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“Di certo, non scrivo per chi confida nella felicità”. Storia & versi di James Thomson, il poeta malinconico
In un articolo pubblicato sulla “London Review of Books” nel marzo del 1993, Under the Sphinx, Alasdair Gray, l’istrionico scrittore scozzese che l’anno prima aveva pubblicato Povere creature!, esalta, con il suo linguaggio di fulmini e coltelli, un libro – o meglio, un poeta. Il libro s’intitola Places of the Mind, lo ha scritto un ‘collega’ di Gray, Tom Leonard (1944-2018), noto, più che altro, per le poesie – masticate nel dialetto di Glasgow – e gli studi critici, tesi a dimostrare l’autentica autarchia della letteratura di Scozia. Un paio di anni prima, aveva pubblicato un acceso poemetto contro la guerra in Iraq, On the Mass Bombing of Iraq and Kuwait, commonly known as The Gulf War. In quel libro – Places of the Mind –, “un’autentica opera d’arte più che uno studio critico” (così Gray), Leonard racconta “The Life and Work of James Thomson”, geniale, oscuro, misconosciuto poeta nato a Port Glasgow nel novembre del 1834 e morto, quarantasettenne, a Londra. Abusava di oppio, fece della poesia – drammaticamente – la propria ragione di vita; nelle rare fotografie ha la barba, lo sguardo tra il rabbioso e il rassegnato. Secondo Gray, “la vita di Thomson riflette lo stato della Gran Bretagna in modo più completo di altri autori della propria epoca, ad eccezione di Gerard Manley Hopkins e di Thomas Hardy”.  L’opera più nota di Thomson, il poemetto The City of Dreadful Night (in Italia ne esiste una versione a cura di Mili Romano, stampata da Panozzo nel 2000), uscito in edizione definitiva a Londra, per Reeves and Turner, nel 1880, pare abbia ispirato la “Unreal City” su cui si incardina La terra desolata di Thomas S. Eliot, è dedicato To the memory of the younger brother of Dante, Giacomo Leopardi, “Spirito vertiginoso, genio radicale, finito tragicamente”. A dire di Gray, The City of Dreadful Night nasce sotto l’egida della Melancolia di Albrecht Dürer:  > “L’Inferno secondo Thomson è la città moderna, dove il sole non sorge mai, la > gente vaga insonne per le strade, priva di fede, speranza, amore… Shakespeare > ha descritto un universo privo di senso ben prima di Thomson e con parole ben > più memorabili, ma i suoi portavoce sono re folli, comunque, personaggi > importanti, eroici. Gli abitanti della City di Thomson, invece, sono creature > anonime, esseri cupamente stoici. Alcuni, rammemorano una vita in cui hanno > cercato di fare del bene: risvegliatisi ‘in questa notte totale’ hanno capito > che la memoria è un’illusione”.  Figlio di un maggiore della marina mercantile, madre profondamente religiosa, sconfitta da un perpetuo senso di colpa, morta che lui aveva sette anni, Thomson cresce al Caledonian Orphan Asylum, tenta la via del giornalismo, vive, in sostanza, di stenti. Scrisse sul “Secolarist” e sul “National Reformer”, firmava i suoi versi B.V., ovvero Bysshe Vanolis, in onore dei suoi miti, Shelley e Novalis. George Eliot e Meredith riconobbero a Thomson le stimmate del genio; l’autore non aveva modo – cioè: soldi – per farsi notare tra i club dei letterati dell’epoca. Henry Stephens Salt – biografo di Shelley e di Thoreau – nella nota su Thomson redatta per il Dictionary of National Biography, scrisse di “uno spirito indomito congiunto a una nefasta malinconia”, di uno “zelo ardente per la democrazia e il libero pensiero che si coagulava a un’ostinata diffidenza nel progresso umano”. Disse che più che a De Quincey, la sua ricerca lirica si legava a Heinrich Heine, che aveva tradotto.  James Thomson (1834-1882) Di contrasto ai grigi orrori della vita ‘moderna’, Thomson si figurò un Egitto dei sogni, proteso – come tutti gli esotisti dell’Ottocento, stretti tra Le mille e una notte e le visioni degli antichi poeti persiani – verso un Oriente che in lui, tuttavia, ha tinte dispotiche, cannibali (così almeno nella raccolta postuma A Voice from the Nile, and Other Poems, 1882). Non si permise di avere pace, tentò di credere, ma di Dio intravedeva soltanto le vertigini, le vette feline di chi chiede tutto per quasi nulla, un refolo di quiete. A suo avviso, i poeti dovevano sondare la disperazione – anche quando è rattenuta da muta nostalgia – e i filosofi il mistero della morte.  La nota della Encyclopædia Britannica che lo riguarda mette in luce le debolezze di questo ‘stile’: monotonia, palustri lungaggini, “mera retorica e verbosità”. James Thomson – la cui forma eletta è il poema, un dire che sa di pilastro, anacoresi da stilita –, in sostanza, è uno di quei poeti che riescono bene in regesto antologico, in grado di riferirne l’eccezionalità: “Inutile classificare questo poeta: la sua angusta ma solitaria altezza gli garantisce il ruolo di una ben distinta originalità… Pur con i suoi limiti, il tempo dimostrerà che la sua è un’opera straordinaria quanto unica”.  Anche in Italia era noto: Salvatore Rosati redige per la “Treccani” (edizione 1937) una nota tutto sommato esatta:  > “Temperamento ricco d’immaginazione ma con un vivo senso della realtà; mosso > da elevate aspirazioni spirituali ma prostrato da una grave melanconia e dallo > scetticismo verso ogni forma di umano progresso, il Thomson ha tratto da > queste tendenze contrastanti una poesia cupa, fortemente drammatica, > intimamente simbolica”. Alasdair Gray ‘canonizza’ Thomson “Nel club delle rare anime capaci di confrontarsi con il peggio, le anime depresse per cui la poesia agì come un tonico. Se leggiamo Thomson con acume, scopriamo che del suo mondo fanno parte Leopardi e Schopenhauer, Baudelaire, Melville, Thomas Hardy e l’autore dell’Ecclesiaste”. Lo scozzese non ha sbagliato mira. Quanto a Leopardi, è stato il nume totale di Thomson, che realizzò una traduzione mirabile – a detta dei critici – delle Operette morali e dei Pensieri (gli Essays, dialogues and thoughts di Leopardi a cura di Thomson uscirono soltanto nel 1905, per la cura di Bertam Dobell). Quanto a Melville, Thomson fu la bella lettura della sua vecchiaia. Era stato l’oxfordiano Charles James Billson (1858-1932), altrimenti noto per una scolastica traduzione dell’Eneide e per uno studio sulle tradizioni medioevali di Leicester, a fargliene dono. Gli scrisse la prima volta nell’ottobre del 1884: Melville viveva ormai da semisconosciuto, sepolto nelle sue lugubri riflessioni oceaniche – “Nessuno sembra sapere nulla del solo grande scrittore di immaginazione che possa stare alla pari di Whitman su quel continente”, aveva scritto Robert Buchanan –, i romanzi esauriti da anni. Chiedendogli notizie “di altri miei libri” – White-Jacket, Clarel, Battle Pieces – gli fece dono dei libri di Thomson. Il commento di Melville non si fece attendere:  > “Il vostro amico era un poeta genuino, se mai ve ne è stato. Quanto al suo > pessimismo, per quanto io stesso non sia né pessimista né ottimista, tuttavia > mi piace nei versi se non altro come risposta all’esorbitante fiducia, > immatura e superficiale, che fa tanto chiasso ai nostri giorni, almeno in > certi luoghi”.   Il rapporto epistolare tra i due durò qualche anno, concentrandosi quasi maniacalmente sull’opera di Thomson. Nel poeta morto troppo giovane, spossessato del successo, Melville riconobbe un altro se stesso: > “Quanto al suo non aver ottenuto la ‘fama’, che significa? Non è per questo da > meno, ma tanto maggiore. Deve esservi passato per la mente, come a me, che più > la nostra civiltà avanza sulla linea attuale più a buon mercato diventa la > ‘fama’, specie di tipo letterario. Questa specie di ‘fama’ una mia conoscenza > burlona dice che può essere prodotta su ordinazione…” > > (H. Melville a J. Billson, New York, 20 dicembre 1885, in: H. Melville, Opere, > a cura di M. Bacigalupo, Mondadori, 1991) Da qualche tempo, anche come una reazione al ‘linguaggio’ del tempo, Melville era tornato alla poesia. Pubblicava piccole placche, in tirature limitatissime (venticinque copie): John Marr and Other Sailors esce dai torchi nel 1888; Timoleon, Etc. nel 1891. Forse la lettura di James Thomson, poeta decentrato da una malia oscura, fiero della propria ricercata marginalità, lo aveva rinvigorito, gli aveva conferito nuovo veleno lirico.  In cambio dei volumi di Thomson – compresa la raccolta di saggi al vetriolo, Satires and profanities, anch’essa edita postuma – Billson avrebbe voluto una fotografia di Melville. Il grande scrittore si scherma – “mi avete chiesto una fotografia: non ne ho” –, poi parla di Blake – “Mi fa piacere apprendere che Thomson era interessato a William Blake” – spalancando lo spazio di un incontro. Gli altri si occupino pure di fotografie, meri calchi del transitorio, Melville imbarcava una ciurma di poeti esagitati per cacciare la Balena Bianca nell’altro mondo. Cosa può il tempo di fronte a questo sgarbo? *** Da Una voce dal Nilo Vengo da monti diversi, vivo sotto stelle che non si riflettono su queste acque; vago per vasti regni, per cieli capodoglio scorro oltre dune arabe e libiche, per immergermi nel grande Mare di Mezzo ed è mia questa terra d’Egitto. Tutto è mio: la palma e la colomba che la elegge a tana i campi di grano e ogni fioritura la pazienza del bue e il coccodrillo l’ibis l’airone il falco il loto e i papiri in falange le barche dalle vele oblique  o le ripide che spezzano ogni ormeggio.  Perfino i volti possenti dei templi con le colonne e le enormi effigi, le piramidi e Memnone e la Sfinge il Cairo e le città dei Greci come Menfi e Tebe dalle cento porte Sais e Dendera retta da Iside; se sono cresciuti è perché li ho nutriti.  Se nego il mio flusso, carestia devastante miete vittime tra gli uomini che nulla hanno da mietere e orrore e languore sgorgano ovunque; quando, retrattile, ho deviato altrove i miei eterni fiumi, gli antichi reami si sono inariditi, fama infame li affligge, ricoperti dalle sabbie del deserto: scompaiono sepolti e dov’era oro ora è silenzio solitudine morte.  L’esattezza del silenzio, mentre trottano i venti sopra la desolazione, implacabile.  * Da Despotismo temprato dalla dinamite I miei schiavi, gente dei campi, lavorano senza fine e dormono, da fatica sfiancati. Non sperano in un mondo migliore eppure, disperati, la morte non li avvinghia nell’incubo. Si accontentano del loro scarso cibo, in pace –  con terrore guardo al giorno della mia incoronazione.  I palazzi sono la mia prigione; in ogni cibo intravedo il veleno; ovunque mi muovo, è timore di esplosione, istantanea devastazione; con terrore, ogni giorno, ogni notte, con  moltiplicata paura, guardo al giorno della mia incoronazione.  * Da The City of Dreadful Night A volte soltanto la rabbia, fredda può mostrare gli sfregi della verità nuda, spoglia di ogni inganno: i falsi sogni, i falsi moniti,  le futili maschere della moina giovinezza  e in una specie di indocile innocenza plasmare il dolore in vita, per quanto rozza. Di certo, non scrivo per i ragazzi pieni di speranze, per chi crede nella felicità e pascola e ingrassa tra gli spettacoli dell’esistere senza provare dubbio, senza sentire carenza e carestia non scrivo per gli spiriti buoni, allattati  da un Dio che li santifica e li ama né per i saggi che vedono il paradiso in terra.  Per costoro non scrivo: non potrebbero neppure leggere questo scritto – continuino  pure a prosperare nella loro giustizia su questa dolce terra, veleggino pure nei loro appropriati cieli. Queste parole appartate importano ai desolati, ai rosi  dal destino, a quelli che desiderano morte.  Qualche stremato vagabondo, forse, in questa città di tremende notti capirà il mio dire, franerà in un fremito compagno nella disastrosa lotta: “Soffro, muto e solo, eppure un altro ulula comune dolore e mi fa sentire fratello sugli stessi sentieri selvaggi”. Triste fratellanza, rivelo forse misteri imbavagliati dal tempo? No, nessun segreto può essere rivelato a chi non lo ha visto. Chi non è iniziato ai presagi non può comprendere il verbo che continuo a urlare.  * Da Nuda divinità D’improvviso, le bestie si accucciano; gemono, sopraffatte; i popoli cadono in ginocchio davanti alla dea feroce e splendida offesa per incuria; flebile preghiera mormorano inarticolate disperazioni finché il suo aspetto altero non si svolge in gentilezza.  * Confessione  La Chiesa si erge laggiù, oltre il frutteto: con quanta nostalgia contemplo le sue guglie! Mistero eletto dal crepuscolo che si dissolve in un fuoco dorato, come tenue incenso dilaga all’alba e scava i cieli.  Quando il cuore sprofonda nel baratro più fondo, un sussurro mi rincuora: è bello entrare in chiesa, inginocchiarsi, pregare per le persone che amiamo.  Ogni incredulità svanisce, la pace scorre in noi come la campana nel Sabato.  L’anima risponde: Il buon riposo accade quando appoggi il capo sul petto della Verità. * Da Il filosofo Come vendicare la propria alterità?  Occhi che mendicano approdo, sondano  la superficie della terra, ascendono ai cieli, investigano e ogni cosa si arrende a questo arrembaggio: vuoto avvolge tutto un fuoco divampa e sembra un fiore. Perfora la bellezza e vede ossa reticolo di vene, l’orrore della carne sotto la pelle perlacea, giovane: varca lo Spazio, vaga nella nebbia che tutto avvolge, nuota nelle acque del Tempo nel nero  abisso; capisce che la Vita è un sogno  nel sonno eterno della Morte.  James Thomson *In copertina: un acquerello di Victor Hugo L'articolo “Di certo, non scrivo per chi confida nella felicità”. Storia & versi di James Thomson, il poeta malinconico  proviene da Pangea.
August 5, 2025 / Pangea