Nell’ala del libro infine più noto di Dario Villa, Abiti insolubili, l’anonimo –
in realtà: Giovanni Raboni – scrive di un poeta dotato dell’“innocenza e la
grazia di un visitatore angelico”. Come si sa, il “visitatore angelico”, quando
fa visita, porta un messaggio di separazione. La sua bellezza atterrisce: il
gloria è marziale, attende al disastro, al dispaccio della lacerazione.
L’emblema dell’angelo non è il giglio ma la spada – la notizia offerta alla
madre bambina, Maria, è un grembo che sarà sepolcro, un ventre che sarà fiore e
buco nero, un figlio che per esplodere in luce verrà crocefisso.
Creatura indivisa, l’angelo divide.
In Abiti insolubili un angelo “quasi orgoglioso/ dell’opera quasi compiuta”
appare a pagina 87. È un angelo che tenta di fabbricare un umanoide – “ma in che
accozzo di membra avrò cacciato/ il cazzo l’anima la pelle il mastice/ la
scintilla vitale?” –; gli viene fuori un “golem mancato”, che caccia “giù, nel
mondo o agli inferi”. A dire – ancora, ancora… – che l’opera di Villa è
eminentemente sapienziale: edotto in Blake – di cui ha tradotto, per l’edizione
delle Opere curate da Roberto Sanesi per Guanda nel 1984, Vala or the Four Zoas,
brani da Jerusalem e i Poems from the Pickering Manuscript –, il poeta si muove
puntellando il mondo di gnostiche chiose; è un Messia irreparabile, una specie
di Sabbatai Zevi della poesia italiana – l’ironia vela il vero per farlo
rifulgere.
Abiti insolubili uscì nel febbraio del 1995; dieci anni prima, con Lupsus in
fabula (edito a Milano da Società di Poesia), Dario Villa aveva ottenuto il
Premio Mondello – sarebbe morto l’anno dopo, nel marzo del ’96. Giovanni Raboni
scrisse della sua morte il 10 marzo, sul “Corriere della sera”; nel titolo del
colonnino, Il poeta che credeva nelle ombre, la misura ctonia, da messaggero
oscuro, latore di fiamme negli inferi, di Villa. Così scrisse, tra l’altro,
Raboni:
> “Dario Villa è morto cinque giorni fa, dopo una malattia lunga e terribile
> vissuta con una consapevolezza, una dignità e un coraggio meravigliosi.
> All’infuori della piccola cerchia dei suoi amici, né la sua malattia né la sua
> morte hanno fatto notizia: e mi sembra giusto così. A ogni poeta, a ogni
> scrittore, a ogni artista che scompare sarebbe bello, in fondo, poter pensare
> come Dario ha pensato a se stesso riflettendo sul mistero e insieme sulla
> ‘normalità’, sulla quotidiana, famigliare imminenza della propria scomparsa:
> ‘è più simile a me/ l’ombra che resta in piedi quando cado/ di quanto non sia
> io’”.
È proprio del poeta angelico morire senza dar notizia di sé: natura d’elitra e
di foglia la sua, divino ectoplasma – a crollare, a frantumarsi, a rovinare sono
gli uomini. Quelli che l’angelo-poeta ammanta con parole piene di odori d’erba –
e denti al collo.
È strano – fino a un certo punto – che Giovanni Raboni, il doge della poesia e
della cultura del tempo, sentisse un’affinità così totale con un
totale outsider come Villa: in lui, forse, intuiva il genio della poesia in
purezza. Nella mitica, semicladestina edizione di Tutte le poesie di Dario Villa
– a cura di Katia Bagnoli, stampata da Seniorservice Books, dunque da Carlo
Feltrinelli, nel 2001 – Giovanni Raboni ritorna ancora sul tema della grazia.
Dario Villa, a suo dire, è stato uno dei “pochissimi poeti italiani, negli
ultimi decenni del secolo appena trascorso… costantemente, oserei dire
insistentemente frequentati dalla grazia”. Ritorniamo nell’ambito da cui siamo
partiti, nel portento del sacro, nel suo portamento, tra paramenti celestiali:
l’angelo si rivolge a Maria, la ragazza, come alla “piena di grazia” perché “Dio
è con te”. Dalla grazia (charis) discendono i carismi, i doni dello Spirito: non
c’è dono che non si sconti in sacrificio, che non si scontri. La pienezza di
Maria è anche pienezza nel dolore. Grazia che ingravida e che graffia.
Definito “il migliore, il più sicuro talento della sua generazione” – ancora
Raboni, nell’articolo del “Corriere della sera” – eppure, pur sempre ai margini,
smangiato da una tragica leggiadria, da una leggenda che ha finito per
perseguitarlo, si disse che Villa era apparentato a “un Corbière, un Laforgue”
(poeti, tra l’altro, fondamentali per il primo tempo della poesia di Thomas S.
Eliot); nella nuova edizione che raccoglie l’Opera in versi di Villa (Crocetti,
2025) si dice che “Villa fu senz’altro il Rimbaud della Milano postmoderna”
(Alessandro Giammei). Di mio – nel gioco delle figurine – aggiungo che Villa mi
pare – per tono, per impeto, per imperiale genio linguistico – prossimo a David
Gascoyne – autore che pure ha tradotto. Giochi, maschere, burattini volanti. La
necessità di circoscrivere Villa entro la museruola di autori analoghi è data
dal fatto che Villa non appartiene a nessuno, pare non avere parenti tra i
tedofori della poesia italiana; insieme a rari altri, lari di una lingua
d’altrove – Lorenzo Calogero, Ivano Fermini, Gian Giacomo Menon, Claudia
Ruggieri – fa parte di un canone ‘avverso’, avversato, fallato dal frainteso,
dall’aporia esistenziale, fino a farsi afoni all’oggi.
Tornando alla figura primaria – l’angelo – pare che Villa, in certe folgoranti
lasse, abbia tentato le “lingue degli angeli”, quella lingua slinguata,
sdilinquito delinquere, paradisiaca barbarie, tra il latrato e il sussurro, di
cui dice Paolo nel capitolo tredici della Prima lettera ai Corinzi. Scrittura
‘pentecostale’ la sua? Figurarsi. Villa – trasfigurato sempre in altro da sé –
non assiste alle lingue di fuoco che calano dall’alto, dall’attico di Dio: il
cielo è plumbeo, piove a macerie e ciò che macera dà volto a bestie in fuga,
uomini col volto del capro e della locusta. Poeta apocalittico col papillon,
Villa, che giunge a disastro compiuto:
> (siamo un’ombra del caso
> procediamo da cause sconosciute
> precipitiamo come nebulose
> in un fuoco di rose)
Corroborante, Villa, proprio oggi, come avesse scritto per noi, ora, nell’era
del linguaggio al dileggio, della lingua vezzeggiata, dei poeti che proseguono,
senza atto di veggenza, una ‘tradizione’ di stantie stanze – meri lotofagi
dell’io – o che s’impennano in esperimenti altrettanto vetusti, inverati dal
vento, esametri della scemenza, semenzaio di nequizie. Dario Villa pareva,
appartato, partigiano dell’oltre, non appartenere neppure alla vasta serie di
poeti, più o meno coetanei, più o meno bravi, avvalorati, in quegli anni, da
pubblicazioni di successo: Valerio Magrelli, Milo De Angelis, Roberto Mussapi,
Cesare Viviani, Patrizia Valduga, per dire. Nella collana ‘Marsilio poesia’,
diretta da Raboni dal 1994 al 2000, uscirono, tra gli altri, Toti Scialoja,
Ferruccio Benzoni, Elio Pagliarani e Jolanda Insana. È interessante – per un
puro dato di storia del costume editoriale – assistere alla classifica dei
“Libri più venduti nella settimana” in cui è morto Villa. Spiccano gli italiani:
Baricco (Seta), Susanna Tamaro (Va’ dove ti porta il cuore, da cinquanta
settimane in classifica…), Stefano Benni (Elianto), Andrea De Carlo (Due di
due). Tra “I primi dieci”, tre sono libri di poesia: di Charles Bukowski
(dichiarato “poeta ‘maledetto’”), di Nazim Hikmet e Montale.
Tra le poesie di Villa, Raboni preferiva questa, che è poi un angelo che
annuncia se stesso, il suo eccesso:
non saprei dire
quando con precisione
imparai a nuotare ma non a volare
credevo nelle ombre
credevo alla perfezione
non ero labile come la storia
né fui mondo da scoria
finché non mi calai nel tempo quando
vidi la luce: la inondai
con una strana colla
diceva cose molto sporche e belle
credo che fosse vestita di nero
certo un dettaglio – ma tant’è – che importa –
ero ormai uomo fatto…
anche se poi, per qualche tempo,
continuai a osservare un gioco d’ombre
mi ci studiavo – ci vedevo poco –
davo il polmone al gatto
mi muovevo ogni anno di venti
venticinque centimetri almeno
“ah” pensavo giocando alle parole
“gli altri sono le nubi io sono il sole”
Indifferente ai clamori dell’epoca – perché ne sentiva l’odore, la portata di
bestia al macello – Villa, angelico flâneur del verso, perseguiva una sua via
autarchica. Amava dissiparsi – come i poeti abitati da un talento all’eccesso,
esondante, incapace dunque di ‘sistemarsi’ e di sistemare i propri versi in
libri, opere, propaganda editoriale varia. Così, l’altro giorno, a Milano, mi si
fa di fronte un ragazzo – fronte larga, ispirati e lunghi i capelli, ispido
cappotto, insipida la sera, polverizzata in pioggia. Amico di Giampiero Neri, il
poeta, mi fa – si chiama Alessandro Pancotti, e con rigore pari alla grazia mi
porge due fogli. Due poesie di Dario Villa. Inedite. O meglio. Dimenticate.
Nell’Opera in versi – oceanica opera, necessaria, salutare: finalmente Villa
ritorna tra noi! – non ci sono. Sono state pubblicate sul numero 4
(Ottobre-Dicembre 1985) de “lo Spazio Umano”, Rivista internazionale di scienze
umane arte e letteratura, diretta da Enrico R. Comi. Tra i tantissimi, sulla
rivista collaboravano, in quegli anni, Jannis Kounellis e Roberto Sanesi, Georg
Baselitz, Keith Haring, Lou Reed, Sebastiano Vassalli e David Maria Turoldo. In
quel numero, spiccano un testo di Gillo Dorfles, le poesie di Maurizio Cucchi e
Kenneth Koch.
Le poesie di Villa, qui riproposte, recano una data: 1980. Come sempre,
alternano calembour a sentenze epigrammatiche, il gioco all’oracolo. Un
deambulare tra previsioni ed eversioni. In fondo, paiono i cartoni preparatori
di un’opera – lo studio del cranio di un angelo.
**
la luce bacia le bucce
dei pensieri mondati:
lucida sulla credenza riluce
la polpa nuda dell’idea – che agrume,
che succo acido agli orli
rasenta sguardi travolti, le bocche
aperte, sedie rovesciate?
inchiodata al suo senso,
fissa per sempre la scena (il tempo
il luogo) del ribaltamento,
e la penombra che perdura, macchia
il centro della tavola? qui sembra
il mondo, acciottolii di finepasto,
fragore incerto, l’occhio di qualcuno
rapito in sogni anatomici, le gambe
intraviste che intessono sotto la tavola
quel gioco puro, supporto
di successivi svolgimenti: istinto
ed evento che vibrano, muovono, filano
in un solo volere: negare
tanta immobilità, darsi alla luce.
*
per poi tornare a ripetere
passi, figure, il muschio
cresciuto tardi
sul pasto della natura:
rovine riconquistate dall’edera,
riconvertite in foresta,
cocci dispersi, emblemi in cui s’inciampa
e nelle circonvoluzioni
del labirinto, l’etere ripermea
freddo l’orecchio: musiche, rumori,
voci già sillabanti e la spirale
vacilla di una memoria che torna
nei suoi residui a sgomentare l’ora
che s’infutura e ricade, altro intreccio
in qualche comodo fodero
arabescato starà sognando la lama
rosa da molte ruggini
dello spirito insonne: cosa faremo,
sciabole di mucillagine stampate
su ciò che resta di un muro, riflessi
senza pretesto, ombre di gesto vegetalizzato.
Dario Villa
*In copertina: Dario Villa (1957-1996) in un ritratto fotografico di Antonio Ria
L'articolo “Io sono il sole”. Due poesie ritrovate di Dario Villa, o
dell’Apocalisse col papillon proviene da Pangea.
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Questa storia, in cui tutto è possibile, inizia – o finisce – all’abbazia di
Pomposa, folgorante edificio del IX secolo, nel ferrarese, dove si dirama,
divorandosi, il Po. Affreschi e sculture, spesso arcani, incutono sacro terrore.
Qui pare sia stato redatto, nel XVII secolo, il De arte nihil credendi; dello
scrittore, Matteo Cnuzen, altrimenti detto Matthias Knutzen, predicatore
tedesco, ateo, si ignora la data di morte. Il testo – di cui non si ha altra
notizia – è custodito presso la Biblioteca Classense, “non è mai stato
pubblicato… ho potuto solo farne una copia a mano”, scrive l’autore. Un
fascicolo dal titolo analogo porta la firma di Geoffrey Vallée, anticlericale
estremista: in quel libello – titolato, in verità, La béatitude des Chrétiens ou
le Fléau de la foy – l’autore dimostra che la fede, fondata sull’ignoranza e sul
timore di Dio, riduce l’uomo a una bestia, a uno schiavo. Vallée fu arrestato,
impiccato e passato al rogo il 9 febbraio del 1574: aveva ventiquattro anni.
Il testo di Knutzen – che mesce, in cocktail micidiale, reminescenze di Lucrezio
e di Spinoza, di Garlandus Compotista e di Levi Smolinides, di Gregorio di Narek
e di Sabinus Serrat (faccio scoprire a voi chi di questi è un personaggio
fantomatico, fittizio) – è utilizzato dal poeta austriaco Raoul Schrott come
monito per un libro dal titolo emblematico, L’arte di non credere a nulla,
uscito in Germania, presso Hanser Verlag, dieci anni fa, tradotto ora da
Federico Italiano per Crocetti. I brani dell’incendiario pamphlet di Knutzen –
veri, verosimili, inventati? l’autore rifiuta spiegazioni – sono corrosivi,
perciò corroboranti. Ne cito alcuni:
> “sono avido se voglio tutto ciò che si può ottenere dalla vita – avere amici e
> allo stesso tempo stare solo? ciò che desidero è difficile da raggiungere –
> eppure una volta in mio possesso sono insoddisfatto come se avessi raggiunto
> nulla”;
> “sii come la neve che si scioglie: dal silenzio nascono i fiori – la lingua
> sia il loro bocciolo”;
> “tutto inizia con il sangue · inzuppati di sangue veniamo al mondo a testa in
> giù: tutto inizia con una separazione e in un mondo capovolto · avvinghiati a
> un seno non vediamo che oscurità: ora vivi amaro e cupo · da bambini
> scorrazziamo qui e là: e inquieti rimarremo · nella giovinezza ci dissolviamo
> sentendoci estranei: è solo un periodo di traviamento e confusione · con la
> vecchiaia la mente si annebbia: non aspettarti quindi la beatitudine da vecchi
> strampalati · così perplessi procediamo nelle tombe: senza riconoscere da
> nessuna parte un’anima o qualcosa di puro – solo imperfezione”
Siamo nei dintorni dell’atroce Albert Caraco più che in quelli dell’ardito
Zenone, il protagonista de L’opera al nero, il romanzo di Marguerite Yourcenar.
Nella prefazione, Schrott cita la Basilica di Sant’Apollinare Nuovo e il
Mausoleo di Galla Placidia, a Ravenna e il magnetico trattato De tribus
impostoribus, di cui si discute – senza traccia di testo – dal XIII secolo:
sarebbe piaciuto a Borges. I legami con il maestro argentino, però, finiscono
qui: le poesie di Schrott – affratellate ai violenti aforismi del fatidico
Knutzen – non hanno nulla dell’enciclopedica freddezza di Borges. Al contrario,
è la vita presente, quotidiana, quella convocata da Schrott: nei suoi testi ci
sono il pizzaiolo e lo stilita (“qualcuno disposto a stare sull’orlo del
precipizio”), la cassiera (“il mondo è fatto di cose standard/ che mangiamo ·
beviamo · trasformiamo in esistenza”), il macellaio (“siamo e diventiamo ciò che
mangiamo/ con gli occhi spalancati rivoltandoci al pungolo…/ carne trafitta in
via di macellazione verso l’assoluto”). L’arte di non credere a nulla è un libro
che dà credito alla carne, in crepitio di eros; è un libro pieno di corpi
esposti e di rapporti cannibali. In lo sguardo di dio si canta “la vita baciata
e gettata come un pezzo di pane”; in una poesia si imitano i toni di una single
– donna – fine quaranta; è bello il finale: “la dolcezza · sale tra le mie gambe
· orma d’animale selvatico”. In viaggi notturni – forse, il testo più bello –
c’è una donna “nuda sul sedile distesa/ lo sguardo rivolto verso il nord che
manca come casa”: “il compendio della nostra vaga esistenza/ tali scrupoli
appena li considera:/ nomina il desiderio · vuole vederlo divenire realtà/ ma
biasima ogni indifferenza”.
Il libro è sigillato – va da sé – dal motto riassuntivo del trattatello di
Knutzen: “l’assoluto opera nel nulla”. Quando l’autore – troppo intelligente per
cadere nella trappola del refuso – mi dice che il modello de L’arte di non
credere a nulla è la Vita nuova di Petrarca (ovviamente, è di Dante), so che mi
sta sfidando. D’altronde, Raoul Schrott è una delle menti più sfrenate e
sofisticate della letteratura tedesca: mi ricorda, per impeto, Werner Herzog.
Nato a Landeck, Tirolo, nel 1964 – ma ha detto, a volte, di essere nato a San
Paolo, in Brasile, quando non in nave – è cresciuto tra Tunisi e Zurigo; insegna
all’Università di Vienna, dopo aver insegnato a Napoli, a Berlino e a Tubinga,
insieme allo scrittore Christoph Ransmayr. Romanziere, poeta, studioso, Schrott
è a abituato alle imprese impossibili: ha scritto resoconti tratti dalle sue
esplorazioni nel deserto (Il deserto di Lop è stato pubblicato da La Grande
Illusion nel 2022); ha partecipato a una spedizione, supportata dall’Università
di Colonia, in luoghi del Ciad ancora inesplorati. Da ragazzo, ha studiato il
Dadaismo, è stato il segretario di Philippe Soupault, a Parigi; ha tradotto
Derek Walcott e Seamus Heaney, la Teogonia di Euripide e l’Epopea di Gilgamesh;
nel 2008 ha pubblicato la sua traduzione – sgargiante, a dire dei più –
dell’Iliade: la tesi secondo cui Omero fosse uno scriba greco al servizio degli
assiri, vissuto a Karatepe, in Cilicia, gli attirò critiche. Tra l’altro,
Schrott ha scritto romanzi audaci in immaginario, imprevedibili fin nel titolo
(uno di questi fa pressappoco, Racconto del vento, ovvero dell’artigliere
tedesco che circumnavigò il mondo una prima volta e poi una seconda e una terza
volta); ha vinto premi. Con Erste Erde (2016), libro di magnetica forza, ha
tentato di dire in versi la storia del mondo, dal Big Bang a oggi.
L’ultimo progetto – benché non strettamente letterario – è altrettanto
‘mostruoso’: l’“Atlante dei cieli stellati” (Atlas der Sternenhimmel),
pubblicato da Hanser lo scorso anno, raccoglie – dispiegandoli – diciassette
cieli; le costellazioni degli antichi egizi e degli aborigeni australiani, degli
Inuit, dei Tuareg e dei Boscimani. Si narra, così, la storia dell’uomo e di ogni
civiltà, a partire dal rapporto con gli astri. Quasi che il cielo sia una
bibbia, le stelle una scrittura piena di brusii, vocalizzi, grida.
Insomma, abbiamo preteso Raoul Schrott al dialogo.
Preliminari: esiste davvero il “Manuale dell’esistenza transitoria” o è frutto
della sua transitoria immaginazione?
Esiste? Tutto ciò che scriviamo e leggiamo – che sia romanzo, poesia o filosofia
– esiste: è il frutto della nostra immaginazione.
Come è nata l’idea di accostare le poesie a un trattato del XVII secolo? Qual è
stato il ‘metodo’ di costruzione del libro? Vedo, ad esempio, che le poesie non
sono disposte in ordine cronologico.
In sostanza, le poesie riferiscono di una visione atea della vita e dell’amore,
da prospettive differenti. Per me, poesia è un modo di pensare più concentrato e
compiuto: ecco perché tutti i miei libri in versi sono centrati su un tema – gli
hotel; il sublime; il sacro; l’assenza – e incorniciati da un saggio. Qui si
tratta, letteralmente, dell’arte di non credere a nulla. Per costruire un
contesto alle poesie la – sbalorditiva – breve storia dell’ateismo mi è parsa
più che appropriata.
La maggior parte delle poesie sono ritratti di individui che ostentano le loro
opinioni, plasmate dal lavoro che svolgono, dai desideri, dalle circostanze. È
una galleria di professioni (di cui ho incidentalmente dimenticato il maestro).
Sono raggruppate tematicamente, poi completate da alcuni versi tratti
dal Manuale dell’esistenza transitoria, per dare a ogni poesia un significato
ulteriore. Se crede, il modello è la Vita nuova di Petrarca (sic!).
Come costruisce le proprie poesie? Intendo: parte da un concetto, da un insieme
di parole che combaciano audacemente assieme, da una ‘scena’, da una idea
narrativa…
Tutti questi elementi concorrono: intuizione, esperienza, l’incontro con
qualcuno (il cassiere del supermercato che ho incontrato sul treno per Berlino
non smetteva più di parlare). Questi elementi consegnano, come diceva Valéry,
il vers donnés su cui poi la poesia si sviluppa in vers calculés. In queste
poesie, il calcolo provvede alle rime (comunque discrete, difficili da scovare).
Tuttavia, la parola in rima di rado ha a che fare con la parola con cui rima,
introduce un elemento imprevisto, un frammento del mondo in generale – così che
il procedere pensando deve fermarsi in stazioni diverse. Questo rende la
scrittura, almeno per me, uno stupore continuo.
Come penetra nel suo linguaggio la lingua delle origini, dei testi che ha
tradotto, Iliade, Gilgamesh, Teogonia?
La loro lingua non penetra nella mia. Tradurre quei testi, però, ha significato
comprendere la tradizione e approfondire il mestiere: per scrivere da quel
centro del presente.
Che senso ha, oggi, la poesia?
La poesia è la macchina di tutto ciò che è umano, individuale, soggettivo. Ci
pensi: i romanzi, in quanto finzione, sono menzogne realistiche (presentano una
verità in modo elegante e persuasivo, certo), narrazioni che si basano su trame
e personaggi plausibili. La poesia, invece, non può che essere veritiera;
esprime i pensieri e le emozioni più profonde: è autentica. Tutto il contrario
della plausibilità. Questo vale anche per le poesie peggiori, in cui non si
capisce un cazzo [in italiano, ndt], tanto sono autoreferenziali. Dunque:
autenticità. Inoltre: la poesia sincronizza le tre modalità cognitive
dell’essere: le immagini in cui pensiamo; il linguaggio con cui ci esprimiamo;
la musica – metro e ritmo – che corrisponde ai battiti del cuore, al ritmo del
respiro, al moto delle ciglia. Ditemi quale altra arte riesce a fare tutto
questo con così pochi mezzi!
Che rapporto esiste, a suo dire, oggi, tra poesia e storia, la poesia e
‘politica’?
Credo che la poesia sia a-storica, nella misura in cui esprime intuizioni senza
tempo (pur se fugaci), verità soggettive che nella loro individualità sono
sempre in contrasto con la storia come fenomeno di massa. La poesia è il rifugio
e l’espressione di tutto ciò che è umanamente possibile, pensabile,
sperimentabile in tutta la sua stranezza e bellezza, in tutta la sua assurdità,
in tutto il suo orrore. La letteratura è sempre a-politica e a-morale. Non si
preoccupa e non deve occuparsi delle ideologie e dell’etica di una comunità,
altrimenti diventerà agitprop, slogan, un manifesto, insomma. La letteratura – e
in particolar modo la poesia – deve esprimerci come individui, con tutte le
nostre emozioni e pensieri, positivi o negativi essi siano, senza vincoli,
liberi, per essere autenticamente veritiera. Almeno, così è sempre stato.
Mi racconti qualcosa del suo “Atlante dei cieli stellati”: come nasce il
progetto, perché, come si insinua nel suo lavoro poetico?
L’Atlante dei cieli stellati non ha a che fare con la mia scrittura. A parte la
visibile poesia che raffigurano le costellazioni, è un lavoro accademico: come
professore di letteratura comparata ho compiuto ricerche per rintracciare i
cieli stellati di diciassette diverse culture del pianeta. Benché l’Unesco li
abbia dichiarati patrimonio culturale immateriale dell’umanità, non sono mai
stati studiati in modo esauriente: le costellazioni, graficamente ricostruite;
il simbolismo e la sapienza che le accompagna; la storia della tradizione
astronomica che le spiega; i miti delle origini che narrano la creazione del
cielo e della terra, del sole, della luna, delle stelle. Ci sono voluti sette
anni di lavoro per ricostruire il cielo dei babilonesi e dei cinesi, degli inuit
e dei boscimani, degli inca e degli arabi, dei tahitiani e dei maori… ciò che
questa ricerca ha prodotto (con mio grande stupore) sono settantamila anni di
storia culturale di cui nessuno sapeva nulla.
*In copertina: Raoul Schrott in un ritratto fotografico di Barbara Seyr
L'articolo “L’assoluto opera nel nulla”. Dialogo con Raoul Schrott proviene da
Pangea.
Il Pasolini poeta maturo si inserisce in un generale movimento verso la ‘prosa’
che caratterizza la poesia italiana del dopoguerra. Sarà sufficiente fare i nomi
di Attilio Bertolucci, di Vittorio Sereni, di Mario Luzi. In realtà Pasolini
nelle Ceneri di Gramsci (1957) unisce questa passione prensile e quasi plastica
della scrittura poetica, che si direbbe tipica di una prosa saggistica (tra i
suoi maestri ci fu il grande storico dell’arte Roberto Longhi), a un uso
raffinato e insieme libero della metrica. Il Pasolini delle Ceneri innesta la
prosa nel furore metrico (che fu proprio ad esempio di un altro poeta decisivo
del secondo Novecento, Giorgio Caproni). La gettata lavica del discorso
pasoliniano, che potrebbe tracimare, annullare la poesia, viene fatta
solidificare dentro la forma metrica, in particolare la terzina, dantesca e
pascoliana (ma anche in altre forme: ad esempio l’imitazione e la ripresa della
forma-canzone o i distici tendenzialmente a rima baciata).
Questo ci porta al cuore stesso della poesia pasoliniana, che è tutta nutrita
del sentimento di una contraddizione. Non per caso una delle figure fondamentali
del suo discorso poetico è l’ossimoro (si pensi, ad esempio, al titolo di un
poemetto del libro Poesia in forma di rosa, del 1964: Una disperata vitalità).
Pasolini nutre la sua poesia di un sentimento irrisolto e lacerante della vita e
della cultura: all’altezza delle Ceneri di Gramsci, in particolare, vorrebbe da
una parte aderire a una visione chiara, razionale, lucida, ispirata
all’ideologia marxista (ma Pasolini stesso nell’introduzione alle Poesie del
1970 parlerà del suo «marxismo mai ortodosso», rimproveratogli del resto da un
lettore come Fortini); dall’altra è trascinato da una pulsione vitalistica,
irrazionale, che prende corpo nel mito dei ragazzi delle borgate romane, del
proletariato pre-ideologico, quasi pre-storico (si ricordi il romanzo Ragazzi di
vita, 1955). Pasolini ha piena coscienza di questa contraddizione e ne fa il
tema della sua poesia.
Nel poemetto che intitola la raccolta del 1957, all’inizio della parte quarta si
mette a tema lo scandalo della contraddizione, con riferimento a Gramsci e al
suo pensiero. È un passo celebre, spesso riportato nei saggi e nei manuali:
“Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;
[…] attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza […]”.
Nella sua produzione poetica (peraltro di vastissime proporzioni e quasi
ingovernabile, come documentano i due tomi di Tutte le poesie nei “Meridiani”, a
cura e con uno scritto di Walter Siti, Saggio introduttivo di Fernando Bandini,
Cronologia a cura di Nico Naldini, Mondadori, 2003, da cui provengono tutte le
citazioni) Pasolini ha tentato molte forme diverse: è partito dalla poesia in
dialetto, dal sogno delle origini romanze, in una lingua vergine (il friulano di
una piccola località) e in una forma rigorosa, quasi arcaizzante, con le Poesie
a Casarsa del 1942. Anche in italiano, Pasolini ha scritto una poesia lirica e
solitaria, ispirata al mondo marginale della campagna e del borgo: si pensi
a L’Usignolo della Chiesa Cattolica (uscito nel 1958 solo per ragioni
editoriali, ma precedente alle Ceneri di Gramsciquanto a composizione). Nei
libri seguenti alle Ceneri, che è in qualche modo il libro-cerniera della sua
carriera di poeta, cioè La religione del mio tempo (1961), Poesia in forma di
rosa (1964), Trasumanar e organizzar (1971), si verifica una compresenza di
ragionamento e impegno ideologico, da una parte, e persistenza di una certa
forma di lirismo, se anche impura, dall’altra (già nelle Ceneri un poemetto
come Una polemica in versi andava verso l’uso della poesia come strumento
oratorio e di intervento).
Così si capisce che la poesia è per Pasolini e per molti poeti del secondo
Novecento un organismo instabile, un ibrido tenuto in equilibrio di un soffio
sopra la prosa in modo sempre compromissorio. Si diceva delle tante forme
esperite da Pasolini: ne La religione del mio tempo (1961) ci sono due sezioni
di epigrammi, in cui Pasolini polemizza con poeti e intellettuali o prende a
bersaglio altre figure pubbliche. Come esempio di questo genere prendiamo dalla
serie Nuovi epigrammi il testo A Luzi: “Questi servi (neanche pagati) che ti
circondano,/ chi sono? A che vera necessità rispondono?/ Tu taci, dietro a loro,
con la faccia di chi fa poesie:/ ma essi non sono i tuoi apostoli, sono le tue
spie”. Nel rivolgersi al poeta fiorentino, di qualche anno maggiore di lui (nato
nel 1914), Pasolini (nato nel 1922) si rifà ad una propria recensione a Onore
del vero uscita in rivista nel 1958 e poi raccolta in Passione e
ideologia (1960), che contestava a Luzi, pur ammirato dal punto di vista
estetico, “una insensibilità di fronte ai fenomeni della vita umana e della
storia”; rifluisce inoltre nell’epigramma una discussione maturata sulle pagine
della rivista “La Chimera” sul tema del realismo (1954), che vide contrapposti
appunto Luzi e Pasolini. Queste punte polemiche, neanche satiriche, che appaiano
Pasolini a un altro epigrammista inflessibile del Novecento, cioè Fortini,
rivelano un aspetto irriducibile della personalità del poeta: il suo porsi come
contraddittore, arbitro, giudice, polemista, in nome parte di una ideologia,
parte (è la solita contraddizione) del suo superamento vitale e narcisistico.
Le polemiche di Pasolini, letterarie e ideologiche, sono state numerose. Alcune
ci appaiono ingenerose. È il caso, credo, di quella con Montale, attaccato
duramente su “Nuovi argomenti” per Satura, libro definito, pur con qualche
affondo di intelligente critica stilistica, come un “pamphlet antimarxista” e
ancora come un libro “tutto fondato sulla naturalezza del potere”, con un esito,
per il poeta dalla lunga storia, “reazionario e quasi teppistico”. Montale
rispose con discrezione e insieme con forza, scrivendo un testo poetico tutto
centrato su Pasolini ma che di Pasolini tace il nome sotto un senhal,
cioè Lettera a Malvolio, in Diario del ’71 e del ’72. Al di là della reticenza,
il bersaglio è colpito con decisione da Montale, mentre la polemica non fa che
portare alla luce una incomprensione di fondo tra i due covata a lungo. Ecco i
versi 17-29 del testo montaliano, che mettono a fuoco dal lato del ligure la
situazione culturale del dopoguerra e una figura come quella di Pasolini:
“Ma dopo che le stalle si vuotarono
l’onore e l’indecenza stretti in un solo patto
fondarono l’ossimoro permanente
e non fu più questione
di fughe e di ripari. Era l’ora
della focomelia concettuale
e il distorto era il dritto, su ogni altro
derisione e silenzio.
Fu la tua ora e non è finita.
Con quale agilità rimescolavi
materialismo storico e pauperismo evangelico,
pornografia e riscatto, nausea per l’odore
di trifola, il denaro che ti giungeva”.
Si noterà che l’“ossimoro permanente” sembra proprio stigmatizzare, prima di
accuse più virulente e dirette, la posizione sempre contraddittoria di Pasolini
(pur essendo anche il contrassegno di un’epoca), il quale come
poeta-intellettuale continua ad apparirci nelle vesti di un provocatore assai
ideologico e non privo di acredine (si prendano ancora in Trasumanar e
organizzar le punture denigratorie e maldicenti verso questo o quel collega:
“[…] – e mettiamoci anche/ un po’ di tenerezza per le vecchie tettine di
Palazzeschi”; “[…] e lo scialbo Pavese”).
D’altra parte nella poesia di Pasolini, come già Le ceneri ci insegnano, c’è
sempre una pulsione alla verità, alla confessione dolente, alla visceralità: è
il meccanismo di quello che Montale, con tagliente acume, definirà appunto
“ossimoro permanente”. Così in Poesia in forma di rosa si legge un componimento
come Supplica a mia madre, da cui si possono citare alcuni versi (si tratta di
distici):
“Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia”.
Si può avvicinare a questo impulso alla confessione anche un’altra celebre
dichiarazione pasoliniana, ancora da Poesia in forma di rosa:
> “Io sono una forza del Passato.
> Solo nella tradizione è il mio amore.
> Vengo dai ruderi, dalle chiese,
> dalle pale d’altare, dai borghi
> abbandonati sull’Appennino o le Prealpi,
> dove sono vissuti i fratelli”.
E poi, in chiusa: “E io, feto adulto, mi aggiro/ più moderno di ogni moderno/ a
cercare fratelli che non sono più” (Poesie mondane, brano 10 giugno 1962).
Il libro poetico forse più impuro di Pasolini è Trasumanar e organizzar (1971):
fin dal titolo, esso mette insieme l’esperienza dantesca del trasumanar
(Paradiso I 70-71: “Trasumanar significar per verba/ non si poria […]”, brano
evocato in più punti del libro da Pasolini, così come più volte è allusa la
figura di san Paolo e il suo essere rapito al Terzo cielo) e l’organizzare
politico, la prassi, vale a dire due dimensioni tra loro incommensurabili. Molti
testi sono ragionamenti in versi, discorsi, declamazioni, dibattiti: la poesia è
messa in questione nella sua autonomia, eppure non è del tutto negata. Continua,
si direbbe, a vivere dall’interno della sua messa in crisi, nella sospensione
delle sue forme riconosciute, dunque in modo problematico. Viene meno la
funzione della metrica chiusa, si tende a uno stile informale. Certamente
Pasolini mira a rovesciare il suo discorso precedente, in particolare la
stabilità e saldezza formale faticosamente raggiunta nelle Ceneri di Gramsci. E
quanto a questo movimento di auto-negazione, di palinodia tutta in negativo si
potrà pensare al caso esemplare della Seconda forma de “La meglio gioventù”, la
raccolta che nel 1974 (per essere poi ripresa ne La nuova gioventù del 1975)
riscrive a contrasto La meglio gioventù del 1954, a partire dalle Poesie a
Casarsa (basta leggere la riscrittura del testo d’apertura, la Dedica).
D’altra parte, a confermare la pluralità delle forme e degli esperimenti, tra il
1971 e il 1973 Pasolini compone una serie di sonetti, ritornando dunque ad una
forma chiusa (mentre nella sua poesia ufficiale, pubblica, liquida
quell’esperienza), anche se si tratta di una forma usata con grande libertà
(l’autore l’aveva del resto già sperimentata: si ricordi in particolare la
serie Sonetto primaverile, costituita da 14 sonetti, risalente al 1953 e
pubblicata nel 1960). La corona L’hobby del sonetto, tutta dedicata a Ninetto
Davoli e uscita solo postuma, è una straziata confessione affettiva, di una
natura che si direbbe privata (è costituita da 112 esemplari, ma alcuni sono
allo stato di abbozzo o di frammento). È l’ultima riprova: la verità di Pasolini
sta nel suo contraddirsi, nel suo essere contro di sé e contro ogni principio
acquisito e raggiunto, contro ogni programma e progetto. Pasolini vive di una
continua tensione vitalistico-mortuaria, come se la vita e l’opera fossero un
tutt’uno, anelanti a uno sbocco, a una catastrofe, a un martirio, a un togliersi
di mezzo per sanare (come fosse l’unico modo possibile) la lacerazione, il
contrasto, la pretesa assoluta e narcisistica del soggetto, prepotente e
distruttiva insieme. La notte del suo assassinio all’idroscalo di Ostia, tra l’1
e il 2 novembre 1975, giusto cinquant’anni fa, era in qualche modo preannunciata
e forse presupposta dal poeta.
Daniele Piccini
**
Le ceneri di Gramsci
IV
Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;
del mio paterno stato traditore
– nel pensiero, in un’ombra di azione –
mi so ad esso attaccato nel calore
degli istinti, dell’estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza; è la forza originaria
dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro più
io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia…
Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto
ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante
dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:
ma a che serve la luce?
*
Da Poesia in forma di rosa
Supplica a mia madre
È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo con te, in un futuro aprile…
Pier Paolo Pasolini
*Si pubblica per gentile concessione il servizio di Daniele Piccini edito
nell’ultimo numero di “Poesia” (n. 34, Crocetti, 2025)
In copertina: Pasolini durante le riprese romane de “Il fiore delle Mille e una
notte” (1973). Foto di Gideon Bachmann
L'articolo “Fu la tua ora e non è finita”. Pier Paolo Pasolini, il poeta
proviene da Pangea.
Nel 1997 il “New Yorker” dedica un ampio servizio a Jorie Graham, “the most
celebrated American poet of her generation”. L’articolo, Big Poetry, è bello,
ardito, arioso. Stephen Schiff ha agio nel mostrarci la poetessa “vestita di
nero dalla testa ai piedi, con un numero sufficiente di bracciali, collane e
anelli da far venire l’ernia a una danzatrice del ventre”. Studenti, studiosi,
passanti le fanno spazio “con tenero riguardo e cenni di assenso”. Nella
fotografia che ingioiella l’articolo, la Graham ha uno sguardo colpevolmente
innocuo. Il giornalista la descrive così: “occhi vasti, vispi; fronte aperta,
bocca che sboccia nel broncio e dappertutto una massa di capelli scuri”. Alcuni
– compreso Mark Strand, il poeta – sussurrano, “è un genio”.
Nata a New York da Curtis Bill Pepper – inviato speciale per “Newsweek”,
scrittore, autore, tra l’altro, di un romanzo biografico centrato sulla vita di
Leonardo da Vinci – e da Beverly Pepper, scultrice, cresciuta a Roma, studi alla
Sorbona e alla New York University, la Graham è stata, da ragazza, assistente di
Michelangelo Antonioni: voleva fare la regista. Esordisce alla poesia nel 1980
con Hybrids of Plants and of Ghosts, subito elogiato dal “NY Times” – dissero di
“una poetessa di enormi ambizioni, dal ritmo spericolato” –; seguono libri
pressoché infallibili – The End of Beauty, 1987 e Region of Unlikeness, 1991, ad
esempio – fino al “Pulitzer for Poetry”, ottenuto nel 1996 con The Dream of the
Unified Field. “Poetry” la definisce “uno dei poeti statunitensi più noti e
celebrati della generazione post-bellica”: ogni suo libro è – per natura lirica
tellurica – un ‘caso’.
Jorie Graham, potremmo dire, esercita una politica attraverso la poetica. Per
dirla in modo più frugale, usando le parole del critico americano Calvin
Bedient, la Graham “è una campionessa mondiale nel porre le domande più
radicali… Ciò che le importa è la speranza insita nell’interrogativo, non la
risposta”. Anche l’ultimo libro, 2040, è un libro interrogativo, è un
libro-scavo – dacché ogni domanda prevede una zappa, una pala, il desiderio di
dissotterrare qualcosa interrando qualcos’altro. Scritto dal 2020, pubblicato
nel 2023, tradotto quest’anno da Crocetti, 2040 ha per interrogativo
l’estinzione dell’uomo e il massacro del creato. “Protagonista principale di
questa raccolta poetica è una speakerautobiografica che vaga, sola e
disorientata, in uno spazio avvolto nel silenzio, in limine fra un mondo che non
esiste più e a un passo dalla potenziale estinzione dell’umanità e della sua
storia millenaria”, scrive Antonella Francini, la traduttrice della Graham in
Italia, nella partecipe introduzione al libro, Il potere della memoria. Il libro
ruota intorno a una lettera Al 2040 – p.78 della versione italiana – di cocente
bellezza:
“Gli anni spinsero la loro durata in noi come lunghe
corde bagnate, e noi ci aggrappammo, ci tennero appesi per andare avanti, & in
alto, ci impedirono di annegare nei minuti terribili. Una volta mi sedetti &
piansi mentre guardavo sorgere il sole & i fiocchi cadere come ignara del
movimento dalla notte al giorno – ci sia almeno una differenza – altrimenti
qualsiasi cosa rimanda del desiderio se ne andrà – altrimenti non ci sarà
nulla di ciò che ho salvato – nulla da salvare – fate rifiorire il giorno in un
segmento di tempo – fa freddo – il sogno è cosa difficile da scorgere”
Il libro alterna parti in prosa a vertigini in versi, estreme cupezze ed estreme
tenerezze. Si vedono boschi, nevi, uccelli a sciami, sciabordio di bestie – e
malinconia, rapimento, rabbia. Pochi umani in giro.
> “Non ho nulla da offrire.
> Il mondo è sempre stato
> pronto per il mondo.
> Il fiume in secca.
> Vedo pesci sulle rive senza uccelli.
> Cuore umano, mi dico, cosa ci fai qui, questo è troppo
> per posarci
> lo sguardo.
> I pesciolini galleggiano nel salmastro.
> La corrente rallenta. Gridi di uccelli della sera come vetro infranto,
> un grido e hanno finito”.
Non è, fieramente, un poeta facile, Jorie Graham. Non è poeta di proclami, bensì
di rivelazioni e di affondi. È stata la prima donna, ad Harvard, ad aver coperto
la cattedra di “Rethoric and Oratory” che fu – tra gli altri – di Seamus Heaney.
Per capire il ‘personaggio’ – o meglio: l’impeto politico di una intellettuale
totale –: Jorie Graham è tra i produttori di The Voice of Hind Rajab, il film
che ha straziato la scorsa Mostra internazionale del cinema di Venezia – da cui
ha raccolto il Leone d’argento – e che racconta l’uccisione di una bambina
palestinese, Hind Rajab, appunto, da parte dell’esercito israeliano.
L’ultimo libro di Jorie Graham è previsto per il prossimo
anno. S’intitola Killing Spree. Il suo ‘metodo’ lirico mescola i modi di Wallace
Stevens ai toni del contemporaneo, i ‘modernisti’ alla modernità. I temi sono
quelli di oggi, urticanti: “devastazione ambientale, senso della perdita,
instabilità politica”. Credere nel potere della parola, nel segreto sussurrato
dal verbo, penso – dopo tutto, confidare con sciamanica ostinazione in un
qualche risveglio.
Mi pare che 2040 sia un libro, allo stesso tempo, potentemente poetico e
fortemente “politico”. Esprime una poetica della politica. Come è nato – e
perché?
La poesia è in primo luogo uno strumento in grado di mettere in moto l’intera
anima (“dell’uomo”), come ci ricorda Coleridge. Quindi, siccome vivo in un mondo
che va verso l’autodistruzione e siccome la poesia nasce dall’esperienza del
poeta – corpo, mente, anima – non c’è altra esperienza che possa guidare la mia
scrittura. Non ho altro corpo se non questo corpo mortale. Come ci ricorda
Aristotele, siamo per natura “animali politici”. Vorrei sottolineare questa
nostra caratteristica di mammiferi capaci di intuire nei minimi dettagli i
pericoli, anche lontani, come se li percepissimo attraverso i nostri pori. Siamo
attraversati da una profonda intuizione. Il nostro obiettivo è sopravvivere. La
poesia è uno dei grandi strumenti che lo spirito umano ha sviluppato per
esprimere e approfondire gli istinti della sua natura animale e spirituale.
Potremmo dire che i nostri millenni di poesia sono il nostro manuale
d’istruzioni per quanto riguarda ciò che serve a rimanere umani in mezzo a tutte
quelle forze – interne e esterne – che gravano su di noi allo scopo di
disumanizzarci o indurci a distruggere il resto del creato. Mi risulta che anche
il termine “umano” venga oggi messo in discussione. Abbiamo fatto così tanto
male, e continuiamo a farlo. Forse la nostra estinzione sarebbe una vera
benedizione per questa terra. Ma credo, tuttavia, che in noi esista ancora
l’istinto di provare a risvegliarci. Ecco dove la poesia e la politica si
incontrano.
Che rapporto c’è tra “politica” – nel senso ampio, greco del termine – e
“poesia”? Intendo dire: cosa significa per un poeta, per lei, “prendere
posizione”? Cosa significa per un poeta la parola “impegno”?
In questo momento, negli Stati Uniti – come altrove – proprio le parole che
usiamo implicano il rischio concreto di essere presi di mira politicamente dal
governo – se così possiamo chiamarlo. Per noi il cui mestiere ha a che fare
interamente con le parole – e con le attività palesi e occulte svolte dalle
parole nell’animo umano, nella coscienza, nella memoria, sulla realtà e il suo
senso – è strano vedere il loro potere (e la storia e l’immaginario che esse
evocano) andare in questa direzione. Proprio mentre ci stavano convincendo che
la nostra vita è interamente immersa in una “cultura dell’immagine”, l’uso di
una parola come “genocidio” può portare a essere licenziati, molestati,
arrestati o fatti sparire dalle nostre forze di polizia private e pubbliche.
L’effetto che tutto questo ha su ciò che abbiamo tra le mani quando si mette la
penna sulla carta è notevole. Nel mio nuovo libro, Killing Spree, che uscirà a
maggio negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ci sono momenti, ovunque in quelle
poesie, in cui le decisioni che devo prendere su quali parole usare implicano
considerazioni extra-letterarie. Questo testimonia il potere di un tale mezzo
che anche nell’era dell’intelligenza artificiale restituisce la vera forza e il
vero valore a un essere umano quando pronuncia una parola nella sua condizione
vulnerabile, precaria e mortale, al contrario di un bot. Solo attraverso il
sangue e la carne le nostre parole sono “engagé”.
Vorrei entrare, come direbbe Hawthorne, nella sua “camera stregata”. Quali
immagini l’hanno ispirata durante la scrittura di 2040? Quale immaginario
linguistico? Quali “fonti”?
Abbiamo vissuto un periodo di intensa siccità – che fa in realtà da sfondo
a 2040 – mentre io mi sottoponevo a un intervento chirurgico, alla radioterapia,
alla chemio. La popolazione aviaria ha subito drastici cambiamenti durante quei
mesi. Alcune specie di alberi sono state attaccate da malattie causate da nuovi
insetti portati dai venti degli uragani che hanno messo a rischio la
sopravvivenza del nostro bioma. Mi sono ritrovata calva e sbalordita lottando
per mantenere le mie forze e salvare i “miei” alberi. Camminavo ogni giorno per
chilometri (come mi aveva consigliato la mia oncologa) e durante quelle
passeggiate nelle nostre foreste ero determinata a sopravvivere entrando in
contatto con la forza magnetica della terra sotto i miei piedi. Quasi tutte le
poesie sono state inizialmente composte mentre camminavo, tranne quelle che
considero odi – “La quiete”, “Nebbia”, “Arco temporale”, “Il visore VR”,
“Giorno” –, sorte nell’intervallo tra una seduta di chemio e l’altra, quando ero
troppo debole per camminare.
Cosa può fare la poesia nel confronto con la Storia? Che cos’è in fondo “la
poesia”?
Ci sono molte risposte a questa domanda e mi sento un po’ sciocca nel cercare di
rispondere. Ma si potrebbe dire che, fra tutti i tipi di storie che creiamo
attraverso lo scorrere del tempo e il suo evolversi mortale, tramite le sue
catastrofiche sorprese e i suoi visibili colpi di scena, la poesia è la storia
che si impegna a rivelare la vita dell’anima. Forse l’evoluzione dell’anima.
Forse la sua permanenza. Forse le sue illusioni o le sue epifanie o i suoi
‘presagi di immortalità’. Ed è meglio, forse, se si porta dietro il minor carico
possibile. Così quel carico si affida alla musica del verso per mantenere il suo
significato rapace, da scoprire, in volo, affidabile e vivo. Ecco perché devo
lavorare così tanto sulla musica – nell’originale e poi, con Antonella Francini,
riscrivendola in quella lingua miracolosa che è l’italiano.
Ritagli un pezzo di 2040 che le sembra esemplare e mi dica perché.
Le rispondo indirettamente. Oggi, in un’epoca in cui stanno scomparendo la
capacità di leggere e comprendere (la capacità di concentrazione e la capacità
di sostenere tempi prolungati), penso molto all’idea di Wallace Stevens secondo
cui “la poesia deve resistere all’intelligenza quasi con successo”. Quel quasi è
essenziale perché costringe a usare i sensi insieme all’intelletto. Cura la
dissociazione della sensibilità di cui parlava Eliot con incredibile
lungimiranza, che oggi sta distruggendo la nostra gente.
Leggo il suo nome tra i produttori di “The Voice of Hind Rajab”: come mai?
All’inizio ho dato una mano. Sembrava davvero impossibile trovare persone
disposte a finanziare quel film. Poi ho dato consigli sulla sceneggiatura,
infine sulle diverse versioni della pellicola. Le devo ricordare che io sono una
regista inappagata. Da giovane, a Roma, ho collaborato con Antonioni come
assistente alla ricerca. Ho frequentato la scuola di cinema alla New York
University. Perciò, quando ora mi viene chiesto di fornire un feedback ad alcuni
film – specialmente documentari – nelle loro varie fasi, torno a usare la mia
immaginazione cinematografica. Alcuni critici sostengono da anni che la mia
poesia sia influenzata dal cinema, in particolare dalle tecniche dell’editing e
del montaggio che ho studiato da giovane.
E ora… quale progetto di scrittura la anima?
Come ho già accennato, ho appena finito di scrivere un nuovo libro, Killing
Spree, che uscirà a maggio. È stato composto durante questi ultimi tre anni in
cui la follia di genocidio, tirannie, fame e IA estrema – sempre presenti fra
noi – hanno raggiunto un livello tale da essere in primo piano sul
palcoscenico.
*La traduzione dell’intervista è di Antonella Francini
In copertina: Jorie Graham; photo Alvaro Almanza
L'articolo “Estinguerci sarebbe una benedizione – ma possiamo provare a
risvegliarci”. Dialogo con Jorie Graham proviene da Pangea.
…è per Simone Cattaneo (1974-2009)
Diciamo che il 2012 è il nostro Cape Canaveral. In questo viaggio interstellare
– che significa: lacrimare tutte le costellazioni, una per una, fino al vuoto,
fino al cosmo in una tazza – cominciamo dal 2012. Settembre 2012, numero 67 di
“Atelier”, “La fine dell’opera comune”. Il numero è dedicato a Simone
Cattaneo, poeta di lirica violenza, che ha scelto di farla finita nel settembre
del 2009. Aveva trentacinque anni, Simone; Atelier aveva pubblicato i suoi
libri, di carnivora luce, Nome e soprannome (2001) e Made in Italy (2008).
Quell’anno – il 2012 – Il Ponte del Sale pubblica tutte le poesie di Cattaneo,
compresa l’ultima raccolta, Peace & Love. Simone mi era amico, fraterno.
Compivamo gli anni lo stesso mese, a quattro giorni di distanza: un giorno, in
febbraio, mi regalò un concerto di Lou Reed, a Milano. Posti in prima fila. Gli
rubarono la macchina. Restò a dormire da me. Scrisse della sua morte sul
“Giornale”; il titolo, pur viscerale – “Per essere notati dalla critica bisogna
buttarsi dalla finestra” – non sortì alcun effetto: al sistema clientelare e
nepotistico della cultura italica, si è sommata, oggi, una generica, sonnambula
melassa lirica. Il condono servile di ogni crimine estetico.
Torno in me. Nel numero di “Atelier” del settembre 2012, Riccardo Ielmini scrive
una memoria, Simone, Dejan Stankovic, Walter Zenga (e anche io), di commossa
bellezza. Ielmini rievoca un incontro con Simone. È venerdì, mezzogiorno, “sei
giorni prima che tutto finisca, maledizione”. Simone sale al lago, a Laveno, per
un gelato – è sera. A un certo punto, Simone parla di Denis Johnson. “Senti, e
quell’idea su Denis Johnson?”. L’idea. “Provare a tradurre le sue poesie inedite
in Italia”. Simone adorava Denis Johnson. Amava le sue poesie. Me ne parlava da
anni – da quando abbiamo preso a vederci – dal 2001, dall’inizio di questo
millennio Cerbero. “Sai che la traduttrice di Johnson è una mia concittadina?”,
fa Simone a Riccardo. Silvia Pareschi. Diversi anni dopo, qualche anno fa, nel
2019, ho intervistato Silvia Pareschi.
Denis Johnson ha scritto alcuni dei romanzi più potenti degli ultimi decenni di
letteratura americana. Ne cito due. Albero di fumo (2007) e Mostri che
ridono (2014). In Italia, Denis Johnson è stato tradotto per la prima volta da
Delfina Vezzoli, per Feltrinelli: Angeli (1983) e Fiskadoro (1985) sono ormai
dei reperti editoriali. Il libro che più lo rappresenta, però, è Jesus’
Son (1992), allucinata raccolta di racconti che narra di un mondo virgineo
all’apocalisse, di lisergica crudeltà. Era il libro preferito da Simone. Silvia
Pareschi lo ha ritradotto per Einaudi nel 2018. Per questo l’ho intervistata.
> “È il libro di culto della letteratura americana contemporanea – è scritto in
> una lingua spoglia e luminosa che ricorda per certi versi Hemingway e Carver
> (il quale era stato insegnante di Denis Johnson all’Iowa Writer’s Workshop). È
> proprio grazie a questa lingua che Johnson riesce a trasformare una serie di
> personaggi falliti e marginali in angeli dannati di proporzioni mitiche. Le
> loro disavventure sono raccontate con una prosa diretta e disadorna, il
> prodotto di una mente annebbiata che attribuisce la medesima importanza a ogni
> cosa, che sia una nuvola o un cadavere. E ogni tanto, in questa prosa
> imperturbabile, spuntano senza preavviso momenti di intensa poesia”.
Ecco. Denis Johnson nasce alla letteratura come poeta: esordisce a vent’anni,
nel 1969, con The Man Among the Seals. Nel 1982 Mark Strand sceglie The
Incognito Lounge (raccolta di Johnson edita da Random House) come miglior libro
per i “National Poetry Series”. A differenza di altri romanzieri americani – da
Hemingway a Faulkner a una quantità di altri – per cui la poesia è un gioco
secondario, un modo per sgranchire la scrittura, Denis Johnson
è sostanzialmente un poeta – e il poeta, giudizio mio, è a tratti più grande del
romanziere. L’ultima sostanziosa raccolta, The Throne of the Third Heaven of the
Nations Millennium General Assembly, è del 1995; pur continuando a tosare il
giardino lirico, Johnson ha trasferito la propria natura poetica nel romanzo. È
trasmigrato dalla poesia al romanzo. Dai suoi libri hanno tratto dei film. È
morto nel 2017, Johnson, per un cancro al fegato. Si è sposato tre volte. A suo
tempo, gli cucii il ‘coccodrillo’; attaccava così:
> “Prendi Joseph Conrad, drogalo a dovere, e fagli fare un giro a Las Vegas. Il
> risultato ti darà Denis Johnson, il Lord Jim della letteratura contemporanea,
> duce nel sottosuolo del romanzo americano. Nato incidentalmente in Germania,
> nel 1949, incidentalmente è stato un alunno di Raymond Carver. Faccia da
> colosso hollywoodiano, un po’ Michael Madsen un po’ Jeff Bridges, Denis,
> speleologo delle ambiguità, comincia – e continua – come poeta… ha fatto
> letteratura interrogando le tenebre”.
Alcuni suoi pionieristici reportage – pubblicati su “Esquire”, “Salon”, “Paris
Review” – come The Militia in Me, prefigurano con micidiale lungimiranza gli
Stati Uniti di oggi (in Italia, li ha raccolti & pubblicati, nel 2004, Alet
come Cronache anarchiche, ennesimo libro fuori orbita da tempo). Raymond Carver,
poeta ben più modesto di lui, era un fan della poesia di Denis Johnson, “La sua
materia lirica, dolorosamente efficace, non è altro che un’analisi nelle zone
oscure della condotta umana”.
In università, ogni anno, leggo un racconto di Denis Johnson.
S’intitola Incidente durante l’autostop, è il racconto che apre Jesus’ Son. Il
protagonista è un tossico. A un certo punto, il tossico è in ospedale, reduce –
senza un graffio – dell’incidente che dà il titolo al racconto. Una donna,
“magnifica, ardente”, varca la soglia dell’ospedale. Il marito è morto. Lei non
lo sa ancora.
> “Il medico l’ha portata in una stanza con una scrivania in fondo al corridoio,
> e da sotto la porta chiusa si è sprigionata una lastra di fulgore, come se,
> grazie a qualche stupefacente processo, lì dentro stessero incenerendo dei
> diamanti. Che polmoni! Strillava come avrebbe potuto strillare un’aquila. Che
> meraviglia essere vivo per poterla sentire! Da allora non ho più smesso di
> cercare quella sensazione”.
All’immagine abbagliante – incenerire i diamanti – si lega la contorsione morale
di un infermo nell’anima che sugge i capezzoli del dolore altrui, li strappa a
morsi. L’aula, di solito, a lettura terminata, si trasforma in una ghiacciaia.
La grandezza cuce le labbra – l’abnorme umano ci fa lo scalpo.
Ogni volta che leggo le poesie di Denis Johnson mi ricordo una poesia di Simone
Cattaneo, quel frantume di versi che detta un codice, una sorta di regola di
vita:
> “ho scavato la mia carne
> come fosse una vela
> e ho gettato sabbia sopra il pianto
> ho creduto nella pena del silenzio,
> nella domanda liscia della fame”.
Mi pare che le poesie di Denis Johnson, extracanoniche, apocrife alle mode
imperanti, siano tra le più belle della poesia americana di oggi. Mi ricordano i
film di David Lynch, gli esseri piumati che appaiono nei sogni dei nativi e che
impaniano le visioni dei deliranti. Gli animali aurorali – il corvo, ad esempio,
bestia-guida nella poesia di Ted Hughes – hanno perso i poteri ctoni, la mente è
un reclusorio, al poeta non basta più costruire una propria mitologia da
comodino, un proprio alcolico aldilà. I segni sono sconnessi e questo
disequilibrio da cancelli dissigillati e soffitte senza sottana è il regno di
parole cannibale, di frasi mercenarie.
In fondo, Denis Johnson è l’ultimo degli sciamani – fa la sua solitaria danza e
le stelle si approssimano alla finestra con musi da cerbiatto.
**
Corvo
Balugina il corvo sul morto ramo
sotto cui siamo passati, forse, tempo fa.
Il nostro pastore era un demone e un falsario:
ha cosparso sul nostro matrimonio una ghirlanda
di pioggia, quella stessa fredda pioggia adolescente
nelle cui raffiche si avvolgono i sempreverdi
tra memoria e memorabile.
Oh, certo, nessuno ha assistito a quel triste spettacolo
durato notte e giorno – il suo treno fu un treno di anni.
Da quel momento, secondo
i miei calcoli, ho vissuto tre vite,
una nella magia, l’altra nel potere, infine
nella pace – e ancora
la piccola ferita pari a un pozzo
nel truce buio e chi
dovrebbe respirare vede sogni
diventa pallido, contagiato da una musica.
Ma il corvo non è Dio e il vento
non è Dio e niente è Dio
e questo non ci fa desistere
dalle trasgressioni commesse per ignoranza.
*
Poesia che mette in discussione l’esistenza del mar
nello stesso, esatto modo
in cui gli animali sono gettati
sulla sabbia, terrorizzati
dopo tanti eoni, all’improvviso
dall’oscurità del mare
un elevato numero
di bambini si tuffa ogni giorno nel grande
spasmo evolutivo dell’utero
di pallide, disarticolate donne. è ampio
e vuoto il luogo dove sono
ora, anni dopo, e flottano
drasticamente ai fianchi
contro il flipper. fuori
il gemito detective di quell’
impossibile bimbo che ribalta le strade
mentre manovra l’odiosa macchina
come una grande nave
tra le onde della vita. un po’
confuso, come sempre, osservo
le costruzioni crescere sotto il cielo
sapendo che presto dovrò
diventare lui, eludere
i miei figli e schiaffeggiare le onde
nella sapiente ebbrezza. tremo
come un vecchio indiano, elemosino
un po’ di pioggia su questo deserto.
*
In una stanza d’affitto
questo è un buon sogno, anche se svanisce
non è meno reale, anche se i miei piedi si
sbricioleranno sul pavimento in agguato. la gola
è arsa e mi sveglio in una stanza vuota quanto
la mia presenza: assenza di aspirine. lì
l’asfittica sorpresa del sole, l’alba. là
macchine e strade che si snodano secondo
il solito criterio. la stanza non vuole vomitarmi. deve
aprire il cuore, comunicare con le altre subacquee
stanze in cui ho massacrato il mio corpo nel nimbo
delle lenzuola e sbando verso le vie per placare l’arsura.
che cosa impari, stanza? che cosa hai detto, perché le macchie
gli occhiali accusatori puntati verso il mio
ritorno? c’era una ragazza un tempo. vorrebbe
sapere da dove viene la colpa che ronza
sul letto e crolla come una mano indifferente
che mi annienta. vorrebbe aiutarmi mentre l’universo
mi ha mentito ancora, lo sberleffo è andato troppo oltre
l’arsura, rampicante, profonda, resta dopo bottiglie
e bottiglie e sono a un dito dalla morte e devo
conficcare il mio corpo in migliaia di vuote
oscurità prima di assurgere al sonno, prima di sognare.
*
Elogio della distanza
è difficile restare poeta
quando l’inverno ti scivola
dal palmo della mano: questi
sono guai. la macchina scompare
inabile al dolore, nel parcheggio. si
accartoccia su un ginocchio come
un elefante, stupefatta
dai proiettili famelici dell’inverno.
il cimitero vacilla
lontano. la macchina non starà
ancora a lungo tra me e i debiti
che mi attendono davanti a casa. non me
ne andrò più a sfinire le miglia come
se la distanza fosse la sola sicurezza
come se si potesse sbattere
una portiera in faccia alla pena.
mia moglie dice: trovati un
lavoro. ma una volta avevo un cane
i cui organi vitali divennero
un caos sotto il vello, e ne morì;
non lascerò il regno animale
finché non diventerà un albero.
tenderò le narici
verso la solitaria giaculatoria
del suo collare che crollava sugli edifici:
qualche segno mi informerà del suo
ritorno. le mie mani non
sono quelle di un indovino; l’inverno
le gonfia di difficoltà. se si è perso
lo troveranno gli agricoltori che sperano
nella primavera, scorgeranno la sua voce
tra gli oceanici campi di mais,
mentre cerca un posto dove
riposare. intanto, lo attendo
alla finestra:
ho il sospetto che il senso delle cose
resterà irrisolvibile.
Traduzione di Federico Scardanelli
*Si pubblica per gentile concessione l’articolo che apre l’ultimo numero di
“Poesia” (Crocetti Editore, n. 33, settembre-ottobre, 2025), in memoria di
Simone Cattaneo
L'articolo Interrogando le tenebre. Denis Johnson, il poeta proviene da Pangea.
Festeggiamo i cento anni dalla prima edizione (Gobetti, 1925) di Ossi di seppia,
un libro che qualcuno giudica il più bello tra quanti ne apparvero in Italia nel
Novecento o che comunque, per tutti, rimane fra gli indispensabili a definire la
fisionomia, non solo stilistica, di un’epoca. Nell’attesa di questa simbolica
ricorrenza ho ripensato a quando (era l’inizio del decennio 1960), al di là di
ogni confessabile desiderio, mi vidi assegnare come argomento della tesi di
laurea la poesia di Eugenio Montale (sembra che fosse, nei nostri atenei, la
prima volta). Come gran parte dei miei compagni di università, ritenevo Montale
indiscutibilmente il maggiore tra i contemporanei. Ai suoi versi mi ero
accostato durante la seconda liceo, leggendo (nell’edizione grigia di Einaudi
dei primi anni ’40) gli Ossi e Le Occasioni, trovati in casa fra i libri di mio
padre, che poi mi regalò per il mio diciassettesimo compleanno La bufera e
altro (Neri Pozza, 1956), a completamento del trittico che promuoveva fra i
nostri “immortali” il poeta del “male di vivere”.
Mi sono domandato se quell’impressione di compiutezza e pienezza che ci dava il
libro del ’25 (quasi l’opposto del “sillabato” ungarettiano) e che, per dirla in
sintesi, corrispondeva a un’aggiornata nozione di “classicità”, si sia trasmessa
anche ai lettori delle generazioni successive. Avendo più volte, nell’arco di un
quarantennio, preso Montale a oggetto dei miei corsi monografici, posso
testimoniare che nessun’opera di poesia novecentesca ha mai ricevuto
dall’uditorio un “consenso”, talora prossimo all’entusiasmo, paragonabile a
quello suscitato dagli Ossi di seppia.
A noi fortunati studenti del 1960 non era toccato il mortale castigo della
guerra inflitto ai nostri padri, il carico di uno zaino in cui mettere fra le
cose necessarie anche un libro di poesia: che, a quanto si tramanda, per alcuni
dei richiamati alle armi nel 1940 era stato Le occasioni, fresco allora di
stampa. In tempo di pace, noi ci sentivamo meglio “interpretati” da Ossi di
seppia, caparbia corsa a ostacoli del poeta davanti a un mondo che lo attrae ma
che a ogni passo intralcia e frustra le sue speranze, che sono speranze di
essere accolto e “giustificato” in quel meraviglioso e arcano congegno. Le
parole e i ritmi di quel libro, estraneo alla cronaca e indifferente alla
storia, li sentivamo efficaci a specchiare un disagio biologico, esistenziale,
peraltro compatibile con l’insoddisfatta adolescenza che ci eravamo da poco
lasciati alle spalle. Sobria e armoniosa nella rappresentazione di quel
passaggio fra due età della vita, l’“opera prima” montaliana Montale ci
traghettava al di là delle cupe ostinazioni e delle “oltranze” di alcuni
protagonisti dell’eroica stagione vociana: Campana, Rebora, Sbarbaro, Jahier…,
memorizzati in Lirica del Novecento, l’antologia di Anceschi e Antonielli. Ossi
di seppia era un compatto documento nel quale non si captava il minimo impulso a
una violazione dei canoni formali vigenti. Un libro per nulla protestatario o
eversivo, che s’inseriva senza clamori nel composito solco della “tradizione”,
rivelando senza sotterfugi le tracce e gli echi di testi altrui, in ispecie
dannunziani. Ce ne sono, in Ossi di seppia, che col D’Annunzio quasi gareggiano
in bravura nelle abbaglianti scenografie marine (d’altronde le acque liguri di
Montale si mescolano a quelle del Tirreno di Alcyone) e addirittura sfidano
l’artefice della Pioggia nel pineto nell’esercizio delle rime fitte
ravvicinate.
Nel 1917, su un quaderno (pubblicato postumo da Laura Barile come Quaderno
genovese) Montale annotava le proprie letture e gli appuntamenti culturali a cui
si recava, corredando il tutto di chiose rapide e acute. Variegati gli interessi
di quel ventenne, che di settimana in settimana aspettava rassegnato la
convocazione al distretto militare. Contigui alla letteratura, su un orizzonte
europeo, vi primeggiano la pittura e il teatro; e molti sono i rinvii
all’universo musicale, riferimento e sostegno, anche in séguito, all’ispirazione
di Eugenio (che frattanto studiava da baritono). Prova di una curiosa
propensione analogico-mimetica saranno gli Accordi, un gruppetto di liriche
(poi, tranne un paio, escluse dal libro del ’25) intitolate ciascuna a uno
strumento (Violini, Contrabbasso, Oboe…) e, nella finzione montaliana,
rappresentative dei «sensi» e di «fantasmi» di una imprecisata «adolescente».
Ma dunque, se Ossi di seppia si rivela tanto in regola con la “tradizione”, che
cosa contiene di così coinvolgente e suggestivo da risultare un libro poco meno
che “sacro” per tante generazioni di lettori? Nell’estate del ’25, a Giovanni
Comisso, giudice benevolo degli Ossi, Montale confidava:
> “Non so [quel] che valgono; ma sono un libro fisiologicamente mio (scritto coi
> nervi) e per questo mi ci ritrovo.”
L’inconsueto avverbio sottolineato, fisiologicamente, unito
all’esplicativo scritto coi nervi, ha prodotto sulla pagina una catena febbrile
e sbalorditiva di frasi e formule che, una per una e nell’insieme, costruiscono
un testo di straordinaria autorevolezza. I rimandi autobiografici e aneddotici
diventano funzionali alle idee che il libro espone icasticamente e che ne
costituiscono il telaio, la coraggiosa impalcatura. Ossi di seppia è insomma il
libro dove le idee si fanno musica e canto ostinato, ininterrotto.
Libro, nel nostro caso, è un vocabolo che non accetta sinonimi, perché quello
del 1925 è davvero il libro più libro di quanti Montale ne abbia pubblicati. E
fa tenerezza il ripensare che forse quel suo canto spiegato, quella sua
intemerata pienezza obiettivamente un po’ compensavano e “consolavano” le
quotidiane angosce di un giovane gratificato, sì, dall’esordio in poesia ma
insicuro sul come e dove garantirsi un decoroso impiego nell’Italia di quello
sciagurato dopoguerra su cui stava per piombare una dittatura.
In Ossi di seppia abbondano frasi e formule passate in proverbio, spesso isolate
dalla critica quasi fossero gemme da citare con un riguardo speciale, che però
fa torto alla ricchezza di sentenze e figure diffusa invece lungo l’intero
libro. Dai “poeti laureati” de I limoni, alla “razza/ di chi rimane a terra”
di Falsetto; dallo “scordato strumento/ cuore” di Corno inglese, al “male di
vivere” di uno dei brevi ossi anepigrafi; dal “ciò che non siamo, ciò
che non vogliamo”, clausola di un altro elemento della stessa serie, al “delirio
(…) d’immobilità” di Arsenio, che (con altri capolavori come Incontro) entrerà
nel libro a partire dalla seconda edizione (Torino, Ribet 1928) preannunciandovi
il clima delle Occasioni (Torino, Einaudi 1939), dove spiccheranno battute non
meno incisive: dall’“e io non so chi va e chi resta” de La casa dei doganieri,
al “Ma è tardi, sempre più tardi” di Dora Markus…
Davvero non si contano le frasi memorabili, segni di una energia icastica e di
una affabulazione che risponde sempre a un’intima urgenza comunicativa, quale
che ne sia la materia. Penso ad asserti del tipo “Ci muoviamo in un pulviscolo/
madreperlaceo…”, o “La più vera ragione è di chi tace…”, dove nessuno oserà
lamentare astrazione concettuale e carenza di “immagini”. Quel che potrebbe
sorprendere è il reiterato sollevarsi del lessico a una pronuncia solenne;
cosicché – raffronto gradito a Montale – mentre le alzate di tono di un Gozzano
sorgono su un piano scientemente “comico”, gli Ossi non si negano agli slanci
enfatici, agli esclamativi non foderati di quella ironia ch’era invece nelle
signorili abitudini di Guido (impareggiabile citazionista, meritevole di
occupare un seggio nel ‘pantheon’ italiano). Montale non si nasconde e non
esita, né sottovaluta la forza dei temi che lo appassionano e imperiosamente lo
trascinano a farne materia di poesia.
Un po’ ci emoziona il verificare con che insicurezza e modestia procedesse la
fabbrica degli Ossi ; Montale ne scriveva ai corrispondenti più fidati (Solmi,
Bazlen, Debenedetti…), non tacendo loro i proprii dubbi, chiedendo lumi e
consigli d’ogni sorta, addirittura sollecitandoli a intervenire sul testo per
apportarvi eventuali migliorie. L’edizione 1925 era zeppa di dediche, dopo
quella complessiva a un poeta ligure coetaneo, Adriano Grande. Si delinea una
costellazione di sodali, che comprende poeti, da Camillo Sbarbaro a Sergio Solmi
e ad Angelo Barile, scultori come Francesco Messina e Attilio Perducca,
scrittori e critici da Emilio Cecchi a Carlo Linati e a Giacomo Debenedetti,
autori di teatro come Cesare Ludovici, e un consulente geniale, Bobi B.[azlen].
Si aggiunga la dedica di Falsetto a colei che l’ha ispirata, la nuotatrice
Esterina (Rossi).
Nella trama del libro risaltano le simmetrie: su tutte, quella tra la lirica
d’apertura (In limine) e Casa sul mare, dove, in vista dell’epilogo, si
ripropone il tema nobile dell’io che, condannato a rimanere “di qua dall’erto
muro”, si sacrifica per la salvezza di un’altra creatura, persona o fantasma
femminile (la prima di una élite di ispiratrici che la poesia montaliana con
amorosa dedizione accrediterà di virtù anche prodigiose) augurando e, in votis,
additando, una “via di fuga”, un varco per l’oltre. È proprio Casa sul mare la
vera conclusione del libro, sebbene l’ultimo componimento impaginato sia
quel Riviere che poi l’autore, celiando feroce con sé medesimo, avrebbe bollato
come una “trombonata giovanile” messa lì a sigillo ottimistico e retorico, in
ossequio alla convenzione del “lieto fine”.
Dopo il componimento proemiale, I limoni e Corno inglese dicono già qualcosa del
vano tormentarsi dello “sguardo” e della “mente” alla ricerca di una chiave che
sappia cogliere un’eccezione, uno “sbaglio” nella misteriosa macchina del
creato. E se fa da lieve intermezzo il dittico dedicato a Camillo Sbarbaro,
“storico/ di cupidigie e i brividi” ma al contempo “estroso fanciullo”, più
impegnativa suona l’impresa dei Sarcofaghi, dove l’arte della parola si misura
con un’altra arte, la scultura. A vincere nel confronto sono le opere di
Messina, classicista, in quanto forme di un mondo che, diversamente da quello
degli uomini, non soggiace alla “vicenda di buio e di luce”.
E siamo ormai al cuore del libro, alla sezione che gli dà il titolo: ventidue
testi generalmente brevi, un trionfo della figurazione e della vocazione
ragionativa che del figurato si nutre e gli si accompagna, in una serrata
connessione al poemetto che segue, Mediterraneo. In nove tempi esso svolge il
mito di una perduta simbiosi fra il perenne e il transeunte, fra l’eterno
respiro del mare e l’inutile affanno dell’uomo, sgomento per aver scordato
l’“ordine” trasmessogli, in un’epoca anteriore alla storia, da quel mare che è
un “padre” legislatore e “antico”. A lui infine il poeta umilmente si arrenderà
senza esser riuscito a rapirgli, come aveva sognato di fare, la “voce”
inebriante (Giacomo Noventa scherzò, nel suo dialetto, su una simile pretesa,
tipica a parer suo di un “poeta ermetico”; ma in Ossi di seppia di “ermetico”
non c’era niente!).
Nel libro prevalgono i paesaggi legati all’adolescenza e alla giovinezza di
Montale, che trascorreva le estati a Monterosso, una delle Cinque Terre, nella
casa di famiglia. Scenarî suggestivi che però non sono tanto spettacoli da
ammirare quanto figure di un “sistema”, di un “cosmo” irto di ostacoli all’umana
decifrazione. Arduo quindi, se non illecito, il porsi di fronte al paesaggio in
un’attitudine meramente estetica, malgrado il fascino en plein air della
serie Meriggi (dal 1928 accresciuta e riarticolata in Meriggi e ombre, dove però
fra le “ombre” ci sarà Arsenio, acre proiezione autobiografica del poeta). Con
i Meriggi il libro comincia la sua parabola calante, che pure include pezzi di
grande effetto, come Fine dell’infanzia e il trittico de L’agave su lo scoglio.
È inevitabile, per qualsiasi lettore, estrarre da Ossi di seppia la costante
etico-ambientale dell’arsura: vocabolo percezione concetto accertabile
specialmente nella sezione eponima e in Mediterraneo. Ecco il “polveroso prato”,
il “rovente muro d’orto”, la “caldura”, il “terreno bruciato dal salino”, la
“foglia riarsa”… con rimodulazioni in Mediterraneo: gli “aridi greppi”, il
“paese dove il sole cuoce”… Frequente è il ricorso del poeta alla tecnica del
“correlativo oggettivo”, cioè a ravvisare in obiectis quel “male di vivere” a
cui come alternativa non si concede il “bene” ma solamente si mostrano gli
aspetti della “divina Indifferenza”.
Eppure Ossi di seppia non si limita ad essere l’elegia di un (giovane) poeta
che, accortosi di non poter capire il mondo, canta solo il proprio smarrimento,
la pena di chi ha rinunciato (ma perché? e quando?) alla simbiosi con la Natura,
al favoloso status di cui godette “nell’età d’oro florida, sulle sponde
felici”. Ma, come deprecavo arbitrario il selezionare e isolare alcuni frammenti
che all’interno del librosarebbero più esemplari di altri, così mi piace
segnalare, anche nella serie eponima (per la quale il poeta aveva dapprima
scelto un titolo di gusto vociano: Rottami), l’esistenza di varianti alla
gravità assolata e assetata che più la caratterizza. Ci sono il “sorriso”
dell’amico russo K., l’“aria di vetro” di un mattino di città, le “notti chiare”
di Valmorbia in una pausa della guerra, la stanza luminosa dove l’amica si siede
al piano, la grazia dell’upupa “ilare uccello calunniato/ dai poeti”…, e
soprattutto c’è il valore positivo della “ignoranza”, “fuoco che non si smorza”,
a suggerire che la dinamica del libro è più varia, meno schematica di quel che
non si creda.
Col medesimo intento indicherei a esempi virtuosi enunciati come quello,
celeberrimo, che dice:
> “Tendono alla chiarità le cose oscure,
> si esauriscono i corpi in un fluire
> di tinte: queste in musiche. Svanire
> è dunque la ventura delle venture.”
Risuonano come verità inconfutabili, proclamate da chi tali passaggi di “stato”,
da cose e corpi a colori, a musiche, le abbia non già apprese su trattati
scientifici ma sperimentate sopra di sé. Il poeta ce le comunica come una sua
esperienza indefettibile, su cui torna anche altrove, col sussidio di echi
danteschi:
> “Ed ora sono spariti i circoli d’ansia
> che discorrevano il lago del cuore
> e quel friggere vasto della materia
> che discolora e muore”.
>
> (Tramontana)
Questo egli ci comunica, approdato alla fase “venturosa”, quella del corpo che,
fattosi colore, si sublima poi in musica. In nessun libro meglio che in Ossi di
seppia la materia sensibile “frigge”, “si scolora” e la sua morte è uno
“svanire” per rigenerarsi essenza (vocabolo montaliano anch’esso).
Un momento privilegiato e, si suppone, transitorio al pari di altri, ma non
senza facoltà di replicarsi. Se “non vedremo sorgere per via/ la libertà, il
miracolo,/ il fatto che non era necessario!” (Crisalide), non pertanto il libro
rinuncia a nominarli: eventi impossibili, autenticati però nella trama e nei
ritmi di una poesia come quella di Ossi di seppia, che non dispera mai di sé,
delle proprie risorse.
Silvio Ramat
**
Da Ossi di seppia
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a sé stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
*
Gloria del disteso mezzogiorno
quand’ombra non rendono gli alberi,
e più e più si mostrano d’attorno
per troppa luce, le parvenze, falbe.
Il sole, in alto, – e un secco greto.
Il mio giorno non è dunque passato:
l’ora più bella è di là dal muretto
che rinchiude in un occaso scialbato.
L’arsura, in giro; un martin pescatore
volteggia s’una reliquia di vita.
La buona pioggia è di là dallo squallore,
ma in attendere è gioia più compita.
*
Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s’incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t’ama.
Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
è dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case.
*
Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore da ubriaco.
Poi, come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi, case, colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
*
La farandola dei fanciulli sul greto
era la vita che scoppia dall’arsura.
Cresceva tra rare canne e uno sterpeto
il cespo umano nell’aria pura.
Il passante sentiva come un supplizio
il suo distacco dalle antiche radici.
Nell’età d’oro florida sulle sponde felici
anche un nome, una veste, erano un vizio.
Eugenio Montale
*Si pubblica per gentile concessione l’articolo che apre l’ultimo numero di
“Poesia” (N. 32, Luglio-Agosto 2025), la storica rivista di Crocetti
L'articolo “Il lago del cuore”. Per il centenario di un capolavoro proviene da
Pangea.
Debellati gli aggettivi con la corazza, quelli che piacciono alla critica – a
ciò che ne rimane, a ciò che razzola tra la cenere –: finalmente, la scoperta di
un poeta primigenio, senza lignaggio. Un poeta senza paladini né palafreni né
padrini in parata.
Un poeta, cioè, che comporta l’abbandono delle norme ortografiche, delle
grammatiche cattedratiche, di ogni forma di subdola tattica; alieno
all’abbondanza dei retori del quieto vivere e del quieto amare. Non dovrebbe
fare così un poeta: interrare il vocabolario, pio stendardo, e sfoderare l’ascia
del verbo? “Insegnaci a pregare”, implorano gli inebetiti discepoli al maestro:
Gesù sbriciola per loro le scarne parole del Pater – mai un dio è stato così
prossimo, così grano e spada, e noi fummo il suo pasto, il suo desco, il suo
desinare e il suo destino a morire di sete.
Insegnaci a parlare, dovremmo chiedere ai poeti.
Ricorda: si prega nei luoghi desolati, dove vagano, in tormento, gli spiriti
impuri, dove appaiono in Appalachia di zampe gli angeli. Non altrove si deve
scrivere.
Così, questo libro di Blu Temperini va letto insieme ai trattati di falconeria,
ai bestiari medioevali, alle carte celesti dove gli astri, con strenua pazienza,
indossano il volto del leone e del cavallo, dell’eroe e della vergine.
Questo libro – un esordio mai così antichissimo – è requie e cinghia, nuovo
culto al di là dai cultori dell’odierno lirismo. Potremmo chiamarlo – come si
diceva una volta, senza essere iniziati ad alcunché che all’obbedienza –
“ufficio delle tenebre”.
Non c’è linea di continuità, intendo, tra questo poeta – d’indecente precocia,
di sfiancata facondia – e la quadrupede tradizione dei poeti recenti, altra è la
sua biada, altitudine diaccia, propria di chi frequenta i ghiacciai, le
inimmaginabili alture.
Hanno gli artigli, il becco e le cangianti penne queste poesie.
A esasperare lo spaesamento, una lista di avi e di archivi costruiti a casaccio,
in casa, da autodidatta, piccoli idoli di legno: Sergio Solmi e Guido Ceronetti,
Giovanni Boine ed Egle Marini, Maria Maddalena de’ Pazzi, Tommaso Landolfi,
Maria Banuș, che tanto piacque ad Andrea Zanzotto. La formula, cioè, di
addobbarsi estranei al proprio tempo, di ancheggiare in un altrove di trine,
come se l’Eden, in fondo, non fosse altro che un decalogo di candele.
Nella più piena spoliazione – tolti dalla bocca gli ultimi nutrimenti, la
particola poetica che ci rende soddisfatti del ‘buon lavoro’ – Blu Temperini
reca l’estremismo di Alejandra Pizarnik, la premura oracolare di una visionaria
dell’anno mille. Poesia, cioè, come frammento mesolitico e contrafforte in
selce; turba del toro primordiale da cui estrarre il corallino per aggiornare a
luce le latebre grotte.
Lingua che ci precede, da assumere tenendo l’orecchio confitto al tronco e alla
nubile nube. Parola impareggiabile, allora, nel senso che neppure il poeta –
scriba senza arte di concia – sa dire da dove quel dire provenga, da quale piaga
o plaga.
Da qui, l’ostinato cicaleccio dei morti, l’orma bivalve del verbo penitente, i
celesti fatti paglia. Tutto un sistema divinatorio per costringere le stelle,
ancora, a brucare nella brocca delle nostre mani, a bruciarci. Il resoconto di
questa ecchimosi: poesia.
Che a Torino – città d’elezione di Blu – sia custodita la Sindone e si celi, tra
cunicoli a forma di serpe e di capra, il Graal (o la sua ombra, è lo stesso), è
sintomatico di una scrittura che non si coagula nell’iride né nella mente, che
restituisce il sangue degli andati in statura di rosa, in sutura.
Si sarebbe tentati di sussurrare la parola sacro; semplicemente, come accade
nella poesia autentica, rarissima, si tratta del cuore Lancillotto, del cuore
cavalleggero, senza cavilli, di cui, a fine lettura, non resta che la brace, un
bronzeo da primo giorno del mondo, il santo pudore.
**
La violenza è maestosa, nel suo presente
anche il domani, prima del tempo;
e la brama si ostina laddove
non può essere disimparata,
nel filamento partecipe e
non partecipe dell’attenzione.
Il futuro è nell’oltrepassare
le cose vedute alla fine.
*
Miracolo
Da falce e creta è nutrito il tuo
corpo in questo abbraccio e
vedi solo il prestito del cuore
compiere un arco nel risveglio.
Una colomba trasvola nella stanza:
migrano da parete a parete
– vuote – le coordinate del miracolo.
*
Non più vincitori vorrebbe il cielo
Sul nome d’oggi termini la fabula,
l’opera che nell’amichevole cuore
nasconde il rifiuto ad ogni benevolenza,
tragitto di ambedue – vincitori
e vinti – per gli annali di innocenza.
Ma solo i vincitori trapassano sulla
più violenta sponda che si inclina;
di ogni vittima innamorati sono
i primi a sommare il fuoco con la frode.
Giustizia stessa si reca su uno solo
e con gli altri vagabonda.
*
Ogni ultima cosa la chiamo notizia
ed è sadico dover dire sì alla vita
che miete le sue vittime, dire sì
all’agnello distrutto nel coro,
all’insetto fratello della perdita,
ma più sadico è festeggiarne l’indolenza,
più sadico è restare attesi nell’ordinario sangue.
Tra le voci perdenti dell’effimero
nell’effimero lume del mondo
il torto è fatto, ogni ultima
cosa la chiamai vantandomi
e fui punita, puniti i miei anni.
– Umiliati! –
*
Non ho altra volontà
– dicono gli innocenti –
che ardere su due paragoni:
prima schiavi, poi trasparenza
dovunque riletta, trafugata
da ospiti tutti attesi, tutti danneggiati.
In uno scrigno di irriconoscibili
difetti d’amore è possibile trovarli,
fedeli alla doppiezza del gesto;
e se il mondo non potrà morire
sarà un innocente a vivere.
*
I tonni o della fame di forme
Non esiste l’uscita materna,
tutto è contorta fluttuazione;
nessuna immagine e nessun
disegno, tutto è somigliante
nel branco e non ha difetto.
Poi l’artificio pesante dell’azzurro
accomuna la fame di forme.
*
La serpe o della degradazione
Forse prima celebrava messe
col capo sollevato ed era attrezzo
di individuo contrariato dallo spirito,
sola tolleranza che esibiva il sangue.
Ora intransigente si inchina
a questa sospensione e si
arricchisce dell’ombra sua
come di ogni oggetto spezzato.
*
Gli uccelli o dell’esilio
Gli uccelli abitano alte impressioni
e nel tornare alla fonte si contorcono:
la terra brucia per quelli che volano.
Sotterrano con l’unica lastra
di sguardi ogni rivalsa:
nel cielo una radice sfigurata,
la prova di un altro mondo che ripugna.
*
Da Elemento (Uno studio)
(VII)
Nella caccia segnali di rupe,
le terre già improntate:
lusinghe, bestiame.
Il cacciatore, la ricerca
e l’estinzione gettata in questi obblighi:
operazione, opere di rinuncia.
Le carni fedeli al carnefice,
i sensi alla vittima:
un prodigio i doppi umori.
*
(XIV)
Dove è passata la terra
fu niente l’immagine, il suono;
fu il lavorio delle cose interminabili,
dei mattini impietositi.
Da nulla è lasciato intendere
quale sole, quale tempo inganna
e sulle tavole non le scritture, i gesti.
Blu Temperini
*I testi, pubblicati per gentile concessione, sono tratti da: Blu Temperini,
“Nel principio infondato”, Crocetti, 2025
**In copertina: Frida Kahlo, “Il cervo ferito”, 1946
L'articolo “Ufficio delle tenebre”. Intorno a un libro di Blu Temperini proviene
da Pangea.
Costretto al letto dell’ospedale della “Conception” di Marsiglia, Arthur Rimbaud
scrive al direttore delle “Messaggeries maritimes”: vuole essere destinato
ad Aphinar, benché “completamente paralizzato”. Morirà il giorno dopo, il 10 di
novembre del 1891; aveva compiuto 37 anni il mese prima. Aphinar è un luogo che
non esiste, è parte, forse, di una geografia ctonia, è un lembo di aldilà. La
grafia di quella lettera è storpia, incomprensibile il dire, di uomo che
balbetta idolatrie d’idiota, stordito dal dolore; eppure, che stupenda bravata,
che colpo di fionda: Rimbaud muore sulla cresta dell’ultima
invenzione. Aphinar è la parola-chiavistello, la parola-faina che bracca la
morte, che sconcerta l’eterno. (E noi, lì, al suo capezzale, vorremmo scortare
il poeta che ha dimenticato di essere poeta, il poeta estremista, all’ultimo
imbarco, sulla carrozzina, paralizzato, e sussurrargli nenie, ninnoli di verbo,
e asciugargli la fronte, e pettinargli i capelli, e imboccarlo).
Come si sa, Rimbaud vive gli ultimi dieci anni della sua vita in Africa, per lo
più ad Harar, in Etiopia. Si dà al commercio di caffè e di utensili vari, tenta
– con formule fallimentari – di vendere armi a Menelik, negus dello Scioa, invia
alla “Société de géographie de Paris” un Rapport sur l’Ogadine di schietta
nitidezza, scevro da lirismi. In sostanza, si annoia. Prima dell’Africa, era
stato a Londra e a Vienna, a Bruxelles e a Milano, a Giava – con la casacca
della Legione Straniera olandese – e ad Alessandria d’Egitto. A Cipro pare abbia
incidentalmente ucciso un operaio, lavorava in una cava di pietre. Scarse le
fotografie che lo ritraggono, spesso consumate dal tempo: il volto indemoniato
dal pallore, di febbrile ingenuità; a tratti, il cranio, rasato a zero.
Nell’ottobre del 1873, come vuole la leggenda, Rimbaud festeggia i suoi
diciannove anni dimenticando, a Bruxelles, nei magazzini dell’“Alliance
typographique M-J. Poot et compagnie”, le copie fresche di stampa di Une Saison
en enfer. Quasi vent’anni dopo, rassicura “Sua Eccellenza” il Ras Maconnèn:
presto “tornerò all’Harar, per esercitarvi il commercio, come prima”. Il più
grande poeta della modernità, il poeta perpetuamente contemporaneo,
infinitamente fanciullo, ha abiurato la poesia – è possibile?
Un po’ tutti hanno preso per la giacca Rimbaud: Paul Verlaine ne ha fatto il
proprio personale “angelo in esilio”; la sorella Isabelle lo ha tradotto in un
santo; secondo l’esploratore novarese Ugo Ferrandi, “era un arabista e un
poliglotta dottissimo, spiegava e commentava il Corano agli indigeni” (in: Carlo
Zaghi, Rimbaud in Africa, Guida editori, 1993). A dire dell’aitante avventuriero
francese Jules Borelli – che lo aveva scortato in un viaggio tra Ancober, Entoto
e Harar, in luoghi fino ad allora mai toccati da piede europeo – il “mercante
Rimbaud… conosce l’arabo, parla l’amarico e l’oromoo. È instancabile.
L’attitudine ad apprendere le lingue, la grande forza di volontà, l’inesausta
pazienza lo rendono uno tra i viaggiatori più esperti” (ora, insieme al
resoconto di quel viaggio, in: Scioa. L’Africa di Arthur Rimbaud, Magog, 2024).
La biografia di Rimbaud è stata anatomizzata al millimetro, forse per carpire il
segreto della sua poesia, sfuggente, per sempre nuova, inadatta al canone. I
viaggi di Rimbaud sono diventati romanzi – ne cito due: Rimbaud a Giava di Jamie
James, Melville, 2016, e Rimbaud e la vedova (sulla breve tappa milanese), di
Edgardo Franzosini, Skira, 2020 –, gli studi biografici (critici, psichici,
ipnotici) sono diventati un genere letterario a sé stante. Nel 2008, per
l’editore Marietti, Adriano Marchetti ha assemblato una fiera lista di
“Interpreti francesi di Rimbaud” in un libro di stravagante bellezza, Rapsodia
selvaggia. Tra i cinquantacinque, autorevolissimi “interpreti” – da Mallarmé ad
Aragon, da Simone Weil a Tzvetan Todorov e Yves Bonnefoy – ne preferisco due. Il
primo è René Char, che in una specie di epistola lirica inneggia al malandrino
Arthur:
> “Hai fatto bene a partire, Arhtur Rimbaud!… Hai avuto ragione ad abbandonare
> il viale degli oziosi, le osterie dei pisciaversi, per l’inferno delle bestie,
> per il commercio dei furbi e il buongiorno dei semplici”.
L’altro – più che altro, per l’austerità dello stile, per la cinerea postura – è
Julien Gracq, il quale ammira in Rimbaud “l’uomo che mantiene sempre
meravigliosamente le distanze”. Secondo Gracq, il carattere imperituro della
poesia di Rimbaud – garanzia di esistenza anche quando la lingua francese perirà
– è il suo essere “abbastanza inumana”.
È vero. La poesia di Rimbaud è pura metallurgia della fuga. Rimbaud non
chiede lettori – non chiede nulla in effetti. Rimbaud lascia tracce. I suoi
versi sono una mappa, una cartografia del non ritorno. Inseguire Rimbaud,
tuttavia, è il contrario della sequela: ciò che ci è donato non è il centuplo su
questa terra e il regno nella prossima. No. Rimbaud è il primo e il solo.
Rimbaud uccide i suoi discepoli. Rimbaud consegna agli affini il sacrario della
parola Aphinar; ci obbliga all’ennui, ai morbi di un’inquietudine che ghiaccia
le ossa, alla tigre in pieno petto. Non c’è alcun guadagno, alcun conforto dalla
lettura di Rimbaud, ma l’esilio nell’enigma, il punto – magnetico, è vero – in
cui tutte le certezze si sfasciano, in cui la poesia diventa rogo, suono, inno,
come ai tempi delle pitture magdaleniane, quando la stella mangiava alle nostre
mani, con il muso da sauro, e il poeta si trasformava in falco e volpe, pietra e
prato, biscia e vento.
Fernand Léger, Ritratto di Arthur Rimbaud, 1949
Mai si è scritto tanto di un poeta così violentemente reticente. Ardengo Soffici
andò in estro per quel ragazzo “che non ebbe paura di scendere giù per tutti i
gironi dell’inferno psicologico moderno per pescarvi il segreto di una bellezza
inusitata e folgorante” (così nel saggio su Arthur Rimbaud pubblicato nel 1911
nei “Quaderni della Voce”). Eppure, non seppe riconoscere in Dino Campana un
poeta altrettanto folgorante. Per decenni, Renato Minore si è insinuato nella
vita di Rimbaud, il “poeta dalle suole di vento” (il suo Rimbaud è uscito per
Mondadori nel 1991 e in edizione ampliata per Bompiani, nel 2019); l’esito della
ricerca è quasi ovvio: far rilucere l’enigma in sé, la nuda ecchimosi del
fuggiasco, la vita “esibita e impenetrabile a un tempo”. Quando l’ho
interpellato mi ha messo in guardia dal mito di Rimbaud, perché “Un mito è anche
una trappola infinita di volti, di voci, di specchi e lui stesso ha fatto di
tutto per essere duplicato, conteso, frainteso. Non meno carichi di risonanza, e
di ambigua luminosità, gli oggetti, le incalzanti reliquie che il Poeta
Maledetto ha lasciato: prima fra tutti la valigia dei viaggi in Abissinia, la
stampella che accompagnò i suoi ultimi passi, la firma sulle piramidi, le
lettere. E poi i disegni, le fotografie chiedendo all’immagine non il segreto
che versi e documenti trattengono, ma la ricchezza ammiccante e fissa
dell’icona, non solo il presagio di un destino, ma la conferma di un mistero
bloccato dal lampo di magnesio e lì rimasto intatto. La leggenda di Rimbaud
accomuna le generazioni e, in tutto il mondo, ogni giorno ci sono giovani che
scoprono le sue poesie e desiderano possederne una copia”.
Benjamin Fondane, il prodigioso pensatore amico di Emil Cioran, su Rimbaud, si
può dire, con ribalderia da bandito, ha fondato una filosofia (il suo Rimbaud le
voyou è attualmente edito in Italia da Castelvecchi); Victor Segalen ha scritto
forse il più commosso ed elusivo ritratto del poeta – Le Double Rimbaud, edito
nel 1906 su “Mercure de France” –, intimandoci di “Non cercare di capire”.
Forse Rimbaud ha esaudito le sue poesie nel vagabondaggio, diventando egli
stesso un “battello ebbro”. Forse, più prosaicamente, il ventenne roso dal dio
della giovinezza, il prediletto dal fato, ha preferito la vita allo scranno, il
veliero alla scrivania, l’Africa al marciume parigino. La poesia è stata una
parentesi, una ragazzata (una ragazzetta): il “ladro del fuoco” è diventato
fuoco, incede nell’incendio.
È proprio dei poeti pionieri – i rarissimi: Rimbaud, Friedrich Hölderlin,
William Blake, Emily Dickinson – abitare l’irriconoscenza, non riconoscere la
propria opera, obliarla, tra i nastri, nelle fauci di un baule, nella pazzia,
nella fuga.
Le poesie sono il lascito sinistro di Rimbaud: non possono stazionare su un
comodino, non si accomodano in una biblioteca. Queste poesie scalpitano, hanno
la criniera, recano vigoria di formula magica. Queste poesie agiscono, agitano.
Altro che Je est un autre: qui l’Altro ci fissa con occhi intimidatori. A volte
ha il volto di un Minotauro, altre della cincia, a volte è una betulla altre
volte un lupo.
Queste poesie fanno paura – la paura ci donerà un cuore barbaro, pronto di nuovo
a osare.
Davide Brullo
Pablo Picasso, Arthur Rimbaud, 1960
*
Vite
A dodici anni fui rinchiuso in una soffitta dove ho imparato il mondo, ho
illustrato la commedia umana. In una cella ho appreso la storia. In una qualche
festa notturna in una qualche città del Nord, ho incontrato tutte le donne dei
pittori antichi. In un vecchio vicolo di Parigi mi hanno insegnato le scienze
classiche. In una magnifica dimora cerchiata dall’intero Oriente ho compiuto la
mia immensa opera e ho passato il mio illustre ritiro. Ho sbrecciato il mio
sangue. Il dovere mi è rimesso. Non devo pensare più. Vengo davvero
dall’oltretomba, senza commissioni.
*
Sfridi
Plotoni di muri d’ombra: bastonano cani scheletrici,
*
Da dietro tartassava grottesche oscenità
Una rosa s’involava nel ventre del portiere
*
Bruna, aveva sedici anni quando la maritarono
……………………………………………………………….
E ora ama d’amore ardente il figlio di diciassette.
*
E il poeta ubriaco inguainava di insulti l’Universo.
*
Piove con dolcezza sulla città.
*
Quando la carovana dell’Iran si arrestò alla fontana di Ctesifonte, crebbe la
disperazione nel trovarla inerte. Alcuni accusarono i magi, altri gli imam. I
cammellieri si unirono alle imprecazioni… Si erano messi sulla via ormai da
molte lune… carichi d’incenso, di mirra e oro. Il loro capo gridò… soppesò di
sopprimerli… Certi accettarono.
*
All’assalto, o mia vita assente!
Arthur Rimbaud
*Per gentile concessione si pubblica la pagina introduttiva e una manciata di
testi, in traduzione inedita, da “Le più belle poesie di Arthur Rimbaud”,
Crocetti, 2025
In copertina: Arthur Rimbaud secondo Alberto Giacometti, 1962
L'articolo “E il poeta ubriaco inguainava di insulti l’Universo”. In fuga con
Rimbaud proviene da Pangea.
Si incontrarono nell’estate del 1900, a Worspswede, la comune di artisti fondata
in Bassa Sassonia. Rilke era reduce dal viaggio in Russia: aveva conosciuto
Tolstoj e fatto visita a Leonid Pasternak; il figlio, Boris, che aveva dieci
anni, resterà folgorato dalle sue poesie, tempo dopo, “per l’insistenza di ciò
che vi era detto, la sicurezza, il tono deciso, che andava dritto allo
scopo”. Paula Becker aveva ventitré anni, la bellezza di un usignolo: figlia di
un ingegnere di Dresda, aveva studiato, compiacendo i genitori, per diventare
istitutrice; voleva fare l’artista.
I due si piacquero, entrambi fatui al mondo, ma Rilke preferì la migliore amica
di Paula, Clara Westhoff, scultrice dal maschio fascino: si sposarono nel 1901.
Cinque anni dopo, Paula realizza il più noto ritratto di Rilke: il pittore pare
indemoniato, “barba da faraone, baffi da unno… sguardo esorbitante”. Aveva da
poco mollato Rodin, di cui era segretario, per un bisticcio. Paula si era
trasferita a Parigi per vivere vertiginosamente d’arte: pochi soldi, talento
selvatico e un marito pittore, Otto Modersohn, lasciato in Germania. Dipingeva
tantissimo, con un genio che ricorda Cézanne e Gauguin; i suoi nudi,
soprattutto, di una carnalità poetica e brutale, sono tra i più belli mai
tracciati da mano di pittrice. Trent’anni dopo, l’era nazista dichiarerà
“degenerata” l’opera di Paula, che dell’uomo ha mostrato la meraviglia e la
sfiancata malinconia. Morirà troppo giovane, nel novembre del 1907, Paula, dopo
aver partorito la prima figlia, Mathilde. A Brema le è dedicato un museo. Per
lei, Rilke scrisse Requiem per un’amica: “Vieni qui al lume della candela. Non
ho paura/ di contemplare i morti”, scrive il poeta, abissale, come sempre –
riuscì a non citare il nome dell’“amica”. Una raccolta di lettere – pubblicate
da Insel, in Germania – dice della loro conturbante amicizia.
A Paula Becker, artista straordinaria, del tutto postuma, Marie Darrieussecq,
l’autrice di Troismi, ha dedicato un romanzo biografico di cristallina
potenza, Essere qui è uno splendore (Crocetti Editore, 2025), tra Plutarco e
Marguerite Duras; uscito in origine per P.O.L., in Francia, nel 2016, piacque,
tra gli altri, al Premio Nobel J.M. Coetzee. Insinuandosi tra gli spiragli di
un’esistenza in picchiata, l’autrice scrive, in fondo, un elogio della vita
votata all’arte, della vita nuda, della nudità, della sacralità della carne e
del suo scandalo nell’epoca dei corpi digitalizzati e delle intelligenze
artificiali. Resta il dilemma del titolo – splendido –, catafalco da bibliomani:
è tratto dal “verso 38 della Quinta elegia di Rilke”, mi dice l’autrice.
Introvabile nell’edizione italiana. In questa sfasatura – o lapsus – sta il
lampeggiare dell’angelo, sono i fantasmi al banchetto.
Fin nel titolo, il libro su Paula Becker è sotto l’orbita di Rilke, il quale,
con lento candore, sembra un po’ ‘cannibalizzare’ la pittrice. Che idea si è
fatta di Rilke?
Paula e Rainer erano intimi, ottimi amici, probabilmente innamorati, durante
quella meravigliosa estate del 1900 in cui si incontrarono. Rilke non è stato un
buon amico. Né un buon marito, tanto meno un buon padre: ha deciso di sposare la
migliore amica di Paula, Clara Westhoff, ha avuto da lei una figlia, per poi
scappare da entrambe. Il poeta resta immenso, l’uomo non mi piace. Rilke ha
descritto magnificamente Paula nel suo magnifico Requiem… senza nominarla. I
nomi delle donne… anche questa è una bella storia, che racconta parte del mio
libro.
Paula Becker, Rainer Maria Rilke, 1906
Tre aggettivi che riassumano la vita di Paula Becker.
Libera, energica, interrotta.
Che cos’è la ‘libertà’ per Paula; che cos’è la ‘libertà’ per Marie, una
scrittrice che vive nel 2025?
Per Paula libertà significa sottrarsi al lavoro salariato (il padre voleva che
diventasse governante o istitutrice) per poter dipingere. L’unica soluzione
concessa all’epoca: sposare un uomo che la mantenesse… restando maritata. Per me
libertà è avere la straordinaria possibilità di vivere della mia scrittura – e
di amare, liberamente.
Una curiosità bibliografica. Da quale passo delle Elegie duinesi ha tratto il
titolo del libro?
Versetto 38 della Quinta elegia nella vecchia, bellissima traduzione di
Joseph-François Angelloz.
Quali sono stati i ‘lari’, gli scrittori-totem che l’hanno accompagnata nella
scrittura di questo libro, per forgiare questa lingua, al contempo intima, ma
mai ‘confessionale’, precisa fino al diamante?
Georges Perec, Marguerite Duras, Natalia Ginzburg.
Qual è l’aspetto a suo dire più folgorante della biografia di Paula? Quale
quello che ha scelto di tenere in ombra?
Forse la cosa più sorprendente la sorprendiamo nella sua ultima parola: ombra,
oscurità. Morire così giovane, con un tale portento d’opera…
Quello che ho lasciato nell’ombra: non ho voluto infilarmi nel letto di Paula.
Alcuni biografi hanno indicato delle amanti: non c’è nulla di certo. Non ho
voluto inventare ciò che i diari e le lettere non dicono. Se Paula ha voluto
nascondere alcune cose con cura, ho rispettato il suo segreto. Nessuno può dire
perché non sia riuscita ad avere figli nei primi sei anni di matrimonio, se
questa sia stata una scelta intenzionale o meno. Il rapporto di Paula con la
maternità è ambiguo, affascinante.
Marie Darrieussecq; photo Charles Freger
Esiste a suo avviso una diversità ‘genetica’ tra opere d’arte femminili e
maschili; esiste cioè, più che il talento singolare, un genio ‘di genere’?
Nulla di ‘genetico’, no, benché giochi con questo termine. Tuttavia,
sociologicamente e culturalmente le donne sono state “seconde” per secoli.
Questo ha creato una cultura femminile specifica: del ritiro, del nascondimento
e dell’emarginazione, e una certa centralità – domestica. Lo sguardo di Paula
sulle bambine è unico al mondo e pionieristico per la sua epoca: la serietà che
conferisce loro, la gravità, lontana da tutti i cliché di purezza o innocenza
imposti da uno sguardo patriarcale.
Quando Rilke fa visita a Paula, in atelier, scrive: “Ci siamo guardati, con un
brivido di stupore, come due esseri che si trovano all’improvviso davanti a una
porta dietro la quale c’è Dio”. I quadri di Paula emanano una sacralità frugale,
che sa di paglia, di campo appena tagliato. Le domando: qual è il suo rapporto
con il ‘sacro’, con l’invisibile?
Con il sacro: nessuno, credo. Con lo spirituale e l’invisibile: molto forte.
L’invisibile è ciò che mi obbliga alla scrittura. Non ho bisogno di
sacralizzarlo.
La ‘carne’ è uno dei temi del libro, perfino nel quadro-totem di Paula Becker:
un figlio appeso al seno della madre, nuda. La carne e l’eros. Eppure, siamo
nell’epoca disincarnata, disincantata rispetto al corpo, oleografico,
palestrato, liofilizzato. Siamo nell’era di PornHub e di Tinder, del ‘toccare’
come gesto sacrilego – o pervaso da perversioni…
Tutti i miei libri dicono del toccare, da Troismi a quest’ultimo – e non ho
ancora finito…
Diciamo che Paula è vissuta prima dell’Intelligenza Artificiale: possiamo
sentire il tocco del suo pennello sulla tela. Grazie a questo gesto, scorgiamo
le sue tracce. È presente, è qui, come indica il titolo che ho scelto, ed è uno
splendore. Amava essere viva, amava vivere il presente. Da giovane donna, per le
strade di Parigi, città che adorava, si sentiva ‘nuda’ sotto lo sguardo
insistente degli uomini, allora, con un certo candore, mostrava la fede nuziale,
come fosse una sorta di talismano. È stata la prima donna a dipingersi nuda, e
non credo lo sapesse: un gesto rivoluzionario dopo secoli in cui le donne erano
state dipinte nude dagli uomini. Ma i modelli costavano troppo. Il dipinto di
cui parla raffigura una donna italiana in posa con il suo bambino. All’epoca,
gli immigrati in Francia erano italiani e le donne, spesso molto povere,
accettavano di posare nude per pochi spiccioli.
Con autentico azzardo, lei è entrata in una vita altrui. Una vita vera, reale.
Oggi si dice di libri scritti dall’Intelligenza Artificiale; oggi i ragazzi
consultano l’Intelligenza Artificiale per consigli sentimentali e ‘morali’, si
fanno scrivere le lettere dal bot. Riuscirà la letteratura a non soccombere
all’IA?
Spesso pongo delle domande a Chatgpt (beh, non troppo spesso, visto che ogni
volta consumiamo piscine d’acqua). La sua sistematica cortesia mi fa venire i
brividi. Quando le domando di raccontarmi qualcosa di divertente o di poetico,
non riesce. Per ora. Nella macchina non c’è alcun soggetto e lo si capisce. Il
suo “io” è un’imitazione ancora un po’ patetica.
Paula Becker, Autoritratto per il sesto anniversario di matrimonio, 1906
Come può un’opera d’arte, un libro su un’artista vissuta un secolo fa diventare
un gesto ‘politico’?
Non sapevo di scrivere di una donna “invisibile”; il tema non esisteva quando ho
iniziato la mia ricerca su Paula M. Becker. Evidentemente, facevo parte di un
movimento politico senza saperlo, portando alla conoscenza del pubblico un’opera
obliata per troppe pessime ragioni: di genere, certo, ma anche di antigermanismo
in seguito alle due guerre. Ma Paula è la pittrice meno “nazionalista”
possibile: non ha mai fantasticato di una Germania territoriale, a differenza di
molti suoi colleghi artisti della colonia di Worspwede, dove ha vissuto prima di
fuggire a Parigi. La sua è in effetti una visione “politica”: dipinge una
Germania universale, quella delle ragazze che sapevano che il mondo non
apparteneva a loro e quella delle madri fiacche, non le Madonne che allattano il
sacro bimbo, ma delle donne che hanno avuto troppe gravidanze, che allattano in
posizioni mai viste prima in pittura, ma assai più comode di quelle della
Vergine Maria!
*In copertina: Paula Becker (1876-1907)
L'articolo Storia di Paula Becker, l’artista “interrotta” amata da Rilke.
Dialogo con Marie Darrieussecq proviene da Pangea.
Nel 1952, per la Harvill Press, Roy Campbell, l’esagitato poeta di Durban,
Sudafrica, pubblica Poems of Baudelaire, la propria versione di Les Fleurs du
Mal. Il poeta – ascendenze scozzesi, studi distratti a Oxford, abile nella
caccia, “bellissimo, enorme, ingenuo, docile, selvaggio”, l’avrebbe detto, anni
dopo, Evelyn Waugh – compiva cinquantuno anni; sarebbe morto poco dopo,
nell’aprile del 1957, di schianto, in un incidente d’auto, nei pressi di
Setúbal, Portogallo, dove si era trasferito da tempo con la famiglia. Le sue
spoglie riposano a Sintra, nel cimitero di São Pedro, di fronte
all’oceanico: oceanica, in effetti, e senza ancoraggi, è l’opera di questo poeta
che fonde la facondia visionaria di Blake agli oratori irti di piume, lance e
danze degli Zulu, di cui si sentiva confratello.
Nella breve introduzione al ‘suo’ Baudelaire, Roy Campbell – con il solito tasso
di alcolica sbruffonaggine – si tesse l’agiografia:
> “Dopo l’intrepido successo delle mie versioni di Giovanni della Croce, ho
> deciso di tradurre un peccatore senza scrupoli, non meno credente, tuttavia,
> anche nei momenti di ribellione assoluta e di assoluta blasfemia, di quel
> Santo. Leggo Baudelaire da quando ho quindici anni, è stato nella mia bisaccia
> durante due guerre, l’ho amato più di qualsiasi altro poeta. Ho tradotto
> Giovanni della Croce perché mi ha salvato miracolosamente la vita, a Toledo.
> Traduco Baudelaire perché ha vissuto la mia stessa vita: i peccati, i rimorsi,
> gli ostracismi, la povertà, la stessa disperata speranza di una
> riconciliazione…”.
Secondo George Steiner, Roy Campbell, insieme a Ezra Pound, è il più folgorante
poeta-traduttore in lingua inglese del Novecento. Insieme a Ezra Pound, è anche
il poeta più ostracizzato, malmenato, minato di fraintesi. Thomas S. Eliot – il
più arguto lettore di Baudelaire di quella generazione – amava, con rispettoso
turbamento, Roy Campbell: nel 1930 gli aveva pubblicato, per la Faber &
Faber, Adamastor; nel 1946 fu la volta di Talking Bronco.
La prima delle due guerre menzionate da Campbell nell’intro al Baudelaire è la
guerra civile spagnola. Cattolico fervente, avventuriero imperiale, Roy Campbell
è l’unico tra gli intellettuali anglofoni a parteggiare per Franco: cerca di
arruolasti tra i Carlisti; di fatto, non prenderà parte attiva al conflitto. Nel
luglio del 1936, a Toledo, aveva assistito al massacro: le truppe comuniste
predano e uccidono diciassette monaci del Carmelo dov’era ospite il poeta, con
la moglie. Campbell riuscì a salvarsi, salvando dalla razzia alcuni codici di
Giovanni della Croce lì conservati. I Poems of St John of the Cross vengono
tradotti e pubblicati da Campbell nel 1951; piacquero molto a Jorge Luis Borges,
che cominciò ad apprezzare “quel grande poeta scozzese, incidentalmente
sudafricano”.
Durante la Seconda guerra, il ‘fascista’ Roy Campbell – ben più antifascista di
molti, tiepidi intellettuali ‘di sinistra’ – fu arruolato nell’Intelligence
Corps; poi inviato a Nairobi, incluso tra i King’s African Rifles. Un incidente
in moto lo mise fuori ruolo: passò l’ultima parte della guerra sulla costa
kenyota, in operazioni atte a smontare l’azione dei sommergibili nemici. A
Londra, durante il “Blitz”, conobbe Dylan Thomas: diventarono fraterni compagni
di colossali bevute. Ogni tanto, si univa agli ‘Inklings’: a Tolkien – che era
nato in Sudafrica come lui – stava simpatico quel poeta sopra le righe, dal
talento smodato, che da ragazzo sfotteva gli snob del Bloomsbury e ora faceva a
cazzotti contro tutti; C.S. Lewis, simpaticamente, malsopportava l’ego del
“poeta e soldato”. Nel 1949, durante un incontro pubblico, Campbell si scaglierà
contro Stephen Spender, che rappresentava, ai suoi occhi, il côté tipico degli
intellettuali della sinistra anglofona: pallidi, pavidi reggenti della poesia
contemporanea, assertori di un patetico nepotismo. Gli spaccò il naso. Spender –
comunque, un cavaliere – si rifiutò di denunciarlo: “è un grande poeta e i
grandi poeti devono essere capiti”. È vero: Flowering Rifle, “a poem from the
battlefield of Spain”, uscito nel 1939, grandguignolesco poema sulla guerra
civile spagnola, è ascrivibile, più che altro, a un documento letterario
‘dell’altra parte’ – letterariamente, è goffo, tonitruante, malrassettato. Più
che altro, garantì a Roy Campbell un pervicace ostracismo. Quanto a lui –
gioviale, ingenuo, sempre in cerca di battaglie – percorreva la provocazione.
Strenuo oppositore del sistema fratricida dell’apartheid, nel ’53 ricevette una
laura in onore dalla University of Natal. Denunciò il “suprematismo bianco” del
primo ministro sudafricano, D.F. Malan; nello stesso tempo, diede dello “zombie
ridacchiante” a Franklin Delano Roosevelt, reo di aver mollato a Stalin l’Europa
orientale. Churchill gli pareva un pachiderma.
Intrattabile, inarginabile Campbell: nel 1924 aveva esordito, per Jonathan Cape,
con The Flaming Terrapin, imponente poemetto dal genio ‘aggressivo’, fuori
classifica rispetto ai libri dell’epoca, al contempo, inno sciamanico, iliade
africana, leviatano lirico. In Italia, cominciamo a colmare la lacuna soltanto
ora: l’ultimo numero della rivista “Poesia” (n.31, maggio/giugno 2025, Crocetti
Editore) dedica la copertina a Roy Campbell, “Il poeta guerriero”, pubblicando
una porzione di The Flaming Terrapin tradotta da Andrea Temporelli (il poema
sarà edito, prossimamente, dalle edizioni Magog).
Nel 1952 – a testimonianza della mente multiforme del poeta – Campbell pubblica
un poderoso omaggio a Federico García Lorca, An Appreciation, With Selected
Translations of His Poetry. Campbell idolatrava il poeta repubblicano, vilmente
fucilato e oltraggiato dai nazionalisti nel ’36. Alcuni dicono che le sue
versioni di García Lorca siano tra le più belle uscite nel mondo inglese. Sul
“New York Times”, il 21 dicembre del ’52, Dudley Fitts firmò una partecipe
recensione:
> “Pare che Roy Campbell sia nato per scrivere questo piccolo, esplosivo
> libello. Egli stesso possiede quelle qualità ‘romantiche’ che rintraccia in
> Federico García Lorca – avventatezza e galanteria, un maquillage andaluso di
> cruda vita e misticismo, il genio della poesia, soprattutto –: difficilmente
> potremmo immaginare coincidenza più felice tra un autore e il suo soggetto”.
Già: l’erculeo Roy Campbell, autore di una lirica tra le più vertiginose e
inavvicinabili del secolo, possedeva un’energumena generosità. Lo hanno dipinto
come un Ciclope – per la cecità politica, per la cieca ira –, era un uomo buono,
un cavaliere medioevale. Sognava di essere un Centauro: lo fu – all’incirca.
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Da Charles Baudelaire
Corrispondenze
La natura è un tempio, ogni pilastro
getta, a tratti, vaghi sussurri. L’Uomo avanza
nella foresta dei simboli, strani e solenni,
che lo mirano con sguardi familiari.
Dilaga l’eco, si mescola e trasfonde
finché nel profondo oscuro unisono si confonde
vasto come la notte, come la cupola del mezzogiorno –
così si embricano profumi, suoni, colori.
Profumi freschi come il vello dei bimbi
come i violini, dolci come i verdi tumidi prati.
Ricchi, complessi, trionfanti, altri rotolano
insieme alla vasta gamma delle infinite non rifinite
cose: ambra, muschio, incenso, resine, ciascuno
canta il trasporto dei sensi e dell’anima.
*
Il nemico
Fu tempesta oscura, selvaggia, il mio giovane
giaculìo: vi sfrecciava un sole abbagliante.
Tuono e pioggia hanno devastato tutto
il mio giardino è avaro di rosati frutti.
Ora è l’autunno della mente
e vanga e rastrello raspano la terra
per salvare frantumi dei miei campi
allagati, dove l’acqua insudicia una tomba.
Chissà se i fiori prefigurati dai miei sogni
troveranno, su questa dilavata terra, per una malizia
almeno, il nutrimento mistico che li farà germogliare.
Il tempo divora la nostra vita, è brutale!
L’oscuro nemico rode le radici del cuore
e cresce sempre più forte sulla nostra chioma.
*
Sopra il ritratto di Tasso in prigione di Delacroix
Il poeta è malato e mezzo nudo:
calpesta un manoscritto nell’oscura cella
e fissa con terrore la scala dove
il suo spirito, infine, crollerà.
Risate inebrianti sbracano quell’aia
lo invitano allo Strano e all’Assurdo.
Intorno a lui, sguainate le orribili figure
del Dubbio e del Terrore, le multiformi.
Questo genio recluso in sotterranei pestilenziali
queste grida, il ghignare di spettri che si contorcono
che si accalcano intorno a lui, beffardi,
questo sognatore destato dalle urla del proprio incubo
è il tuo emblema, Anima sorta dalla nebbia.
Attorno a te la Realtà erige il suo muro e la sua museruola.
*
Da Federico García Lorca
Vasto fantasma d’argento, il vento di mezzanotte
spira e spalanca la mia ferita antica
con la sua grigia mano: se ne andò
e svenni, preda di un triste desiderio.
Questa ferita mi darà la vita: da essa
germoglierà la luce, il sangue che senza
tema sgorga – uno spiraglio dove l’usignolo,
muto, troverà un bosco, un nido e un addio.
Oh, che dolce litania fa tintinnare la mente!
Sul fiore più modesto deporrò il mio dolore
dove fluttua, senz’anima, l’orgoglio della tua beltà.
Allora, il fiume mercenario si tingerà
di rosso, mentre il mio sangue scende
lungo le fragranti selve, nell’aura della rugiada.
*
Adamo
Presso l’albero del sangue, il mattino stilla
rugiada e il neonato urla.
La sua voce mette un vetro nella ferita
e cosparge le finestre con diagrammi di ossa.
Il giorno ha raggiunto a luce costante
i limiti della favola: evadi
dal tumulto del sangue e vola
verso la mela, verso la sua fioca ombra.
Adamo, con quella febbre d’argilla,
sogna che il bimbo galoppa verso di lui –
raddoppia il puledro sangue nelle sue guance.
Ma un altro oscuro Adamo sogna: anela
una luna di pietra, neutra, dove nulla germoglia
dove il figlio della gloria sarà bruciato.
*In copertina: Augustus John, The Poet: Roy Campbell, ca. 1925, Carnegie Museums
of Art, Pittsburgh
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