Il modo migliore per festeggiare la nascita di una nuova casa editrice, che fin
dai primi titoli appare più che promettente, consiste a mio parere nel dedicarle
almeno una recensione, scegliendo, in un catalogo ancora smilzo ma in rapido
sviluppo, un titolo che sembra davvero interpellarci. Mi riferisco a Palingenia,
una nuova realtà editoriale sospesa fra Milano e Venezia – che delle due città
dovrebbe riunire l’efficacia, da una parte, e il fascino, dall’altra –, e qui in
particolare alle memorie della scrittrice austriaca Hertha Pauli intitolate Lo
strappo del tempo nel mio cuore, pubblicate in edizione originale nel 1970,
riedite più volte (l’ultima da Zsolnay tre anni fa) e tradotto oggi con vivace
fedeltà, appunto per Palingenia, da Enrico Arosio.
Il bellissimo titolo, così drammatico e suggestivo, è la variante di alcuni
versi di Heinrich Heine, come la stessa Pauli debitamente riconosce nel prologo;
e se il cuore è quello della narratrice-protagonista, il tempo è l’oscuro e
tormentato periodo che porterà allo scoppio della Seconda guerra mondiale,
mentre lo strappo è quello a cui ciascun individuo e dunque l’intera
collettività furono sottoposti e costretti dalla follia di pochi, da un lato, e
dall’altro anche da un concorso di circostanze inopinate e inarrestabili che ci
sembra oggi così prossimo forse perché – pur riconoscendo che la storia non si
ripete mai del tutto – in quell’epoca troviamo tante sfortunate analogie con la
nostra. A corroborare quest’ipotesi e a suscitare allarme nel lettore di oggi
basta un breve passo in cui la scrittrice racconta quali furono le reazioni
popolari, da parte quindi della gente comune, alle prime decisioni prese per
contrastare la politica hitleriana: “L’Inghilterra aveva dichiarato guerra ad
Adolf Hitler. E la Francia? – che cosa faceva la Francia? Per ora neppure una
parola… Le signore al tavolo accanto si misero a strepitare. L’Inghilterra,
sentii, ci trascinerà di nuovo in guerra… Ma chi ce lo fa fare di combattere per
la Polonia?” Sostituite Ucraina a Polonia e l’equazione diventa quasi
imbarazzante.
Ma chi era Hertha Pauli, anzitutto? Nata nel 1906 in una famiglia della
borghesia intellettuale viennese, ebrea, come molti, a metà, in quanto il padre,
Wolfgang Josef Pauli, medico e biochimico, benché nato ebreo si era convertito
da tempo al cristianesimo, Hertha è anche la sorella minore del fisico e futuro
premio Nobel Wolfgang Pauli. A diciassette anni interrompe gli studi liceali per
darsi al teatro e va a recitare prima a Breslavia, poi con Max Reinhardt a
Berlino. Quando di anni ne ha ventuno, la madre, giornalista e fra le prime
esponenti del movimento femminista, si toglie la vita. Nel 1929 Hertha sposa
l’attore Carl Behr, ma divorzia tre anni dopo, essendosi nel frattempo
innamorata di Ödön von Horváth. Quando questi le annuncia l’intenzione di
sposare un’altra donna, anche Hertha tenterà il suicidio, ma sarà salvata e
manterrà anche in futuro una stretta amicizia con il drammaturgo.
Nel 1933, vista l’atmosfera che si respirava in Germania, se ne torna a Vienna,
dove apre un’agenzia letteraria che rappresenta autori di lingua tedesca e
stranieri. Cinque anni dopo, con gli amici Karl Frucht (Carli) e Walter Mehring,
che compariranno spesso nel libro, decide di trasferirsi a Parigi, passando per
Zurigo (dove dovrebbe incontrare il fratello, che però si trova già a
Cambridge), prima che l’Anschluβ di un paese umiliato, ridotto a
insignificante Ostmark (marca orientale) del Reich tedesco, finisca per rendere
impossibile qualunque fuga. Non le manca anche qualche ragione personale: la sua
biografia della pacifista Bertha von Suttner, Nur eine Frau, non era affatto
piaciuta ai nazisti, che l’avevano messa in cima ai libri vietati. In ogni caso,
l’intuizione di Hertha è giusta: altri intellettuali della sua cerchia, che si
muovono leggermente in ritardo, non sfuggiranno più alle truppe tedesche.
Neanche Parigi, tuttavia, è sicura, lo diventa anzi sempre meno con il passare
dei giorni e dei mesi, tanto che nel 1940 Hertha dovrà lasciarla per raggiungere
la parte ancora libera della Francia, con la speranza di trovare, a Marsiglia,
in Spagna o in Portogallo, un passaggio per gli Stati Uniti.
Per farla molto breve e lasciare al lettore il piacere di scoprire, leggendo il
libro, i dettagli della fuga, assieme a Franz Werfel e alla moglie Alma, Hertha
figurerà – nel suo caso specifico grazie alla segnalazione di Thomas Mann, al
quale aveva cercato di rivolgersi per un aiuto all’inizio delle ostilità – fra i
numerosi intellettuali salvati da Varian Fry con la lodevole e a lungo
misconosciuta iniziativa dell’Emergency Rescue Committee, per il quale Fry era
riuscito ad avere il sostegno (discreto ma tenace) della First Lady, Eleanor
Roosevelt. (A proposito di storia che non si ripete, direi che a distanza di
generazioni non si ripetono nemmeno il valore, la sensibilità e la cultura delle
First Ladies.)
Venendo ora al libro, la scrittura di Hertha Pauli è una scrittura asciutta e
funzionale, perfettamente adatta a un memoir, senza voli pindarici ma fresca e
avvincente. Non v’è dubbio che abbia il dono della sintesi e idee chiare su come
raccontare e sviluppare una storia. Al contempo, sa benissimo di non possedere
né la stoffa né il talento dei grandi scrittori che ha incontrato e che fanno
capolino da queste pagine, da Ödön von Horváth, di cui racconta l’assurda morte
e il funerale, a Joseph Roth, da Franz Werfel a Walter Mehring. Non è forse un
caso che anche in seguito, durante la lunga permanenza negli Stati Uniti, e fino
alla morte nel 1973, Pauli si sia dedicata prevalentemente alla letteratura di
genere, e in particolare a quella per ragazzi. Non le manca però – e per
un memoir come questo è fondamentale – la capacità di cogliere il dettaglio
significativo, finendo per regalarci quasi inavvertitamente qualche piccola
perla descrittiva ed evocativa come il passaggio seguente, posto a metà libro,
proprio all’inizio dell’ottavo capitolo:
> “Arrivammo a Étampes al sorgere del sole. Trovammo un paese in macerie. Ecco
> spiegati i lampi dell’ultima notte. Appoggiata alla porta mezza sfondata di
> una casa c’era una donna. Impietrita dallo spavento, con gli occhi sbarrati
> scrutava il cielo, ritornato azzurro e vuoto. Ci avvicinammo e le chiedemmo
> indicazioni sulla strada. Non si mosse. Solo allora notammo l’azzurro e il
> vuoto anche nei suoi occhi.”
Molto incalzanti e precise anche le pagine iniziali, in cui racconta come,
attraverso quale insieme di sotterfugi e di umiliazioni, si arrivò all’Anschluβ:
la convocazione di Schuschnigg nel “covo dell’aquila” di Hitler a Berchtesgaden,
le manovre di Seiβ-Inquart, l’imposizione dell’amnistia per gli assassini di
Dollfuss, lo scippo del referendum popolare. Un prologo da cui si dipana poi, in
un drammatico crescendo, una vicenda umana individuale che acquista però subito
una valenza simbolica e collettiva.
Uno degli elementi che ci accompagnano lungo tutta la lettura è l’ardua
gestione, da parte della protagonista, delle coordinate di tempo e spazio. La
sua fuga avviene infatti sotto il segno (e la maledizione) di entrambi; è
costretta non solo a continue dislocazioni logistiche, ma anche ad accelerazioni
repentine e rallentamenti che le permettano di sfuggire quanto più a lungo
possibile fra le maglie tanto dell’esercito invasore (i tedeschi ormai penetrati
capillarmente in Francia), quanto della stessa gendarmeria francese a caccia di
stranieri e presunte spie, da deportare in campi d’internamento come quello di
Gurs. (Fu questo del resto il destino di chi come Thea Sternheim, tanto per fare
un solo esempio, era rimasto a Parigi; anche in questo caso, Hertha capì subito
i rischi ai quali si esponeva.) Una riuscita descrizione di questa percezione
del tempo la si trova in uno dei passaggi dedicati, sempre con estremo pudore,
alla storia d’amore che riuscirà a vivere anche in frangenti così drammatici:
> “Insieme alla schiuma della risacca anche i minuti si dissolsero nella sabbia.
> Corremmo in acqua. Mi dimenticai di togliere l’orologio che avevo al polso. Le
> lancette si fermarono, ma non le onde. Ingannammo il tempo per tutta la durata
> della marea.”
Ingannare il tempo, e con esso la soldataglia che la bracca per tutta la
Francia: questo, il compito principale della fuggiasca che, a volte sola, a
volte in compagnia di amici e conoscenti quasi miracolosamente ritrovati nei
vari spostamenti, finisce per raggiungere Marsiglia e infine per salvarsi,
approdando a Hoboken, nel New Jersey, il 12 settembre 1940. Just in time…
Un’altra immagine o elemento simbolico che ricorre più volte nel libro è quella
del ponte: la presenza discreta di quello del paesino di Clairac, dove Hertha
sosta in contemplazione ogni qualvolta riesce a ritagliarsi un attimo di
serenità, rimanda irresistibilmente alla sua stessa concezione della vita,
all’immagine di sé come ponte fra due mondi e due culture. Prima, a Vienna, in
quanto agente letteraria che si occupa della traduzione e della pubblicazione di
opere straniere, poi – una volta trasferitasi negli Stati Uniti – come trait
d’union fra la cultura europea e quella americana.
Hertha Pauli (1906-1973)
Molti, dicevo, gli accenni ai colleghi e amici lasciati per strada o ritrovati
il più delle volte in modo fortunoso. Senza voler mai apparire didascalico o
emblematico, in qualche modo il libro è (anche) un inno all’amicizia,
all’inseparabilità di certi destini. Colpisce inoltre sempre la lucidità e
insieme la delicatezza con cui la scrittrice affronta temi tragici come quello
del suicidio. Si vedano le poche ma intense righe dedicate a Weiss, scrittore
ceco in fuga e povertà perpetua, sostenuto finanziariamente, con la sua
proverbiale generosità, da un altro grande suicida di quegli anni, Stefan
Zweig:
> “Ernst Weiss, invece, fu scovato dai tedeschi lì a Parigi – morto. Nel suo
> albergo si era tagliato le vene dei polsi. Per andare sul sicuro, essendo
> anche medico, prima aveva pure assunto del veleno. Lo avevamo lasciato solo. È
> una cosa, questa, che non mi sono mai perdonata.”
Come per Hasenclever, anche per Weiss gli americani avevano predisposto un visto
d’espatrio, ma essi non ne erano al corrente. Ed ecco allora che i due si
aggiungono all’elenco degli altri suicidi eccellenti di quegli anni, che
comprende anche Benjamin, Toller, Stefan Zweig e Joseph Roth (sia pure, in
questo caso, per interposto alcol). L’elenco degli scrittori tedeschi e
austriaci morti suicidi in quel breve e drammatico episodio della storia è
davvero lungo e impressionante, e terribilmente denso in termini di qualità.
Ma saranno molti, gli errori, il più delle volte forzati e attribuibili alle
circostanze, che Hertha Pauli non riuscirà a perdonarsi. Eppure, in frangenti
come quelli, nel caos di una fuga disperata, certe sottovalutazioni e ingenuità
sembrano a tutti noi, lettori avvinti da questo testo, dei peccati del tutto
veniali; e viene davvero da chiedersi se al posto dei malcapitati protagonisti
di questo libro saremmo stati capaci di maggiore lucidità, di maggiore
disinvoltura. In realtà, sappiamo bene che il comportamento di ciascuno dinanzi
al male assoluto non è prevedibile, e che in questi casi la sorpresa (positiva o
negativa) è a ogni angolo di strada.
Raoul Precht
In copertina: Otto Dix e la moglie Martha fotografati da August Sander nel 1925
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