extra-letterarie. Questo testimonia il potere di un tale mezzo che anche nell’era dell’intelligenza artificiale restituisce la vera forza e il vero valore a un essere umano quando pronuncia una parola nella sua condizione vulnerabile, precaria e mortale, al contrario di un bot. Solo attraverso il sangue e la carne le nostre parole sono “engagé”. Vorrei entrare, come direbbe Hawthorne, nella sua “camera stregata”. Quali immagini l’hanno ispirata durante la scrittura di 2040? Quale immaginario linguistico? Quali “fonti”? Abbiamo vissuto un periodo di intensa siccità – che fa in realtà da sfondo a 2040 – mentre io mi sottoponevo a un intervento chirurgico, alla radioterapia, alla chemio.  La popolazione aviaria ha subito drastici cambiamenti durante quei mesi. Alcune specie di alberi sono state attaccate da malattie causate da nuovi insetti portati dai venti degli uragani che hanno messo a rischio la sopravvivenza del nostro bioma. Mi sono ritrovata calva e sbalordita lottando per mantenere le mie forze e salvare i “miei” alberi. Camminavo ogni giorno per chilometri (come mi aveva consigliato la mia oncologa) e durante quelle passeggiate nelle nostre foreste ero determinata a sopravvivere entrando in contatto con la forza magnetica della terra sotto i miei piedi. Quasi tutte le poesie sono state inizialmente composte mentre camminavo, tranne quelle che considero odi – “La quiete”, “Nebbia”, “Arco temporale”, “Il visore VR”, “Giorno” –, sorte nell’intervallo tra una seduta di chemio e l’altra, quando ero troppo debole per camminare. Cosa può fare la poesia nel confronto con la Storia? Che cos’è in fondo “la poesia”? Ci sono molte risposte a questa domanda e mi sento un po’ sciocca nel cercare di rispondere. Ma si potrebbe dire che, fra tutti i tipi di storie che creiamo attraverso lo scorrere del tempo e il suo evolversi mortale, tramite le sue catastrofiche sorprese e i suoi visibili colpi di scena, la poesia è la storia che si impegna a rivelare la vita dell’anima. Forse l’evoluzione dell’anima. Forse la sua permanenza. Forse le sue illusioni o le sue epifanie o i suoi ‘presagi di immortalità’. Ed è meglio, forse, se si porta dietro il minor carico possibile. Così quel carico si affida alla musica del verso per mantenere il suo significato rapace, da scoprire, in volo, affidabile e vivo. Ecco perché devo lavorare così tanto sulla musica – nell’originale e poi, con Antonella Francini, riscrivendola in quella lingua miracolosa che è l’italiano. Ritagli un pezzo di 2040 che le sembra esemplare e mi dica perché.  Le rispondo indirettamente. Oggi, in un’epoca in cui stanno scomparendo la capacità di leggere e comprendere (la capacità di concentrazione e la capacità di sostenere tempi prolungati), penso molto all’idea di Wallace Stevens secondo cui “la poesia deve resistere all’intelligenza quasi con successo”. Quel quasi è essenziale perché costringe a usare i sensi insieme all’intelletto. Cura la dissociazione della sensibilità di cui parlava Eliot con incredibile lungimiranza, che oggi sta distruggendo la nostra gente. Leggo il suo nome tra i produttori di “The Voice of Hind Rajab”: come mai? All’inizio ho dato una mano. Sembrava davvero impossibile trovare persone disposte a finanziare quel film. Poi ho dato consigli sulla sceneggiatura, infine sulle diverse versioni della pellicola. Le devo ricordare che io sono una regista inappagata. Da giovane, a Roma, ho collaborato con Antonioni come assistente alla ricerca. Ho frequentato la scuola di cinema alla New York University. Perciò, quando ora mi viene chiesto di fornire un feedback ad alcuni film – specialmente documentari – nelle loro varie fasi, torno a usare la mia immaginazione cinematografica. Alcuni critici sostengono da anni che la mia poesia sia influenzata dal cinema, in particolare dalle tecniche dell’editing e del montaggio che ho studiato da giovane. E ora… quale progetto di scrittura la anima? Come ho già accennato, ho appena finito di scrivere un nuovo libro, Killing Spree, che uscirà a maggio. È stato composto durante questi ultimi tre anni in cui la follia di genocidio, tirannie, fame e IA estrema – sempre presenti fra noi – hanno raggiunto un livello tale da essere in primo piano sul palcoscenico.    *La traduzione dell’intervista è di Antonella Francini In copertina: Jorie Graham; photo Alvaro Almanza L'articolo “Estinguerci sarebbe una benedizione – ma possiamo provare a risvegliarci”. Dialogo con Jorie Graham proviene da Pangea.
November 8, 2025 / Pangea
Interrogando le tenebre. Denis Johnson, il poeta
…è per Simone Cattaneo (1974-2009) Diciamo che il 2012 è il nostro Cape Canaveral. In questo viaggio interstellare – che significa: lacrimare tutte le costellazioni, una per una, fino al vuoto, fino al cosmo in una tazza – cominciamo dal 2012. Settembre 2012, numero 67 di “Atelier”, “La fine dell’opera comune”. Il numero è dedicato a Simone Cattaneo, poeta di lirica violenza, che ha scelto di farla finita nel settembre del 2009. Aveva trentacinque anni, Simone; Atelier aveva pubblicato i suoi libri, di carnivora luce, Nome e soprannome (2001) e Made in Italy (2008). Quell’anno – il 2012 – Il Ponte del Sale pubblica tutte le poesie di Cattaneo, compresa l’ultima raccolta, Peace & Love. Simone mi era amico, fraterno. Compivamo gli anni lo stesso mese, a quattro giorni di distanza: un giorno, in febbraio, mi regalò un concerto di Lou Reed, a Milano. Posti in prima fila. Gli rubarono la macchina. Restò a dormire da me. Scrisse della sua morte sul “Giornale”; il titolo, pur viscerale – “Per essere notati dalla critica bisogna buttarsi dalla finestra” – non sortì alcun effetto: al sistema clientelare e nepotistico della cultura italica, si è sommata, oggi, una generica, sonnambula melassa lirica. Il condono servile di ogni crimine estetico.  Torno in me. Nel numero di “Atelier” del settembre 2012, Riccardo Ielmini scrive una memoria, Simone, Dejan Stankovic, Walter Zenga (e anche io), di commossa bellezza. Ielmini rievoca un incontro con Simone. È venerdì, mezzogiorno, “sei giorni prima che tutto finisca, maledizione”. Simone sale al lago, a Laveno, per un gelato – è sera. A un certo punto, Simone parla di Denis Johnson. “Senti, e quell’idea su Denis Johnson?”. L’idea. “Provare a tradurre le sue poesie inedite in Italia”. Simone adorava Denis Johnson. Amava le sue poesie. Me ne parlava da anni – da quando abbiamo preso a vederci – dal 2001, dall’inizio di questo millennio Cerbero. “Sai che la traduttrice di Johnson è una mia concittadina?”, fa Simone a Riccardo. Silvia Pareschi. Diversi anni dopo, qualche anno fa, nel 2019, ho intervistato Silvia Pareschi.  Denis Johnson ha scritto alcuni dei romanzi più potenti degli ultimi decenni di letteratura americana. Ne cito due. Albero di fumo (2007) e Mostri che ridono (2014). In Italia, Denis Johnson è stato tradotto per la prima volta da Delfina Vezzoli, per Feltrinelli: Angeli (1983) e Fiskadoro (1985) sono ormai dei reperti editoriali. Il libro che più lo rappresenta, però, è Jesus’ Son (1992), allucinata raccolta di racconti che narra di un mondo virgineo all’apocalisse, di lisergica crudeltà. Era il libro preferito da Simone. Silvia Pareschi lo ha ritradotto per Einaudi nel 2018. Per questo l’ho intervistata.  > “È il libro di culto della letteratura americana contemporanea – è scritto in > una lingua spoglia e luminosa che ricorda per certi versi Hemingway e Carver > (il quale era stato insegnante di Denis Johnson all’Iowa Writer’s Workshop). È > proprio grazie a questa lingua che Johnson riesce a trasformare una serie di > personaggi falliti e marginali in angeli dannati di proporzioni mitiche. Le > loro disavventure sono raccontate con una prosa diretta e disadorna, il > prodotto di una mente annebbiata che attribuisce la medesima importanza a ogni > cosa, che sia una nuvola o un cadavere. E ogni tanto, in questa prosa > imperturbabile, spuntano senza preavviso momenti di intensa poesia”. Ecco. Denis Johnson nasce alla letteratura come poeta: esordisce a vent’anni, nel 1969, con The Man Among the Seals. Nel 1982 Mark Strand sceglie The Incognito Lounge (raccolta di Johnson edita da Random House) come miglior libro per i “National Poetry Series”. A differenza di altri romanzieri americani – da Hemingway a Faulkner a una quantità di altri – per cui la poesia è un gioco secondario, un modo per sgranchire la scrittura, Denis Johnson è sostanzialmente un poeta – e il poeta, giudizio mio, è a tratti più grande del romanziere. L’ultima sostanziosa raccolta, The Throne of the Third Heaven of the Nations Millennium General Assembly, è del 1995; pur continuando a tosare il giardino lirico, Johnson ha trasferito la propria natura poetica nel romanzo. È trasmigrato dalla poesia al romanzo. Dai suoi libri hanno tratto dei film. È morto nel 2017, Johnson, per un cancro al fegato. Si è sposato tre volte. A suo tempo, gli cucii il ‘coccodrillo’; attaccava così:  > “Prendi Joseph Conrad, drogalo a dovere, e fagli fare un giro a Las Vegas. Il > risultato ti darà Denis Johnson, il Lord Jim della letteratura contemporanea, > duce nel sottosuolo del romanzo americano. Nato incidentalmente in Germania, > nel 1949, incidentalmente è stato un alunno di Raymond Carver. Faccia da > colosso hollywoodiano, un po’ Michael Madsen un po’ Jeff Bridges, Denis, > speleologo delle ambiguità, comincia – e continua – come poeta… ha fatto > letteratura interrogando le tenebre”.  Alcuni suoi pionieristici reportage – pubblicati su “Esquire”, “Salon”, “Paris Review” – come The Militia in Me, prefigurano con micidiale lungimiranza gli Stati Uniti di oggi (in Italia, li ha raccolti & pubblicati, nel 2004, Alet come Cronache anarchiche, ennesimo libro fuori orbita da tempo). Raymond Carver, poeta ben più modesto di lui, era un fan della poesia di Denis Johnson, “La sua materia lirica, dolorosamente efficace, non è altro che un’analisi nelle zone oscure della condotta umana”.  In università, ogni anno, leggo un racconto di Denis Johnson. S’intitola Incidente durante l’autostop, è il racconto che apre Jesus’ Son. Il protagonista è un tossico. A un certo punto, il tossico è in ospedale, reduce – senza un graffio – dell’incidente che dà il titolo al racconto. Una donna, “magnifica, ardente”, varca la soglia dell’ospedale. Il marito è morto. Lei non lo sa ancora.  > “Il medico l’ha portata in una stanza con una scrivania in fondo al corridoio, > e da sotto la porta chiusa si è sprigionata una lastra di fulgore, come se, > grazie a qualche stupefacente processo, lì dentro stessero incenerendo dei > diamanti. Che polmoni! Strillava come avrebbe potuto strillare un’aquila. Che > meraviglia essere vivo per poterla sentire! Da allora non ho più smesso di > cercare quella sensazione”.  All’immagine abbagliante – incenerire i diamanti – si lega la contorsione morale di un infermo nell’anima che sugge i capezzoli del dolore altrui, li strappa a morsi. L’aula, di solito, a lettura terminata, si trasforma in una ghiacciaia. La grandezza cuce le labbra – l’abnorme umano ci fa lo scalpo.  Ogni volta che leggo le poesie di Denis Johnson mi ricordo una poesia di Simone Cattaneo, quel frantume di versi che detta un codice, una sorta di regola di vita: > “ho scavato la mia carne > come fosse una vela > e ho gettato sabbia sopra il pianto > ho creduto nella pena del silenzio, > nella domanda liscia della fame”. Mi pare che le poesie di Denis Johnson, extracanoniche, apocrife alle mode imperanti, siano tra le più belle della poesia americana di oggi. Mi ricordano i film di David Lynch, gli esseri piumati che appaiono nei sogni dei nativi e che impaniano le visioni dei deliranti. Gli animali aurorali – il corvo, ad esempio, bestia-guida nella poesia di Ted Hughes – hanno perso i poteri ctoni, la mente è un reclusorio, al poeta non basta più costruire una propria mitologia da comodino, un proprio alcolico aldilà. I segni sono sconnessi e questo disequilibrio da cancelli dissigillati e soffitte senza sottana è il regno di parole cannibale, di frasi mercenarie.  In fondo, Denis Johnson è l’ultimo degli sciamani – fa la sua solitaria danza e le stelle si approssimano alla finestra con musi da cerbiatto.  ** Corvo Balugina il corvo sul morto ramo sotto cui siamo passati, forse, tempo fa. Il nostro pastore era un demone e un falsario: ha cosparso sul nostro matrimonio una ghirlanda  di pioggia, quella stessa fredda pioggia adolescente nelle cui raffiche si avvolgono i sempreverdi tra memoria e memorabile.  Oh, certo, nessuno ha assistito a quel triste spettacolo durato notte e giorno – il suo treno fu un treno di anni.  Da quel momento, secondo  i miei calcoli, ho vissuto tre vite, una nella magia, l’altra nel potere, infine nella pace – e ancora la piccola ferita pari a un pozzo nel truce buio e chi dovrebbe respirare vede sogni diventa pallido, contagiato da una musica.  Ma il corvo non è Dio e il vento non è Dio e niente è Dio e questo non ci fa desistere dalle trasgressioni commesse per ignoranza.  * Poesia che mette in discussione l’esistenza del mar nello stesso, esatto modo in cui gli animali sono gettati sulla sabbia, terrorizzati dopo tanti eoni, all’improvviso dall’oscurità del mare un elevato numero  di bambini si tuffa ogni giorno nel grande spasmo evolutivo dell’utero di pallide, disarticolate donne. è ampio e vuoto il luogo dove sono ora, anni dopo, e flottano drasticamente ai fianchi contro il flipper. fuori il gemito detective di quell’ impossibile bimbo che ribalta le strade mentre manovra l’odiosa macchina come una grande nave tra le onde della vita. un po’ confuso, come sempre, osservo le costruzioni crescere sotto il cielo sapendo che presto dovrò diventare lui, eludere i miei figli e schiaffeggiare le onde nella sapiente ebbrezza. tremo  come un vecchio indiano, elemosino un po’ di pioggia su questo deserto. * In una stanza d’affitto questo è un buon sogno, anche se svanisce non è meno reale, anche se i miei piedi si  sbricioleranno sul pavimento in agguato. la gola è arsa e mi sveglio in una stanza vuota quanto la mia presenza: assenza di aspirine. lì  l’asfittica sorpresa del sole, l’alba. là macchine e strade che si snodano secondo il solito criterio. la stanza non vuole vomitarmi. deve aprire il cuore, comunicare con le altre subacquee stanze in cui ho massacrato il mio corpo nel nimbo delle lenzuola e sbando verso le vie per placare l’arsura.  che cosa impari, stanza? che cosa hai detto, perché le macchie gli occhiali accusatori puntati verso il mio ritorno? c’era una ragazza un tempo. vorrebbe sapere da dove viene la colpa che ronza sul letto e crolla come una mano indifferente che mi annienta. vorrebbe aiutarmi mentre l’universo mi ha mentito ancora, lo sberleffo è andato troppo oltre l’arsura, rampicante, profonda, resta dopo bottiglie e bottiglie e sono a un dito dalla morte e devo conficcare il mio corpo in migliaia di vuote oscurità prima di assurgere al sonno, prima di sognare.  * Elogio della distanza è difficile restare poeta quando l’inverno ti scivola dal palmo della mano: questi  sono guai. la macchina scompare inabile al dolore, nel parcheggio. si accartoccia su un ginocchio come un elefante, stupefatta dai proiettili famelici dell’inverno.  il cimitero vacilla lontano. la macchina non starà  ancora a lungo tra me e i debiti che mi attendono davanti a casa. non me  ne andrò più a sfinire le miglia come se la distanza fosse la sola sicurezza come se si potesse sbattere  una portiera in faccia alla pena.  mia moglie dice: trovati un  lavoro. ma una volta avevo un cane i cui organi vitali divennero un caos sotto il vello, e ne morì; non lascerò il regno animale finché non diventerà un albero. tenderò le narici  verso la solitaria giaculatoria del suo collare che crollava sugli edifici: qualche segno mi informerà del suo ritorno. le mie mani non sono quelle di un indovino; l’inverno le gonfia di difficoltà. se si è perso lo troveranno gli agricoltori che sperano nella primavera, scorgeranno la sua voce tra gli oceanici campi di mais, mentre cerca un posto dove riposare. intanto, lo attendo  alla finestra: ho il sospetto che il senso delle cose resterà irrisolvibile.  Traduzione di Federico Scardanelli *Si pubblica per gentile concessione l’articolo che apre l’ultimo numero di “Poesia” (Crocetti Editore, n. 33, settembre-ottobre, 2025), in memoria di Simone Cattaneo L'articolo Interrogando le tenebre. Denis Johnson, il poeta proviene da Pangea.
September 1, 2025 / Pangea
“Il lago del cuore”. Per il centenario di un capolavoro
Festeggiamo i cento anni dalla prima edizione (Gobetti, 1925) di Ossi di seppia, un libro che qualcuno giudica il più bello tra quanti ne apparvero in Italia nel Novecento o che comunque, per tutti, rimane fra gli indispensabili a definire la fisionomia, non solo stilistica, di un’epoca. Nell’attesa di questa simbolica ricorrenza ho ripensato a quando (era l’inizio del decennio 1960), al di là di ogni confessabile desiderio, mi vidi assegnare come argomento della tesi di laurea la poesia di Eugenio Montale (sembra che fosse, nei nostri atenei, la prima volta). Come gran parte dei miei compagni di università, ritenevo Montale indiscutibilmente il maggiore tra i contemporanei. Ai suoi versi mi ero accostato durante la seconda liceo, leggendo (nell’edizione grigia di Einaudi dei primi anni ’40) gli Ossi e Le Occasioni, trovati in casa fra i libri di mio padre, che poi mi regalò per il mio diciassettesimo compleanno La bufera e altro (Neri Pozza, 1956), a completamento del trittico che promuoveva fra i nostri “immortali” il poeta del “male di vivere”. Mi sono domandato se quell’impressione di compiutezza e pienezza che ci dava il libro del ’25 (quasi l’opposto del “sillabato” ungarettiano) e che, per dirla in sintesi, corrispondeva a un’aggiornata nozione di “classicità”, si sia trasmessa anche ai lettori delle generazioni successive. Avendo più volte, nell’arco di un quarantennio, preso Montale a oggetto dei miei corsi monografici, posso testimoniare che nessun’opera di poesia novecentesca ha mai ricevuto dall’uditorio un “consenso”, talora prossimo all’entusiasmo, paragonabile a quello suscitato dagli Ossi di seppia. A noi fortunati studenti del 1960 non era toccato il mortale castigo della guerra inflitto ai nostri padri, il carico di uno zaino in cui mettere fra le cose necessarie anche un libro di poesia: che, a quanto si tramanda, per alcuni dei richiamati alle armi nel 1940 era stato Le occasioni, fresco allora di stampa. In tempo di pace, noi ci sentivamo meglio “interpretati” da Ossi di seppia, caparbia corsa a ostacoli del poeta davanti a un mondo che lo attrae ma che a ogni passo intralcia e frustra le sue speranze, che sono speranze di essere accolto e “giustificato” in quel meraviglioso e arcano congegno. Le parole e i ritmi di quel libro, estraneo alla cronaca e indifferente alla storia, li sentivamo efficaci a specchiare un disagio biologico, esistenziale, peraltro compatibile con l’insoddisfatta adolescenza che ci eravamo da poco lasciati alle spalle. Sobria e armoniosa nella rappresentazione di quel passaggio fra due età della vita, l’“opera prima” montaliana Montale ci traghettava al di là delle cupe ostinazioni e delle “oltranze” di alcuni protagonisti dell’eroica stagione vociana: Campana, Rebora, Sbarbaro, Jahier…, memorizzati in Lirica del Novecento, l’antologia di Anceschi e Antonielli. Ossi di seppia era un compatto documento nel quale non si captava il minimo impulso a una violazione dei canoni formali vigenti. Un libro per nulla protestatario o eversivo, che s’inseriva senza clamori nel composito solco della “tradizione”, rivelando senza sotterfugi le tracce e gli echi di testi altrui, in ispecie dannunziani. Ce ne sono, in Ossi di seppia, che col D’Annunzio quasi gareggiano in bravura nelle abbaglianti scenografie marine (d’altronde le acque liguri di Montale si mescolano a quelle del Tirreno di Alcyone) e addirittura sfidano l’artefice della Pioggia nel pineto nell’esercizio delle rime fitte ravvicinate.  Nel 1917, su un quaderno (pubblicato postumo da Laura Barile come Quaderno genovese) Montale annotava le proprie letture e gli appuntamenti culturali a cui si recava, corredando il tutto di chiose rapide e acute. Variegati gli interessi di quel ventenne, che di settimana in settimana aspettava rassegnato la convocazione al distretto militare. Contigui alla letteratura, su un orizzonte europeo, vi primeggiano la pittura e il teatro; e molti sono i rinvii all’universo musicale, riferimento e sostegno, anche in séguito, all’ispirazione di Eugenio (che frattanto studiava da baritono). Prova di una curiosa propensione analogico-mimetica saranno gli Accordi, un gruppetto di liriche (poi, tranne un paio, escluse dal libro del ’25) intitolate ciascuna a uno strumento (Violini, Contrabbasso, Oboe…) e, nella finzione montaliana, rappresentative dei «sensi» e di «fantasmi» di una imprecisata «adolescente».    Ma dunque, se Ossi di seppia si rivela tanto in regola con la “tradizione”, che cosa contiene di così coinvolgente e suggestivo da risultare un libro poco meno che “sacro” per tante generazioni di lettori? Nell’estate del ’25, a Giovanni Comisso, giudice benevolo degli Ossi, Montale confidava: > “Non so [quel] che valgono; ma sono un libro fisiologicamente mio (scritto coi > nervi) e per questo mi ci ritrovo.”  L’inconsueto avverbio sottolineato, fisiologicamente, unito all’esplicativo scritto coi nervi, ha prodotto sulla pagina una catena febbrile e sbalorditiva di frasi e formule che, una per una e nell’insieme, costruiscono un testo di straordinaria autorevolezza. I rimandi autobiografici e aneddotici diventano funzionali alle idee che il libro espone icasticamente e che ne costituiscono il telaio, la coraggiosa impalcatura. Ossi di seppia è insomma il libro dove le idee si fanno musica e canto ostinato, ininterrotto.  Libro, nel nostro caso, è un vocabolo che non accetta sinonimi, perché quello del 1925 è davvero il libro più libro di quanti Montale ne abbia pubblicati. E fa tenerezza il ripensare che forse quel suo canto spiegato, quella sua intemerata pienezza obiettivamente un po’ compensavano e “consolavano” le quotidiane angosce di un giovane gratificato, sì, dall’esordio in poesia ma insicuro sul come e dove garantirsi un decoroso impiego nell’Italia di quello sciagurato dopoguerra su cui stava per piombare una dittatura. In Ossi di seppia abbondano frasi e formule passate in proverbio, spesso isolate dalla critica quasi fossero gemme da citare con un riguardo speciale, che però fa torto alla ricchezza di sentenze e figure diffusa invece lungo l’intero libro. Dai “poeti laureati” de I limoni, alla “razza/ di chi rimane a terra” di Falsetto;  dallo “scordato strumento/ cuore” di Corno inglese, al “male di vivere” di uno dei brevi ossi anepigrafi; dal “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, clausola di un altro elemento della stessa serie, al “delirio (…) d’immobilità” di Arsenio, che (con altri capolavori come Incontro) entrerà nel libro a partire dalla seconda edizione (Torino, Ribet 1928) preannunciandovi il clima delle Occasioni (Torino, Einaudi 1939), dove spiccheranno battute non meno incisive: dall’“e io non so chi va e chi resta” de La casa dei doganieri, al “Ma è tardi, sempre più tardi” di Dora Markus…  Davvero non si contano le frasi memorabili, segni di una energia icastica e di una affabulazione che risponde sempre a un’intima urgenza comunicativa, quale che ne sia la materia. Penso ad asserti del tipo “Ci muoviamo in un pulviscolo/ madreperlaceo…”, o “La più vera ragione è di chi tace…”, dove nessuno oserà lamentare astrazione concettuale e carenza di “immagini”. Quel che potrebbe sorprendere è il reiterato sollevarsi del lessico a una pronuncia solenne; cosicché – raffronto gradito a Montale – mentre le alzate di tono di un Gozzano sorgono su un piano scientemente “comico”, gli Ossi non si negano agli slanci enfatici, agli esclamativi non foderati di quella ironia ch’era invece nelle signorili abitudini di Guido (impareggiabile citazionista, meritevole di occupare un seggio nel ‘pantheon’ italiano). Montale non si nasconde e non esita, né sottovaluta la forza dei temi che lo appassionano e imperiosamente lo trascinano a farne materia di poesia.  Un po’ ci emoziona il verificare con che insicurezza e modestia procedesse la fabbrica degli Ossi ; Montale ne scriveva ai corrispondenti più fidati (Solmi, Bazlen, Debenedetti…), non tacendo loro i proprii dubbi, chiedendo lumi e consigli d’ogni sorta, addirittura sollecitandoli a intervenire sul testo per apportarvi eventuali migliorie. L’edizione 1925 era zeppa di dediche, dopo quella complessiva a un poeta ligure coetaneo, Adriano Grande. Si delinea una costellazione di sodali, che comprende poeti, da Camillo Sbarbaro a Sergio Solmi e ad Angelo Barile, scultori come Francesco Messina e Attilio Perducca, scrittori e critici da Emilio Cecchi a Carlo Linati e a Giacomo Debenedetti, autori di teatro come Cesare Ludovici, e un consulente geniale, Bobi B.[azlen]. Si aggiunga la dedica di Falsetto a colei che l’ha ispirata, la nuotatrice Esterina (Rossi). Nella trama del libro risaltano le simmetrie: su tutte, quella tra la lirica d’apertura (In limine) e Casa sul mare, dove, in vista dell’epilogo, si ripropone il tema nobile dell’io che, condannato a rimanere “di qua dall’erto muro”, si sacrifica per la salvezza di un’altra creatura, persona o fantasma femminile (la prima di una élite di ispiratrici che la poesia montaliana con amorosa dedizione accrediterà di virtù anche prodigiose) augurando e, in votis, additando, una “via di fuga”, un varco per l’oltre. È proprio Casa sul mare la vera conclusione del libro, sebbene l’ultimo componimento impaginato sia quel Riviere che poi l’autore, celiando feroce con sé medesimo, avrebbe bollato come una “trombonata giovanile” messa lì a sigillo ottimistico e retorico, in ossequio alla convenzione del “lieto fine”. Dopo il componimento proemiale, I limoni e Corno inglese dicono già qualcosa del vano tormentarsi dello “sguardo” e della “mente” alla ricerca di una chiave che sappia cogliere un’eccezione, uno “sbaglio” nella misteriosa macchina del creato. E se fa da lieve intermezzo il dittico dedicato a Camillo Sbarbaro, “storico/ di cupidigie e i brividi” ma al contempo “estroso fanciullo”, più impegnativa suona l’impresa dei Sarcofaghi, dove l’arte della parola si misura con un’altra arte, la scultura. A vincere nel confronto sono le opere di Messina, classicista, in quanto forme di un mondo che, diversamente da quello degli uomini, non soggiace alla “vicenda di buio e di luce”.  E siamo ormai al cuore del libro, alla sezione che gli dà il titolo: ventidue testi generalmente brevi, un trionfo della figurazione e della vocazione ragionativa che del figurato si nutre e gli si accompagna, in una serrata connessione al poemetto che segue, Mediterraneo. In nove tempi esso svolge il mito di una perduta simbiosi fra il perenne e il transeunte, fra l’eterno respiro del mare e l’inutile affanno dell’uomo, sgomento per aver scordato l’“ordine” trasmessogli, in un’epoca anteriore alla storia, da quel mare che è un “padre” legislatore e “antico”. A lui infine il poeta umilmente si arrenderà senza esser riuscito a rapirgli, come aveva sognato di fare, la “voce” inebriante (Giacomo Noventa scherzò, nel suo dialetto, su una simile pretesa, tipica a parer suo di un “poeta ermetico”; ma in Ossi di seppia di “ermetico” non c’era niente!).  Nel libro prevalgono i paesaggi legati all’adolescenza e alla giovinezza di Montale, che trascorreva le estati a Monterosso, una delle Cinque Terre, nella casa di famiglia. Scenarî suggestivi che però non sono tanto spettacoli da ammirare quanto figure di un “sistema”, di un “cosmo” irto di ostacoli all’umana decifrazione. Arduo quindi, se non illecito, il porsi di fronte al paesaggio in un’attitudine meramente estetica, malgrado il fascino en plein air della serie Meriggi (dal 1928 accresciuta e riarticolata in Meriggi e ombre, dove però fra le “ombre” ci sarà Arsenio, acre proiezione autobiografica del poeta). Con i Meriggi il libro comincia la sua parabola calante, che pure include pezzi di grande effetto, come Fine dell’infanzia e il trittico de L’agave su lo scoglio. È inevitabile, per qualsiasi lettore, estrarre da Ossi di seppia la costante etico-ambientale dell’arsura: vocabolo percezione concetto accertabile specialmente nella sezione eponima e in Mediterraneo. Ecco il “polveroso prato”, il “rovente muro d’orto”, la “caldura”, il “terreno bruciato dal salino”, la “foglia riarsa”… con  rimodulazioni in Mediterraneo: gli “aridi greppi”, il “paese dove il sole cuoce”… Frequente è il ricorso del poeta alla tecnica del “correlativo oggettivo”, cioè a ravvisare in obiectis quel “male di vivere” a cui come alternativa non si concede il “bene” ma solamente si mostrano gli aspetti della “divina Indifferenza”. Eppure Ossi di seppia non si limita ad essere l’elegia di un (giovane) poeta che, accortosi di non poter capire il mondo, canta solo il proprio smarrimento, la pena di chi ha rinunciato (ma perché? e quando?) alla simbiosi con la Natura, al favoloso status di cui godette “nell’età d’oro florida, sulle sponde felici”. Ma, come deprecavo arbitrario il selezionare e isolare alcuni frammenti che all’interno del librosarebbero più esemplari di altri, così mi piace segnalare, anche nella serie eponima (per la quale il poeta aveva dapprima scelto un titolo di gusto vociano: Rottami), l’esistenza di varianti alla gravità assolata e assetata che più la caratterizza. Ci sono il “sorriso” dell’amico russo K., l’“aria di vetro” di un mattino di città, le “notti chiare” di Valmorbia in una pausa della guerra, la stanza luminosa dove l’amica si siede al piano, la grazia dell’upupa “ilare uccello calunniato/ dai poeti”…, e soprattutto c’è il valore positivo della “ignoranza”, “fuoco che non si smorza”, a suggerire che la dinamica del libro è più varia, meno schematica di quel che non si creda.  Col medesimo intento indicherei a esempi virtuosi enunciati come quello, celeberrimo, che dice: > “Tendono alla chiarità le cose oscure, > si esauriscono i corpi in un fluire > di tinte: queste in musiche. Svanire > è dunque la ventura delle venture.”  Risuonano come verità inconfutabili, proclamate da chi tali passaggi di “stato”, da cose e corpi a colori, a musiche, le abbia non già apprese su trattati scientifici ma sperimentate sopra di sé. Il poeta ce le comunica come una sua esperienza indefettibile, su cui torna anche altrove, col sussidio di echi danteschi:  > “Ed ora sono spariti i circoli d’ansia > che discorrevano il lago del cuore > e quel friggere vasto della materia > che discolora e muore”. > > (Tramontana) Questo egli ci comunica, approdato alla fase “venturosa”, quella del corpo che, fattosi colore, si sublima poi in musica. In nessun libro meglio che in Ossi di seppia la materia sensibile “frigge”, “si scolora” e la sua morte è uno “svanire” per rigenerarsi essenza (vocabolo montaliano anch’esso). Un momento privilegiato e, si suppone, transitorio al pari di altri, ma non senza facoltà di replicarsi. Se “non vedremo sorgere per via/ la libertà, il miracolo,/ il fatto che non era necessario!” (Crisalide), non pertanto il libro rinuncia a nominarli: eventi impossibili, autenticati però nella trama e nei ritmi di una poesia come quella di Ossi di seppia, che non dispera mai di sé, delle proprie risorse. Silvio Ramat ** Da Ossi di seppia Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco lo dichiari e risplenda come un croco Perduto in mezzo a un polveroso prato. Ah l’uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a sé stesso amico, e l’ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro! Non domandarci la formula che mondi possa aprirti sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. * Gloria del disteso mezzogiorno quand’ombra non rendono gli alberi, e più e più si mostrano d’attorno per troppa luce, le parvenze, falbe. Il sole, in alto, – e un secco greto. Il mio giorno non è dunque passato: l’ora più bella è di là dal muretto che rinchiude in un occaso scialbato. L’arsura, in giro; un martin pescatore volteggia s’una reliquia di vita. La buona pioggia è di là dallo squallore, ma in attendere è gioia più compita. * Felicità raggiunta, si cammina per te sul fil di lama. Agli occhi sei barlume che vacilla, al piede, teso ghiaccio che s’incrina; e dunque non ti tocchi chi più t’ama.  Se giungi sulle anime invase di tristezza e le schiari, il tuo mattino è dolce e turbatore come i nidi delle cimase. Ma nulla paga il pianto del bambino a cui fugge il pallone tra le case. * Forse un mattino andando in un’aria di vetro, arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore da ubriaco. Poi, come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto alberi, case, colli per l’inganno consueto. Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto. * La farandola dei fanciulli sul greto era la vita che scoppia dall’arsura. Cresceva tra rare canne e uno sterpeto il cespo umano nell’aria pura. Il passante sentiva come un supplizio il suo distacco dalle antiche radici. Nell’età d’oro florida sulle sponde felici anche un nome, una veste, erano un vizio. Eugenio Montale *Si pubblica per gentile concessione l’articolo che apre l’ultimo numero di “Poesia” (N. 32, Luglio-Agosto 2025), la storica rivista di Crocetti L'articolo “Il lago del cuore”. Per il centenario di un capolavoro proviene da Pangea.
July 14, 2025 / Pangea
“Ufficio delle tenebre”. Intorno a un libro di Blu Temperini
Debellati gli aggettivi con la corazza, quelli che piacciono alla critica – a ciò che ne rimane, a ciò che razzola tra la cenere –: finalmente, la scoperta di un poeta primigenio, senza lignaggio. Un poeta senza paladini né palafreni né padrini in parata.  Un poeta, cioè, che comporta l’abbandono delle norme ortografiche, delle grammatiche cattedratiche, di ogni forma di subdola tattica; alieno all’abbondanza dei retori del quieto vivere e del quieto amare. Non dovrebbe fare così un poeta: interrare il vocabolario, pio stendardo, e sfoderare l’ascia del verbo? “Insegnaci a pregare”, implorano gli inebetiti discepoli al maestro: Gesù sbriciola per loro le scarne parole del Pater – mai un dio è stato così prossimo, così grano e spada, e noi fummo il suo pasto, il suo desco, il suo desinare e il suo destino a morire di sete.  Insegnaci a parlare, dovremmo chiedere ai poeti.  Ricorda: si prega nei luoghi desolati, dove vagano, in tormento, gli spiriti impuri, dove appaiono in Appalachia di zampe gli angeli. Non altrove si deve scrivere.  Così, questo libro di Blu Temperini va letto insieme ai trattati di falconeria, ai bestiari medioevali, alle carte celesti dove gli astri, con strenua pazienza, indossano il volto del leone e del cavallo, dell’eroe e della vergine.   Questo libro – un esordio mai così antichissimo – è requie e cinghia, nuovo culto al di là dai cultori dell’odierno lirismo. Potremmo chiamarlo – come si diceva una volta, senza essere iniziati ad alcunché che all’obbedienza – “ufficio delle tenebre”. Non c’è linea di continuità, intendo, tra questo poeta – d’indecente precocia, di sfiancata facondia – e la quadrupede tradizione dei poeti recenti, altra è la sua biada, altitudine diaccia, propria di chi frequenta i ghiacciai, le inimmaginabili alture.  Hanno gli artigli, il becco e le cangianti penne queste poesie.  A esasperare lo spaesamento, una lista di avi e di archivi costruiti a casaccio, in casa, da autodidatta, piccoli idoli di legno: Sergio Solmi e Guido Ceronetti, Giovanni Boine ed Egle Marini, Maria Maddalena de’ Pazzi, Tommaso Landolfi, Maria Banuș, che tanto piacque ad Andrea Zanzotto. La formula, cioè, di addobbarsi estranei al proprio tempo, di ancheggiare in un altrove di trine, come se l’Eden, in fondo, non fosse altro che un decalogo di candele.  Nella più piena spoliazione – tolti dalla bocca gli ultimi nutrimenti, la particola poetica che ci rende soddisfatti del ‘buon lavoro’ – Blu Temperini reca l’estremismo di Alejandra Pizarnik, la premura oracolare di una visionaria dell’anno mille. Poesia, cioè, come frammento mesolitico e contrafforte in selce; turba del toro primordiale da cui estrarre il corallino per aggiornare a luce le latebre grotte.  Lingua che ci precede, da assumere tenendo l’orecchio confitto al tronco e alla nubile nube. Parola impareggiabile, allora, nel senso che neppure il poeta – scriba senza arte di concia – sa dire da dove quel dire provenga, da quale piaga o plaga.  Da qui, l’ostinato cicaleccio dei morti, l’orma bivalve del verbo penitente, i celesti fatti paglia. Tutto un sistema divinatorio per costringere le stelle, ancora, a brucare nella brocca delle nostre mani, a bruciarci. Il resoconto di questa ecchimosi: poesia.  Che a Torino – città d’elezione di Blu – sia custodita la Sindone e si celi, tra cunicoli a forma di serpe e di capra, il Graal (o la sua ombra, è lo stesso), è sintomatico di una scrittura che non si coagula nell’iride né nella mente, che restituisce il sangue degli andati in statura di rosa, in sutura.   Si sarebbe tentati di sussurrare la parola sacro; semplicemente, come accade nella poesia autentica, rarissima, si tratta del cuore Lancillotto, del cuore cavalleggero, senza cavilli, di cui, a fine lettura, non resta che la brace, un bronzeo da primo giorno del mondo, il santo pudore.  ** La violenza è maestosa, nel suo presente anche il domani, prima del tempo; e la brama si ostina laddove non può essere disimparata, nel filamento partecipe e non partecipe dell’attenzione. Il futuro è nell’oltrepassare le cose vedute alla fine. * Miracolo Da falce e creta è nutrito il tuo corpo in questo abbraccio e vedi solo il prestito del cuore compiere un arco nel risveglio. Una colomba trasvola nella stanza: migrano da parete a parete – vuote – le coordinate del miracolo. * Non più vincitori vorrebbe il cielo Sul nome d’oggi termini la fabula, l’opera che nell’amichevole cuore nasconde il rifiuto ad ogni benevolenza, tragitto di ambedue – vincitori e vinti – per gli annali di innocenza. Ma solo i vincitori trapassano sulla più violenta sponda che si inclina; di ogni vittima innamorati sono i primi a sommare il fuoco con la frode. Giustizia stessa si reca su uno solo e con gli altri vagabonda. * Ogni ultima cosa la chiamo notizia ed è sadico dover dire sì alla vita che miete le sue vittime, dire sì all’agnello distrutto nel coro, all’insetto fratello della perdita, ma più sadico è festeggiarne l’indolenza, più sadico è restare attesi nell’ordinario sangue. Tra le voci perdenti dell’effimero nell’effimero lume del mondo il torto è fatto, ogni ultima cosa la chiamai vantandomi e fui punita, puniti i miei anni. – Umiliati! – * Non ho altra volontà – dicono gli innocenti – che ardere su due paragoni: prima schiavi, poi trasparenza dovunque riletta, trafugata da ospiti tutti attesi, tutti danneggiati. In uno scrigno di irriconoscibili difetti d’amore è possibile trovarli, fedeli alla doppiezza del gesto; e se il mondo non potrà morire sarà un innocente a vivere. * I tonni o della fame di forme Non esiste l’uscita materna, tutto è contorta fluttuazione; nessuna immagine e nessun disegno, tutto è somigliante nel branco e non ha difetto. Poi l’artificio pesante dell’azzurro accomuna la fame di forme. * La serpe o della degradazione Forse prima celebrava messe col capo sollevato ed era attrezzo di individuo contrariato dallo spirito, sola tolleranza che esibiva il sangue. Ora intransigente si inchina a questa sospensione e si arricchisce dell’ombra sua come di ogni oggetto spezzato. * Gli uccelli o dell’esilio Gli uccelli abitano alte impressioni e nel tornare alla fonte si contorcono: la terra brucia per quelli che volano. Sotterrano con l’unica lastra di sguardi ogni rivalsa: nel cielo una radice sfigurata, la prova di un altro mondo che ripugna. * Da Elemento (Uno studio) (VII) Nella caccia segnali di rupe, le terre già improntate: lusinghe, bestiame. Il cacciatore, la ricerca e l’estinzione gettata in questi obblighi: operazione, opere di rinuncia. Le carni fedeli al carnefice, i sensi alla vittima: un prodigio i doppi umori. * (XIV) Dove è passata la terra fu niente l’immagine, il suono; fu il lavorio delle cose interminabili, dei mattini impietositi. Da nulla è lasciato intendere quale sole, quale tempo inganna e sulle tavole non le scritture, i gesti. Blu Temperini *I testi, pubblicati per gentile concessione, sono tratti da: Blu Temperini, “Nel principio infondato”, Crocetti, 2025 **In copertina: Frida Kahlo, “Il cervo ferito”, 1946 L'articolo “Ufficio delle tenebre”. Intorno a un libro di Blu Temperini proviene da Pangea.
July 10, 2025 / Pangea
“E il poeta ubriaco inguainava di insulti l’Universo”. In fuga con Rimbaud
Costretto al letto dell’ospedale della “Conception” di Marsiglia, Arthur Rimbaud scrive al direttore delle “Messaggeries maritimes”: vuole essere destinato ad Aphinar, benché “completamente paralizzato”. Morirà il giorno dopo, il 10 di novembre del 1891; aveva compiuto 37 anni il mese prima. Aphinar è un luogo che non esiste, è parte, forse, di una geografia ctonia, è un lembo di aldilà. La grafia di quella lettera è storpia, incomprensibile il dire, di uomo che balbetta idolatrie d’idiota, stordito dal dolore; eppure, che stupenda bravata, che colpo di fionda: Rimbaud muore sulla cresta dell’ultima invenzione. Aphinar è la parola-chiavistello, la parola-faina che bracca la morte, che sconcerta l’eterno. (E noi, lì, al suo capezzale, vorremmo scortare il poeta che ha dimenticato di essere poeta, il poeta estremista, all’ultimo imbarco, sulla carrozzina, paralizzato, e sussurrargli nenie, ninnoli di verbo, e asciugargli la fronte, e pettinargli i capelli, e imboccarlo).  Come si sa, Rimbaud vive gli ultimi dieci anni della sua vita in Africa, per lo più ad Harar, in Etiopia. Si dà al commercio di caffè e di utensili vari, tenta – con formule fallimentari – di vendere armi a Menelik, negus dello Scioa, invia alla “Société de géographie de Paris” un Rapport sur l’Ogadine di schietta nitidezza, scevro da lirismi. In sostanza, si annoia. Prima dell’Africa, era stato a Londra e a Vienna, a Bruxelles e a Milano, a Giava – con la casacca della Legione Straniera olandese – e ad Alessandria d’Egitto. A Cipro pare abbia incidentalmente ucciso un operaio, lavorava in una cava di pietre. Scarse le fotografie che lo ritraggono, spesso consumate dal tempo: il volto indemoniato dal pallore, di febbrile ingenuità; a tratti, il cranio, rasato a zero. Nell’ottobre del 1873, come vuole la leggenda, Rimbaud festeggia i suoi diciannove anni dimenticando, a Bruxelles, nei magazzini dell’“Alliance typographique M-J. Poot et compagnie”, le copie fresche di stampa di Une Saison en enfer. Quasi vent’anni dopo, rassicura “Sua Eccellenza” il Ras Maconnèn: presto “tornerò all’Harar, per esercitarvi il commercio, come prima”. Il più grande poeta della modernità, il poeta perpetuamente contemporaneo, infinitamente fanciullo, ha abiurato la poesia – è possibile? Un po’ tutti hanno preso per la giacca Rimbaud: Paul Verlaine ne ha fatto il proprio personale “angelo in esilio”; la sorella Isabelle lo ha tradotto in un santo; secondo l’esploratore novarese Ugo Ferrandi, “era un arabista e un poliglotta dottissimo, spiegava e commentava il Corano agli indigeni” (in: Carlo Zaghi, Rimbaud in Africa, Guida editori, 1993). A dire dell’aitante avventuriero francese Jules Borelli – che lo aveva scortato in un viaggio tra Ancober, Entoto e Harar, in luoghi fino ad allora mai toccati da piede europeo – il “mercante Rimbaud… conosce l’arabo, parla l’amarico e l’oromoo. È instancabile. L’attitudine ad apprendere le lingue, la grande forza di volontà, l’inesausta pazienza lo rendono uno tra i viaggiatori più esperti” (ora, insieme al resoconto di quel viaggio, in: Scioa. L’Africa di Arthur Rimbaud, Magog, 2024). La biografia di Rimbaud è stata anatomizzata al millimetro, forse per carpire il segreto della sua poesia, sfuggente, per sempre nuova, inadatta al canone. I viaggi di Rimbaud sono diventati romanzi – ne cito due: Rimbaud a Giava di Jamie James, Melville, 2016, e Rimbaud e la vedova (sulla breve tappa milanese), di Edgardo Franzosini, Skira, 2020 –, gli studi biografici (critici, psichici, ipnotici) sono diventati un genere letterario a sé stante. Nel 2008, per l’editore Marietti, Adriano Marchetti ha assemblato una fiera lista di “Interpreti francesi di Rimbaud” in un libro di stravagante bellezza, Rapsodia selvaggia. Tra i cinquantacinque, autorevolissimi “interpreti” – da Mallarmé ad Aragon, da Simone Weil a Tzvetan Todorov e Yves Bonnefoy – ne preferisco due. Il primo è René Char, che in una specie di epistola lirica inneggia al malandrino Arthur:  > “Hai fatto bene a partire, Arhtur Rimbaud!… Hai avuto ragione ad abbandonare > il viale degli oziosi, le osterie dei pisciaversi, per l’inferno delle bestie, > per il commercio dei furbi e il buongiorno dei semplici”.  L’altro – più che altro, per l’austerità dello stile, per la cinerea postura – è Julien Gracq, il quale ammira in Rimbaud “l’uomo che mantiene sempre meravigliosamente le distanze”. Secondo Gracq, il carattere imperituro della poesia di Rimbaud – garanzia di esistenza anche quando la lingua francese perirà – è il suo essere “abbastanza inumana”.  È vero. La poesia di Rimbaud è pura metallurgia della fuga. Rimbaud non chiede lettori – non chiede nulla in effetti. Rimbaud lascia tracce. I suoi versi sono una mappa, una cartografia del non ritorno. Inseguire Rimbaud, tuttavia, è il contrario della sequela: ciò che ci è donato non è il centuplo su questa terra e il regno nella prossima. No. Rimbaud è il primo e il solo. Rimbaud uccide i suoi discepoli. Rimbaud consegna agli affini il sacrario della parola Aphinar; ci obbliga all’ennui, ai morbi di un’inquietudine che ghiaccia le ossa, alla tigre in pieno petto. Non c’è alcun guadagno, alcun conforto dalla lettura di Rimbaud, ma l’esilio nell’enigma, il punto – magnetico, è vero – in cui tutte le certezze si sfasciano, in cui la poesia diventa rogo, suono, inno, come ai tempi delle pitture magdaleniane, quando la stella mangiava alle nostre mani, con il muso da sauro, e il poeta si trasformava in falco e volpe, pietra e prato, biscia e vento.  Fernand Léger, Ritratto di Arthur Rimbaud, 1949 Mai si è scritto tanto di un poeta così violentemente reticente. Ardengo Soffici andò in estro per quel ragazzo “che non ebbe paura di scendere giù per tutti i gironi dell’inferno psicologico moderno per pescarvi il segreto di una bellezza inusitata e folgorante” (così nel saggio su Arthur Rimbaud pubblicato nel 1911 nei “Quaderni della Voce”). Eppure, non seppe riconoscere in Dino Campana un poeta altrettanto folgorante. Per decenni, Renato Minore si è insinuato nella vita di Rimbaud, il “poeta dalle suole di vento” (il suo Rimbaud è uscito per Mondadori nel 1991 e in edizione ampliata per Bompiani, nel 2019); l’esito della ricerca è quasi ovvio: far rilucere l’enigma in sé, la nuda ecchimosi del fuggiasco, la vita “esibita e impenetrabile a un tempo”. Quando l’ho interpellato mi ha messo in guardia dal mito di Rimbaud, perché “Un mito è anche una trappola infinita di volti, di voci, di specchi e lui stesso ha fatto di tutto per essere duplicato, conteso, frainteso. Non meno carichi di risonanza, e di ambigua luminosità, gli oggetti, le incalzanti reliquie che il Poeta Maledetto ha lasciato: prima fra tutti la valigia dei viaggi in Abissinia, la stampella che accompagnò i suoi ultimi passi, la firma sulle piramidi, le lettere. E poi i disegni, le fotografie chiedendo all’immagine non il segreto che versi e documenti trattengono, ma la ricchezza ammiccante e fissa dell’icona, non solo il presagio di un destino, ma la conferma di un mistero bloccato dal lampo di magnesio e lì rimasto intatto. La leggenda di Rimbaud accomuna le generazioni e, in tutto il mondo, ogni giorno ci sono giovani che scoprono le sue poesie e desiderano possederne una copia”. Benjamin Fondane, il prodigioso pensatore amico di Emil Cioran, su Rimbaud, si può dire, con ribalderia da bandito, ha fondato una filosofia (il suo Rimbaud le voyou è attualmente edito in Italia da Castelvecchi); Victor Segalen ha scritto forse il più commosso ed elusivo ritratto del poeta – Le Double Rimbaud, edito nel 1906 su “Mercure de France” –, intimandoci di “Non cercare di capire”.  Forse Rimbaud ha esaudito le sue poesie nel vagabondaggio, diventando egli stesso un “battello ebbro”. Forse, più prosaicamente, il ventenne roso dal dio della giovinezza, il prediletto dal fato, ha preferito la vita allo scranno, il veliero alla scrivania, l’Africa al marciume parigino. La poesia è stata una parentesi, una ragazzata (una ragazzetta): il “ladro del fuoco” è diventato fuoco, incede nell’incendio.  È proprio dei poeti pionieri – i rarissimi: Rimbaud, Friedrich Hölderlin, William Blake, Emily Dickinson – abitare l’irriconoscenza, non riconoscere la propria opera, obliarla, tra i nastri, nelle fauci di un baule, nella pazzia, nella fuga.   Le poesie sono il lascito sinistro di Rimbaud: non possono stazionare su un comodino, non si accomodano in una biblioteca. Queste poesie scalpitano, hanno la criniera, recano vigoria di formula magica. Queste poesie agiscono, agitano. Altro che Je est un autre: qui l’Altro ci fissa con occhi intimidatori. A volte ha il volto di un Minotauro, altre della cincia, a volte è una betulla altre volte un lupo.  Queste poesie fanno paura – la paura ci donerà un cuore barbaro, pronto di nuovo a osare.  Davide Brullo Pablo Picasso, Arthur Rimbaud, 1960 * Vite A dodici anni fui rinchiuso in una soffitta dove ho imparato il mondo, ho illustrato la commedia umana. In una cella ho appreso la storia. In una qualche festa notturna in una qualche città del Nord, ho incontrato tutte le donne dei pittori antichi. In un vecchio vicolo di Parigi mi hanno insegnato le scienze classiche. In una magnifica dimora cerchiata dall’intero Oriente ho compiuto la mia immensa opera e ho passato il mio illustre ritiro. Ho sbrecciato il mio sangue. Il dovere mi è rimesso. Non devo pensare più. Vengo davvero dall’oltretomba, senza commissioni.  * Sfridi  Plotoni di muri d’ombra: bastonano cani scheletrici, * Da dietro tartassava grottesche oscenità Una rosa s’involava nel ventre del portiere * Bruna, aveva sedici anni quando la maritarono ………………………………………………………………. E ora ama d’amore ardente il figlio di diciassette. * E il poeta ubriaco inguainava di insulti l’Universo. * Piove con dolcezza sulla città. * Quando la carovana dell’Iran si arrestò alla fontana di Ctesifonte, crebbe la disperazione nel trovarla inerte. Alcuni accusarono i magi, altri gli imam. I cammellieri si unirono alle imprecazioni… Si erano messi sulla via ormai da molte lune… carichi d’incenso, di mirra e oro. Il loro capo gridò… soppesò di sopprimerli… Certi accettarono. * All’assalto, o mia vita assente! Arthur Rimbaud *Per gentile concessione si pubblica la pagina introduttiva e una manciata di testi, in traduzione inedita, da “Le più belle poesie di Arthur Rimbaud”, Crocetti, 2025 In copertina: Arthur Rimbaud secondo Alberto Giacometti, 1962 L'articolo “E il poeta ubriaco inguainava di insulti l’Universo”. In fuga con Rimbaud proviene da Pangea.
June 12, 2025 / Pangea
Storia di Paula Becker, l’artista “interrotta” amata da Rilke. Dialogo con Marie Darrieussecq
Si incontrarono nell’estate del 1900, a Worspswede, la comune di artisti fondata in Bassa Sassonia. Rilke era reduce dal viaggio in Russia: aveva conosciuto Tolstoj e fatto visita a Leonid Pasternak; il figlio, Boris, che aveva dieci anni, resterà folgorato dalle sue poesie, tempo dopo, “per l’insistenza di ciò che vi era detto, la sicurezza, il tono deciso, che andava dritto allo scopo”. Paula Becker aveva ventitré anni, la bellezza di un usignolo: figlia di un ingegnere di Dresda, aveva studiato, compiacendo i genitori, per diventare istitutrice; voleva fare l’artista.  I due si piacquero, entrambi fatui al mondo, ma Rilke preferì la migliore amica di Paula, Clara Westhoff, scultrice dal maschio fascino: si sposarono nel 1901. Cinque anni dopo, Paula realizza il più noto ritratto di Rilke: il pittore pare indemoniato, “barba da faraone, baffi da unno… sguardo esorbitante”. Aveva da poco mollato Rodin, di cui era segretario, per un bisticcio. Paula si era trasferita a Parigi per vivere vertiginosamente d’arte: pochi soldi, talento selvatico e un marito pittore, Otto Modersohn, lasciato in Germania. Dipingeva tantissimo, con un genio che ricorda Cézanne e Gauguin; i suoi nudi, soprattutto, di una carnalità poetica e brutale, sono tra i più belli mai tracciati da mano di pittrice. Trent’anni dopo, l’era nazista dichiarerà “degenerata” l’opera di Paula, che dell’uomo ha mostrato la meraviglia e la sfiancata malinconia. Morirà troppo giovane, nel novembre del 1907, Paula, dopo aver partorito la prima figlia, Mathilde. A Brema le è dedicato un museo. Per lei, Rilke scrisse Requiem per un’amica: “Vieni qui al lume della candela. Non ho paura/ di contemplare i morti”, scrive il poeta, abissale, come sempre – riuscì a non citare il nome dell’“amica”. Una raccolta di lettere – pubblicate da Insel, in Germania – dice della loro conturbante amicizia.  A Paula Becker, artista straordinaria, del tutto postuma, Marie Darrieussecq, l’autrice di Troismi, ha dedicato un romanzo biografico di cristallina potenza, Essere qui è uno splendore (Crocetti Editore, 2025), tra Plutarco e Marguerite Duras; uscito in origine per P.O.L., in Francia, nel 2016, piacque, tra gli altri, al Premio Nobel J.M. Coetzee. Insinuandosi tra gli spiragli di un’esistenza in picchiata, l’autrice scrive, in fondo, un elogio della vita votata all’arte, della vita nuda, della nudità, della sacralità della carne e del suo scandalo nell’epoca dei corpi digitalizzati e delle intelligenze artificiali. Resta il dilemma del titolo – splendido –, catafalco da bibliomani: è tratto dal “verso 38 della Quinta elegia di Rilke”, mi dice l’autrice. Introvabile nell’edizione italiana. In questa sfasatura – o lapsus – sta il lampeggiare dell’angelo, sono i fantasmi al banchetto.  Fin nel titolo, il libro su Paula Becker è sotto l’orbita di Rilke, il quale, con lento candore, sembra un po’ ‘cannibalizzare’ la pittrice. Che idea si è fatta di Rilke? Paula e Rainer erano intimi, ottimi amici, probabilmente innamorati, durante quella meravigliosa estate del 1900 in cui si incontrarono. Rilke non è stato un buon amico. Né un buon marito, tanto meno un buon padre: ha deciso di sposare la migliore amica di Paula, Clara Westhoff, ha avuto da lei una figlia, per poi scappare da entrambe. Il poeta resta immenso, l’uomo non mi piace. Rilke ha descritto magnificamente Paula nel suo magnifico Requiem… senza nominarla. I nomi delle donne… anche questa è una bella storia, che racconta parte del mio libro. Paula Becker, Rainer Maria Rilke, 1906 Tre aggettivi che riassumano la vita di Paula Becker.  Libera, energica, interrotta.  Che cos’è la ‘libertà’ per Paula; che cos’è la ‘libertà’ per Marie, una scrittrice che vive nel 2025? Per Paula libertà significa sottrarsi al lavoro salariato (il padre voleva che diventasse governante o istitutrice) per poter dipingere. L’unica soluzione concessa all’epoca: sposare un uomo che la mantenesse… restando maritata. Per me libertà è avere la straordinaria possibilità di vivere della mia scrittura – e di amare, liberamente.  Una curiosità bibliografica. Da quale passo delle Elegie duinesi ha tratto il titolo del libro? Versetto 38 della Quinta elegia nella vecchia, bellissima traduzione di Joseph-François Angelloz. Quali sono stati i ‘lari’, gli scrittori-totem che l’hanno accompagnata nella scrittura di questo libro, per forgiare questa lingua, al contempo intima, ma mai ‘confessionale’, precisa fino al diamante? Georges Perec, Marguerite Duras, Natalia Ginzburg. Qual è l’aspetto a suo dire più folgorante della biografia di Paula? Quale quello che ha scelto di tenere in ombra? Forse la cosa più sorprendente la sorprendiamo nella sua ultima parola: ombra, oscurità. Morire così giovane, con un tale portento d’opera… Quello che ho lasciato nell’ombra: non ho voluto infilarmi nel letto di Paula. Alcuni biografi hanno indicato delle amanti: non c’è nulla di certo. Non ho voluto inventare ciò che i diari e le lettere non dicono. Se Paula ha voluto nascondere alcune cose con cura, ho rispettato il suo segreto. Nessuno può dire perché non sia riuscita ad avere figli nei primi sei anni di matrimonio, se questa sia stata una scelta intenzionale o meno. Il rapporto di Paula con la maternità è ambiguo, affascinante.   Marie Darrieussecq; photo Charles Freger Esiste a suo avviso una diversità ‘genetica’ tra opere d’arte femminili e maschili; esiste cioè, più che il talento singolare, un genio ‘di genere’?  Nulla di ‘genetico’, no, benché giochi con questo termine. Tuttavia, sociologicamente e culturalmente le donne sono state “seconde” per secoli. Questo ha creato una cultura femminile specifica: del ritiro, del nascondimento e dell’emarginazione, e una certa centralità – domestica. Lo sguardo di Paula sulle bambine è unico al mondo e pionieristico per la sua epoca: la serietà che conferisce loro, la gravità, lontana da tutti i cliché di purezza o innocenza imposti da uno sguardo patriarcale.  Quando Rilke fa visita a Paula, in atelier, scrive: “Ci siamo guardati, con un brivido di stupore, come due esseri che si trovano all’improvviso davanti a una porta dietro la quale c’è Dio”. I quadri di Paula emanano una sacralità frugale, che sa di paglia, di campo appena tagliato. Le domando: qual è il suo rapporto con il ‘sacro’, con l’invisibile? Con il sacro: nessuno, credo. Con lo spirituale e l’invisibile: molto forte. L’invisibile è ciò che mi obbliga alla scrittura. Non ho bisogno di sacralizzarlo. La ‘carne’ è uno dei temi del libro, perfino nel quadro-totem di Paula Becker: un figlio appeso al seno della madre, nuda. La carne e l’eros. Eppure, siamo nell’epoca disincarnata, disincantata rispetto al corpo, oleografico, palestrato, liofilizzato. Siamo nell’era di PornHub e di Tinder, del ‘toccare’ come gesto sacrilego – o pervaso da perversioni… Tutti i miei libri dicono del toccare, da Troismi a quest’ultimo – e non ho ancora finito… Diciamo che Paula è vissuta prima dell’Intelligenza Artificiale: possiamo sentire il tocco del suo pennello sulla tela. Grazie a questo gesto, scorgiamo le sue tracce. È presente, è qui, come indica il titolo che ho scelto, ed è uno splendore. Amava essere viva, amava vivere il presente. Da giovane donna, per le strade di Parigi, città che adorava, si sentiva ‘nuda’ sotto lo sguardo insistente degli uomini, allora, con un certo candore, mostrava la fede nuziale, come fosse una sorta di talismano. È stata la prima donna a dipingersi nuda, e non credo lo sapesse: un gesto rivoluzionario dopo secoli in cui le donne erano state dipinte nude dagli uomini. Ma i modelli costavano troppo. Il dipinto di cui parla raffigura una donna italiana in posa con il suo bambino. All’epoca, gli immigrati in Francia erano italiani e le donne, spesso molto povere, accettavano di posare nude per pochi spiccioli. Con autentico azzardo, lei è entrata in una vita altrui. Una vita vera, reale. Oggi si dice di libri scritti dall’Intelligenza Artificiale; oggi i ragazzi consultano l’Intelligenza Artificiale per consigli sentimentali e ‘morali’, si fanno scrivere le lettere dal bot. Riuscirà la letteratura a non soccombere all’IA? Spesso pongo delle domande a Chatgpt (beh, non troppo spesso, visto che ogni volta consumiamo piscine d’acqua). La sua sistematica cortesia mi fa venire i brividi. Quando le domando di raccontarmi qualcosa di divertente o di poetico, non riesce. Per ora. Nella macchina non c’è alcun soggetto e lo si capisce. Il suo “io” è un’imitazione ancora un po’ patetica.   Paula Becker, Autoritratto per il sesto anniversario di matrimonio, 1906 Come può un’opera d’arte, un libro su un’artista vissuta un secolo fa diventare un gesto ‘politico’?  Non sapevo di scrivere di una donna “invisibile”; il tema non esisteva quando ho iniziato la mia ricerca su Paula M. Becker. Evidentemente, facevo parte di un movimento politico senza saperlo, portando alla conoscenza del pubblico un’opera obliata per troppe pessime ragioni: di genere, certo, ma anche di antigermanismo in seguito alle due guerre. Ma Paula è la pittrice meno “nazionalista” possibile: non ha mai fantasticato di una Germania territoriale, a differenza di molti suoi colleghi artisti della colonia di Worspwede, dove ha vissuto prima di fuggire a Parigi. La sua è in effetti una visione “politica”: dipinge una Germania universale, quella delle ragazze che sapevano che il mondo non apparteneva a loro e quella delle madri fiacche, non le Madonne che allattano il sacro bimbo, ma delle donne che hanno avuto troppe gravidanze, che allattano in posizioni mai viste prima in pittura, ma assai più comode di quelle della Vergine Maria! *In copertina: Paula Becker (1876-1907) L'articolo Storia di Paula Becker, l’artista “interrotta” amata da Rilke. Dialogo con Marie Darrieussecq proviene da Pangea.
June 7, 2025 / Pangea
“Un invito all’Assurdo”. Roy Campbell, poeta guerriero
Nel 1952, per la Harvill Press, Roy Campbell, l’esagitato poeta di Durban, Sudafrica, pubblica Poems of Baudelaire, la propria versione di Les Fleurs du Mal. Il poeta – ascendenze scozzesi, studi distratti a Oxford, abile nella caccia, “bellissimo, enorme, ingenuo, docile, selvaggio”, l’avrebbe detto, anni dopo, Evelyn Waugh – compiva cinquantuno anni; sarebbe morto poco dopo, nell’aprile del 1957, di schianto, in un incidente d’auto, nei pressi di Setúbal, Portogallo, dove si era trasferito da tempo con la famiglia. Le sue spoglie riposano a Sintra, nel cimitero di São Pedro, di fronte all’oceanico: oceanica, in effetti, e senza ancoraggi, è l’opera di questo poeta che fonde la facondia visionaria di Blake agli oratori irti di piume, lance e danze degli Zulu, di cui si sentiva confratello. Nella breve introduzione al ‘suo’ Baudelaire, Roy Campbell – con il solito tasso di alcolica sbruffonaggine – si tesse l’agiografia: > “Dopo l’intrepido successo delle mie versioni di Giovanni della Croce, ho > deciso di tradurre un peccatore senza scrupoli, non meno credente, tuttavia, > anche nei momenti di ribellione assoluta e di assoluta blasfemia, di quel > Santo. Leggo Baudelaire da quando ho quindici anni, è stato nella mia bisaccia > durante due guerre, l’ho amato più di qualsiasi altro poeta. Ho tradotto > Giovanni della Croce perché mi ha salvato miracolosamente la vita, a Toledo. > Traduco Baudelaire perché ha vissuto la mia stessa vita: i peccati, i rimorsi, > gli ostracismi, la povertà, la stessa disperata speranza di una > riconciliazione…”.  Secondo George Steiner, Roy Campbell, insieme a Ezra Pound, è il più folgorante poeta-traduttore in lingua inglese del Novecento. Insieme a Ezra Pound, è anche il poeta più ostracizzato, malmenato, minato di fraintesi. Thomas S. Eliot – il più arguto lettore di Baudelaire di quella generazione – amava, con rispettoso turbamento, Roy Campbell: nel 1930 gli aveva pubblicato, per la Faber & Faber, Adamastor; nel 1946 fu la volta di Talking Bronco.  La prima delle due guerre menzionate da Campbell nell’intro al Baudelaire è la guerra civile spagnola. Cattolico fervente, avventuriero imperiale, Roy Campbell è l’unico tra gli intellettuali anglofoni a parteggiare per Franco: cerca di arruolasti tra i Carlisti; di fatto, non prenderà parte attiva al conflitto. Nel luglio del 1936, a Toledo, aveva assistito al massacro: le truppe comuniste predano e uccidono diciassette monaci del Carmelo dov’era ospite il poeta, con la moglie. Campbell riuscì a salvarsi, salvando dalla razzia alcuni codici di Giovanni della Croce lì conservati. I Poems of St John of the Cross vengono tradotti e pubblicati da Campbell nel 1951; piacquero molto a Jorge Luis Borges, che cominciò ad apprezzare “quel grande poeta scozzese, incidentalmente sudafricano”.  Durante la Seconda guerra, il ‘fascista’ Roy Campbell – ben più antifascista di molti, tiepidi intellettuali ‘di sinistra’ – fu arruolato nell’Intelligence Corps; poi inviato a Nairobi, incluso tra i King’s African Rifles. Un incidente in moto lo mise fuori ruolo: passò l’ultima parte della guerra sulla costa kenyota, in operazioni atte a smontare l’azione dei sommergibili nemici. A Londra, durante il “Blitz”, conobbe Dylan Thomas: diventarono fraterni compagni di colossali bevute. Ogni tanto, si univa agli ‘Inklings’: a Tolkien – che era nato in Sudafrica come lui – stava simpatico quel poeta sopra le righe, dal talento smodato, che da ragazzo sfotteva gli snob del Bloomsbury e ora faceva a cazzotti contro tutti; C.S. Lewis, simpaticamente, malsopportava l’ego del “poeta e soldato”. Nel 1949, durante un incontro pubblico, Campbell si scaglierà contro Stephen Spender, che rappresentava, ai suoi occhi, il côté tipico degli intellettuali della sinistra anglofona: pallidi, pavidi reggenti della poesia contemporanea, assertori di un patetico nepotismo. Gli spaccò il naso. Spender – comunque, un cavaliere – si rifiutò di denunciarlo: “è un grande poeta e i grandi poeti devono essere capiti”. È vero: Flowering Rifle, “a poem from the battlefield of Spain”, uscito nel 1939, grandguignolesco poema sulla guerra civile spagnola, è ascrivibile, più che altro, a un documento letterario ‘dell’altra parte’ – letterariamente, è goffo, tonitruante, malrassettato. Più che altro, garantì a Roy Campbell un pervicace ostracismo. Quanto a lui – gioviale, ingenuo, sempre in cerca di battaglie – percorreva la provocazione. Strenuo oppositore del sistema fratricida dell’apartheid, nel ’53 ricevette una laura in onore dalla University of Natal. Denunciò il “suprematismo bianco” del primo ministro sudafricano, D.F. Malan; nello stesso tempo, diede dello “zombie ridacchiante” a Franklin Delano Roosevelt, reo di aver mollato a Stalin l’Europa orientale. Churchill gli pareva un pachiderma.  Intrattabile, inarginabile Campbell: nel 1924 aveva esordito, per Jonathan Cape, con The Flaming Terrapin, imponente poemetto dal genio ‘aggressivo’, fuori classifica rispetto ai libri dell’epoca, al contempo, inno sciamanico, iliade africana, leviatano lirico. In Italia, cominciamo a colmare la lacuna soltanto ora: l’ultimo numero della rivista “Poesia” (n.31, maggio/giugno 2025, Crocetti Editore) dedica la copertina a Roy Campbell, “Il poeta guerriero”, pubblicando una porzione di The Flaming Terrapin tradotta da Andrea Temporelli (il poema sarà edito, prossimamente, dalle edizioni Magog).  Nel 1952 – a testimonianza della mente multiforme del poeta – Campbell pubblica un poderoso omaggio a Federico García Lorca, An Appreciation, With Selected Translations of His Poetry. Campbell idolatrava il poeta repubblicano, vilmente fucilato e oltraggiato dai nazionalisti nel ’36. Alcuni dicono che le sue versioni di García Lorca siano tra le più belle uscite nel mondo inglese. Sul “New York Times”, il 21 dicembre del ’52, Dudley Fitts firmò una partecipe recensione: > “Pare che Roy Campbell sia nato per scrivere questo piccolo, esplosivo > libello. Egli stesso possiede quelle qualità ‘romantiche’ che rintraccia in > Federico García Lorca – avventatezza e galanteria, un maquillage andaluso di > cruda vita e misticismo, il genio della poesia, soprattutto –: difficilmente > potremmo immaginare coincidenza più felice tra un autore e il suo soggetto”. Già: l’erculeo Roy Campbell, autore di una lirica tra le più vertiginose e inavvicinabili del secolo, possedeva un’energumena generosità. Lo hanno dipinto come un Ciclope – per la cecità politica, per la cieca ira –, era un uomo buono, un cavaliere medioevale. Sognava di essere un Centauro: lo fu – all’incirca.  ** Da Charles Baudelaire Corrispondenze  La natura è un tempio, ogni pilastro getta, a tratti, vaghi sussurri. L’Uomo avanza nella foresta dei simboli, strani e solenni, che lo mirano con sguardi familiari.  Dilaga l’eco, si mescola e trasfonde finché nel profondo oscuro unisono si confonde vasto come la notte, come la cupola del mezzogiorno –  così si embricano profumi, suoni, colori.  Profumi freschi come il vello dei bimbi come i violini, dolci come i verdi tumidi prati. Ricchi, complessi, trionfanti, altri rotolano insieme alla vasta gamma delle infinite non rifinite cose: ambra, muschio, incenso, resine, ciascuno canta il trasporto dei sensi e dell’anima.  * Il nemico  Fu tempesta oscura, selvaggia, il mio giovane giaculìo: vi sfrecciava un sole abbagliante.  Tuono e pioggia hanno devastato tutto il mio giardino è avaro di rosati frutti.  Ora è l’autunno della mente  e vanga e rastrello raspano la terra per salvare frantumi dei miei campi  allagati, dove l’acqua insudicia una tomba.  Chissà se i fiori prefigurati dai miei sogni troveranno, su questa dilavata terra, per una malizia almeno, il nutrimento mistico che li farà germogliare.  Il tempo divora la nostra vita, è brutale! L’oscuro nemico rode le radici del cuore e cresce sempre più forte sulla nostra chioma.  * Sopra il ritratto di Tasso in prigione di Delacroix Il poeta è malato e mezzo nudo: calpesta un manoscritto nell’oscura cella e fissa con terrore la scala dove il suo spirito, infine, crollerà.  Risate inebrianti sbracano quell’aia lo invitano allo Strano e all’Assurdo. Intorno a lui, sguainate le orribili figure del Dubbio e del Terrore, le multiformi.  Questo genio recluso in sotterranei pestilenziali queste grida, il ghignare di spettri che si contorcono che si accalcano intorno a lui, beffardi,  questo sognatore destato dalle urla del proprio incubo è il tuo emblema, Anima sorta dalla nebbia. Attorno a te la Realtà erige il suo muro e la sua museruola.   * Da Federico García Lorca Vasto fantasma d’argento, il vento di mezzanotte spira e spalanca la mia ferita antica con la sua grigia mano: se ne andò e svenni, preda di un triste desiderio.  Questa ferita mi darà la vita: da essa germoglierà la luce, il sangue che senza tema sgorga – uno spiraglio dove l’usignolo, muto, troverà un bosco, un nido e un addio.  Oh, che dolce litania fa tintinnare la mente! Sul fiore più modesto deporrò il mio dolore dove fluttua, senz’anima, l’orgoglio della tua beltà. Allora, il fiume mercenario si tingerà  di rosso, mentre il mio sangue scende  lungo le fragranti selve, nell’aura della rugiada.  * Adamo  Presso l’albero del sangue, il mattino stilla  rugiada e il neonato urla.  La sua voce mette un vetro nella ferita e cosparge le finestre con diagrammi di ossa.  Il giorno ha raggiunto a luce costante i limiti della favola: evadi dal tumulto del sangue e vola verso la mela, verso la sua fioca ombra.  Adamo, con quella febbre d’argilla, sogna che il bimbo galoppa verso di lui –  raddoppia il puledro sangue nelle sue guance. Ma un altro oscuro Adamo sogna: anela una luna di pietra, neutra, dove nulla germoglia dove il figlio della gloria sarà bruciato.  *In copertina: Augustus John, The Poet: Roy Campbell, ca. 1925, Carnegie Museums of Art, Pittsburgh L'articolo “Un invito all’Assurdo”. Roy Campbell, poeta guerriero proviene da Pangea.
May 12, 2025 / Pangea