Il modo migliore per festeggiare la nascita di una nuova casa editrice, che fin
dai primi titoli appare più che promettente, consiste a mio parere nel dedicarle
almeno una recensione, scegliendo, in un catalogo ancora smilzo ma in rapido
sviluppo, un titolo che sembra davvero interpellarci. Mi riferisco a Palingenia,
una nuova realtà editoriale sospesa fra Milano e Venezia – che delle due città
dovrebbe riunire l’efficacia, da una parte, e il fascino, dall’altra –, e qui in
particolare alle memorie della scrittrice austriaca Hertha Pauli intitolate Lo
strappo del tempo nel mio cuore, pubblicate in edizione originale nel 1970,
riedite più volte (l’ultima da Zsolnay tre anni fa) e tradotto oggi con vivace
fedeltà, appunto per Palingenia, da Enrico Arosio.
Il bellissimo titolo, così drammatico e suggestivo, è la variante di alcuni
versi di Heinrich Heine, come la stessa Pauli debitamente riconosce nel prologo;
e se il cuore è quello della narratrice-protagonista, il tempo è l’oscuro e
tormentato periodo che porterà allo scoppio della Seconda guerra mondiale,
mentre lo strappo è quello a cui ciascun individuo e dunque l’intera
collettività furono sottoposti e costretti dalla follia di pochi, da un lato, e
dall’altro anche da un concorso di circostanze inopinate e inarrestabili che ci
sembra oggi così prossimo forse perché – pur riconoscendo che la storia non si
ripete mai del tutto – in quell’epoca troviamo tante sfortunate analogie con la
nostra. A corroborare quest’ipotesi e a suscitare allarme nel lettore di oggi
basta un breve passo in cui la scrittrice racconta quali furono le reazioni
popolari, da parte quindi della gente comune, alle prime decisioni prese per
contrastare la politica hitleriana: “L’Inghilterra aveva dichiarato guerra ad
Adolf Hitler. E la Francia? – che cosa faceva la Francia? Per ora neppure una
parola… Le signore al tavolo accanto si misero a strepitare. L’Inghilterra,
sentii, ci trascinerà di nuovo in guerra… Ma chi ce lo fa fare di combattere per
la Polonia?” Sostituite Ucraina a Polonia e l’equazione diventa quasi
imbarazzante.
Ma chi era Hertha Pauli, anzitutto? Nata nel 1906 in una famiglia della
borghesia intellettuale viennese, ebrea, come molti, a metà, in quanto il padre,
Wolfgang Josef Pauli, medico e biochimico, benché nato ebreo si era convertito
da tempo al cristianesimo, Hertha è anche la sorella minore del fisico e futuro
premio Nobel Wolfgang Pauli. A diciassette anni interrompe gli studi liceali per
darsi al teatro e va a recitare prima a Breslavia, poi con Max Reinhardt a
Berlino. Quando di anni ne ha ventuno, la madre, giornalista e fra le prime
esponenti del movimento femminista, si toglie la vita. Nel 1929 Hertha sposa
l’attore Carl Behr, ma divorzia tre anni dopo, essendosi nel frattempo
innamorata di Ödön von Horváth. Quando questi le annuncia l’intenzione di
sposare un’altra donna, anche Hertha tenterà il suicidio, ma sarà salvata e
manterrà anche in futuro una stretta amicizia con il drammaturgo.
Nel 1933, vista l’atmosfera che si respirava in Germania, se ne torna a Vienna,
dove apre un’agenzia letteraria che rappresenta autori di lingua tedesca e
stranieri. Cinque anni dopo, con gli amici Karl Frucht (Carli) e Walter Mehring,
che compariranno spesso nel libro, decide di trasferirsi a Parigi, passando per
Zurigo (dove dovrebbe incontrare il fratello, che però si trova già a
Cambridge), prima che l’Anschluβ di un paese umiliato, ridotto a
insignificante Ostmark (marca orientale) del Reich tedesco, finisca per rendere
impossibile qualunque fuga. Non le manca anche qualche ragione personale: la sua
biografia della pacifista Bertha von Suttner, Nur eine Frau, non era affatto
piaciuta ai nazisti, che l’avevano messa in cima ai libri vietati. In ogni caso,
l’intuizione di Hertha è giusta: altri intellettuali della sua cerchia, che si
muovono leggermente in ritardo, non sfuggiranno più alle truppe tedesche.
Neanche Parigi, tuttavia, è sicura, lo diventa anzi sempre meno con il passare
dei giorni e dei mesi, tanto che nel 1940 Hertha dovrà lasciarla per raggiungere
la parte ancora libera della Francia, con la speranza di trovare, a Marsiglia,
in Spagna o in Portogallo, un passaggio per gli Stati Uniti.
Per farla molto breve e lasciare al lettore il piacere di scoprire, leggendo il
libro, i dettagli della fuga, assieme a Franz Werfel e alla moglie Alma, Hertha
figurerà – nel suo caso specifico grazie alla segnalazione di Thomas Mann, al
quale aveva cercato di rivolgersi per un aiuto all’inizio delle ostilità – fra i
numerosi intellettuali salvati da Varian Fry con la lodevole e a lungo
misconosciuta iniziativa dell’Emergency Rescue Committee, per il quale Fry era
riuscito ad avere il sostegno (discreto ma tenace) della First Lady, Eleanor
Roosevelt. (A proposito di storia che non si ripete, direi che a distanza di
generazioni non si ripetono nemmeno il valore, la sensibilità e la cultura delle
First Ladies.)
Venendo ora al libro, la scrittura di Hertha Pauli è una scrittura asciutta e
funzionale, perfettamente adatta a un memoir, senza voli pindarici ma fresca e
avvincente. Non v’è dubbio che abbia il dono della sintesi e idee chiare su come
raccontare e sviluppare una storia. Al contempo, sa benissimo di non possedere
né la stoffa né il talento dei grandi scrittori che ha incontrato e che fanno
capolino da queste pagine, da Ödön von Horváth, di cui racconta l’assurda morte
e il funerale, a Joseph Roth, da Franz Werfel a Walter Mehring. Non è forse un
caso che anche in seguito, durante la lunga permanenza negli Stati Uniti, e fino
alla morte nel 1973, Pauli si sia dedicata prevalentemente alla letteratura di
genere, e in particolare a quella per ragazzi. Non le manca però – e per
un memoir come questo è fondamentale – la capacità di cogliere il dettaglio
significativo, finendo per regalarci quasi inavvertitamente qualche piccola
perla descrittiva ed evocativa come il passaggio seguente, posto a metà libro,
proprio all’inizio dell’ottavo capitolo:
> “Arrivammo a Étampes al sorgere del sole. Trovammo un paese in macerie. Ecco
> spiegati i lampi dell’ultima notte. Appoggiata alla porta mezza sfondata di
> una casa c’era una donna. Impietrita dallo spavento, con gli occhi sbarrati
> scrutava il cielo, ritornato azzurro e vuoto. Ci avvicinammo e le chiedemmo
> indicazioni sulla strada. Non si mosse. Solo allora notammo l’azzurro e il
> vuoto anche nei suoi occhi.”
Molto incalzanti e precise anche le pagine iniziali, in cui racconta come,
attraverso quale insieme di sotterfugi e di umiliazioni, si arrivò all’Anschluβ:
la convocazione di Schuschnigg nel “covo dell’aquila” di Hitler a Berchtesgaden,
le manovre di Seiβ-Inquart, l’imposizione dell’amnistia per gli assassini di
Dollfuss, lo scippo del referendum popolare. Un prologo da cui si dipana poi, in
un drammatico crescendo, una vicenda umana individuale che acquista però subito
una valenza simbolica e collettiva.
Uno degli elementi che ci accompagnano lungo tutta la lettura è l’ardua
gestione, da parte della protagonista, delle coordinate di tempo e spazio. La
sua fuga avviene infatti sotto il segno (e la maledizione) di entrambi; è
costretta non solo a continue dislocazioni logistiche, ma anche ad accelerazioni
repentine e rallentamenti che le permettano di sfuggire quanto più a lungo
possibile fra le maglie tanto dell’esercito invasore (i tedeschi ormai penetrati
capillarmente in Francia), quanto della stessa gendarmeria francese a caccia di
stranieri e presunte spie, da deportare in campi d’internamento come quello di
Gurs. (Fu questo del resto il destino di chi come Thea Sternheim, tanto per fare
un solo esempio, era rimasto a Parigi; anche in questo caso, Hertha capì subito
i rischi ai quali si esponeva.) Una riuscita descrizione di questa percezione
del tempo la si trova in uno dei passaggi dedicati, sempre con estremo pudore,
alla storia d’amore che riuscirà a vivere anche in frangenti così drammatici:
> “Insieme alla schiuma della risacca anche i minuti si dissolsero nella sabbia.
> Corremmo in acqua. Mi dimenticai di togliere l’orologio che avevo al polso. Le
> lancette si fermarono, ma non le onde. Ingannammo il tempo per tutta la durata
> della marea.”
Ingannare il tempo, e con esso la soldataglia che la bracca per tutta la
Francia: questo, il compito principale della fuggiasca che, a volte sola, a
volte in compagnia di amici e conoscenti quasi miracolosamente ritrovati nei
vari spostamenti, finisce per raggiungere Marsiglia e infine per salvarsi,
approdando a Hoboken, nel New Jersey, il 12 settembre 1940. Just in time…
Un’altra immagine o elemento simbolico che ricorre più volte nel libro è quella
del ponte: la presenza discreta di quello del paesino di Clairac, dove Hertha
sosta in contemplazione ogni qualvolta riesce a ritagliarsi un attimo di
serenità, rimanda irresistibilmente alla sua stessa concezione della vita,
all’immagine di sé come ponte fra due mondi e due culture. Prima, a Vienna, in
quanto agente letteraria che si occupa della traduzione e della pubblicazione di
opere straniere, poi – una volta trasferitasi negli Stati Uniti – come trait
d’union fra la cultura europea e quella americana.
Hertha Pauli (1906-1973)
Molti, dicevo, gli accenni ai colleghi e amici lasciati per strada o ritrovati
il più delle volte in modo fortunoso. Senza voler mai apparire didascalico o
emblematico, in qualche modo il libro è (anche) un inno all’amicizia,
all’inseparabilità di certi destini. Colpisce inoltre sempre la lucidità e
insieme la delicatezza con cui la scrittrice affronta temi tragici come quello
del suicidio. Si vedano le poche ma intense righe dedicate a Weiss, scrittore
ceco in fuga e povertà perpetua, sostenuto finanziariamente, con la sua
proverbiale generosità, da un altro grande suicida di quegli anni, Stefan
Zweig:
> “Ernst Weiss, invece, fu scovato dai tedeschi lì a Parigi – morto. Nel suo
> albergo si era tagliato le vene dei polsi. Per andare sul sicuro, essendo
> anche medico, prima aveva pure assunto del veleno. Lo avevamo lasciato solo. È
> una cosa, questa, che non mi sono mai perdonata.”
Come per Hasenclever, anche per Weiss gli americani avevano predisposto un visto
d’espatrio, ma essi non ne erano al corrente. Ed ecco allora che i due si
aggiungono all’elenco degli altri suicidi eccellenti di quegli anni, che
comprende anche Benjamin, Toller, Stefan Zweig e Joseph Roth (sia pure, in
questo caso, per interposto alcol). L’elenco degli scrittori tedeschi e
austriaci morti suicidi in quel breve e drammatico episodio della storia è
davvero lungo e impressionante, e terribilmente denso in termini di qualità.
Ma saranno molti, gli errori, il più delle volte forzati e attribuibili alle
circostanze, che Hertha Pauli non riuscirà a perdonarsi. Eppure, in frangenti
come quelli, nel caos di una fuga disperata, certe sottovalutazioni e ingenuità
sembrano a tutti noi, lettori avvinti da questo testo, dei peccati del tutto
veniali; e viene davvero da chiedersi se al posto dei malcapitati protagonisti
di questo libro saremmo stati capaci di maggiore lucidità, di maggiore
disinvoltura. In realtà, sappiamo bene che il comportamento di ciascuno dinanzi
al male assoluto non è prevedibile, e che in questi casi la sorpresa (positiva o
negativa) è a ogni angolo di strada.
Raoul Precht
In copertina: Otto Dix e la moglie Martha fotografati da August Sander nel 1925
L'articolo “Corremmo in acqua”. Hertha Pauli, memorie dal cuore del secolo
proviene da Pangea.
Tag - Seconda guerra mondiale
Nel 1994 la New Directions, la mitica casa editrice fondata da James Laughlin su
ispirazione di Ezra Pound, pubblica come Shadow Lands un’antologia di versi di
Johannes Bobrowski, “il più importante poeta tedesco di questo secolo”. Il poeta
era morto trent’anni prima, a Berlino Est, a causa dell’aggravarsi di
un’appendice; non aveva ancora compiuto cinquant’anni. Di Bobrowski – al di là
della poesia, vertiginosa – attiravano due cose, a giustificare il ‘successo’
nel mercato editoriale inglese. La prima è nascosta nel titolo: Shadow
Lands consuona con The Shadow Line, il più noto – non il più bello – tra i
romanzi di Joseph Conrad. Bobrowski, nato a Tilsit, il borgo eretto dall’Ordine
Teutonico nel XIV secolo, già Prussia Orientale, Russia dalla Seconda guerra,
era il trisnipote di Conrad. In particolare, il suo avo, Tadeusz Bobrowski, è
stato zio e mentore di Conrad: nel 1991 Sellerio ha tradotto le sue Lettere al
grande scrittore inglese. Se Conrad è stato il cantore dei mari, degli uomini
soli a conflitto con la furia degli elementi, Johannes Bobrowski, diciamo così,
è stato un costruttore di miti, ha navigato – su zattera – nei meandri
dell’oceano interiore. Ma a questo arriveremo dopo.
Un’altra cosa affascinava gli anglofoni. Nato nel 1917 da un ufficiale delle
ferrovie, cresciuto a Königsberg (ora Kliningrad), sempre sui confini, Bobrowski
viene arruolato nel ’39, partecipa alla guerra su tutti i fronti – francese,
polacco, sovietico – fino a essere arrestato dai russi, nel ’45, per quattro
anni, costretto ai lavori forzati in una cava di carbone. Bobrowski nasce poeta
in guerra (“Ho cominciato a scrivere nel 1941, lungo le rive del lago Ilmen sul
paesaggio russo, ma da straniero, da tedesco. Di qui ne è scaturito un tema che
potrebbe suonare così: i tedeschi e l’oriente europeo”); sorprende il contrasto
tra l’orrore e la necessità di dissotterrare i miti di una terra martoriata,
dove tedeschi e lituani, polacchi ed ebrei vivano consuonando. Nel dire di
Bobrowski si vaga tra leggende lucidate nel sangue e nel latte, in un sovrappiù
di innocenza: si va con l’arco a tracolla, con la canoa, nel senzatempo
dell’infanzia dell’uomo. Si va con postura d’agguato – con la foga di chi ha
perso tutti gli alfabeti, gli restano le briciole, e con quelle tenta di
adescare, ancora e ancora, la poiana e la nottola, la volpe e l’ermellino, e
ricomporre un canto che dica la fanciullezza delle betulle, il cielo appena
tosato, il suo urlo. Nell’azione lirica di Bobrowski i paesaggi abbacinanti di
Isaak Levitan levitano nel nero incanto di Georg Trakl, il Kalevala, finnico
innario, epico canto, si fonde con la lingua di Novalis.
Quanto al resto, Bobrowski lavorò come redattore in diverse case editrici.
Esordì nel 1961 con la raccolta Sarmatische Zeit: nei Sarmati del Baltico, il
poeta intravede l’orda di una poetica, di una drittura morale – nell’era
orizzontale, monca di miti, il poeta volta la nostalgia in lotta, segue il poema
nel greto, diventa uccello e parente dei sonnambuli, si dice erede dell’astore e
del lupo. Nell’aprile del 1943, durante una licenza, aveva sposato Johanna
Buddrus: il matrimonio avvenne nella fattoria dei genitori di lei. Il poeta,
figlio di battisti, aveva conosciuto Johanna ventenne: avranno quattro figli.
Per un po’, frequentò il Gruppo 47 – in cui transitarono, tra i tanti, Uwe
Johnson, Paul Celan, Hans Magnus Enzensberger –; pare abbia avuto una relazione
con lo scrittore Hubert Fichte.
La vita lirica di Bobrowski si compie con altre due raccolte, Schattenland
Ströme (1962) e Wetterzeichen(1966), che lo rendono uno dei poeti tedeschi più
autorevoli del secondo Novecent. Herta Müller ha detto delle sue “inaudite
immagini linguistiche”, di “una lingua che ferisce durante la lettura”. In
Italia, Bobrowski è stato pubblicato da Mondadori (una raccolta di Poesie è
uscita nel 1969 a cura di Roberto Fertotani); nel 2013 l’editore Di Felice ha
pubblicato un’antologia di Poesie a cura di Davide Racca. Nel 1968 Garzanti ha
pubblicato Il mulino di Levin, curioso romanzo del poeta.
C’è qualcosa di aurorale nelle poesie di Bobrowski, c’è il volto del pioniere,
il coraggio di andare oltre la ‘linea d’ombra’ della letteratura. Sempre si
arranca verso il futuro arretrando. Come il cacciatore, saturo d’erba, che in
cuor suo ha dimenticato la patria e la via del ritorno, che a forza di sognare
il giaguaro è diventato preda, l’essere più fragile, a cui non resta che il
canto, l’estremo sparo che unisce questa ferita terra alla gorgiera dell’ultimo
cielo.
***
Strade di uccelli
I
Nella pioggia dormivo,
nel canneto di pioggia mi svegliai.
Prima che sfogli, vedo la luna vicina,
sento il grido degli uccelli di passo,
lo scuotitore dell’aria, il bianco
grido, che frantuma l’aria.
Rapida e acuta
come fiutano i lupi,
sorella, ascolta: Väinämöinen
canta in mezzo al vento,
getta l’ala di neve
sulla tua spalla, noi siamo spinti
a volo nel vento dei canti –
II
ma sotto grandi
cieli solitari, abbandonate
strade delle pennute
schiere, che trascorsero –
dormendo sui venti
passarono, un nuovo
sole si accese, la vampa
si levò nell’alto, loro bruciarono
nell’albero di cenere.
Là hanno preso il volo
anche i nostri canti.
Sorella, le tue mani
si sbiancano, tu nel buio mi svanisci
nel sonno – quando io devo
cantare l’angoscia degli uccelli?
(Traduzione di Roberto Fertotani)
*
Canti di Lettonia
Mio padre lo sparviero.
Un lupo mio nonno.
E l’antenato il pesce predone nel mare.
Io, imberbe, un folle,
barcollando agli steccati,
con mani nere
soffoco un agnello alla prima luce dell’alba. Io,
che braccai le bestie
invece del bianco
signore seguo i carri che sfrecciano
lungo i greti dragati dall’acqua,
mi volgo verso gli sguardi
delle zingare. Poi
sulla riva baltica incontro Uexküll, il signore.
Cammina sotto la luna.
Le tenebre mormorano dietro di lui.
*
Pianura
Lago.
Il lago.
Sprofondate
le rive. Sotto la nube
la gru. Bianchi, lucenti
i millenari popoli
dei pastori. Con il vento
ho risalito il monte.
Qui voglio vivere. Io ero
un cacciatore, ma l’erba
mi ha catturato.
Insegnami a parlare, erba,
insegnami a essere morto, ad ascoltare
a lungo e a parlare, pietra,
insegnami a restare, acqua,
e tu, vento, di me non chiedere.
*
Sera estiva
Guarda, guarda oltre il rossore
oltre la foresta e la nera muraglia.
L’acqua brilla ancora ed è bianca.
Il silenzio è vivo, lì, è segreto e buono.
E tu, dove vivi? La Terra non è
abbastanza per te, l’inesplicata?
Spazio in abbondanza offre, spazio
senza contegno, per gioire e morire.
Guarda, sopra ogni cosa fluttuano le nubi
e si stagliano le stelle… Come posso ripeterlo?
Oh Terra, Terra, mai angusta, troppo
ricca per noi, troppo generosa.
*
Figure invernali
Nient’altro che neve. Vasta pianura.
Il blu è appena levigato
e viene in massa oltre le colline.
Finalmente, oscurità – silenzio.
Queste sono le foreste. Umili strati
sotto l’imperiale costruzione
del cielo. All’orizzonte, il rebus
delle nubi è già grigio, a frantumi.
Nessun sentiero sfida i colli
Un rapace dissotterra il nero
dal bianco. Recinti di filo spinato
tracciano linee nell’inesplorato.
*
E nominare, sempre:
l’albero e l’uccello in volo
la rossa rupe su cui scorre
il fiume e il pesce
nel bianco fumo, mentre il buio
sovrasta i boschi.
Segni, colori, è un gioco –
ne dubito – potrebbe
non finire bene.
E chi mi insegna
ciò che ho dimenticato: il sonno
delle pietre, il sonno
degli uccelli in volo
e quello degli alberi – forse
il loro parlare continua
al buio?
Se esistesse un dio
se esistesse nel corpo
e potesse chiamarmi
gli andrei incontro
per aspettarlo.
*
Era fiacco il vento
e noi vivevamo nelle capanne
in riva al fiume. Mentre le rive
si oscuravano, fischiavano le canne.
Eravamo bambini
e ci allettava il canto.
Venne il gelo e la pioggia
venne il tuono e la nube –
così sulla terra passa il tempo.
Quel tempo che è
passato di mano in mano
come frutti rossi. L’inverno
scorreva nella luce.
Quel tempo è passato:
abbiamo abbandonato i villaggi
alla sabbia e non ci ha sedotti
la nostalgia della zattera.
Che dolore fare il fuoco
per lo straniero – qualcuno
cantava la canzone:
un tempo fioriva il melo.
Dove volete
vivere? Tutto è sempre
terra ma noi ci sdraiamo
perché i bambini
non hanno più un villaggio.
Ma i boschi e le canne
la costa e i covoni e la gente
che veniva dalla foresta
tornano in noi – il falco
che plana su un’eco blu.
Scoloriscono gli sguardi
quando varchiamo l’arco
dei nostri anni, quando
contiamo le gioie della terra.
Il sangue romba nel cuore
e appella ai figli, li prende
per i capelli: quando cala
la sera, dici Resta ancora così
come quando non sapevi
chi eri.
Johannes Bobrowski
L'articolo “Mio padre lo sparviero”. Le poesie leggendarie di Johannes Bobrowski
proviene da Pangea.
Due anniversari poundiani ci ‘obbligano’ a rileggere il poeta-totem del secolo.
Il primo è sul bivio della tragedia: ottant’anni fa – era il maggio del 1945 –
Pound viene arrestato con l’accusa di alto tradimento, recluso in un campo, a
Pisa, in durissime condizioni. In giugno subisce diverse visite psichiatriche;
sarà poi scortato nel reclusorio militare di St. Elizabeths, Washington DC.
D’altro stampo il secondo anniversario: il 9 luglio Mary de Rachewiltz compie
cento anni. La figlia – nata dall’unione di Pound con la violinista Olga Rudge –
ha dedicato la vita alla divulgazione e alla traduzione delle opere del padre,
custodendone il carisma. Una mostra, allestita presso il Palais Mamming di
Merano, “Mary’s Dream. Portrait of a Lady”, ne riassume l’esistere, a suo modo
rude – e regale. In memoria di Ezra Pound, l’ultimo numero di “Studi Cattolici”,
la rivista di Ares – tra i rari, integerrimi editori ‘poundiani’ in Italia –
dedica un “Quaderno” speciale da cui abbiamo estratto lo studio di Alessandro
Rivali, già autore del libro-intervista “Ho cercato di scrivere Paradiso. Ezra
Pound nelle parole della figlia” (Mondadori, 2018). Il fascicolo è arricchito da
materiali poundiani inediti tratti dall’archivio di Cesare Cavalleri; è
trascritta inoltre una lettera di Pound alla figlia dalla prigione di Pisa il 19
ottobre del 1945, di particolare bellezza, a liceità di un ‘compito’: “sei
autorizzata a curare il mio ms [manoscritto] ma non voglio che tu venga
sommersa, preferirei piuttosto che tu scriva dieci pagine per conto tuo invece
di curarne un centinaio. Ok per un lavoro di dieci anni nel tuo tempo libero, ma
attenta a non affondare in un lavoro accademico”.
**
Ottant’anni fa – era il 3 maggio del 1945 – iniziò la prigionia del poeta Ezra
Pound (1887-1972). Sulle sue spalle pesava la gravissima accusa di tradimento,
per aver parlato – da cittadino statunitense – ai microfoni della Radio
Fascista1. Dopo i primi interrogatori, relativamente tranquilli, a Genova,
presso il Centro del controspionaggio americano distaccato presso la 92ª
Divisione Usa, il 25 maggio il poeta fu portato al campo di reclusione e
rieducazione per soldati americani costruito nel comune di Metato, a nord di
Pisa. Qui, Pound fu rinchiuso in una gabbia non troppo diversa da quelle che
abbiamo visto nei servizi tv dedicati alla prigione di Guantanamo. Esposto al
sole cocente di giorno e alla luce dei riflettori di notte, in uno spazio
ristrettissimo e senza ripari, incerto sulla sua condizione futura, che avrebbe
potuto anche condurlo sulla sedia elettrica, il poeta pensò – come mi confidò la
figlia Mary – al suicidio, forse tagliandosi i polsi con il reticolato con cui
era stata rinforzata la sua gabbia. Il 18 giugno Pound patì un collasso nervoso
dovuto all’asprezza della detenzione, e di conseguenza gli furono concesse
condizioni mitigate nell’infermeria del campo.
In queste circostanze così drammatiche il poeta continuò a scrivere
quei Cantos che nel suo intento dovevano essere il Grande poema americano e a
cui si era dedicato anima e corpo dagli anni della Prima guerra mondiale (i
primi tre canti, poi completamente rivisti, uscirono su Poetry nel 1917).
I canti nati dalla prigionia di Pisa – i famosi Pisan Cantos, vincitori del
prestigioso Premio Bollingen del 1949 – sono forse il momento più alto e
commosso della multiforme avventura poetica di Pound. Sono il personalissimo
“Purgatorio” di un uomo su cui «il sole è tramontato», che scopre che «la carità
più profonda / si trova fra chi ha infranto / le regole», che si sente un «cane
bastonato sotto la grandine» e che comprende che «chi ha trascorso un mese nelle
celle della morte / non crede più alla pena capitale / Dopo un mese nelle celle
della morte un uomo / non ammetterà gabbie per belve». Nel suo Commento
ai Cantos, in appendice all’edizione del ‘Meridiano’ Mondadori, la figlia Mary
scriverà dei Pisani: «Si possono considerare anche un testamento, un addio agli
amici e un’autobiografia degli affetti».
Pound nel campo di Pisa scrive sull’improvvisato materiale che ha a
disposizione, fosse pure un lembo di carta igienica (se ne può vedere uno in
foto nell’edizione New Directions dei Pisan Cantos curata da Richard Sieburth2).
Pound diventa uno scriba che ha per appiglio lo scrigno della memoria e per
ispirazione la realtà osservabile dalla gabbia. È «sostenuto» dall’apparizione
di una lucertola, nota «gli uccelli selvatici [che] mangiavano pane bianco»,
come «un grillino verde / smeraldo più pallido» a cui «manca la zampina destra»,
suggerisce perfino a un felino intruso di cambiare le sue abitudini: «Gatto
ladro nottambulo lascia stare i miei duri tomi / non è cibo per gatti / se tu
fossi più furbo / verresti all’ora dei pasti / quando la carne abbonda / non
puoi mangiare i manoscritti né il Confucio / e neppure la Bibbia / fuori da
questa scatola di lardo / timbrata W, 11 o o 9 o / che mi fa da guardaroba». E
ancora, Pound benedice il vento che «sa di mare» e lo «toglie all’inferno, alla
fossa / alla polvere e alla luce accecante».
Nei Pisani Pound è la «formica solitaria da un formicaio distrutto» e «dalle
rovine dell’Europa» si chiede se rivedrà «le antiche strade», inoltre riavvolge
il nastro della memoria fino al giorno in cui lasciò l’America per l’Europa con
80 dollari in tasca e il sogno di diventare poeta. Nel suo “diario di un dolore”
dietro i reticolati scriverà alcuni dei più toccanti versi del Novecento, tra
cui quelli indimenticabili del Canto 81: «Quello che veramente ami rimane, / il
resto è scorie / Quello che veramente ami non ti sarà strappato / Quello che
veramente ami è la tua vera eredità».
Il primo traduttore dei Pisani fu Alfredo Rizzardi che compendiò bene i motivi
portanti dell’opera:
> “Nei Canti pisani la fantasia scopre la memoria, e il suo calore non è più
> fuoco fatuo, ma giunge a bruciare. Costante in ogni pagina è la scoperta della
> propria vita passata, per cui le figure evocate nel cerchio infiammato della
> propria vita passata paiono ancora più reali, più vive di quelle sbiadite, che
> lo circondano. Amici. Compagni di giovinezza, figure care: evocate dalla terra
> dei morti quasi il Poeta vi avesse posato il piede e a essi parlasse”3.
*
I Drafts and Fragments
Se i Pisani sono felicemente noti, non si può dire lo stesso per l’ultimo
tassello del grande poema incompiuto (o “infinito” secondo la suggestione della
figlia Mary) dei Cantos. Quei Drafts and Fragments che in Italia conosciamo in
tre edizioni: Scheiwiller (1973, a cura di Mary de Rachewiltz), Guanda (1981, a
cura di Carlo Alberto Corsi e Michelangelo Coviello) e quella del ‘Meridiano’
Mondadori preparato sempre da Mary de Rachewiltz nel 1985 per il centenario
della nascita di Pound.
Questi ultimi frammenti sono di una bellezza lacerante. Schegge purissime.
Bagliori carichi di pietasche segnano il tempo di un uomo al tramonto della
vita. Di un uomo che aveva scontato senza processo tredici anni di manicomio
criminale a Washington e che, una volta tornato in Italia, correva l’estate del
1958, sognava di dare un “Paradiso” al suo poema. La realtà fu ben diversa,
senz’altro più cruda.
Gli anni del “ritorno” non furono facili. Pound era invecchiato, era stato
privato della personalità giuridica e affidato alla moglie Dorothy, nominata suo
tutore legale, da tanti era considerato un “nemico” dal passato ingombrante,
sentiva la mancanza di troppi amici. Eppure, in quel tempo difficile, iniziò gli
appunti per l’ultimo tratto del suo lungo viaggio. Iniziò a scrivere a
Brunnenburg, il castello di Mary e Boris de Rachewiltz a Tirolo, pochi
chilometri sopra Merano, cercando di combattere i demoni che di volta in volta
lo tentavano: i rigori del clima, l’isolamento del luogo, la solitudine, lo
spaesamento e persino la gelosia delle donne intorno a lui, come avrebbe
annotato nel Canto 113. Per il poeta Brunnenburg sarebbe dovuta essere la
personale Ezuversity dove accogliere discepoli e amici e continuare a scrivere
(come aveva fatto negli anni di reclusione in cui aveva lavorato alle
sezioni Rock Drill e Thrones dei Cantos). Invece iniziò il sofferto periodo
del tempus tacendi. Resta magnifico il ritratto di Grazia Livi
per Epoca tracciato a cinque anni di distanza dal rientro in Italia:
> “La prima cosa che colpisce, in Ezra Pound, è la sua genialità ormai vinta e
> naufragante oltre gli illusori confini del mondo. È ancora diritto e solenne
> d’aspetto, con la faccia asciutta ornata da una bianca barbetta appuntita, le
> mani magre e agili, il gesto da gentiluomo che subito si alza in piedi e offre
> la sua poltrona, ma nello stesso tempo si ha la chiara impressione che egli
> non appartenga più a sé stesso e che tutti gli elementi della sua persona
> siano coordinati fra di loro in maniera puramente fisica, funzionale. L’occhio
> è come vitreo e contempla le facce, gli oggetti con una fissità dolorante; la
> voce emerge a fatica dal torace stanco a comporre lentissime frasi meditanti;
> i piedi immobili sul tappeto, sono calzati di pantofole. Non c’è un libro,
> attorno a lui, che testimoni della sua gloria trascorsa: solo un’edizione
> parigina dei primi sedici Cantos, pubblicata nel 1925 […]. Questo, infatti, è
> Ezra Pound al giorno d’oggi: non un uomo ma un simbolo, che mantiene rapporti
> soltanto formali con la vita; non un personaggio, ma una presenza che guarda
> alle vicende di questo mondo con animo già liberato, già lontano, già
> naufragante nella tragica e illuminata saggezza che precede la fine”4.
Il Centro Apice dell’Università degli Studi di Milano è una miniera di
informazioni per gli amanti di Pound, in primis perché custodisce l’archivio
Scheiwiller, l’intrepido editore che sostenne sempre il poeta americano,
pubblicando nel 1955, tra l’altro, in anteprima mondiale, Section: Rock-Drill
85-95 de los cantares.
Nell’archivio è custodita un’interessante lettera di Ugo Dadone (1886-1963),
amico di Boris e poliedrica figura di giornalista, viaggiatore e “agente
segreto”, che ospitò Pound a Roma nel 1961. Dadone raccontava con preoccupazione
a Scheiwiller le difficilissime condizioni del poeta. A suo dire, Pound si
sentiva in colpa per aver combinato “guai” a Brunnenburg, era depresso perché
non aveva più amici, il suo conto in banca era in passivo e non voleva più
pubblicare perché non sarebbe stato comunque pagato; infine, non si sentiva in
grado di fare nulla di buono perché non aveva più idee da svolgere.
Era il Pound che l’anno prima aveva scritto a Eliot (15 aprile 1960) dicendo che
si sentiva seduto sulle proprie “rovine”: a tale missiva l’autore di The Waste
Land rispose con un telegramma: «Tu sei il più grande poeta di sempre. E io devo
tutto a te».
*
L’iter della pubblicazione degli ultimi Cantos
In questo contesto delicato iniziò l’iter che avrebbe rocambolescamente portato
alla pubblicazione dei meravigliosi Drafts and Fragments. La figlia Mary parlò
di «un crepuscolo con tenerezza e rimpianto e un’affermazione della propria
innocenza», mentre Massimo Bacigalupo nel suo indispensabile L’ultimo Poundparlò
di «una nuova, sofferta, temperie psicologica»:
> “Il Poeta che s’era lasciato allegramente alle spalle la pietra miliare del
> Canto 100 senza quasi farci caso e che emerge indenne, “aloof”, cinquanta
> pagine innanzi dalle “onde scure” che hanno più d’una volta minacciato di
> sommergerlo, sente ora che la sua poesia – e la sua vita – ha i giorni
> contati, che il “nemico” – non più l’ossessivo “they” ma l’oscurità, la morte,
> e anche un mondo di cultura dal quale egli è escluso – sta guadagnando terreno
> da tutte le parti, al punto di invertire le posizioni mantenute nonostante
> tutto – in quanto conditio sine qua non dello scrivere – sino a ora”.
Nel ricco saggio Hall of Mirrors6 Peter Stoicheff ha ricostruito un periodo di
vicenda della pubblicazione di questi ultimi Cantos, pubblicazione che avvenne
con un Pound riluttante che non si sentiva pronto per l’ultima revisione e che
fin dal 17 ottobre 1959 aveva annotato «la bellezza perduta per mancanza di
energia nella mano che scrive»7.
Tutto nacque dall’intervista che Donald Hall chiese a Pound per la Paris Review,
rivista di cui Hall era allora poetry editor. Si incontrarono per tre giorni a
Roma, in via Poliziano, nel tempo in cui Pound era ospite di Dadone. Pound
voleva essere pagato per l’intervista e in risposta si sentì dire che si sarebbe
potuto fare, ma che l’intervista sarebbe dovuta essere corredata da poesie
inedite. Pound propose gli inediti Versi prosaici e alcune lettere inedite a
Basil Bunting, ma la proposta venne respinta; la rivista rilanciò per avere
un’anteprima di nuovi Cantos. Pound mandò le bozze di sette Canti acconsentendo
poi alla pubblicazione dei Canti 115 e 116. Quando James Laughlin, lo storico
editore di Pound con le sue New Directions, vide il materiale, scrisse al poeta
che aveva letto qualcosa di veramente meraviglioso, erano versi semplicemente
«magnifici». Non fu però Laughlin a pubblicare l’ultimo tassello dei Cantos. Fu
“bruciato” nel 1967 dall’edizione pirata di Fuck You Press (un nome un
programma…) di Ed Sanders, che aveva avuto il materiale “incandescente” da Tom
Clark, un ragazzo che stava preparando una tesi sulla struttura dei Cantos e che
a sua volta aveva ricevuto i dattiloscritti da Hall. La Fuck Press stampò (o
disse di aver stampato…) 300 copie dei Drafts and Fragments che andarono subito
a ruba. Per Laughlin si trattò di un’edizione disgustosa, ma fu il volano perché
New Directions desse il via all’edizione autorizzata che noi conosciamo. Una
curiosità: c’è stato anche uno studioso come Joshua Kotin che si è messo sulle
tracce delle 300 copie per cercare di “mapparle” (finora è riuscito a
rintracciare il destino di 152 esemplari)8.
Una nota a margine. L’intervista di Pound con Hall fu pubblicata nel
prezioso Per conoscere Pound9 e offre molti spunti sugli ultimi pensieri del
poeta. Pound ricordava come un poeta dovesse avere «una curiosità continua»,
come l’artista «dovesse continuare a muoversi». Non dissimile il suo consiglio
per i giovani. A suo parere andavano incoraggiati a “migliorare la loro
curiosità” senza fingere,
> “ma ciò non basta. La pura registrazione del mal di pancia, il solo svuotare
> il cestino non basta. Infatti la coppa di ponce degli studenti dell’Università
> di Pennsylvania aveva come motto: «Qualsiasi cretino può essere spontaneo»”.
Nel corso della conversazione Pound ammetteva le sue difficoltà a concludere
i Cantos con un paradiso:
> “È difficile scrivere il paradiso quando tutti i segni superficiali dicono
> che dovresti scrivere un’apocalisse. È più facile trovare abitanti per
> l’inferno o anche per il purgatorio. Sto cercando di riunire e fissare i più
> alti voli della mente…”
*
La verità sta nella tenerezza
Pur con queste drammatiche premesse, gli ultimi frammenti di Pound restano tra i
momenti più alti della sua poesia. Sono l’esame di coscienza di un grande
dolente all’epilogo della vita. Sono le illuminazioni piene di tenerezza di un
uomo che ha inseguito l’arte (rinnovandola) in ogni istante della sua vita. Che
ha visto da vicino la bellezza, la morte e la disperazione. È un poeta in cerca
di «una quieta dimora», di «un amato e quieto paradiso» e che, come scrive
nel Canto 110, riesce a vedere con occhi di «corallo o turchese». È una
scrittura difficile, ma allo stesso tempo carica di accensioni ed epifanie.
Ritornano i luoghi cari, dalla Liguria a Venezia, gli affetti, gli eletti da
inserire nel paradiso (Mozart, Agassiz e Linneo), i versi perfetti segnati dalla
lunga confidenza con l’Estremo Oriente: «Il mare oltre i tetti, ma sempre mare e
promontorio. / E in ogni donna, pur fra l’acredine c’è una tenerezza, / Una luce
azzurra sotto le stelle».
È un poeta che, come tutti i grandi poeti, dona sentenze memorabili che
racchiudono un mondo: «La verità sta nella tenerezza». Ritorna il tema
dell’umiltà, così presente nei Pisani, perché è «un uomo che cerca il bene, / e
fa il male», ed è consapevole che «la bellezza non sta nella pazzia / Anche se
cocci ed errori miei mi circondano. / E non sono un semidio, / Non riesco a
dargli un nesso. / Se in casa l’amore manca, manca tutto».
E, ancora, «Ammettere l’errore e tenere al giusto: / Carità talvolta io l’ebbi,
/ non riesco a farla fluire. / Un po’ di luce, come un barlume / ci riconduca
allo splendore ora».
Un poeta della sensibilità di Giovanni Raboni colse al volo la grandezza di
questi frammenti. Nell’introduzione alla bellissima edizione Guanda preparò una
memorabile pagina di accompagnamento, in cui tra l’altro affermava:
> “Col passare del tempo, la grandezza della poesia di Pound mi appare sempre
> più evidente, solitaria e indimostrabile. A volte ho l’impressione di trovarmi
> solo a contemplarla, e mi prende il timore che, a chi me ne chiedesse conto,
> non saprei rispondere che con un gesto di rinuncia o una parola di sgomento.
> Altre volte, è come se questa grandezza mi fosse stata rivelata in sogno, e il
> suo segreto, la sua prova scomparissero, si dissolvessero ogni mattina con
> l’avvento della luce… […] Ma ecco, intanto, una buona occasione per rileggere,
> e ripensare, Pound: questi stupendi Drafts & Fragments, che… hanno il grande
> merito o vantaggio di mostrarci un Pound anche praticamente in bilico e
> tensione fra “poema” e “frammento”, fra la drammatica, impossibile ricerca
> dell’unità e della compiutezza e l’esaltante vitalità della dispersione,
> dell’esplosione, del molteplice. Insomma, un Pound ancora più fortemente e
> visibilmente “potenziale” – sino al puro abbozzo, al puro appunto stenografico
> –, ancora più vicino del solito a quello stato di energia pura, non incarnata
> né incarnabile una volta per tutte, che costituisce la verità più profonda (il
> segno – il sogno – più vero) della sua grandezza”.
Il parere di Raboni si accorda perfettamente a quanto scrisse Ford Madox Ford
per l’opuscolo che accompagnò la pubblicazione americana di XXX Cantos nel
1933:
> “La prima parola da dire sui Cantos è bellezza. E l’ultima sarà bellezza. La
> loro straordinaria incomparabile bellezza. Formano una storia del mondo senza
> eguali vista da queste coste che sono la culla della nostra civiltà… E una
> sola cosa è necessaria alla nostra società più della Storia. Ed è che ci sia
> da qualche parte un’opera d’arte o qualcuno che produce un’opera d’arte che
> ogni volta che la visiti susciterà infallibilmente in te delle emozioni.
> Questo è quanto fanno i Cantos”.
E per avere la misura di questa tersa grandezza forse non c’è modo migliore che
riportare alcuni luminosi frammenti della versione finale dei Cantos scelta da
Mary de Rachewiltz:
“Ho provato a scrivere il Paradiso
non ti muovere,
lascia parlare il vento
così è Paradiso
Lascia che gli Dei perdonino quel che
ho costruito
Chi ho amato cerchi di perdonare
quello che ho costruito
[…]
Uomini siate non distruttori”.
Alessandro Rivali
1 Sulla vicenda si veda il recente Luca Gallesi, Ezra Pound a Pisa – Un poeta in
prigione, Ares, Milano 2024. Per un inquadramento a tutto tondo degli ultimi
anni di Pound: A. David Moody, Ezra Pound: poet, vol. III, The Tragic Years
1939-1972, Oxford University Press, Oxford 2015.
2 New Directions, New York 2003.
3 A. Rizzardi, La maschera e la poesia in Ezra Pound, in Canti Pisani di Ezra
Pound, Guanda, Parma 1953, p. XXIII.
4 G. Livi, “Vi parla Ezra Pound: Io so di non sapere nulla”, intervista con Ezra
Pound, Epoca, n. 652, 24 marzo 1963, pp. 90-93.
5 M. Bacigalupo, L’ultimo Pound, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1981, p.
525.
6 P. Stoicheff, The Hall of Mirrors: “Drafts & Fragments” and the End of Ezra
Pound’s “Cantos”, University of Michigan Press, Michigan 1995.
7 Commento a Stesure e frammenti dei Cantos CX-CXVII, in E. Pound, I Cantos, a
cura di Mary de Rachewiltz, Meridiani Mondadori, Milano 1985, p. 1629.
8 Sulla vicenda, l’articolo dello stesso J. Kotin “The Fuck You Press Cantos: A
Census”, realitystudio.org/bibliographic-bunker/fuck-you-press-archive/the-fuck-you-press-cantos-a-census/
9 A cura di Mary de Rachewiltz, con un saggio introduttivo di M.L. Ardizzone,
Mondadori, Milano 1989.
L'articolo “La verità sta nella tenerezza”. Gli ultimi Cantos: il testamento di
Ezra Pound proviene da Pangea.