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Il gusto della messinscena. Gli ultimi giorni di Stefan Zweig
Ne sappiamo poco o nulla, ma quello che avviene a Petrópolis tra il 22 e il 23 febbraio del 1942, in pieno Carnevale, ha di certo anche un aspetto teatrale, di accurata messinscena: il doppio suicidio di Stefan e Lotte assomiglia terribilmente, o costituisce un’allusione neanche troppo criptica, ai limiti del plagio, a un altro doppio suicidio della storia letteraria tedesca: quello che nel 1811 aveva visti coinvolti, al Wannsee presso Potsdam, Henriette Vogel e Heinrich von Kleist, autore che Zweig venerava e con il quale forse, a proprio discapito, si confrontava come scrittore. Ci si può quindi chiedere se, oltre all’avanzata apparentemente inarrestabile del nazismo, al venir meno dell’ammirazione e della vicinanza dei lettori, alla solitudine e all’isolamento intellettuale nonché alla malattia di Lotte, una parte nella decisione di Zweig non l’abbia avuta anche la suggestione di replicare, come in un macabro omaggio, l’autodistruzione kleistiana. Imbastendo una storia magari leggermente diversa nei dettagli, ma al contempo così simile nell’incapacità, da parte di entrambi gli scrittori, di affrontare la realtà. Fatto sta che nello schizzo biografico che Zweig aveva dedicato a Kleist molti anni prima sembra di cogliere una partecipazione autentica, non artefatta, alla vicenda narrata. A un certo punto Zweig menziona anche (e sembra far suo) il Doppelblick (“doppio sguardo”) teorizzato da Kleist, uno sguardo volto contemporaneamente tanto al passato quanto al futuro da parte di colui che, consacrandosi alla morte, raggiunge la suprema armonia. Molte delle caratteristiche che Zweig attribuisce a Kleist, scrittore ammiratissimo per la compresenza di eccesso e disciplina, di veemenza e freddo rigore, potrebbero essere riferite anche a lui stesso: > “Come gli accade nei confronti degli esseri umani, Kleist si interessa alla > natura, al mondo, solo nei loro limiti più estremi, dove si superano sfociando > nell’inaudito e nell’improbabile, anzi direi quasi, dove diventano eccessivi e > viziosi e abbandonano ogni forma. E come nei confronti dell’umanità, a lui > interessa solo l’anormale, la deviazione dalla regola (la Marchesa di O.; la > mendicante di Locarno; il terremoto in Cile), sempre il momento in cui > sembrano irrompere fuori dalle cerchie preferite da Dio”. E aggiunge, a proposito proprio del suicidio di Kleist, delle sue modalità e delle sue ragioni profonde: > “L’essenza intima del suo essere era impazienza e tensione, il significato > ineliminabile del suo destino era l’autodistruzione attraverso l’eccesso: ecco > perché la sua morte prematura e volontaria è il suo capolavoro, tanto quanto > il Principe di Homburg: perché accanto ai potenti, a coloro che sono dei > maestri della vita come Goethe, di tanto in tanto emerge qualcuno che invece > padroneggia la morte e attraverso la morte crea una poesia che va al di là del > tempo”. E proprio come Kleist aveva cercato e trovato nell’amica Henriette Vogel, gravemente malata di cancro, qualcuno che lo seguisse e lo accompagnasse nell’atto fatale, così Zweig aveva potuto contare sul sostegno e sulla complicità, non sappiamo fino a che punto convinta, di Lotte.   Questo del doppio suicidio è un motivo che era già comparso, comunque, nell’opera di Zweig, anche se veniva solo programmato senza essere poi portato a termine. Mi riferisco al romanzo incompiuto Estasi di libertà (Rausch der Verwandlung), in parte utilizzato dal regista Wes Anderson quale fonte d’ispirazione per il suo recente film Grand Budapest Hotel (2014). I due protagonisti, la giovane Christine Hoflehner e Ferdinand, reduce dalla Grande guerra e dalla prigionia in Russia, entrambi frustrati e indignati con uno Stato che non li tutela, decidono dapprima di farla finita insieme, per poi ripiegare su una soluzione meno drastica, la rapina di un ufficio postale. Quello che nel romanzo era un semplice espediente narrativo risoltosi in commedia torna ora d’attualità sotto una forma molto più drammatica e reale, acquisendo uno statuto di fattibilità e forse persino di opportunità.[1] Si è molto discusso delle reali condizioni di salute di Lotte, che soffriva d’asma, doveva usare un inalatore durante la notte e passava attraverso ripetute crisi respiratorie, ma il cui stato di salute generale, sebbene aggravatosi dopo il soggiorno a New York, non sembrava poter giustificare una decisione così drastica. Certo, le crisi di Lotte non contribuirono a rasserenare l’atmosfera generale, e se Zweig si era mai aspettato che una moglie tanto più giovane potesse in qualche modo spronarlo e legarlo alla vita, ora dovette disilludersi. Quanto aveva amato in passato quella sua fragilità, che lo induceva a proteggerla e a custodirla come un bene prezioso, tanto ora gli sembrava un ulteriore onere, un ostacolo insormontabile che gli impediva di vivere pienamente la propria esistenza. In una lettera scritta proprio alla vigilia del suicidio ai cognati Manfred e Hannah Altmann, e quindi alla famiglia di Lotte, Zweig fa riferimento a una prolungata cura d’iniezioni, probabilmente a base di antigeni, che non le avrebbe fatto alcun effetto, convincendoli quindi dell’opportunità dell’atto finale. Ma è mai possibile che ad appena trentatré anni Lotte fosse davvero già così stanca della vita e incapace di lottare? E non è forse plausibile che avere al fianco una persona sicuramente malinconica, se non depressa, come Zweig, abbia potuto fiaccarne e cancellarne l’istinto di autoconservazione? A quanto pare, la morte di Zweig fu causata dall’ingestione di numerose compresse di Veronal, il cui tubetto vuoto fu trovato sul tavolino da notte insieme a una bottiglia d’acqua minerale di cui non rimaneva che un quarto. Maggiori dubbi riguardano invece la sostanza ingerita da Lotte, che sembra essere morta più tardi e aver preferito un altro tipo di barbiturico, perché rispetto a quello di Stefan il corpo emanava un diverso e più forte odore. Si è notata anche una differenza nel modo di presentarsi alla morte: Zweig era vestito di tutto punto (camicia sportiva a maniche corte, cravatta nera, pantaloni scuri – con un tocco di eleganza austriaca, insomma), mentre Lotte portava una vestaglia a fiori senza pretese. Così come ha lasciato perplessi un’ulteriore differenza, riguardante la posizione, che nel caso di Zweig sembra non lasciare nulla al caso ed è estremamente dignitosa, là dove invece Lotte lo cinge e gli stringe le mani, ma è tutta contratta e raggomitolata su un fianco. In ogni caso, Zweig avrebbe voluto delle esequie private e un rito laico, avrebbe preferito insomma scomparire in silenzio. Ma la trasformazione del suo funerale, alla presenza del dittatore brasiliano Vargas, in un grande evento spettacolare sancirà il mancato rispetto anche di quest’ultima volontà. Un corteo imponente, seguito da quattromila persone, poi una funzione ebraica, e dulcis in fundo un versetto biblico inciso sulla pietra tombale – nulla che alla fin fine importi davvero, alla resa dei conti, ma certo non quello che Zweig, ormai lontano da ogni esibizione religiosa, avrebbe voluto. Raoul Precht *Per gentile concessione si pubblica un estratto da: R. Precht, “Stefan Zweig. La fine di un mondo”, Milano, Ares, 2025 -------------------------------------------------------------------------------- [1] Con Estasi di libertà, scritto nel 1930-31, Zweig ritenta senza troppo successo la strada del romanzo, riprendendo alcuni temi, come le conseguenze della Prima guerra mondiale e della successiva inflazione per i ceti popolari o il dramma dei reduci, temi già trattati in alcuni racconti precedenti e nel dramma Das Lamm des Armen, mettendo in drammatico risalto da un lato il potere del denaro e dall’altro la contrapposizione fra gente comune e quello sparuto gruppo di ricchi che possono permettersi di vivere negli hotel di lusso. L'articolo Il gusto della messinscena. Gli ultimi giorni di Stefan Zweig proviene da Pangea.
May 10, 2025 / Pangea
Una brutale immortalità. Günter Grass o della scrittura come coscienza critica
A dieci anni dalla morte di Günter Grass, avvenuta a Lubecca il 13 aprile 2015, accendiamo per un attimo i riflettori sulla vasta opera che ci ha lasciato e che forse non abbiamo ancora saputo valutare in tutta la sua ricchezza. Il capolavoro di Grass è sempre stato considerato la cosiddetta trilogia di Danzica, formata da tre romanzi scritti nell’arco di un lustro, il torrenziale Die Blechtrommel (Il tamburo di latta), del 1959, Katz und Maus(Gatto e topo), del 1961 e Hundejahre (Anni di cani), del 1963. Soprattutto il primo dei tre volumi – la storia del nano Oskar Matzerath che a un certo punto dell’infanzia, gettandosi giù per le scale della cantina, decide autonomamente di arrestare la propria crescita per protesta nei confronti di un mondo filisteo, violento e al contempo grottesco – ha avuto un notevole successo, rafforzato dall’omonima pellicola girata nel 1979 da Volker von Schlöndorff, con Angela Winkler e Mario Adorf. Nel suo insieme, la trilogia rappresenta un’accurata ricostruzione di quasi un secolo di storia visti dal punto di osservazione privilegiato di Danzica, una città in rapida trasformazione, che diventa simbolo ed epitome del mondo intero. Ma Danzica, in quanto città che la Germania ha dovuto cedere alla Polonia dopo la guerra, rappresenta anche il simbolo del paradiso perduto, delle effusioni e dei piaceri di un’infanzia mai più riconquistata. Benché la città, dove era nato nel 1927, rappresenti la sua Macondo, non bisogna pensare a Grass come a un auctor unius libri o a uno scrittore che, con martellante testardaggine, torni sempre sugli stessi temi. In Das Treffen in Telgte (L’incontro di Telgte), del 1979, per esempio, Grass traccia un brillante parallelismo fra la Germania del 1647, appena uscita dalle distruzioni della Guerra dei Trent’anni, e quella del 1947, in parte occupata dalle forze alleate e ridotta militarmente alla condizione di non poter più nuocere. Da un lato avremo l’incontro, nella cittadina di Telgte, nei pressi di Münster, in Vestfalia, di una serie di poeti, scrittori e musicisti, da Schütz a Grimmelshausen, uniti dalla volontà di rafforzare e rilanciare una lingua tedesca ancora frazionata in una miriade di dialetti e usi locali; dall’altro, spostandoci al secondo dopoguerra, la costituzione, intorno alla figura di Hans Werner Richter, del Gruppo ’47, un insieme di poeti e scrittori dal quale sarebbero poi emerse figure carismatiche come quelle di Ingeborg Bachmann, Heinrich Böll, Günter Eich, Ilse Aichinger, Martin Walser, Peter Bichsel o dello stesso Grass. La funzione del Gruppo ’47 è nell’insieme paragonabile a quella del consesso di tre secoli prima: si tratta – ancora una volta – di salvare la lingua tedesca stravolta dagli usi impropri del nazionalsocialismo e renderla nuovamente utilizzabile. Il tamburo di latta, vero archetipo dei suoi maggiori romanzi, costituirà, per Grass, anche l’applicazione pratica dei nuovi principi di scrittura maturati proprio attraverso le assidue frequentazioni di quegli anni. Altri due lavori di narrativa da citare in ogni caso sono Der Butt (Il rombo), del 1979, e Die Rättin (La ratta), del 1986: romanzi di un certo spessore e respiro epico, che richiedono impegno e un’attiva complicità da parte del lettore. Nel primo libro, il rombo è un pesce parlante che funziona come alleato e consulente del protagonista, un uomo senza tempo che ci racconta la storia dell’umanità, dal neolitico allo sciopero dei lavoratori polacchi nel 1970, sempre dall’angolo di osservazione formato dalla città di Danzica, con una particolare attenzione per una minoranza, la popolazione dei casciubi. Nel secondo, un romanzo complesso e in parte surreale, nel dialogo fra un io parlante indifferenziato e la ratta del titolo Grass riprende alcuni filoni tanto del romanzo precedente, quanto della sua trilogia, virando stavolta verso toni apocalittici e prefigurando il declino e la scomparsa finale dell’umanità, non senza accenni polemici e quasi, diremmo, militanti. La vis polemica di Grass si conferma del resto anche a teatro; tra i vari drammi da lui composti va segnalato almeno Die Plebejer proben den Aufstand (I plebei provano la rivolta), del 1966, in cui alle prove del Coriolanoda parte di una compagnia teatrale a Berlino Est si sovrappone la rivolta del 17 giugno 1953 contro il regime comunista. Tutta la pièce ruota intorno all’ambiguità del regista, da tutti chiamato “Chef”, e con tutta evidenza ispirato alla persona e agli atteggiamenti politici di Bertolt Brecht. Questi temporeggia per giorni e, malgrado le pressioni in senso opposto degli operai, finisce poi per rilasciare una dichiarazione di cauto appoggio alla SED, il Partito comunista – con degli abili distinguo atti ad alludere a un dissenso che non sarà colto e non avrà alcuna ripercussione –, solo quando la rivolta sarà stata ormai sanguinosamente repressa.  Oltre che romanziere, grafico e scultore – subito dopo la guerra aveva studiato alla Kunstakademie di Düsseldorf – Grass è stato anche un non trascurabile poeta, sempre animato da una vena ironica e iconoclasta. Riporto qui a mo’ d’esempio la versione italiana di una sua piccola poesia che mi capitò di tradurre tempo fa, dal titolo Die Seeschlacht (Battaglia navale):  > “Una portaerei americana  > e una cattedrale gotica  > reciprocamente  > s’affondarono  > nel Pacifico.  > Suonò l’organo fino alla fine  > il giovane vicario. –  > Volteggiano nell’aria ora angeli e aerei  > e non possono atterrare.” Politicamente, Grass si distinse da molti suoi colleghi per un impegno costante, e, in alcune fasi della recente storia tedesca, anche piuttosto convinto. Compagno di strada dei socialdemocratici, soprattutto durante la reggenza di Willy Brandt, partecipò al suo fianco a diverse campagne elettorali. Fu alla presenza sua e di un altro scrittore, Siegfried Lenz, che nel 1970 Brandt firmò a Varsavia il trattato d’amicizia fra Germania e Polonia. Inoltre, Grass fu uno dei pochi intellettuali europei a difendere la causa delle popolazioni rom e sinti, dando vita a una fondazione a essi dedicata. Le vedeva – con qualche eccesso romantico – come esempio di ibridazione e come ultimo baluardo contro l’omologazione culturale, parlando di una vera e propria persecuzione che apparentava a quella patita dalle comunità ebraiche sotto il nazismo. A suo parere, queste popolazioni avrebbero dovuto ottenere un seggio al Consiglio d’Europa e l’inserimento della loro lingua fra le materie d’insegnamento nelle scuole. Intervenne anche, e spesso, contro la guerra in Vietnam, contro il ricorso al nucleare e per il mantenimento della pace, in favore delle minoranze etniche e dei rifugiati, contro il razzismo e le discriminazioni di ogni tipo. Non si sentiva un “padre della patria” o la “coscienza della nazione”, né voleva essere d’ispirazione a chicchessia, ma attribuiva anche agli intellettuali la colpa della caduta della Repubblica di Weimar, e di certo l’idea dello scrittore rinchiuso in una torre d’avorio era lontana mille miglia dalla sua prassi quotidiana. A Grass non sono certo mai mancati nemici e detrattori. Una polemica passata alla storia letteraria lo oppose al “papa” della critica letteraria tedesca, Marcel Reich-Ranicki, che pure in passato era stato fra i suoi estimatori, allorché quest’ultimo, nell’agosto 1995, venne raffigurato sulla copertina dello Spiegel mentre strappava simbolicamente le pagine di un volume di Grass appena uscito, Ein weites Feld (È una lunga storia), scrivendone poi all’interno della rivista in termini tutt’altro che encomiastici. Ma non era la prima volta che i due si sfidavano virtualmente a duello: già nel 1990 Reich-Ranicki aveva qualificato come “assolutamente insensata” una posizione assunta da Grass in merito alla riunificazione tedesca – lo stesso tema portante del libro testé citato –, quando lo scrittore ne aveva negato l’utilità e l’opportunità, asserendo anzitutto che il ritorno a una Germania unita sarebbe stato visto fuori dalle frontiere come una minaccia, e poi che l’Olocausto negava alla Germania qualunque diritto alla riunificazione, tanto che bisognava invece accettare e capire la lezione della Seconda guerra mondiale e optare per due Stati distinti, uniti semmai da una comune identità culturale. Questa posizione l’avrebbe espressa poi più compiutamente nel pamphlet Unterwegs von Deutschland nach Deutschland. Tagebuch 1990 (Da una Germania all’altra. Diario 1990), uscito nel 2009. Una posizione, la sua, nell’entusiasmo sfrenato di quei giorni per la caduta del muro di Berlino, sicuramente impopolare, che non accrebbe le simpatie di molti nei suoi confronti, ma che rispecchiava il suo vissuto e forse anche una certa volontà di espiazione personale. Perché – come sarebbe emerso con la pubblicazione, nel 2006, dell’autobiografia Beim Häuten der Zwiebel (Sbucciando la cipolla) – Grass aveva un segreto ben custodito, un peccato di gioventù che fino a quel momento aveva attentamente e costantemente minimizzato, ma che lo metteva terribilmente a disagio e da cui riuscì appunto a liberarsi solo a quasi ottant’anni. Quando ne aveva diciassette, infatti, per sfuggire alla famiglia – un po’ come prima di lui Ernst Jünger – non si era solo arruolato nell’esercito, ma era entrato, a quanto pare volontariamente, a far parte delle Waffen-SS. E se, come poi sostenne, non aveva partecipato ad azioni sul campo, ma, ferito, era finito quasi subito in un campo di prigionia statunitense in Baviera, già il fatto stesso di aver aderito alle SS e di averlo poi taciuto lo mise in una posizione molto scomoda, tale da dare ragione, anche a posteriori, ai suoi detrattori. Molto si è discusso di quanto sia stata per lui provvidenziale quest’ellissi della sua memoria: ma va anche riconosciuto che, nel clima d’indiscriminata resa dei conti dell’immediato dopoguerra, ammettere un peccato del genere avrebbe significato dover rinunciare completamente all’attività letteraria, affrontare un ostracismo totale e veder stroncata la propria carriera di scrittore prima ancora di provare a gettarne le basi.  Non gli sono mancati però neanche amici ed estimatori di peso, da Hans Magnus Enzensberger a Christa Wolf, nonché, all’estero, da Salman Rushdie a Nadine Gordimer a György Konrád. Quando si seppe del conferimento del premio Nobel nel 1999, il poeta polacco Tadeusz Rózewicz dichiarò che il premio aveva finalmente riacquistato il proprio significato. Quanto a Rushdie, il sodalizio nacque quando Grass protestò pubblicamente contro l’Akademie der Künste di Berlino che prima aveva invitato Rushdie e poi, per ragioni di sicurezza, aveva deciso di annullare l’evento previsto.  Benché profondamente tedesco e perfino “locale” nei temi prescelti e nell’ossequio alla propria tradizione letteraria, con uno stile estremamente personale, ma che attraverso l’esempio di Döblin si riallaccia in realtà a un grande autore del Seicento come Grimmelshausen, Grass era – caso abbastanza raro in Germania – uno scrittore con un’autentica proiezione internazionale. Ed è stato anche uno degli autori più comprensivi e assidui nel rapporto con i propri traduttori: forse consapevole delle difficoltà che il suo tedesco e i molteplici riferimenti al mondo di Danzica e alla minoranza dei casciubi potevano creare agli incauti che avevano accettato l’incarico di tradurlo in altre lingue, si spendeva in tutti i modi per assicurar loro la propria presenza e assistenza pratica. Nella primavera del 1978, in vista della traduzione del Rombo, venne addirittura organizzata per la prima volta nella storia una specie di tavola rotonda con una ventina di traduttori nelle maggiori lingue. Come spesso accade in questi casi, il motivo scatenante era stata una disastrosa traduzione del Tamburo di latta in svedese, che indusse l’editore di Grass a cercare di correre ai ripari. Ebbene, la kermesse durò ben tre giorni, durante i quali Grass fu non solo presente, ma prodigo di chiarimenti. Al servizio, dunque, dei traduttori e dei futuri lettori, con i quali – da grande scrittore qual era – aveva saputo istituire un rapporto che andava molto al di là della sua persona fisica. Un’intesa basata sull’onestà intellettuale, che è poi forse, ben più di tanti proclami, lo strumento principale a disposizione dello scrittore per garantirsi una relativa immortalità. Raoul Precht L'articolo Una brutale immortalità. Günter Grass o della scrittura come coscienza critica proviene da Pangea.
April 15, 2025 / Pangea
“Se sono matto, per me va benissimo”. Saul Bellow, un maestro
Nella ben documentata biografia dedicatagli da Blake Bailey (Cheever. A Life), si racconta a un certo punto di come John Cheever s’imbatta in un romanzo di Saul Bellow e sia, da quel momento in poi, soggiogato, anzi quasi ossessionato dal collega. Già gli erano piaciuti i primi due romanzi di Bellow, e in particolare The Dangling Man (L’uomo in bilico), ma la sua reazione alla lettura del terzo romanzo bellowiano, The Adventures of Augie March (Le avventure di Augie March), che esce nel 1953, sarà tale da stordirlo. Una vera e propria rivelazione, tanto da spingerlo a scrivere al suo quasi coetaneo che, se avesse continuato su quella strada, per lui, cioè per il povero Cheever, non ci sarebbe stato altro destino possibile se non quello di tornarsene a casa e “andare a lavorare a una pompa di benzina a fare il pieno agli automobilisti in transito per Cape Cod”. Un modo indubbiamente immaginifico e autoironico di esprimere la propria ammirazione, ma anche un segnale di quanto la prosa di Bellow l’avesse colpito; anche se in seguito, moderando leggermente gli entusiasmi, dirà (ma sempre con riferimento all’esempio di Bellow, che quindi continuava a bruciargli) che in fondo la scrittura non è un’attività competitiva. Non è questo che uno dei tanti esempi possibili per descrivere l’impatto avuto da Bellow sugli scrittori della sua generazione, come per esempio Malamud, per non parlare naturalmente di quelle successive (Philip Roth in primis), che ne hanno magari criticato il progressivo scivolamento verso posizioni neoconservative, ma hanno fatto comunque pienamente tesoro delle sue conquiste espressive. A vent’anni dalla morte, avvenuta il 5 aprile 2005, cerchiamo allora di verificare quanto di Bellow e della sua opera sia rimasto. Da The Victim(1947) a Henderson the Rain King ­ (1957) – l’unico dei romanzi bellowiani il cui protagonista non sia ebreo –, da Herzog (1964) a Mr Sammler’s Planet (1970), da Humboldt’s Gift (1975) a The Dean’s December (1982), da More Die of Heartbreak (1987) a Ravelstein (2000): anche se ci limitiamo ai titoli dei soli romanzi principali, riscontriamo sempre almeno due doti, una prodigiosa ispirazione e un’inesauribile creatività. Perché una cosa è certa: il corpus prodotto in mezzo secolo di attività da Bellow è impressionante per qualità e continuità d’ispirazione, per il sottile intreccio tra profondità di contenuti e padronanza delle tecniche narrative.  Non gli sono mancati i riconoscimenti, fra cui il premio Nobel, che gli venne conferito nel 1976, mentre l’anno precedente gli era stato preferito Montale, in quell’alternanza prosa/poesia che ne contrassegnò diverse edizioni. E va detto che di rado premio Nobel fu più meritato, né mai fu al tempo stesso più ortodosso, legato cioè non a questioni extraletterarie (ossia, spesso, politiche) o all’esigenza di ampliare la portata del concetto di letteratura, ma intrinseco, volto cioè a premiare davvero l’eccellenza nella scrittura. E a proposito di Nobel: diversamente da altri scrittori, che nei confronti del premio furono molto critici (Beckett) o addirittura lo rifiutarono (Sartre), pur non essendo del tutto convinto dell’utilità né degli aspetti pubblicitari ad esso connessi, Bellow si limitò a ringraziare, da persona discreta e gentile qual era. In passato, aveva detto dei propri libri e dei propri lettori che, se di un suo romanzo riusciva a venderne cinquantamila copie, l’avrebbero poi letto forse in cinquemila, ma avrebbero reagito ad esso al massimo in trecento, e il Nobel gli sembrò quindi semplicemente uno dei possibili strumenti per far aumentare queste cifre (e magari in particolare l’ultima). Una volta tanto, l’occasione del conferimento del Nobel risulta interessante anche per i contenuti della lecture tenuta da Bellow, in cui, polemizzando con le posizioni di Alain Robbe-Grillet e altri, esalta la vitalità del romanzo (e dei suoi personaggi) e mostra di perseguire l’ideale di una narrativa eclettica, che non si lasci limitare o coartare dall’esterno, che non tema le grandi dimensioni e le scommesse creative e perfino che non sia necessariamente equilibrata, e anzi contenga al proprio interno elementi alieni al plot principale e magari centrifughi. Menziona a un certo punto una frase di Joseph Conrad, il quale, nella prefazione al Negro del “Narciso”, diceva che l’arte è il tentativo di rendere la massima giustizia possibile all’universo visibile. Ben lungi dall’accettare l’idea di una crisi strisciante o di un’implosione del romanzo quale genere letterario, Bellow rivendica al contrario l’importanza di continuare a svilupparlo senza confini prestabiliti, aprendosi all’influenza di quelli che tre anni dopo, in un’altra intervista (a Maggie Simmons per “Quest”), chiamerà “deeper motives” (“motivi più profondi”), che spesso sgorgano direttamente dall’inconscio e dall’emotività dello scrittore configurandosi come onesti elementi morali (non moralistici), scaturenti cioè dall’approccio etico di ciascuno scrittore con la realtà e dalla sua rielaborazione mentale della stessa.  Da tutto questo derivava un rifiuto del postmodernismo e delle tendenze più in voga negli anni Settanta e Ottanta, il suo orgoglio di essere uno scrittore “unfashionable”, ovvero non alla moda, il suo amore e piacere per la lingua di cui si serviva, un inglese ricchissimo e duttile. E ne derivava anche una certa intransigenza, che non lo farà arretrare dinanzi alle accuse di conservatorismo, soprattutto a partire da Il pianeta di Mr Sammler, dovute anche al suo graduale avvicinarsi a posizioni neoliberali e a figure come quella del filosofo Allan Bloom. Per Bloom, che sarà insieme a Mircea Eliade uno dei protagonisti del romanzo a chiave Ravelstein, e per il suo The Closing of the American Mind – una specie di trattato in cui, considerato il nichilismo delle più giovani generazioni, si preconizzava un imminente trionfo della barbarie – l’elettore democratico Bellow scrive infatti un criticatissimo prologo. Un conservatorismo peraltro non politico, il suo, ma morale, dovuto al disagio provato nel vedere tante promesse svanire nel nulla e la società americana incapace di assorbire le pulsioni verso una maggiore giustizia civile e razziale, verso un superamento della povertà estrema, verso un maggiore rispetto dei diritti civili. Conservatore controcorrente in un’America che a suo parere andava verso un liberalismo ingenuo, confuso e velleitario, oggi Bellow sarebbe probabilmente all’estrema sinistra dello spettro politico, a burlarsi di questo nuovo ceto politico sciatto e pasticcione, se non decisamente fascista, emerso dalle ultime elezioni. Qualche altra caratteristica di Bellow da mettere rapidamente in luce, anche se in maniera non sistematica (proprio come forse avrebbe amato): anzitutto, la capacità di essere ironico e autoironico. Tanto per fare un solo esempio, nel rispondere alle domande di Joseph Epstein per la “New York Times Book Review”, il 5 dicembre 1976, Bellow esordisce così: “Well, you are not Eckermann, I am not Goethe, and this, our City of Chicago, is most distinctly not Weimar. But let’s go ahead anyway. Shoot.” (“Lei non è Eckermann, io non sono Goethe, e questa nostra città di Chicago di certo non è Weimar. Ma procediamo pure. Spari.”) Poi, la capacità di cogliere nel segno, che caratterizza in pratica ciascuno dei suoi quattrodici romanzi. Bellow lo spiegava senza davvero spiegarselo: a lui sembrava semplicemente di dar voce a paure e confusioni che erano sue proprie e a cui solo a posteriori riconosceva un carattere di universalità. Diceva che, in quanto romanziere, era parte del suo lavoro quotidiano cercare di dare espressione, nel modo più preciso e circostanziato possibile, ai dubbi e alle angosce che serpeggiano in una società di per sé sempre più impaziente e incerta. E questo, nella maggior parte dei casi, gli è senza alcun dubbio riuscito: certe profonde e strampalate lettere di Moses Herzog ai suoi impossibili interlocutori, da Eisenhower a Nietzsche a Spinoza, fanno già parte della storia della letteratura. “Se sono matto, per me va benissimo”, come recita l’incipit del libro; e a quanto pare, nel creare il prototipo dell’intellettuale ebreo metropolitano, ironico e fortemente nevrotico, sempre sospeso fra riflessione e azione (il più delle volte mancata) – prototipo che al cinema farà poi la fortuna di un Woody Allen – Bellow tocca davvero un tasto sensibile, dà vita letteraria a qualcosa che cominciava a esistere e a propagarsi in natura. E ancora, il legame indissolubile con Chicago. Nato a Lachine, nel Quebec, nel 1915 – il vero nome è Salomon Byelo, è l’ultimo di quattro figli e il primo a vedere la luce nel Nuovo Mondo –, Bellow trascorre l’infanzia a Montreal e a Chicago si trasferisce con la famiglia (emigrata in origine da San Pietroburgo) all’età di nove anni. Vivranno da emigrati canadesi nel West Side, una delle zone più problematiche della città in termini di piccola criminalità e d’insicurezza. Nella magmatica e caotica Chicago, Bellow avrebbe poi seguito gli studi liceali, si sarebbe anche iscritto, in una prima fase, alla locale università, dove avrebbe però subito toccato con mano lo strisciante antisemitismo che imperava anche negli Stati Uniti e che gli ispirerà il secondo romanzo, La vittima, prima di spostarsi alla Northwestern per laurearsi in sociologia e antropologia (non in lettere, e forse è significativo anche questo). A Chicago, lavora in seguito al Federal Writer’s Project – un centro studi che era diventato anche una specie di sinecura per scrittori progressisti e che Trump oggi si affretterebbe a chiudere –, stringendo con la città un legame indissolubile, che resta in essere anche quando la lascerà temporaneamente. Viaggerà infatti in Europa grazie a una borsa Guggenheim – è a Parigi che comincia a scrivere, a suo dire soprattutto in treno e nei cafés, il brillante e picaresco Augie March – e per determinati periodi vorrà o dovrà trasferirsi a Minneapolis e a Boston. Ma nella maggior parte dei suoi romanzi Chicago è onnipresente; il richiamo e il fascino che la città esercita su di lui ben si rispecchiano nella convinzione di alcuni tra i suoi personaggi principali di non poter vivere altrove, in un’accettazione totale anche delle brutture e delle manchevolezze della vita cittadina che non si riscontra nelle opere di altri scrittori, come Theodore Dreiser, Nelson Algren o Richard Wright, i quali a Chicago hanno trascorso quasi tutta, se non tutta la vita. In alcuni libri di Bellow, come per esempio Il dono di Humboldt – romanzo davvero pirotecnico su un intellettuale in crisi, in cui fra le righe prende a modello l’amico poeta Delmore Schwartz, morto una decina d’anni prima –, la Chicago dei grattacieli, dei mattatoi, della polizia corrotta, della criminalità organizzata per bande, del business che primeggia su tutto è ritratta con rara maestria e ricchezza di sfumature. Bellow è stato amatissimo dalle donne (cinque mogli, quattro divorzi, avrà l’ultima figlia all’età di ottantaquattro anni) e naturalmente dal suo pubblico, sempre più vasto, ma anche da molti colleghi scrittori, che in qualche caso potrebbero passare, sia pure entro certi limiti, per suoi discepoli. È ancora Blake Bailey, ma stavolta nella biografia dedicata a Philip Roth, a raccontare del bellissimo rapporto fra i due, che insieme a Malamud, a Mailer e ai fratelli Singer, erano uniti anche dal fatto di far parte di quella che Truman Capote aveva voluto sprezzantemente definire nel 1968 su “Playboy” la “Jewish literary Mafia”. (Di sicuro, assieme a tutti questi altri autori Bellow è riuscito se non altro a creare un genere letterario, quello dell’immigrato alle prese con l’incomprensibile realtà urbana, e a far emergere nelle lettere americane moderne la presenza ebraica, soprattutto quella degli ebrei ormai integrati o in via di sempre maggiore integrazione.) Roth, che con le sue battute e barzellette riusciva invariabilmente a divertirlo, continuerà a telefonare a Bellow anche quando quest’ultimo, ormai novantenne, era troppo confuso persino per sapere chi fosse, e parteciperà al suo funerale, nella remota Brattleboro, in Vermont, benché soffrisse di una patologia alla schiena che lo aveva quasi immobilizzato. Ma il rispetto e l’ossequio al maestro, a volte, permette di superare qualunque avversità; e Bellow era stato per lui e molti altri indiscutibilmente un vero maestro. Raoul Precht L'articolo “Se sono matto, per me va benissimo”. Saul Bellow, un maestro proviene da Pangea.
April 5, 2025 / Pangea