Ancora Emily Dickinson? Questo ho pensato – devo ammettere – quando mi sono
ritrovata davanti un altro libro della più famosa poetessa statunitense. “Più
famosa” oggi, si intende. Negli ultimi anni abbiamo infatti assistito a una
proliferazione di testi su o della “reclusa di Amherst” che in vita pubblicò
pochissimo, e non fu quasi mai compresa – basti pensare che la prima edizione
critica delle sue 1.775 poesie, a cura di Thomas H. Johnson, risale al 1955,
sessantanove anni dopo la sua morte.
Tutti pazzi per Emily, dunque: nuove traduzioni, nuove biografie, romanzi che la
vedono protagonista, diversi film, fino ad arrivare a una (terribile) serie
televisiva. Brucia un grande fuoco attorno alla sua figura. In tale contesto,
c’è chi potrebbe domandarsi, con malinconia, se tutta questa attenzione avrebbe
fatto piacere alla scrittrice solitaria, che si “auto-isolava” dal mondo
esterno. Qualcun altro, invece, con ferina curiosità, si chiede perché proprio
Dickinson sembra essere stata eretta a diventare il santino della poesia
femminile – se non addirittura femminista.
Sono domande a cui non so rispondere – non è compito mio –, ma posso dire che
questo libro (Emily Dickinson, Cinquantacinque poesie, Crocetti Editore,
2025) mette in risalto alcune caratteristiche della poetessa che sono passate in
secondo piano rispetto ad altre più decantate dalla critica. Prima di tutto, è
interessante il progetto che si cela dietro al libro: i componimenti sono stati
scelti da Jorie Graham, una delle voci poetiche più importanti e significative
dei nostri giorni. Nata a New York nel 1951, è cresciuta in Italia, a Roma.
Vincitrice del Premio Pulitzer per la poesia nel 1996, dal ’99 insegna scrittura
creativa all’Università di Harvard – ricoprendo il ruolo che fu del poeta
irlandese (e Premio Nobel) Seamus Heaney. Con i suoi versi traccia una lotta
contro la decadenza del mondo, il caos e lo smarrimento. Si è confrontata con le
poesie di Dickinson. Quelle qui raccolte rappresentano un campionario esemplare
dei motivi più rilevanti e degli aspetti stilistici principali della sua
produzione.
La cura del volume è affidata a Maria Borio, come la traduzione – affrontata
insieme a Jacob Blakesley. L’obiettivo principale: quello di “presentare una
versione quanto più autentica della scrittura poetica di Dickinson e del suo
carattere di autrice […]. Lo stile e la lingua di questa poesia testimoniano,
infatti, che D. si confrontava acutamente con le questioni intellettuali e
sociali più rilevanti della sua epoca, anzi che era all‘avanguardia, anticipando
fenomeni artistici e di pensiero del Novecento”.
Maria Borio è poeta e saggista. Dottore di ricerca in letteratura italiana
contemporanea, cura la sezione poesia di «Nuovi Argomenti». La sua ultima
silloge, Trasparenza (collana “Lyra giovani” a cura di Franco Buffoni,
Interlinea 2019) è stata tradotta negli USA. Ha scritto le monografie Satura. Da
Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La
poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).
Ha gli occhi profondi e la voce gentile. Alla presentazione del libro di
Crocetti, a Milano – in dialogo con Benedetta Centovalli e Tommaso Di Dio –, ha
affascinato gli uditori parlando della “luce oscura” di Emily, della percezione
fisica nelle sue poesie, della rivoluzione che ha creato a partire dal suo
limite. Mi sono avvicinata, mi ha permesso di porle qualche domanda.
Cinquantacinque poesie, scritte da Emily Dickinson, selezionate da Jorie Graham,
tradotte da Maria Borio e Jacob Blakesley. Credi che la poetessa statunitense
contemporanea abbia fatto da “mediatore”, attraverso la sua sensibilità, nella
selezione dei testi che più rappresentano Emily? Ritieni che la cooperazione tra
diversi attori (e tra più poeti) abbia arricchito queste traduzioni, offrendo
nuove prospettive rispetto alle versioni precedenti?
Jorie Graham ha offerto un campione di poesie che restituisce una fisionomia
autentica della poetica di Emily Dickinson, a lungo miscompresa. Non si tratta
di una poetessa vagamente misticheggiante, vergine sacrificale confinata
nella Homestead, ma di una scrittrice e intellettuale al passo con il proprio
tempo, fine osservatrice delle questioni politiche, filosofiche, teologiche e
letterarie del Rinascimento Americano, cioè quel giro di decenni in cui emergono
le voci di Emerson con Self-Reliance e Thoreau con Walden, fino a Leaves of
grass di Whitman. Lo sguardo di Emily si innerva anche di scienza, dalla
botanica alla geologia; non dimentichiamo che condivideva le teorie di Darwin e
leggeva l’«Atlantic Monthly». La sua poesia realizza una rivoluzione percettiva,
esistenziale ed ontologica. La cooperazione che è alla base della raccolta cerca
di restituire il carattere acuto e polivalente di questa rivoluzione.
Tu stessa hai sottolineato la grande attenzione che si è posta nella resa del
ritmo e nel rispetto della punteggiatura di Emily. Com’è stato adattarsi al suo
“andamento meditativo anticonvenzionale”, e all’impossibilità di riportare
sempre la rima?
La metrica degli originali reinterpreta soprattutto la tradizione dei versetti
cantati nella liturgia protestante, estranea alla poesia italiana. Ma perdere le
corrispondenze della rima non comporta la rinuncia a quelle delle assonanze e
delle consonanze e delle allitterazioni: non impedisce, cioè, di ricomporre una
specie di tessuto ritmico sinottico parallelo a quello delle versioni inglesi.
La punteggiatura, soprattutto i trattini, è il punto d’unione tra l’inglese di
Dickinson e l’italiano, grazie a cui è stato ricucito il ritmo sincopato nelle
traduzioni. Questa poesia si snoda come un discorso della coscienza, in anticipo
rispetto allo stream of consciousness del Novecento, con avanzamenti e
indietreggiamenti, in presa diretta, nel suo farsi. È il ritmo, prima che ogni
altro aspetto stilistico, che rende questi testi come fotografie di una mente in
movimento, nel suo tempo storico contingente, eppure percepita vicina,
contemporanea, anche da chi legge oggi. Il ritmo dà a questa poesia una
tangibile universalità.
Quali sono, secondo te, gli aspetti linguistici di Dickinson più difficili da
rendere in italiano?
Le espressioni ironiche. Due esempi: l’uso di “Gentlemen”, quando Emily si
rivolge a un ipotetico consesso di filosofi e scienziati che cercano di
stabilire che cosa sia la fede, e che è stato tradotto con “Lor Signori”
in “Faith” is a fine invention…; oppure, in I’m Nobody! Who are you?…,
l’espressione “the livelong June”, tradotto “tutto il santo Giugno”, che
descrive il tempo stagionale dell’assordante gracidare delle rane.
Qual è la forza di Emily Dickinson, la sua modernità? Ciò che le permette di
essere nel tempo, di resistere, anche quando i suoi versi non vengono compresi –
addirittura rovinati, storpiati?
Il ritmo, come dicevo prima, di una mente inquieta e totalmente vera – per
questo è Brain, reale e pulsante, e non l’astratta Mind –, che non scrive
soltanto per esprimere se stessa, ma per cercare di capire il mondo. La poesia
come forma di intelligenza.
L’ironia che accompagna la lirica di Emily Dickinson potrebbe essere intesa come
elemento di innovazione rispetto alla tradizione poetica a lei contemporanea?
C’è un componimento in particolare dove questi due elementi sono inseparabili, a
tuo parere?
L’ironia di Dickinson non è un espediente comico o una semplice tecnica di
straniamento. Si tratta di un modo per inclinare e affinare la visione:
un’angolatura diversa, che ci raggiunge all’improvviso, un’inversione di marcia
rispetto all’abitudine e all’ipocrisia, un’intensificazione dell’intelligenza
che cerca il fondo autentico dell’esperienza umana. Tell all the Truth, but tell
it slant…, cioè “Dì tutta la Verità, ma dilla obliqua”: non esiste un’unità di
senso, logica o scientifica, che fornisce soluzioni o regola le nostre vite in
schemi e leggi; la verità è fatta di possibilità e di domande, e spesso sta
proprio in quest’ultime, non nelle risposte. L’ironia serve a Dickinson per
interrogare.
“Sgretolarsi non è l’Atto di un istante/ […] Scivolare – è la legge del Signor
Crollo –”. Commenteresti questi versi?
Uno dei temi su cui Dickinson ritorna in modo ossessivo è la morte, il
decadimento della materia, lo sgretolarsi del qui e ora. Il pungolo
dell’esistenza che si scompone è controbilanciato da quello per l’eternità. Se
la condizione delle creature mortali è transeunte, qual è quella opposta?
L’eternità è plausibile, o è solo un’illusione che consola, come le promesse
della fede possono essere un palliativo alle ingiustizie reali? Banalmente,
Emily aveva una consuetudine quotidiana con la morte: la sua casa era vicina a
un camposanto, come in moltissime cittadine americane dell’epoca, e i lutti si
verificavano non di rado! Il tendere inevitabile della vita verso la morte, con
l’ipoteca dell’eternità che attende al varco, la attira e la snerva: abituata a
interrogare qualsiasi fenomeno, lo sgretolamento fisiologico e processuale (“non
è l’Atto di un istante”) del corpo coincide, per lei, con la terribile
dissoluzione della capacità di pensare, di avere una coscienza, che spera invece
possa perpetuarsi. Il nostro decadimento è irreversibile, perciò è una “legge”,
ma Dickinson sa affrontarlo con ironia e, infatti, “Crashe’s law” è stato
tradotto con “legge del Signor Crollo”. Anche il tremendo decadimento è posto al
vaglio di un’interrogazione.
Possiamo dire che la poesia, per Emily Dickinson, è lo strumento che occorre per
interrogare i rapporti tra le cose – e se stessa. Da poeta, tu condividi questa
visione?
Sì. La poesia è una forma di pensiero che, interrogando, esprime una creazione e
decreazione continua di rapporti.
Ti sei occupata, tra i tuoi studi, di Eugenio Montale. Nell’Introduzione al
volume di Crocetti scrivi che “se Montale avesse dato meno peso alla religione
nell’opera di Dickinson, forse si sarebbe accorto che alcuni aspetti della
propria poetica lo accomunavano a quest’autrice”. Dove hai individuato
maggiormente questi aspetti?
Montale aveva una visione del mondo atea ed esistenzialista. Ma la sua poesia è
anche una poesia di pensiero, come quella di Valéry. Spesso ha un tono
filosofico. Non chiederci la parola…, negli Ossi di seppia, termina in questo
modo: “questo solo possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”,
cioè condensa in una chiusa quasi epigrammatica una dichiarazione sull’esistenza
umana, una dichiarazione che è metafisica, asserisce una verità. La prospettiva
metafisica non è, però, astratta, incorporea, ma radicata nelle dinamiche
complesse della coscienza. Per il legame viscerale e sensuoso tra coscienza e
metafisica, Montale è vicino a Dickinson.
Credo che tradurre un poeta comporti il fatto di passarci insieme molto tempo.
“Abitare” il suo linguaggio – verbo a Emily tanto caro. Posso chiederti quali
sensazioni o emozioni sono sorte in te durante, o dopo, questa esperienza? Emily
Dickinson ha in qualche misura influenzato anche il tuo modo di guardare alla
realtà?
Ho imparato qualcosa di paradossale: l’arte di non prendersi sul serio. Non si
tratta di irresponsabilità o superficialità, anzi, proprio l’opposto. Fino a
quando ci ostiniamo a prendere estremamente sul serio quello che facciamo, con
caparbietà, per quanto genuina, restiamo confinati in noi stessi, chiusi
nell’ego. Allentando la tensione, con una curvatura ironica e un’accettazione
del perdono, anche scegliendo di affrontare le cose con un impeto tragico, forse
potremo riuscire a vederci come ci può vedere un altro, ad abitare lo spazio
dell’altro, ad essere più autentici. Il tuo peggior nemico è te stesso.
Anna Taravella
**
657
Io abito nella Possibilità –
Una Casa più bella della Prosa –
Più abbondante di Finestre –
Più ricca di Porte –
Di Camere come Cedri –
Inespugnabili dall’Occhio –
E come Tetto Eterno
Le volte del Cielo –
Di Visitatori – i più belli –
Per il Lavorìo – Questo –
Dispiegare ampio delle mie strette Mani
A raccogliere il Paradiso –
*
1129
Di’ tutta la Verità ma dilla obliqua –
Il successo sta in un Circuito
Troppo brillante per la nostra debole Delizia
La sorpresa stupenda della Verità
Come il Fulmine che per i Bambini si attenua
Con spiegazioni soavi
La Verità deve abbagliare gradualmente
O tutti sarebbero ciechi –
*
599
C’è un dolore – così totale –
Che ingoia l’Essere –
Poi copre l’Abisso con lo Stordimento –
Così la Memoria può passarci
Intorno – Attraverso – Sopra –
Come chi in un Delirio –
Vada sicuro – un occhio aperto –
Lo farebbe cadere – Osso dopo Osso –
*
997
Sgretolarsi non è l’Atto di un istante
Una pausa fondamentale,
I processi di Disgregazione
Sono Decadimenti organizzati –
Prima c’è una Ragnatela sull’Anima
Una Pellicina di Polvere
Un Tarlo nell’Asse
Una Ruggine Primaria –
La Rovina è accurata – il lavorio del Diavolo
Consequenziale e lento –
Perdersi in un istante, nessun uomo l’ha fatto
Scivolare – è la legge del Signor Crollo –
*
258
C’è un certo Taglio di luce,
Pomeriggi d’Inverno –
Che opprime, come la Gravità
Delle Melodie da Cattedrali –
Una Ferita celeste, ci procura –
Noi non troviamo la cicatrice,
Ma un’intima differenza,
Dove è ciò che conta –
Nessuno può insegnarla – Nessuno –
È il Sigillo della Disperazione –
Un’afflizione imperiale
Mandata a noi dall’Aria –
Quando arriva, il Paesaggio ascolta –
Le Ombre – trattengono il respiro –
Quando se ne va, è come la Distanza
Negli occhi della Morte –
*
642
Bandire – Me da Me stessa –
Ne avessi l’Arte –
La mia Fortezza invincibile
Da Ogni Cuore –
Ma poiché Io stessa – Mi assalto –
Come potrei aver pace
Se non soggiogando
La Coscienza?
E poiché Noi due siamo Re l’una per l’altra
Come potrebbe essere
Se non Abdicando –
Me – da Me?
Da Emily Dickinson, Cinquantacinque poesie, tr. it. di Maria Borio e Jacob
Blakesley, Crocetti, 2025
L'articolo “Bandire – Me da Me stessa”. In onore di Emily Dickinson. Dialogo con
Maria Borio proviene da Pangea.
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Comunque, è un trafficare tra le ombre – è un cenacolo. Oh, sì: spalancare le
briciole sul palmo, fino al bruciore, e vedere i morti che vengono a
becchettare. Morti con il volto da ghepardo, morti immortali e morti morituri.
Morti che stanno in tasca, come un fiammifero.
Da un po’, inseguo le tracce fantasmatiche di Ivano Fermini. Ho letto alcuni
versi folgoranti; ho ricostruito alcuni percorsi. Milo De Angelis ne fu il
sulfureo, il negromante. Mi accenna ad Aldo Nove. Gli scrivo. Risposta secca, a
tagliagole – più tardi verrà il bene, viene dopo, al calor bianco, al netto di
tutto. Leggi questo. Inabissarsi. In quel libro, uscito per il Saggiatore – che
“ha in corso di pubblicazione la sua intera opera” – Aldo Nove parla di poeti,
di poesia, di un sé nell’Illiria lirica. Questa frase è a pagina 103:
> “Lo portavo sempre con me, negli anni terribili e salvifici del liceo, Georg
> Trakl. Fino a che non scelsi di suicidarmi con la stessa dose di cocaina con
> cui Trakl si tolse la vita”.
Poco prima, Nove ha ricalcato Grodek, la poesia suprema e terribile di Trakl,
“La sera risuonano i boschi autunnali/ di armi mortali…”. Inabissarsi è anche un
libro pieno di poesie – poesie che sono un allarme, poesie disarmate.
Inabissarsi significa anche catapultarsi in una catabasi. Che faccia male è
certo. I morti fanno le capriole. A volte, hanno una cresta di aculei sulla
schiena.
In Inabissarsi si parla di Ivano Fermini. Si parla anche di Milo De Angelis e di
Nicola Crocetti, di Franco Buffoni e di Silvio Raffo. Si parla di Elio
Pagliarani che compra le arance. Qualcuno – forse Cesare Cavalleri – mi ha
parlato di come Eugenio Montale comprava i carciofi. Ecco. “La consapevolezza di
un’arancia”. Così scrive Aldo Nove per farci capire cos’è un poeta. Attraversare
la crosta del frutto, “intuirne le proprietà, quasi fosse un pianeta”. Come le
arance di Cézanne, come la melità delle mele di Cézanne che tanto affascinò
Rilke.
Un capitolo di Inabissarsi è dedicato a Ivano Fermini. Nato a Bolzano,
trasferitosi a Milano, fece, a moti ondivaghi, l’operaio, “aveva degli enormi
baffi neri”. Fermini è morto vent’anni fa. Un giorno Fermini chiede a Nove se
può vivere con lui e Tiziana, “una ragazza a cui volevo molto bene, ovviamente
fino a che non ci siamo detestati a vicenda”. La cosa “non era possibile né
aveva senso”. Il poeta si dilegua. “Da quel giorno non lo vedemmo più”.
I poeti fanno così. A volte si disintegrano davanti ai nostri occhi per eccesso
di prossimità. A volte i poeti fanno la crisalide. A volte i poeti sono come
l’acqua in un secchio. Devi annaffiare le piante prima che si affollino, a
carapace, le zanzare.
Aldo Nove ha scritto che nella poesia di Fermini “tutto è primordiale. E succede
per la prima volta”. Abbiamo deciso di ripubblicare, dopo troppi anni, le sue
poesie, scollegate da ogni oggi, impossibili, bellissime.
Inabissarsi è dedicato a Federica Fracassi, l’attrice, e inizia con “lo schifo
assoluto di questo momento storico, la vergogna quotidiana di essere passati
alla forma più sofisticata ed efficace di dittatura, quella delle nostre
menti…”. Questo scrive a pagina 10 Aldo Nove:
> “Una poesia senza vita è nulla, oppure uno degli ennesimi giochi imperanti
> della finanza globale, cioè il fantasma mortale di qualcosa che non ha altro
> scopo che rapinare energia all’umano tradito, quasi ormai estinto.
>
> Una vita senza poesia è la trasformazione in atto dei «cittadini», o meglio
> degli umani, in automi obbedienti e non pensanti, quasi non più senzienti per
> la propria acquisita organicità a un gioco astratto di cifre appresso alle
> quali correre affannosamente per mantenere in piedi il nostro puro dato
> biologico”.
Il libro è costellato da fotografie di poeti – poeti fanciulli, eterni puer.
Amelia Rosselli bambina sulle spalle del papà, ad esempio.
Si parla – con ampiezza d’aquila – di Lorenzo Calogero, l’abbagliante poeta di
Melicuccà, Calabria.
Che libro superbamente eversivo, questo. Eversione perfino dal verso, dal fare
il verso a se stessi – c’è qualcosa di messianico nel poeta (quello vero, non
supino all’oggi, suino, alieno alla biada della fama, sfamato dai cieli) messo
alla gogna, insinuato nell’insulto, solitamente sputato, che spunta dove meno
credi.
Un giorno mi scrive “sono 8+3-2”; un giorno mi chiama “brillo” – brillio, dico.
Di Nicola Crocetti ricorda, “mi ha insegnato una fedeltà assoluta, nella totale
incuria verso il misero interesse personale”; ricorda che è stato “spesso
tradito da personaggi infami che ne hanno intuito e sfruttato biecamente la
sprezzante indifferenza verso il denaro”.
Insomma, parte un dialogo – all’incirca. Accerchiati da questo continuo crollo.
Come se il crepitio fosse uno scrivere a crepapelle – i volti posti all’azzurro
e congioire dei fiori, un rogo.
Scrivi: “La poesia è un destino. Il destino di chi libera tutti”. Cosa
significa?
La poesia (e il poeta, che ne è “l’umile messaggero”, per citare Nanni
Balestrini) esiste proprio in quanto destino, il che, mi sembra, indica una
sorta di escatologia empirica, immediata: “adesso”. Provo a dirlo diversamente:
la poesia disvela che non c’è nulla da svelare se non la trappola del
linguaggio, che il poeta sbroglia nell’atto della scrittura. Quell’attimo di
attività paradossale è il destino (di libertà, di autenticità) della poesia.
Che rapporto c’è tra il poeta è la Storia? Il poeta è nel mondo o è fuori dal
mondo – è mondo o immondo?
Come diceva Borges a proposito di Dante, entrambe le cose. “Movimento dello
spirito nel tempo”, a inaugurarne le stagioni e gli abissi. La Storia del resto
è fare narrazione… i fatti… esistono?
Esiste a tuo dire un rapporto consustanziale tra il poeta, l’uomo poeta, e la
sua poesia? Intendo, tra estetica ed etica?
Credo di sì ma è una questione talmente personale da sfuggire a qualunque
etichetta. Poeti si è se si vive la poesia. Altrimenti, come diceva Rilke
in Lettere a un giovane poeta, è davvero meglio lasciare perdere e guardare San
Remo.
Qual è il poeta che ti ha affascinato, la poesia che ti ha folgorato?
Ora c’è la disadorna di Milo De Angelis e Invece della rivoluzione di Nanni
Balestrini. Due scarti, nella mia vita, improvvisi e totali.
Che cos’è lo ‘spirito’? Qual è la tua poetica dell’esistere?
“Trasumanar per verba non si poria”.
Scrivi, in sostanza, che la poesia è una liberazione dalla “trappola” del
quotidiano? Poesia, allora, sempre sovversiva, eversiva? Ma a cosa serve infine
la poesia?
La poesia serve a distruggere lo squallore del quotidiano per riportarlo alla
sua materialità e ricostruirlo. Dura poco… è un gioioso, o se non è gioioso ne
vale la pena, mito tra Sisifo e Ulisse incantato dalle Sirene.
Nel tuo canone portatile quali sono i poeti primari, i poeti re?
Tanti, troppi. I già citati Balestrini e De Angelis, tra i contemporanei,
insieme a Valduga e Lamarque. Nella seconda metà del Novecento Giudici e
Zanzotto. E poi la triade Carducci Pascoli D’Annunzio. E indietro Tasso e
ovviamente Dante. E i Salmi…
La poesia a scuola: come si fa, cosa bisogna fare?
Escluderla. La scuola attualmente non ha nulla a che fare con la poesia. La si
conosce altrove. Chi ne ha bisogno la trova.
Parlano di Scurati, oscurando Georg Trakl: perché? Cos’è questa cosa detta
‘cultura’?
Si segue chi “ave del suo cul fatto trombetta” (Dante, nelle Malebolge). Siamo
in una scorreggioteca. La cultura è nelle catacombe. È nelle catacombe che si
dipanò nel mondo e nei secoli il messaggio cristiano. Tutto ciò che si propone
come ‘culturale’, oggi, è merda che crea hype: più puzza, più se ne parla. Si
deve ricominciare da zero. Anzi da tre, come diceva il grande Troisi. E pochi ma
buoni lo stanno facendo. Tra tutti, immenso, Nicola Crocetti.
L'articolo “Siamo in una scorreggioteca. Si deve ricominciare da zero”. Ovvero:
sulla poesia come destino. Dialogo con Aldo Nove proviene da Pangea.
Nikola Madzirov è un segugio degli spiragli, si fa ispirare dalle strettoie,
entra, con il coltellino, nel corpo dell’assente. Così, in una città, fotografa
la camera d’albergo in cui è ospitato: in quel luogo anonimo resistono le tracce
di chi vi ha soggiornato, di chi vi abiterà, anche soltanto per una notte. Ogni
stanza è un bosco. Della sua vita riferisce dettagli che frugano
nell’incredibile: il nonno, profugo dalle infinite guerre balcaniche, che scava
per costruire la nuova casa; le antiche armi degli Ottomani bendate da vortici
di vermi, necessari alla pesca, esche per sopravvivere. Un Omero frugale giace
interrato tra i dedali di questa storia.
In una poesia tra le più belle raccolte in Ciò che abbiamo detto ci
perseguiterà (Crocetti, 2025), Silenzio, Madzirov scrive:
> “Non esiste il silenzio nel mondo.
> Lo hanno inventato i monaci
> per ascoltare ogni giorno i cavalli
> e le piume che cadono dalle ali”.
Nato a Strumica, Macedonia, al confine tra Grecia e Bulgaria, profugo al proprio
tempo, espatriato dalla Storia, classe 1973, Nikola Madzirov è un vagabondo
della poesia. Charles Simić, il grande poeta serbo che fu premio Pulitzer, ha
detto che leggere Madzirov “è come scoprire un nuovo pianeta nel sistema solare
dell’immaginazione”. Piuttosto, Madzirov ti mostra le cose da un’angolatura
inattesa, pone le cose in un candore che le fa nuove. Così, mi racconta della
madre che conservava gli spazzolini da denti usati, certa “che custodissero
ancora al loro interno un granello dell’anima di chi li aveva usati”; del padre
che con uno spazzolino da denti usurato, ora, pulisce la lapide della moglie,
“con la stessa cura di un archeologo”.
Madzirov parla come scrive: poeta la cui infanzia è stata bendata da destino di
guerra, poeta post-sovietico, totalmente europeo, che non si interessa dei
‘massimi sistemi’, ma delle cose minute, dimenticate, smunte, che in sé
nascondono un cosmo. Non gli importa scoprire la chiave che squaderna i mondi,
ma la chiave sepolta nel comodino della nonna, di una casa che non sarà mai
aperta, apparentata a distruzione e fuga.
Piero Salabè, il traduttore di Madzirov – lavora in Germania, per la Hanser
Verlag, i suoi libri sono editi da La Nave di Teseo –, ha riconosciuto in lui un
lignaggio che, oltre a Simić, tiene insieme Lucian Blaga e Nichita Stanescu,
Vasko Popa e Zbigniew Herbert. Il titolo del libro di Madzirov mi ricorda un
versetto dal Vangelo di Matteo, il tremendo imperare di Cristo: “di ogni parola
vana che gli uomini diranno, dovranno rendere contro nel giorno del giudizio”.
Eppure, nella poesia di Madzirov si parla di nomi inauditi, di interdetti al
dire, di “parole/ sotto le pietre assieme alle ombre sepolte”. Nei suoi toni –
confessionali, ‘vegetali’, in esubero – riconosco l’andare per fiumi di Álvaro
Mutis, gi acquazzoni musicali di Bregović.
Grazie a una serie di borse di studio internazionali, Madzirov gira il mondo,
scrive con l’estro dell’istrione e del lottatore; coordina il network di poesia
“Lyrikline”, che ha sede a Berlino. Quando parla – a identificare una poetica –
cita Octavio Paz e Hannah Arendt, Walter Benjamin, le “Filter Yugoslavia”, le
guerre nei Balcani, Arvo Pärt; alcuni suoi versi sono stati messi in musica da
Oliver Lake, sassofonista statunitense che ha lavorato, tra gli altri, con Lou
Reed e Björk. Il 4 aprile prossimo, Madzirov sarà in Italia, a Venezia, tra i
protagonisti del Festival Internazionale di Letteratura “Incroci di civiltà”. In
alcuni suoi versi si fa il ritratto:
> “Mi sono distanziato da ogni verità sull’origine
> degli alberi, dei fiumi e delle città.
> Il mio nome sarà una via degli addii
> e il cuore apparirà sulle radiografie”.
E poi ti dice che il poeta è una foglia sull’albero dell’imprevedibile, che
bisogna confidare nella solitudine. C’è qualcosa di cavalleresco e antico in
Madzirov, poeta prode, pronto al cammino – così diverso da chi deterge una
carriera sul lamento e sulla litania, da chi crede, allevato all’aia, di essere
alloro, di avere l’oro a fior di dita. No: bisogna sentire l’urlo del fiume, le
grida scheggiate della gente – e dire della poesia la sua natura di zappa, di
torcia, di scettro.
Che rapporto esiste, a tuo dire, tra il poeta e la Storia? Il poeta è una
sentinella ai confini della Storia, ne è un avventato avventuriero, è un
espulso? Può cambiare la Storia, il poeta, o subisce gli eventi storici?
Responsabilità del poeta è rispondere alle storie “ufficiali”, sia che si tratti
di una revisione emotiva dei libri di storia, sia che si tratti di costruire una
storia personale che parta non dal giorno della propria nascita, ma dal giorno
in cui si inizia a ricordare. Il poeta deve essere abbastanza forte da delineare
un confine distintivo tra storia e ricordo, così come è necessario che il poeta
faccia una distinzione tra menzogna e immaginazione, o tra globale e universale,
poiché il globale è più una categoria geografica, mentre l’universalità è umana
e temporale.
Quando i miei antenati, profughi dalle guerre balcaniche dell’inizio del secolo
scorso, iniziarono a scavare la nuova terra per costruire la loro nuova casa, si
imbatterono in antiche spade risalenti all’epoca dell’Impero Ottomano, che
dominò su questi territori per cinquecento anni; mio nonno era più interessato
ai vermi che trovava mentre scavava: li usava per pescare, per sopravvivere in
tempi di povertà. Stava creando una storia di sopravvivenza e non era
interessato all’importanza archeologica degli oggetti che non gli portavano
cibo.
Sono nato al crocevia tra le battaglie storiche che sono state combattute nel
cortile dove vivo e il mistero della terra che copre gli oggetti perduti,
appartenuti a persone vissute qui prima di me. Hannah Arendt dice che nulla di
ciò che è, nella misura in cui appare, esiste al singolare; tutto ciò che è, è
destinato a essere percepito da qualcuno. La pluralità è la legge della terra.
Vivo nei Balcani, dove tutte le guerre iniziano con le battaglie per un passato
migliore. La guerra ha il suo plurale – le guerre vanno e tornano come cani
affamati davanti a una macelleria chiusa. Solo la poesia esiste al singolare.
Eppure, se la poesia esistesse al solo scopo di affermare “verità” storiche,
sarebbe già diventata storia da tempo. La storia è il primo confine che voglio
attraversare.
Che rapporto esiste, nella tua esperienza, tra il poeta e l’esilio, l’esultante
espulso, l’inerme esule?
Oggi siamo nomadi della paura. La solitudine è una forma di “esilio statico”. Il
mondo oggi vive i suoi nuovi localismi e le sue nuove lontananze: al posto dei
chilometri, gli orizzonti della nostra presenza si misurano in kilobyte. Quella
che un tempo era considerata un’introversione patologica sta diventando una
qualità di vita. Tuttavia, esiste un enorme divario tra la solitudine come
decisione collettiva e la solitudine come impulso personale. Centinaia di anni
fa, in Europa, la nostalgia era considerata una malattia e le persone con
l’irrequieta voglia di tornare a casa venivano curate con oppio, sanguisughe o
lunghi soggiorni in montagna. Oggi le montagne e gli oceani sono nelle nostre
case, insieme alla voglia di nuotare oltre il confine delle malattie e delle
guerre. La nostalgia è una ribellione contro l’idea moderna del tempo.
L’infanzia è la casa più sicura dei nostri ricordi. Solo dopo la nascita di un
bambino ci rendiamo conto di quanti oggetti taglienti abbiamo in casa. Forse la
nascita di un nuovo riflesso di sopravvivenza ci aiuterà a fare piazza pulita di
tutti i coltelli affilati che abbiamo in casa. Da Wittgenstein a Czesław Miłosz
si parla del linguaggio come della nostra vera e unica casa. Io vorrei parlare
della casa come di un linguaggio, e immaginare le pareti come punteggiature alla
fine del sentimento di (essere) desiderio. La finestra aperta della realtà mi
permette di toccare i miei sogni e le mie paure, di sentire le dinamiche del
mondo anche quando inizio a credere nelle radici invisibili dell’appartenenza.
Il mio cognome significa “migrante”: l’ho scoperto solo dopo aver iniziato a
viaggiare intensamente. Questa consapevolezza mi ha messo paura, così ho
iniziato a dare un nome alle cose che vedo, che tocco, che riscopro… Mi chiedo
sempre se le strade in cui vivo hanno nomi presi dai libri di storia o nomi che
appartengono alle storie personali della città. Fotografo le stanze che lascio,
invece di fotografare i monumenti intorno all’hotel. Ogni grinza sul lenzuolo
nelle sterili camere d’albergo o ogni traccia profonda della gamba della sedia
nella spessa moquette è una presenza di qualcuno che potrebbe tornare. La
struttura degli oggetti nella stanza è il flusso sanguigno delle case che abito
e che lascio. Quando vado da qualche parte sembra che sia di ritorno. Di solito
sono i lavoratori edili che vivono in cabine temporanee intorno all’edificio che
rimarrà lì per sempre.
Da bambino fuggivo da casa, in pigiama e con le scarpe di mio padre, tre volte
più grandi. Viaggiare è l’atto più sicuro finché non lo chiamiamo “abbandono”.
Michael Krüger nella poesia Migrazione scrive: “Ora le stanze sono vuote, le
valigie/ allineano il corridoio accanto a scatole lunatiche/ in cui i libri
lottano con i giornali”. I libri da leggere mantengono la mia fiducia nel
ritorno. La lettura è sempre stata il mio carburante per spostarmi, quando ero
circondata da guerre e regolamenti sui visti. Ricordo che sognavo di dimenticare
tutto, per poter leggere sempre gli stessi libri. Quando ho sentito che l’oblio
non sarebbe mai arrivato, ho iniziato a scrivere. Questo è anche il modo in cui
vivo intorno alle cose di cui scrivo, cercando di costruire una casa con le
parole e gli spostamenti. Quando gli uccelli lasciano i loro nidi, volano via;
quando le persone lasciano le loro case, ricordano.
Ti chiedo di commentare (come vuoi, anche esulando dal tema) questo tuo verso:
“Da tempo ormai non appartengo più a nessuno”.
Mi sento al sicuro nella caverna aperta della non appartenenza. L’appartenenza è
spesso nemica del radicamento. Simone Weil dice: “Essere radicati è forse il
bisogno più importante e meno riconosciuto dell’anima umana”. Un essere umano
appartiene anche agli spazi intermedi, alle case che rimangono incompiute. Vivo
a Strumica, una città vicina al confine tra Grecia e Bulgaria, e mi sono sempre
sentito più al sicuro in quella striscia di cento metri tra due confini, uno
spazio senza monumenti o condizioni per la memoria storica. Questi spazi,
chiamati giustamente terra di nessuno, ti dicono che non sei nessuno se li senti
tuoi. I sistemi ideologici tendono sempre a creare un Nessuno da un corpo e da
una mente, ma “chi crea un Nessuno negando l’esistenza di Qualcuno diventerà
egli stesso un Nessuno”, scrive Octavio Paz ne Il labirinto della solitudine.
Così è per le città. Sentiamo che una città comincia ad appartenerci quando
troviamo un angolo, una piazzetta o un ponte senza nome per ciascuno dei nostri
stati interiori, e uno comincia a riferirsi ad essa con un frammento della sua
routine di vita o della sua storia personale. Credo che l’appartenenza sia una
risposta naturale, ma anche auto-ingannevole, al ritorno in una città.
Apparteniamo al luogo in cui torniamo o solo a quello in cui moriamo? Le città
in cui si sente di appartenere sono porti della propria impercettibilità, dove,
alienati dalle realtà ereditate, si comincia a costruire le verità del proprio
mondo. Il titolo del mio primo libro, pubblicato più di vent’anni fa, era Locked
in the City, e si riferiva soprattutto allo stato mentale di confinamento,
plasmato anche dalla logica politica delle restrizioni attraverso i visti e i
muri concettuali.
L’appartenenza ai Balcani, volontaria o forzata, è allo stesso tempo una
benedizione e una maledizione. Significa nascere nello spazio geografico della
colpa: tua madre ha aperto le gambe per darti alla luce sulla sedia vuota di un
tribunale penale. Ma chiudersi nella gabbia dell’eterno senso di colpa è tutto
tranne che un’appartenenza. Nella nostra infanzia, le prime cose che impariamo
sono le solite costanti dell’appartenenza: i nomi dei genitori, il nome della
strada in cui abitiamo, il numero della classe… E poi passiamo la vita a
imparare ad appartenere solo all’infanzia.
Ti chiedo di spiegarmi questo verso: “Sono i resti di un’altra epoca”.
Tutti vaghiamo nel cerchio del tempo per trovare il museo dell’innocenza del
mondo. E il vagabondaggio è il primo passo per tornare da qualche parte: nella
stanza o nella nostra infanzia. L’ombra più grande della nostra realtà nei
Balcani è la fame del viaggio temporale di ritorno. Le persone lasciano le case
e i ricordi a causa delle guerre e della povertà imposta, e ogni oggetto che
hanno portato con sé diventa un manufatto o un simbolo, una voce offuscata di un
rituale personale. Le cose diventano resti anche prima di essere perse o
distrutte. Mia nonna conservava la chiave della sua casa abbandonata nello
stesso armadietto dove teneva le medicine, pensando che questa chiave un giorno
avrebbe potuto aprire quella porta che non esiste più e guarirla dalla
nostalgia. Tutti, nelle nostre stanze, abbiamo oggetti che rimandano alla nostra
morte. Per i Balcani la fuga è più una questione di misurazione del tempo che un
calendario dell’assenza. La mitologia dell’infanzia è stata il mio primo rifugio
dalla paura di una realtà prevedibile. Mia madre ha conservato i vestiti della
mia infanzia, dicendomi che vuole diventare nonna e dare al mio bambino non
ancora nato gli abiti con cui mi vestiva. Mia madre conservava tutti gli
spazzolini da denti usati in casa, pensando che custodissero ancora al loro
interno un granello dell’anima di chi li aveva usati. È morta sei anni fa e ora
vedo mio padre che pulisce la sua foto in bianco e nero sulla lapide con uno
spazzolino usato, con la stessa cura di un archeologo prima di una scoperta. Ho
scritto un saggio sull’ossessione delle persone per gli oggetti e sulla loro
metamorfosi utilitaristica durante la crisi del comunismo. Gli oggetti
superavano i confini di tutte le scale e i sistemi simbolici conosciuti.
L’immaginazione empirica della banalità della vita, acquisita con forza e senza
volerlo, ha creato innovatori autoctoni tra le persone che ancora si fidavano
del sistema in cui vivevano. La scoperta del pragmatismo polisemantico fu una
rivelazione non meno importante dell’estetica della “vita segreta degli oggetti”
di Giorgio de Chirico. La mancanza di denaro spingeva le persone a ricavare un
vaso per far crescere i limoni dal grande secchio di latta vuoto in cui tenevano
il formaggio; a trasformare le lattine vuote delle bibite in portapenne; a
costruire coni di carta per i semi di zucca e le arachidi dei venditori
ambulanti con le carte dei commercialisti e di altri uffici burocratici; i tappi
delle bottiglie di birra e di Coca Cola danno un ottimo sostegno alle gambe di
tavoli e a sedie instabili; le scatole delle scarpe sono ripostigli per libri e
cassette. Sembra un paradosso, ma si scopre che il nostro surrealismo
riproduceva pragmaticamente i disegni di Magritte: Ceci n’est pas une pipe.
Quando parlo di resti di un’altra epoca, non penso al passato, ma a una realtà
diversa, alla nostra voglia di calpestare l’asfalto fresco e di tornare a vedere
questa traccia innocente del tuo piedino ogni volta che ti senti stanco della
realtà. “Uno dei primi istinti dei genitori, dopo aver messo al mondo un
bambino, è quello di fotografarlo”, afferma Calvino ne L’avventura del
fotografo e prosegue: “L’album fotografico rimane l’unico luogo in cui tutte
queste fugaci perfezioni vengono salvate e giustapposte, aspirando ciascuna a
una propria incomparabile assolutezza”. Ancora oggi fisso gli spazi vuoti degli
album fotografici cercando di indovinare dove sono le foto che mancano, cercando
di ricostruire una memoria che non mi appartiene. Le fotografie e le parole non
sono residui di un’altra epoca; residuo diventa colui che scrive di tutto o
colui che fotografa tutto ciò che vede, per dimenticare tutto.
Di cosa è testimone il poeta?
Se volessi romanticizzare o ironizzare, direi: il poeta è qui per testimoniare
il candore della neve. Eppure, credo che il poeta sia testimone
dell’imperfezione degli oggetti che dormono sotto quei perfetti fiocchi di neve
o forse delle gocce di sangue di un animale o di un soldato ferito sulla neve.
Avevo diciotto anni quando iniziarono le nuove guerre in Jugoslavia. Sul mio
letto, i politici al potere misero uniformi al pigiama dell’innocenza. Un
sistema politico fu sostituito da un altro. Entrambi i cambiamenti avvennero
nello stesso momento, distruggendo le pareti di vetro della mia infanzia e le
spesse tende della certezza promessa. Improvvisamente, gli autori che erano
nelle liste di lettura delle scuole furono dichiarati nemici dello Stato
o classici, che significava soltanto una cosa: nessuno li leggeva più. Ho dovuto
tagliare io stesso il cordone ombelicale, integrandomi nell’ampio quadro della
letteratura europea. Da allora, tutta la mia vita si è trasformata in una fuga –
ma non una fuga da qualcosa, bensì verso qualcosa. Mi fido più delle cicatrici
del tempo sulla nostra pelle che degli ornamenti sopra le uniformi. Quando il
soldato viene ucciso, qualcun altro prende la sua uniforme e butta via tutte le
foto di famiglia e le lettere dalle tasche. Io ripeto solo la storia dei miei
antenati che hanno dovuto lasciare le loro case a causa della guerra, ma hanno
anche portato con sé la chiave, una chiave che avrebbe aperto solo i cancelli
della memoria. Non porto con me le chiavi quando viaggio. La lingua è rimasta la
mia unica soglia di certezza. Ricordo spesso le parole di Charles Simic, nato in
una Jugoslavia diversa da quella in cui sono cresciuto, che diceva che essere un
rifugiato non lo ha reso un poeta, ma lo ha reso il tipo di poeta che è. La
caduta della Jugoslavia e l’indipendenza della Macedonia mi hanno insegnato che
nessun simbolo di Stato è eterno – che tutti i leoni, le aquile, le stelle, i
soli, le foglie possono volare via dalla bandiera come un sacchetto di plastica
in cerca di un vento più forte. Tra le sigarette più popolari della classe
operaia dell’ex Jugoslavia c’erano quelle denominate “Filter Yugoslavia”, mentre
chi era “più uguale degli altri” fumava “Lord Extra”. Come se Edward Said avesse
previsto il crollo della Jugoslavia: dopo la rottura dello Stato, le sigarette
“Filter Yugoslavia” furono chiamate “Filter Oriental”. Lo stesso fumo viaggiava
ora da Sud (Yug) a Est (Oriente), con gli occhi dei fumatori rivolti a Ovest. I
Balcani sono pieni di varie verità ufficiali con un’intensità tale di singolare
dolore, al di là di qualsiasi confine tracciato. La poesia, come testimonianza
dolorosa e tagliente, viaggia lentamente e silenziosamente, ma vaga lontano
nello spazio e nel tempo, come una lettera senza indirizzo sulla busta. Alain
Bosquet diceva che il poeta è nella città solo per testimoniare che la città si
trova altrove. Il poeta deve essere testimone dello spostamento dei confini
delle sue perdite e delle sue aspettative. La poesia non cambia i mondi, li
costruisce.
Ti piace questo mondo, questo tempo, il tempo che ti è dato?
Mi sento un auto-rifugiato in un periodo di falsa pace. La poesia può cambiare
la distanza con cui guardiamo alle ferite aperte del mondo. La poesia può
piantare un seme nelle cicatrici del mondo e aspettare la nascita di una storia
che non si ripeta. Viaggio costantemente da più di vent’anni ormai,
probabilmente per sfuggire alle trappole del tempo. Voglio abitare tutti i mondi
di cui sono testimone, voglio nascere nello stesso tempo, così potrei provare a
creare un calendario diverso.
Scrivi una poesia sul Silenzio. Che valore ha il silenzio nella tua singolare
ricerca poetica?
Solo nel silenzio si può sentire il proprio sangue e la voce degli assenti.
Eppure, è difficile trovare il silenzio perfino ai funerali o dietro le finestre
sfocate delle biblioteche cittadine, come in tutti i rituali del sonno. In
alcune regioni dell’America Latina, quando nasce un bambino, la prima cosa che
gli dicono mentre piange è: “Preparati a tacere in questo mondo, a essere
paziente”. Vivevo in una casa dove le parole di tre diverse generazioni
lottavano per il loro status di importanza: mentre alcune parlavano di ricordi,
la voce dall’altra parte del muro era piena di aspettative. In quella guerra
quotidiana con le baionette delle parole, soltanto ascoltare la musica di Arvo
Pärt o di Coltrane con il volume alzato mi ha aperto uno spazio sonoro per il
silenzio del pensiero. Le mie case temporanee continuano attraversando i confini
di paesi le cui lingue non capisco, sviluppando ricordi in cui non tornerò mai.
Tutte le cartoline delle città trasmettono il silenzio dei monumenti delle
piazze e il silenzio del postino che conosce le strade della sua città natale.
“Tutti gli angoli deserti delle città, tutti i suoni e le cose hanno ancora i
loro silenzi, proprio come, a mezzogiorno in montagna, c’è il silenzio delle
galline, dell’ascia, delle cicale”, dice Walter Benjamin. Non accetto la
definizione semplificata del silenzio come assenza di parole o suoni, perché
all’inizio non era la parola, ma il respiro. Stockhausen diceva che non esiste
un silenzio assoluto nel mondo, cercava di ampliare il rapporto tra il suono che
è assente e il suono che si sente. Quando vedo un’ombra, non penso alla luce
perduta, ma alla bella forma del corpo che produce quell’ombra. Il silenzio è la
luce che dà forma al corpo delle mie parole. Il poeta rende visibili i suoni e
li trasforma di nuovo in quiete attraverso l’atto del creare. Deleuze dice che
il problema non è far sì che le persone si esprimano, ma fornire piccoli spazi
di solitudine e silenzio in cui possano eventualmente trovare qualcosa da dire.
Scrivere poesie significa viaggiare attraverso le oscure vene delle imperfezioni
delle parole, scoprendo che il silenzio e l’oscurità sono le due metà del nucleo
del codice universale della comprensione. Nel silenzio tutti i suoni sono
uguali, nell’oscurità tutti gli oggetti sono uguali.
Esiste un’etica oltre alla poetica? In cosa credi? Vivi secondo una tua
personale ‘regola’?
L’etica consiste nel non tradire la poetica del proprio essere, nel non
diventare un mercante del dolore altrui, nel non fidarsi dei monumenti nel
cortile sul retro del palazzo del governo. Scrivo di cose riscoperte e mondi
assenti non per lodarli, ma per demistificare l’aureola di storia che li
circonda. Vivo in una piccola città vicino a tre confini: macedone, bulgaro e
greco; attraversare un confine per me è come attraversare la strada con i
semafori che non funzionano. A volte penso che ogni ruga sul mio corpo sia solo
un riflesso dei confini che ho attraversato. La sfida più grande per me è stata
attraversare il confine del tempo, poiché tutte le guerre balcaniche iniziano
conquistando prima il passato: soltanto dopo si parla di
territori. Storico e isterico: un’unità perfetta per uccidere! In questo senso,
mi considero un archeologo illegittimo che, scrivendo poesie o saggi, cerca di
demistificare la mitomania ereditata e tutte le grandi narrazioni, mettendole in
una prospettiva diversa, più luminosa o più oscura. Raccontare storie di luoghi
o oggetti dimenticati è più importante di tutte le lettere e gli ordini segreti
firmati da capi di guerra desiderosi di diventare un giorno dei monumenti. Ho
fiducia nell’architettura della solitudine e voglio credere che il poeta sia la
voce della foglia tremante sull’albero dell’imprevedibile.
Che rapporti hai con l’invisibile?
Non essere visti è il sogno di ogni osservatore dietro la porta socchiusa del
mondo, è il desiderio di ogni poeta perso nel labirinto fatto dei ricordi
altrui. La finestra aperta della realtà mi permette di toccare i miei sogni e le
mie paure, di sentire le dinamiche del mondo anche quando inizio a credere nelle
radici invisibili dell’appartenenza.
Vedo la poesia come un corpo intoccabile che si disloca a ogni nuova lettura.
Nonostante la sua fragilità, la poesia può portare il caos all’interno di
società altamente controllate. I dittatori hanno paura del significato
invisibile delle parole, perché a loro piace creare cose assolute e visibili. Mi
considero un fragile testimone della dura realtà e dell’aldilà, che ruba momenti
invisibili o verità non dette, piuttosto che uno che ruba storie o fotografie
dagli album di famiglia. Alejandra Pizarnik scrive: “temo di non sapere come
nominare/ ciò che non esiste”. Gli scienziati potrebbero facilmente dare un nome
ai pianeti o ai minerali che non sono ancora stati scoperti, ma la poetessa
vuole credere che il silenzio sia il nome perfetto per tutte le cose invisibili
e assenti. Scrivere è solo un modo per rimandare la mia assenza.
Ritaglia un verso, un distico dalla tua opera che ti rappresenta – e dimmi
perché.
“Lontane sono tutte le capanne in cui ci riparavamo dalla pioggia
e dalla pena dei cervi che morivano davanti a cacciatori
più soli che affamati.”
La distanza non può essere un rifugio dalla sofferenza del mondo.
**
Ciò che abbiamo detto ci perseguiterà
Abbiamo dato un nome
alle piante selvatiche
che crescono dietro agli edifici in costruzione,
e a tutti i monumenti
dei nostri invasori.
Abbiamo battezzato i bambini
con i nomi affettuosi
trovati nelle lettere
lette una sola volta.
Abbiamo poi, di nascosto, decifrato le firme
in fondo alle ricette
per le malattie incurabili
e col binocolo abbiamo ravvicinato
le mani che ci salutavano
dalle finestre.
Abbiamo lasciato le parole
sotto le pietre assieme alle ombre sepolte,
sulla collina che conserva l’eco
di antenati che non compaiono
nell’albero genealogico.
Ciò che abbiamo detto senza testimoni
ci perseguiterà per molto tempo.
In noi si sono stipati molti inverni
che nessuno ha mai menzionato.
*
Quando il tempo si fermerà
Siamo i resti di un’altra epoca.
Ecco perché non posso
parlare della casa o della morte
o di dolori prevedibili.
Finora nessun ladro di tombe
ha scovato le mura tra di noi,
né il freddo calato nelle ossa
fra i resti di tutte le epoche.
Quando il tempo si fermerà,
discuteremo della verità
e sulle nostre fronti le lucciole
formeranno una costellazione.
Nessun falso profeta
aveva previsto che il bicchiere si sarebbe rotto
e neppure che si sarebbero toccati i palmi –
due grandi verità da cui sgorga
acqua pura.
Siamo i resti di un’altra epoca.
Ci ritiriamo nei paesaggi
della solitudine addomesticata
come lupi che contemplano la colpa eterna.
*
Da ogni mia cicatrice
Sono un mendicante senza il coraggio
di chiedere l’elemosina a me stesso.
Sui miei palmi si incrociano le linee e
le ferite di tutte le carezze mancate,
di tutte le febbri non misurate sulla fronte,
dell’amore scavato abusivamente.
Da ogni mia cicatrice
emerge una verità.
Cresco e svanisco
con il giorno, mi addentro
senza paura nell’origine,
e intorno a me tutto si muove:
la pietra diviene casa,
la roccia granello di sabbia.
Quando smetto di respirare,
il cuore batte più forte.
*
Loro e noi
Probabilmente gli angeli
hanno uomini tatuati sulle spalle,
e custodiscono le proprie ombre
nello scrigno dei ricordi.
A volte appaiono
come una voce che annuncia l’alba
o come una luce soffusa
sotto un letto d’ospedale.
Noi esistiamo perché loro esistono,
loro volano perché noi camminiamo.
Siamo così vicini e lontani
come i protoni e i neutroni
nel nucleo di tutti i mondi.
Traduzione di Piero Salabè
Da Nikola Madzirov, Ciò che abbiamo detto ci perseguiterà, Crocetti Editore,
Milano, 2025.
*In copertina: Nikola Madzirov in un ritratto fotografico di Sophie Kandaouroff
L'articolo “La poesia porta il caos nella società del controllo”. Dialogo con
Nikola Madzirov proviene da Pangea.
Poesia che va imbracciata – e dunque: predisposta alla lotta.
Che ci sia un duello, da quello che indicano gli aruspici, è certo – che tu ne
sia già dentro, a filo, pure.
*
È vero: esiste una poesia che va portata a piene braccia, poesia da estendere
tra sé e i cieli, come un vello d’oro, un palio, una sacra icona. Lo si fa se
quella è poesia che invoca protezione.
C’è, altrove, poesia da tenere in braccio, da stringere in grembo. Devi dargli
il seno, devo offrirgli il latte. È poesia mendica, che si nutre del tuo succo,
lettore.
*
La poesia che si imbraccia diventa tutt’uno con il corpo del lettore, lo
imbarbarisce all’eleganza della lotta. Penso allo scudo di Achille, dove sono
raffigurati il sole e la luna, le stelle e le vigne, armenti e fanciulli. Quello
scudo è un astro, quello scudo è una casa. Chi si avventa su di te deve prima
fendere un universo intero, deve aver fondato una casa – chi può raggiungere chi
è irradiato da quello scudo, chi ne è iridato fino all’ira?
Tutti gli elementi hanno forgiato quello scudo.
*
I bracciali dello scudo prende il via da una collusione di immagini:
> “All’assassinio del capo o del principe
> nella foresta la neve divincola un suo coro,
> innalza sulle conifere l’anima di cuoio,
> i bracciali dello scudo”.
In questa mitografia, i bracciali dello scudo sono strumenti della neve.
Imbracciare il crollo – imbracciare il bianco. Bracconiere di sé. Balenieri in
un cielo che si fa argolide di angeli.
È l’ultima poesia della raccolta, Passo all’Orso, il cui passo, in fondo, resta
iliadico: la caduta di un dio (strabiliante attacco: “Questo vostro unico dio
cadrà/ torneranno innumerevoli gli dèi”), l’assassinio del re, transumanza di
predatori.
Alessandro Ceni scuce lo scudo di Achille. Le figure, sbalzate da millenni, sono
irriconoscibili: l’uomo pare una bestia, la bestia assume fattezze d’uomo;
l’astro è un bolide, l’astro è debole; le stelle sono esplose. Quale
beneaugurale frase andrà incisa sui bracciali?
*
I bracciali dello scudo (Crocetti, 2025) raccoglie, in duecentosessanta pagine,
quarant’anni (così si dichiara: “1983-2023”) di poesia di Ceni. Le date sono
dadi bugiardi, ultimo baluardo di un tempo orbo; si sa che I fiumi – il libro
che apre questa raccolta – esce nel 1985, per Marcos y Marcos, incorporando la
prima placca di Ceni, Il viaggio inaudito, che è del 1981.
Da quel che ne sappiamo, Ceni, nell’ormai leggendaria pazienza (o parvenza) –
poesie che escono a lui ad ogni rotazione d’astri –, continua a scrivere, a
decrittare.
*
Credo che nessun poeta come altri pratichi l’autoantologia o la raccolta, come
un lied, dei propri versi. C’è qualcosa di ambiguo – mai analogo alla
ritrattistica – in questo impratichirsi, in questo tenere in stato d’assedio il
libro. Certo, si tratta pur sempre di pubblicazioni, spesso, alla macchia – e
cos’altro potrebbe essere se non tale lanceolata latitanza? –, ma c’è, nel
processo, la rovina, lo spaccare gli specchi, il fare pasto di sé. Meglio:
viaggiare leggeri all’oriente della grande caccia.
Negli anni sono usciti, per dire, Il pieno e il vuoto (Marcos y Marcos, 1996;
singolare antologia di un neanche quarantenne); La ricostruzione della
casa (Effigie, 2012, raccolta di “Poesie scelte 1976-2006” per la cura di
Daniele Piccini, il più fedele e acuto critico di Ceni), Parlare chiuso. Tutte
le poesie (puntoacapo Editrice, 2012), 77 (Edizioni Helicon, 2018), poi questo.
Quasi: a eludere il libro – a elisione del libro. Negli elisi della fuga –
intesa a mo’ di accerchiamento musicale, come si accentra, cerchiandola, la
belva di taglio grosso, in seguito a diligente notturna posta.
Che sia indimenticabile – che se ne dimentichi – si direbbe, di tale
disciplina.
*
D’altronde, la circolarità, il libro sferico, a forma di scudo. Si comincia
con Cacciatori sulla neve, carminio, bellissimo nell’attacco:
> “Io vorrei saper dire amore
> amore amore amore
> come fanno i dementi
> ed essere infelice infelice
> per il troppo bene,
> un solvente, che spezza la catena delle vite
> per darci la definitiva morte,
> simile a Dio in questo, o
> al cuore…”
E poi l’attracco, Passo all’Orso, con “la neve che carola lieve”, “che nevica
neve”.
La neve ricorre come nessun altro elemento nei versi di Ceni – La neve (La
discesa delle cose sulla terra) è poesia che chiude La natura delle cose, Jaca
Book, 1991; nevischio asperge qua e là le poesie in Mattoni per l’altare del
fuoco, Jaca Book, 2002.
A che questo biancheggiare da Moby Dick (libro capodoglio tradotto da Ceni, con
estro da Achab, nel 2007), questo ancheggiare senza slitte? Già: nella neve ogni
trama si complica in una irrichiesta purezza – si è, si direbbe, pur al
massacro, nella camera d’attesa del paradiso. Piuttosto, si va nella neve per
cancellare le tracce, per non lasciare di sé altro segno che un capitale di
reticenze.
*
In Ceni, una continuità che esagera il ragazzino nel capo in armi, con le piume
d’aquila sulla corazza. Intendo: Ceni appare alla poesia già compiuto, come
un puer, un adolescente nell’oro. Nulla è da adempiere, nessuna crescita, qui,
come accade ad altri poeti, per lo più tutti, che crepitano prima di sfoggiare
il loro incendio – che crepino nel loro risorgere al rogo. C’è già tutto, qui,
subito: poesia da maneggiare come una torcia. Lo sfasare il linguaggio per
giungere all’antecedente; il verbo rupestre ma ricollocato, ora, in meraviglia;
al contempo: Lascaux e Beato Angelico; i monili degli Sciti e Lucian Freud.
Se possibile, piuttosto, si passa, in Ceni, dallo sguainare immagini e pennuto
linguaggio – il che significa: energumena giovinezza – alla poesia come atto,
come moto. Né compianto né liturgia in Ceni – la sua, non è poesia-inno, poesia
che salmeggia, poesia-simulacro o poesia-ostensorio, come in Luzi, per dire – ma
gesto, propiziatorio o meno che sia. Kamlanie, si diceva un tempo: parola che
prepara lo sciamano alla caccia ctonia o celeste, in favore dei morti.
Remo Pagnanelli, a proposito di questa poesia, diceva:
> “certa è la volontà di Ceni, non tanto di nascondersi tra le cose, ma di
> diventare una di loro, così il desiderio di regredire a stati precedenti
> l’umano… di rientrare nell’inorganico prenatale della materia”.
Aggiungo due libri per penetrare nel tono di questa poesia: i Testi dello
Sciamanesimo Siberiano e centro asiatico raccolti da Ugo Marazzi e Riti e
misteri degli indiani d’America, raccolta di canti-incanti curata da Enrico
Comba; entrambi i volumi sono editi da Utet.
*
E poi Ceni, a depistaggio, cita Chuang-Tzu e il Kalevala e strani testi
tibetani, ma anche brani di lettere anonime e una “scritta monocroma su muro
cittadino”. In epigrafe a un suo libro avverte, “Questo inizia
ovunque”. Comunque, direi. Quando apri questo libro, a tuo rischio, accade
qualcosa.
*
Il breve repertorio di inediti, in calce al libro, va sotto il titolo Felo de
se. S’intende, compiere atto di fellonia contro di sé. Cioè: uccidersi. Il
termine giunge dall’armeria legale della common law. S’acquieti il puro di
cuore: qui si tratta di uscire fuori di sé, di scarcerarsi dal sé, di ammazzarsi
misticamente. Pratica necessaria, rinnegare se stessi, al poeta. Di lui, a voi
resta la crisalide, cristallizzato verbo – il poeta non è più lì, mai è stato,
ha segato i garretti del mondo, il suo dio è alla briglia.
*
Da decenni – con bruma negli occhi – si dice di Dylan Thomas dicendo di Ceni. Al
di là degli innamoramenti – chi non ama DT? – e delle ovvie adunanze di ‘prove’
– Ceni traduce e scotenna gli anglofoni da anni – la prassi, il modo e infine il
senso sono affatto diversi.
Ceni, per l’azzardo nella lingua, per quell’azzannare, è il poeta italiano,
forse, più italiano di tutti. Al di là dei savi maestri – in particolare, Piero
Bigongiari – la sua traduzione alberga in una sorta di araldica che tiene
insieme il lupo dell’Assisiate e la pantera di Dante, i bestiari medievali e gli
emblemi cinquecenteschi. Il tutto, però, non ha la statuaria entità di un
simbolo: si sprigiona; non è un diorama che abbellisce i versi, ma cosa che
morde.
*
Ceni realizza l’etica lirica sintetizzata da Hugo von Hofmannsthal
in Lebenslied:
> “Va come colui che nessuna forza
> alle spalle minaccia.
> Sorride, se le pieghe
> della vita sussurrano: morte.
> A lui offre ogni luogo
> piena di mistero la soglia;
> s’affida ad ogni onda
> il senza patria”.
Giunto come un prodigio, Hofmannsthal smette la poesia, poco più che ragazzo.
Resta prossimo e impenetrabile, come un vaticinio. Pari aristocrazia arrischia
Ceni.
**
Da I Fiumi
Il traguardo della pioggia 3
Qui era la gioia del mondo, era la terra.
Resta immobile
ritta in piedi negli angoli,
tra i re che domandano:
“Piove ancora fuori?” o ti sorprenderò
a parlarmi, pochi grammi dal volto
e presso il fiume, dove gli uccelli informano
un’ansa e ascendono e s’impiccano
con un suono straniero di sorpresa
alla vista:
questa non è la patria è il pianeta,
l’anima permane dopo la corruzione dopo
l’ombra rimane dopo il corpo.
*
Da La natura delle cose
Tracciato d’una abitazione
Dedica
Chissà se ancora esistono
gli stessi boschi, se ancora
vi rugano le stesse acque
e gli erbari ronzanti e i minuti insetti estivi,
se ancora esiste la casa
e se la neve di allora ancora non si è sciolta,
se ancora rovinano per le foglie
sui sentieri i medesimi sassi e
il caldo della fiamma nella casa
è tuttora acceso non riacceso e la neve
ch’era discesa in eterno in eterno
ha allungato il segno di minio
sulla pertica, se ancora non si è tolta
a quell’altezza il primato e
sulla pertica per il peso della neve
non ha ceduto il cigno,
anche se voci presenti
mi dicono contro ogni evidenza
che l’intero monte ed ogni suo abete
mai sono stati.
*
Da Mattoni per l’altare del fuoco
XXXIII
Io sto qui e da qui
vedo collassare le stelle, implodere i volatili,
cabrare verso il loro dio le nubi
per poi precipitare in lacrime e piogge;
vedo cadere tutto e tutto
ininterrottamente
la foglia, l’ala, il vento
che incitano il bambino giù dal tetto
e la polvere dalla tasca buona del cadavere,
persino volare in aria per un momento
l’erba tosata, la cenere dal vertice del falò
ma senza che mai nulla
giunga mai veramente al suolo,
così che la lacrima resta nel suo occhio, la pioggia nella sua nube.
Io, dalle volute di fimo umide e
dalle pire collinari e dai roghi contadini, credo
siano venuti degli uomini, credo,
ad ardere i campi e con essi la mia vita;
sia lode a loro perché da qui l’illusione è perfetta:
i figli cessano di crescere i genitori non muoiono
in ogni frutto traspare la sua gemma:
rivedo mio padre quando aprì la botola
e discese nel buio e nulla seppe mai più di me,
riodo i fischioni di richiamo lanciati verso qualcuno che non torna,
ed ecco spiegata la ragione del pesce elettrico
negli abissi del mare o perché gli uccelli credono
col loro canto di far sorgere il sole.
Quindi sia lode agli uomini che non dichiarano il proprio amore
e non perdonano e sono spietati
e strappano gli occhi dei fanciulli; sia lode
a quelli che come l’agrostide combustano l’intera loro esistenza
e lo stecco d’erba duro e secco della propria intelligenza
fino alla follia, covone dopo covone, con metodo,
contraendosi ed espandendosi nel fiato di fiamme della vita
per abituarti a guardare ogni cosa
come da dietro una vampa.
Alessandro Ceni
*In copertina: Anthony Van Dyck, Caccia al lupo e alla volpe, 1616 ca.
L'articolo “Vedo collassare le stelle”. Appunti sulla poesia di Alessandro Ceni
proviene da Pangea.
Ha in mano una borsa piena di poesia. Gli occhialini tondi, lo sguardo volto
verso dove i più grandi, suoi simili, hanno guardato: Hölderlin, Dickinson,
Celan. Vuole offrirci un dono immenso. Mentre un’orchidea ora splende nella
mano.
Vuole essere ascoltato.
Non vuole essere capito…
Non siamo noi a dover capire Calogero.
Ci ha capiti lui. Ci ha contenuti nella sua vertiginosa movenza tellurica, e
quotidiana, plasmando e riplasmando il mondo sul secco accento delle sue
immaginifiche parole che delimitano la scoscesa assunzione di un Tutto diverso,
a noi alieno eppure così vicino.
Lo potremo chiamare anima. O mistero.
Il mistero del rispecchiarsi eterno, una nell’altra, della vita e della morte.
Nelle peregrinazioni di uno Spirito che è quello di noi tutti.
Si tratta allora di accettare il suo gesto, e in quello finalmente ritrovarsi,
dopo le ritrosie di troppi decenni. È giunto il momento di dare nuovamente voce
al più grande poeta italiano del Novecento, e di farlo lontano dai pavidi, o
invidiosi, tentennamenti dei lustri che ci separano dalla sua morte terrena. Che
il suo respiro possa movimentare i nostri spiriti, purificare i nostri tormenti,
se “poesia può essere una svolta del respiro”, come ebbe a scrivere il già
citato Paul Celan, certo il più affine poeta del suo tempo a Lorenzo Calogero.
Un respiro simbolo delle umane sofferenze e delle umane gioie, quantunque le
prime prevalgano sulle seconde, come l’amato Leopardi ci ricorda, in quel
viaggio che tutti i poeti (e gli amanti della poesia) unisce: da Omero a
Virgilio, da Dante a Foscolo, da Leopardi a Pascoli, da Ungaretti a Zanzotto.
Ovviamente nella sua straziante, sublime peculiarità, l’opera intera di Calogero
si presenta a una prima lettura quasi “impersonale”. Ho messo le virgolette
perché l’impersonalità delle sue poesie mette in scena simultaneamente l’io e il
tu, il noi e il voi. Perché a parlare in lui è la Poesia stessa. Anche quando si
riferisce direttamente a sé stesso, o alla donna amata, uno scarto improvviso lo
porta, e ci porta, Altrove. “Altrove” è una modalità dello sguardo, capace di
unire soggetto e oggetto e svolgerli poi nelle peripezie del canto. La sua
poesia non ha inizio né fine, né troppo deve insidiarci la mole immensa del suo
lavoro. Poesia in greco significa “fare”, ed il suo è stato un ininterrotto
agire nei segreti della corrispondenza tra le parole e le cose, suo esercizio
unico e sublime, quasi a plasmarne, il demiurgo di Melicuccà, la sterminata
possibilità degli universi in potenza per farli emergere nell’atto concreto
della scrittura e poi rituffarvisi dentro, trascinando con sé il lettore
accondiscendente.
“Accondiscendente” perché il sentiero orfico (come e più che in Dino Campana,
l’unico che si sia avvicinato, in Italia, alle sue altezze e ai suoi abissi) non
richiede la comprensione letterale del suo cammino. Vietata assolutamente la
parafrasi. Si lascia svelare (velare, nascondere due volte, fino allo sfinimento
delle apparenze) nel suo percorso che tutto include, per quanto si colgano i
paesaggi della sua Calabria, quello che effettivamente in vita ha visto, ma
quasi a dissimulare uno smarcamento dal simbolico al vero, passando attraverso
il reale. Lacanianamente, se “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”,
Calogero compie l’operazione alchemica della sua rettificazione, rende la
struttura dell’inconscio come linguaggio, nell’immensa danza di Šiva, il Dio che
distrugge (le forme) perché possano riemergere nuove, attraverso un esodo dal
linguaggio che ne diventa materia cesellata nell’intelaiatura di quella che
chiameremo poesia. Ora, è opportuno ricordare la sapiente quanto apparentemente
ambigua formula di Edoardo Sanguineti: “La poesia è sempre impoetica” (lo stesso
Sanguineti, con pari acume, ebbe anche a segnalare che la poesia, infine, “è il
vero naso di Cleopatra”). Insomma, è nella dimensione dello straniamento che la
poesia in quanto tale ci si offre, pena il declassamento in quel “poetichese”
dal quale Calogero si astenne con estremo rigore, sempre. Non è mai, la sua, una
“bella poesia”. Piuttosto è sublime, nell’accezione che dallo pseudo–Longino al
Rilke delle Elegie Duinesi è stata teorizzata come “tremenda”.
L’inizio di un’impervia ascensione.
Il trascendente in un quotidiano sempre infranto dal battito cardiaco del sole
mediterraneo.
Va detto che è da spazzare via l’immagine dell’uomo Calogero che la pur
preziosissima testimonianza di Giuseppe Tedeschi ci ha lasciato. Quella un po’
distorta del poeta sfigato elemosinante attenzioni che mai gli vennero
fornite. Piuttosto, anche nell’atto risolutivo della sua esistenza terrena, va
ritrovata la baldanza sacrale di un Majakovskij, il sigillo a un’impossibile
danza che trasforma la sua tomba (quella materiale, nel cimitero del suo paese
natio) in oscillazione perpetua che è origine dell’universo e sua riproposta.
L’oracolo dice e non dice, accenna: con in più, nel caso di Calogero, una
componente di forza materica, diremmo pure sensuale, che rende, straniatamente,
il suo essere poeta universale quanto calabrese, etereo e concreto (la poesia,
si sa, vive di ossimori) assieme, particella e onda in assenza di un osservatore
che pure tutto scruta, immoto. Una poesia come quella di Calogero fa paura.
Vincerne la paura è quanto di più peculiarmente umano ci è dato, ed è proprio la
poesia vera a indicarcene la strada e a donarcene la necessaria strumentazione,
dal viaggio di Ulisse a quello dantesco, perché il prezzo dell’ascensione è il
pericolo, come quello di ogni scoperta. Così è sempre stato e sempre sarà, oltre
l’opaco canto delle Sirene, della versificazione gratificante che tanto ha
azzoppato e azzoppa poeti pur celebri o celeberrimi, compresi quelli coevi a
Calogero e che lui aveva ben studiato e in alcuni casi amato, spesso a loro
appellandosi inutilmente (ad eccezione di Leonardo Sinisgalli, che seppe
coglierne, in vita, l’esuberante porsi ai limiti del nostro raziocinio, e tanto
spesso abbandonandone l’angustia perifericità) perché troppo oltre, oppure per
un certo provincialismo di cui l’Italia ha saputo assai raramente liberarsi: ad
esempio, giusto due anni dopo la scomparsa di Calogero, ed almeno negli intenti,
in quelle neoavanguardie che provarono a romperne l’elegante quanto ormai
decadente, se non proprio decaduto, impedimento a infrangere schemi fossilizzati
in un manierismo, vuoi realistico vuoi ermetico, da asfittico salotto
letterario. Non che oggi sia cambiato molto: i veri poeti sono sempre pochissimi
ed eccezionali, gli altri possono anche vincere i Nobel per la Letteratura ma
non disfarsi di canoni, in quanto tali, destinati ad invecchiare e poi a
svanire. Con buona pace di Quasimodo e Montale.
Calogero, con chi lo legge, scopre e segue altri percorsi. I suoi testi più
radicali mi ricordano, sul piano del contenuto quanto quello delle forme, il
“punto d’unione” dello “sciamanesimo tolteco”, che tanta eco ebbe in Italia, nel
decennio successivo alla scomparsa del poeta di Melicuccà, con la diffusione
delle narrazioni di Carlos Castaneda. Il punto d’unione sarebbe ciò che ci
collega tutti alla stessa “immagine” (immagine, sottolineiamo, che sempre muta e
che menti più sottili sanno cogliere nella sua fantasmagoria immaginifica) del
mondo. E in realtà, nell’originale spagnolo “punto d’unione” significa “ricamo,
intreccio all’uncinetto”: un’elaborata trama di visioni che ai più appare
statica, ma che Calogero ci mostra nella sua lunare, continua elaborazione di
orlati tessuti di “pezzi di reale” (diremmo nel gergo della psicanalisi
strutturalista), in un metafisico caleidoscopio che ha i colori dell’anima,
colti nel loro incessante divenire.
Classico è “il nuovo che resta nuovo”, scrisse con rara efficacia Ezra Pound,
che con il poeta di Melicuccà condivide, oltre la grandezza, una certa
“incomprensibilità” secondo i canoni a cui abbiamo già accennato. Il canto di
Lorenzo Calogero è tanto altro quanto per tutti. Basta lasciarsi trasportare. A
chi scrive è capitato più volte di leggere versi di Calogero a non addetti ai
lavori, e specialmente bambini, affascinati per non dire sconvolti dalla sua
potenza. Si tratta di accettarlo così com’è, senza scomodare troppo la parte
sinistra del cervello e il suo bailamme controsapienziale, che alla poesia non
si confà se non in ambito strettamente accademico, dove certo è utile,
utilissimo il lavoro filologico, ma sempre sul filo della sua refertazione,
asettica e, nel caso di Calogero, simile a una vera e propria trappola da cui va
assolutamente liberata. La poesia è, potremmo dire oggi con un termine preso in
prestito dalla musica rock (e pop), “punk”. Sfascia gli argini, distorce la
tradizione per rioffrircela rivitalizzata, nello scandalo della bellezza
impudica, in quella, direbbe Milo De Angelis, “umiltà di una porta” che, proprio
perché colta in quanto tale, si rovescia e diventa epifania, agnizione
dell’insperato.
Tutto in Lorenzo Calogero è illuminato.
E tempi oscuri come il nostro ne hanno un immenso bisogno.
Aldo Nove
*
Da Quaderni di Villa Nuccia
III
Sceglievo poche cose
e questa vita dall’arsura del ponte
era così proclive; ma non volevo
allontanarmi dai luoghi amati.
Sceglievo fra due rose rosse
e tu, primula, forse mi sai dire
come soavemente avvennero
le contese, prima che si presentasse
in luogo di un luogo amato
la faccia lungimirante
cortese di Dio…
*
VI
A tavola rasa,
ma tu non questo mattino eri desta.
Se sapevo qualcosa che nel cuore scivola
e simula la sua meraviglia
tu non questo specchio d’acqua eri
o capelli che scendono lungo il corpo
in questo sorgimento d’astri
e giuocano sul fianco o la tua caviglia.
*
VIII
Ancora eri in attesa
e poi era la vana vanità del giorno.
Mi dispiacque e i pensieri a stormo
passavano cortissimi
e i supplizi erano il pensiero più disadorno
quelli alla cui rupe del tempo
era un faggio intorno.
Mi piacque cantare
ma tu eri di là
forse un frassino, un pensiero
che più non concedi.
Una musica forse vagava di là
come quella che più non concedi.
Erano fili esili di api intorno
e se a te ritorno…
Capre vagavano per l’azzurra siepe
nei vaghi interstizi
dei silenzi del mondo…
*
XVI
…Ma passeggiando di nottetempo
odo questo cinguettio
e un’allodola è come una fronda,
una luce calata dal desiderio del cielo.
Ma, vedi, sono costretto anch’io
e ai piedi, umile, è una tomba
e quando spira vento autunnale
sono vento anch’io.
*
XXI
…Nastri lisci erano di uccelli
e un’orchidea nera fra i baci
vespertini, ora, s’aggrotta.
Tu eri nera tumida ai capelli
e così, per questa vasta oasi,
fuggitiva sopra l’acque
in un riverbero di rose…
*
XXVIII
…Hai di nocciolo la luce
del monte verso cui fievolmente inclini
o rispondi: è il latte, il cuore tardo del monte
nel cuore della penombra, quando,
fissato il silenzio perduto vissuto in due
esso era in disparte.
Tu l’appennino contemplavi dalla sedia;
e che era questo screzio
di cui io non ero parte?
Tu in minutissimi,
piccolissime ansie lo facevi
di un perduto andirivieni.
E questo per la liquida ricchezza
della sommità dei boschi.
Ma tu di chi
facevi parte in trasparenza?
Da Lorenzo Calogero, Poesie scelte 1932-1960, Edizioni Lyriks, Cittanova (RC)
2024
*L’ultimo numero di “Poesia” (Vol. 30, Marzo/Aprile) è dedicato a Lorenzo
Calogero; qui si anticipa per gentile concessione il testo di Aldo Nove
L'articolo Lorenzo Calogero, il poeta assoluto proviene da Pangea.