A dieci anni dalla morte di Günter Grass, avvenuta a Lubecca il 13 aprile 2015,
accendiamo per un attimo i riflettori sulla vasta opera che ci ha lasciato e che
forse non abbiamo ancora saputo valutare in tutta la sua ricchezza.
Il capolavoro di Grass è sempre stato considerato la cosiddetta trilogia di
Danzica, formata da tre romanzi scritti nell’arco di un lustro, il
torrenziale Die Blechtrommel (Il tamburo di latta), del 1959, Katz und
Maus(Gatto e topo), del 1961 e Hundejahre (Anni di cani), del 1963. Soprattutto
il primo dei tre volumi – la storia del nano Oskar Matzerath che a un certo
punto dell’infanzia, gettandosi giù per le scale della cantina, decide
autonomamente di arrestare la propria crescita per protesta nei confronti di un
mondo filisteo, violento e al contempo grottesco – ha avuto un notevole
successo, rafforzato dall’omonima pellicola girata nel 1979 da Volker von
Schlöndorff, con Angela Winkler e Mario Adorf. Nel suo insieme, la trilogia
rappresenta un’accurata ricostruzione di quasi un secolo di storia visti dal
punto di osservazione privilegiato di Danzica, una città in rapida
trasformazione, che diventa simbolo ed epitome del mondo intero. Ma Danzica, in
quanto città che la Germania ha dovuto cedere alla Polonia dopo la guerra,
rappresenta anche il simbolo del paradiso perduto, delle effusioni e dei piaceri
di un’infanzia mai più riconquistata.
Benché la città, dove era nato nel 1927, rappresenti la sua Macondo, non bisogna
pensare a Grass come a un auctor unius libri o a uno scrittore che, con
martellante testardaggine, torni sempre sugli stessi temi. In Das Treffen in
Telgte (L’incontro di Telgte), del 1979, per esempio, Grass traccia un brillante
parallelismo fra la Germania del 1647, appena uscita dalle distruzioni della
Guerra dei Trent’anni, e quella del 1947, in parte occupata dalle forze alleate
e ridotta militarmente alla condizione di non poter più nuocere. Da un lato
avremo l’incontro, nella cittadina di Telgte, nei pressi di Münster, in
Vestfalia, di una serie di poeti, scrittori e musicisti, da Schütz a
Grimmelshausen, uniti dalla volontà di rafforzare e rilanciare una lingua
tedesca ancora frazionata in una miriade di dialetti e usi locali; dall’altro,
spostandoci al secondo dopoguerra, la costituzione, intorno alla figura di Hans
Werner Richter, del Gruppo ’47, un insieme di poeti e scrittori dal quale
sarebbero poi emerse figure carismatiche come quelle di Ingeborg Bachmann,
Heinrich Böll, Günter Eich, Ilse Aichinger, Martin Walser, Peter Bichsel o dello
stesso Grass. La funzione del Gruppo ’47 è nell’insieme paragonabile a quella
del consesso di tre secoli prima: si tratta – ancora una volta – di salvare la
lingua tedesca stravolta dagli usi impropri del nazionalsocialismo e renderla
nuovamente utilizzabile. Il tamburo di latta, vero archetipo dei suoi maggiori
romanzi, costituirà, per Grass, anche l’applicazione pratica dei nuovi principi
di scrittura maturati proprio attraverso le assidue frequentazioni di quegli
anni.
Altri due lavori di narrativa da citare in ogni caso sono Der Butt (Il rombo),
del 1979, e Die Rättin (La ratta), del 1986: romanzi di un certo spessore e
respiro epico, che richiedono impegno e un’attiva complicità da parte del
lettore. Nel primo libro, il rombo è un pesce parlante che funziona come alleato
e consulente del protagonista, un uomo senza tempo che ci racconta la storia
dell’umanità, dal neolitico allo sciopero dei lavoratori polacchi nel 1970,
sempre dall’angolo di osservazione formato dalla città di Danzica, con una
particolare attenzione per una minoranza, la popolazione dei casciubi. Nel
secondo, un romanzo complesso e in parte surreale, nel dialogo fra un io
parlante indifferenziato e la ratta del titolo Grass riprende alcuni filoni
tanto del romanzo precedente, quanto della sua trilogia, virando stavolta verso
toni apocalittici e prefigurando il declino e la scomparsa finale dell’umanità,
non senza accenni polemici e quasi, diremmo, militanti.
La vis polemica di Grass si conferma del resto anche a teatro; tra i vari drammi
da lui composti va segnalato almeno Die Plebejer proben den Aufstand (I plebei
provano la rivolta), del 1966, in cui alle prove del Coriolanoda parte di una
compagnia teatrale a Berlino Est si sovrappone la rivolta del 17 giugno 1953
contro il regime comunista. Tutta la pièce ruota intorno all’ambiguità del
regista, da tutti chiamato “Chef”, e con tutta evidenza ispirato alla persona e
agli atteggiamenti politici di Bertolt Brecht. Questi temporeggia per giorni e,
malgrado le pressioni in senso opposto degli operai, finisce poi per rilasciare
una dichiarazione di cauto appoggio alla SED, il Partito comunista – con degli
abili distinguo atti ad alludere a un dissenso che non sarà colto e non avrà
alcuna ripercussione –, solo quando la rivolta sarà stata ormai sanguinosamente
repressa.
Oltre che romanziere, grafico e scultore – subito dopo la guerra aveva studiato
alla Kunstakademie di Düsseldorf – Grass è stato anche un non trascurabile
poeta, sempre animato da una vena ironica e iconoclasta. Riporto qui a mo’
d’esempio la versione italiana di una sua piccola poesia che mi capitò di
tradurre tempo fa, dal titolo Die Seeschlacht (Battaglia navale):
> “Una portaerei americana
> e una cattedrale gotica
> reciprocamente
> s’affondarono
> nel Pacifico.
> Suonò l’organo fino alla fine
> il giovane vicario. –
> Volteggiano nell’aria ora angeli e aerei
> e non possono atterrare.”
Politicamente, Grass si distinse da molti suoi colleghi per un impegno costante,
e, in alcune fasi della recente storia tedesca, anche piuttosto
convinto. Compagno di strada dei socialdemocratici, soprattutto durante la
reggenza di Willy Brandt, partecipò al suo fianco a diverse campagne
elettorali. Fu alla presenza sua e di un altro scrittore, Siegfried Lenz, che
nel 1970 Brandt firmò a Varsavia il trattato d’amicizia fra Germania e Polonia.
Inoltre, Grass fu uno dei pochi intellettuali europei a difendere la causa delle
popolazioni rom e sinti, dando vita a una fondazione a essi dedicata. Le vedeva
– con qualche eccesso romantico – come esempio di ibridazione e come ultimo
baluardo contro l’omologazione culturale, parlando di una vera e propria
persecuzione che apparentava a quella patita dalle comunità ebraiche sotto il
nazismo. A suo parere, queste popolazioni avrebbero dovuto ottenere un seggio al
Consiglio d’Europa e l’inserimento della loro lingua fra le materie
d’insegnamento nelle scuole. Intervenne anche, e spesso, contro la guerra in
Vietnam, contro il ricorso al nucleare e per il mantenimento della pace, in
favore delle minoranze etniche e dei rifugiati, contro il razzismo e le
discriminazioni di ogni tipo. Non si sentiva un “padre della patria” o la
“coscienza della nazione”, né voleva essere d’ispirazione a chicchessia, ma
attribuiva anche agli intellettuali la colpa della caduta della Repubblica di
Weimar, e di certo l’idea dello scrittore rinchiuso in una torre d’avorio era
lontana mille miglia dalla sua prassi quotidiana.
A Grass non sono certo mai mancati nemici e detrattori. Una polemica passata
alla storia letteraria lo oppose al “papa” della critica letteraria tedesca,
Marcel Reich-Ranicki, che pure in passato era stato fra i suoi estimatori,
allorché quest’ultimo, nell’agosto 1995, venne raffigurato sulla copertina dello
Spiegel mentre strappava simbolicamente le pagine di un volume di Grass appena
uscito, Ein weites Feld (È una lunga storia), scrivendone poi all’interno della
rivista in termini tutt’altro che encomiastici. Ma non era la prima volta che i
due si sfidavano virtualmente a duello: già nel 1990 Reich-Ranicki aveva
qualificato come “assolutamente insensata” una posizione assunta da Grass in
merito alla riunificazione tedesca – lo stesso tema portante del libro testé
citato –, quando lo scrittore ne aveva negato l’utilità e l’opportunità,
asserendo anzitutto che il ritorno a una Germania unita sarebbe stato visto
fuori dalle frontiere come una minaccia, e poi che l’Olocausto negava alla
Germania qualunque diritto alla riunificazione, tanto che bisognava invece
accettare e capire la lezione della Seconda guerra mondiale e optare per due
Stati distinti, uniti semmai da una comune identità culturale. Questa posizione
l’avrebbe espressa poi più compiutamente nel pamphlet Unterwegs von Deutschland
nach Deutschland. Tagebuch 1990 (Da una Germania all’altra. Diario 1990), uscito
nel 2009. Una posizione, la sua, nell’entusiasmo sfrenato di quei giorni per la
caduta del muro di Berlino, sicuramente impopolare, che non accrebbe le simpatie
di molti nei suoi confronti, ma che rispecchiava il suo vissuto e forse anche
una certa volontà di espiazione personale. Perché – come sarebbe emerso con la
pubblicazione, nel 2006, dell’autobiografia Beim Häuten der Zwiebel (Sbucciando
la cipolla) – Grass aveva un segreto ben custodito, un peccato di gioventù che
fino a quel momento aveva attentamente e costantemente minimizzato, ma che lo
metteva terribilmente a disagio e da cui riuscì appunto a liberarsi solo a quasi
ottant’anni. Quando ne aveva diciassette, infatti, per sfuggire alla famiglia –
un po’ come prima di lui Ernst Jünger – non si era solo arruolato nell’esercito,
ma era entrato, a quanto pare volontariamente, a far parte delle Waffen-SS. E
se, come poi sostenne, non aveva partecipato ad azioni sul campo, ma, ferito,
era finito quasi subito in un campo di prigionia statunitense in Baviera, già il
fatto stesso di aver aderito alle SS e di averlo poi taciuto lo mise in una
posizione molto scomoda, tale da dare ragione, anche a posteriori, ai suoi
detrattori. Molto si è discusso di quanto sia stata per lui provvidenziale
quest’ellissi della sua memoria: ma va anche riconosciuto che, nel clima
d’indiscriminata resa dei conti dell’immediato dopoguerra, ammettere un peccato
del genere avrebbe significato dover rinunciare completamente all’attività
letteraria, affrontare un ostracismo totale e veder stroncata la propria
carriera di scrittore prima ancora di provare a gettarne le basi.
Non gli sono mancati però neanche amici ed estimatori di peso, da Hans Magnus
Enzensberger a Christa Wolf, nonché, all’estero, da Salman Rushdie a Nadine
Gordimer a György Konrád. Quando si seppe del conferimento del premio Nobel nel
1999, il poeta polacco Tadeusz Rózewicz dichiarò che il premio aveva finalmente
riacquistato il proprio significato. Quanto a Rushdie, il sodalizio nacque
quando Grass protestò pubblicamente contro l’Akademie der Künste di Berlino che
prima aveva invitato Rushdie e poi, per ragioni di sicurezza, aveva deciso di
annullare l’evento previsto.
Benché profondamente tedesco e perfino “locale” nei temi prescelti e
nell’ossequio alla propria tradizione letteraria, con uno stile estremamente
personale, ma che attraverso l’esempio di Döblin si riallaccia in realtà a un
grande autore del Seicento come Grimmelshausen, Grass era – caso abbastanza raro
in Germania – uno scrittore con un’autentica proiezione internazionale. Ed è
stato anche uno degli autori più comprensivi e assidui nel rapporto con i propri
traduttori: forse consapevole delle difficoltà che il suo tedesco e i molteplici
riferimenti al mondo di Danzica e alla minoranza dei casciubi potevano creare
agli incauti che avevano accettato l’incarico di tradurlo in altre lingue, si
spendeva in tutti i modi per assicurar loro la propria presenza e assistenza
pratica. Nella primavera del 1978, in vista della traduzione del Rombo, venne
addirittura organizzata per la prima volta nella storia una specie di tavola
rotonda con una ventina di traduttori nelle maggiori lingue. Come spesso accade
in questi casi, il motivo scatenante era stata una disastrosa traduzione
del Tamburo di latta in svedese, che indusse l’editore di Grass a cercare di
correre ai ripari. Ebbene, la kermesse durò ben tre giorni, durante i quali
Grass fu non solo presente, ma prodigo di chiarimenti. Al servizio, dunque, dei
traduttori e dei futuri lettori, con i quali – da grande scrittore qual era –
aveva saputo istituire un rapporto che andava molto al di là della sua persona
fisica. Un’intesa basata sull’onestà intellettuale, che è poi forse, ben più di
tanti proclami, lo strumento principale a disposizione dello scrittore per
garantirsi una relativa immortalità.
Raoul Precht
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coscienza critica proviene da Pangea.
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Nella ben documentata biografia dedicatagli da Blake Bailey (Cheever. A Life),
si racconta a un certo punto di come John Cheever s’imbatta in un romanzo di
Saul Bellow e sia, da quel momento in poi, soggiogato, anzi quasi ossessionato
dal collega. Già gli erano piaciuti i primi due romanzi di Bellow, e in
particolare The Dangling Man (L’uomo in bilico), ma la sua reazione alla lettura
del terzo romanzo bellowiano, The Adventures of Augie March (Le avventure di
Augie March), che esce nel 1953, sarà tale da stordirlo. Una vera e propria
rivelazione, tanto da spingerlo a scrivere al suo quasi coetaneo che, se avesse
continuato su quella strada, per lui, cioè per il povero Cheever, non ci sarebbe
stato altro destino possibile se non quello di tornarsene a casa e “andare a
lavorare a una pompa di benzina a fare il pieno agli automobilisti in transito
per Cape Cod”. Un modo indubbiamente immaginifico e autoironico di esprimere la
propria ammirazione, ma anche un segnale di quanto la prosa di Bellow l’avesse
colpito; anche se in seguito, moderando leggermente gli entusiasmi, dirà (ma
sempre con riferimento all’esempio di Bellow, che quindi continuava a
bruciargli) che in fondo la scrittura non è un’attività competitiva.
Non è questo che uno dei tanti esempi possibili per descrivere l’impatto avuto
da Bellow sugli scrittori della sua generazione, come per esempio Malamud, per
non parlare naturalmente di quelle successive (Philip Roth in primis), che ne
hanno magari criticato il progressivo scivolamento verso posizioni
neoconservative, ma hanno fatto comunque pienamente tesoro delle sue conquiste
espressive. A vent’anni dalla morte, avvenuta il 5 aprile 2005, cerchiamo allora
di verificare quanto di Bellow e della sua opera sia rimasto. Da The
Victim(1947) a Henderson the Rain King (1957) – l’unico dei romanzi bellowiani
il cui protagonista non sia ebreo –, da Herzog (1964) a Mr Sammler’s
Planet (1970), da Humboldt’s Gift (1975) a The Dean’s December (1982), da More
Die of Heartbreak (1987) a Ravelstein (2000): anche se ci limitiamo ai titoli
dei soli romanzi principali, riscontriamo sempre almeno due doti, una prodigiosa
ispirazione e un’inesauribile creatività. Perché una cosa è certa:
il corpus prodotto in mezzo secolo di attività da Bellow è impressionante per
qualità e continuità d’ispirazione, per il sottile intreccio tra profondità di
contenuti e padronanza delle tecniche narrative.
Non gli sono mancati i riconoscimenti, fra cui il premio Nobel, che gli venne
conferito nel 1976, mentre l’anno precedente gli era stato preferito Montale, in
quell’alternanza prosa/poesia che ne contrassegnò diverse edizioni. E va detto
che di rado premio Nobel fu più meritato, né mai fu al tempo stesso più
ortodosso, legato cioè non a questioni extraletterarie (ossia, spesso,
politiche) o all’esigenza di ampliare la portata del concetto di letteratura, ma
intrinseco, volto cioè a premiare davvero l’eccellenza nella scrittura. E a
proposito di Nobel: diversamente da altri scrittori, che nei confronti del
premio furono molto critici (Beckett) o addirittura lo rifiutarono (Sartre), pur
non essendo del tutto convinto dell’utilità né degli aspetti pubblicitari ad
esso connessi, Bellow si limitò a ringraziare, da persona discreta e gentile
qual era. In passato, aveva detto dei propri libri e dei propri lettori che, se
di un suo romanzo riusciva a venderne cinquantamila copie, l’avrebbero poi letto
forse in cinquemila, ma avrebbero reagito ad esso al massimo in trecento, e il
Nobel gli sembrò quindi semplicemente uno dei possibili strumenti per far
aumentare queste cifre (e magari in particolare l’ultima).
Una volta tanto, l’occasione del conferimento del Nobel risulta interessante
anche per i contenuti della lecture tenuta da Bellow, in cui, polemizzando con
le posizioni di Alain Robbe-Grillet e altri, esalta la vitalità del romanzo (e
dei suoi personaggi) e mostra di perseguire l’ideale di una narrativa eclettica,
che non si lasci limitare o coartare dall’esterno, che non tema le grandi
dimensioni e le scommesse creative e perfino che non sia necessariamente
equilibrata, e anzi contenga al proprio interno elementi alieni
al plot principale e magari centrifughi. Menziona a un certo punto una frase di
Joseph Conrad, il quale, nella prefazione al Negro del “Narciso”, diceva che
l’arte è il tentativo di rendere la massima giustizia possibile all’universo
visibile. Ben lungi dall’accettare l’idea di una crisi strisciante o di
un’implosione del romanzo quale genere letterario, Bellow rivendica al contrario
l’importanza di continuare a svilupparlo senza confini prestabiliti, aprendosi
all’influenza di quelli che tre anni dopo, in un’altra intervista (a Maggie
Simmons per “Quest”), chiamerà “deeper motives” (“motivi più profondi”), che
spesso sgorgano direttamente dall’inconscio e dall’emotività dello scrittore
configurandosi come onesti elementi morali (non moralistici), scaturenti cioè
dall’approccio etico di ciascuno scrittore con la realtà e dalla sua
rielaborazione mentale della stessa.
Da tutto questo derivava un rifiuto del postmodernismo e delle tendenze più in
voga negli anni Settanta e Ottanta, il suo orgoglio di essere uno scrittore
“unfashionable”, ovvero non alla moda, il suo amore e piacere per la lingua di
cui si serviva, un inglese ricchissimo e duttile. E ne derivava anche una certa
intransigenza, che non lo farà arretrare dinanzi alle accuse di conservatorismo,
soprattutto a partire da Il pianeta di Mr Sammler, dovute anche al suo graduale
avvicinarsi a posizioni neoliberali e a figure come quella del filosofo Allan
Bloom. Per Bloom, che sarà insieme a Mircea Eliade uno dei protagonisti del
romanzo a chiave Ravelstein, e per il suo The Closing of the American Mind – una
specie di trattato in cui, considerato il nichilismo delle più giovani
generazioni, si preconizzava un imminente trionfo della barbarie – l’elettore
democratico Bellow scrive infatti un criticatissimo prologo. Un conservatorismo
peraltro non politico, il suo, ma morale, dovuto al disagio provato nel vedere
tante promesse svanire nel nulla e la società americana incapace di assorbire le
pulsioni verso una maggiore giustizia civile e razziale, verso un superamento
della povertà estrema, verso un maggiore rispetto dei diritti
civili. Conservatore controcorrente in un’America che a suo parere andava verso
un liberalismo ingenuo, confuso e velleitario, oggi Bellow sarebbe probabilmente
all’estrema sinistra dello spettro politico, a burlarsi di questo nuovo ceto
politico sciatto e pasticcione, se non decisamente fascista, emerso dalle ultime
elezioni.
Qualche altra caratteristica di Bellow da mettere rapidamente in luce, anche se
in maniera non sistematica (proprio come forse avrebbe amato): anzitutto, la
capacità di essere ironico e autoironico. Tanto per fare un solo esempio, nel
rispondere alle domande di Joseph Epstein per la “New York Times Book Review”,
il 5 dicembre 1976, Bellow esordisce così: “Well, you are not Eckermann, I am
not Goethe, and this, our City of Chicago, is most distinctly not Weimar. But
let’s go ahead anyway. Shoot.” (“Lei non è Eckermann, io non sono Goethe, e
questa nostra città di Chicago di certo non è Weimar. Ma procediamo pure.
Spari.”)
Poi, la capacità di cogliere nel segno, che caratterizza in pratica ciascuno dei
suoi quattrodici romanzi. Bellow lo spiegava senza davvero spiegarselo: a lui
sembrava semplicemente di dar voce a paure e confusioni che erano sue proprie e
a cui solo a posteriori riconosceva un carattere di universalità. Diceva che, in
quanto romanziere, era parte del suo lavoro quotidiano cercare di dare
espressione, nel modo più preciso e circostanziato possibile, ai dubbi e alle
angosce che serpeggiano in una società di per sé sempre più impaziente e
incerta. E questo, nella maggior parte dei casi, gli è senza alcun dubbio
riuscito: certe profonde e strampalate lettere di Moses Herzog ai suoi
impossibili interlocutori, da Eisenhower a Nietzsche a Spinoza, fanno già parte
della storia della letteratura. “Se sono matto, per me va benissimo”, come
recita l’incipit del libro; e a quanto pare, nel creare il prototipo
dell’intellettuale ebreo metropolitano, ironico e fortemente nevrotico, sempre
sospeso fra riflessione e azione (il più delle volte mancata) – prototipo che al
cinema farà poi la fortuna di un Woody Allen – Bellow tocca davvero un tasto
sensibile, dà vita letteraria a qualcosa che cominciava a esistere e a
propagarsi in natura.
E ancora, il legame indissolubile con Chicago. Nato a Lachine, nel Quebec, nel
1915 – il vero nome è Salomon Byelo, è l’ultimo di quattro figli e il primo a
vedere la luce nel Nuovo Mondo –, Bellow trascorre l’infanzia a Montreal e a
Chicago si trasferisce con la famiglia (emigrata in origine da San Pietroburgo)
all’età di nove anni. Vivranno da emigrati canadesi nel West Side, una delle
zone più problematiche della città in termini di piccola criminalità e
d’insicurezza. Nella magmatica e caotica Chicago, Bellow avrebbe poi seguito gli
studi liceali, si sarebbe anche iscritto, in una prima fase, alla locale
università, dove avrebbe però subito toccato con mano lo strisciante
antisemitismo che imperava anche negli Stati Uniti e che gli ispirerà il secondo
romanzo, La vittima, prima di spostarsi alla Northwestern per laurearsi in
sociologia e antropologia (non in lettere, e forse è significativo anche
questo). A Chicago, lavora in seguito al Federal Writer’s Project – un centro
studi che era diventato anche una specie di sinecura per scrittori progressisti
e che Trump oggi si affretterebbe a chiudere –, stringendo con la città un
legame indissolubile, che resta in essere anche quando la lascerà
temporaneamente. Viaggerà infatti in Europa grazie a una borsa Guggenheim – è a
Parigi che comincia a scrivere, a suo dire soprattutto in treno e nei cafés, il
brillante e picaresco Augie March – e per determinati periodi vorrà o dovrà
trasferirsi a Minneapolis e a Boston. Ma nella maggior parte dei suoi romanzi
Chicago è onnipresente; il richiamo e il fascino che la città esercita su di lui
ben si rispecchiano nella convinzione di alcuni tra i suoi personaggi principali
di non poter vivere altrove, in un’accettazione totale anche delle brutture e
delle manchevolezze della vita cittadina che non si riscontra nelle opere di
altri scrittori, come Theodore Dreiser, Nelson Algren o Richard Wright, i quali
a Chicago hanno trascorso quasi tutta, se non tutta la vita. In alcuni libri di
Bellow, come per esempio Il dono di Humboldt – romanzo davvero pirotecnico su un
intellettuale in crisi, in cui fra le righe prende a modello l’amico poeta
Delmore Schwartz, morto una decina d’anni prima –, la Chicago dei grattacieli,
dei mattatoi, della polizia corrotta, della criminalità organizzata per bande,
del business che primeggia su tutto è ritratta con rara maestria e ricchezza di
sfumature.
Bellow è stato amatissimo dalle donne (cinque mogli, quattro divorzi, avrà
l’ultima figlia all’età di ottantaquattro anni) e naturalmente dal suo pubblico,
sempre più vasto, ma anche da molti colleghi scrittori, che in qualche caso
potrebbero passare, sia pure entro certi limiti, per suoi discepoli. È ancora
Blake Bailey, ma stavolta nella biografia dedicata a Philip Roth, a raccontare
del bellissimo rapporto fra i due, che insieme a Malamud, a Mailer e ai fratelli
Singer, erano uniti anche dal fatto di far parte di quella che Truman Capote
aveva voluto sprezzantemente definire nel 1968 su “Playboy” la “Jewish literary
Mafia”. (Di sicuro, assieme a tutti questi altri autori Bellow è riuscito se non
altro a creare un genere letterario, quello dell’immigrato alle prese con
l’incomprensibile realtà urbana, e a far emergere nelle lettere americane
moderne la presenza ebraica, soprattutto quella degli ebrei ormai integrati o in
via di sempre maggiore integrazione.) Roth, che con le sue battute e barzellette
riusciva invariabilmente a divertirlo, continuerà a telefonare a Bellow anche
quando quest’ultimo, ormai novantenne, era troppo confuso persino per sapere chi
fosse, e parteciperà al suo funerale, nella remota Brattleboro, in Vermont,
benché soffrisse di una patologia alla schiena che lo aveva quasi immobilizzato.
Ma il rispetto e l’ossequio al maestro, a volte, permette di superare qualunque
avversità; e Bellow era stato per lui e molti altri indiscutibilmente un vero
maestro.
Raoul Precht
L'articolo “Se sono matto, per me va benissimo”. Saul Bellow, un maestro
proviene da Pangea.