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Bob Wilson, il pacificatore di Avanguardie
Robert Bob Wilson è mancato il 31 luglio scorso a 83 anni nella sua casa di Water Mill a New York e non ci voleva certo la celebrazione della sua morte per parlarne. Se lo si ricorda oggi è per un indispensabile tributo alla sua straordinaria carriera, ma anche per il timore che la sua vastissima lezione artistico-teatrale non abbia – almeno per il momento – un’eredità attendibile e originale. In oltre sessant’anni di creatività, Wilson ha realizzato più di duecento produzioni, collaborando con molti dei protagonisti di questi ultimi cinquant’anni: da Philip Glass ad Arvӧ Part e David Byrne, da Tom Waits a Lou Reed, dalla performer Marina Abramović al drammaturgo Heiner Müller, usufruendo anche dello spirito anarchico e dissacratorio di William Burroughs per comporre un universo polifonico declinato nelle rispettive peculiarità. Una moderna, insolita, geniale Gesamtkunstwerk – opera d’arte totale – coniata illo tempore dal filosofo tedesco K.F.E Trahndorff nel 1827 e teorizzata dal compositore Richard Wagner più di un ventennio dopo, corroborata dalle moderne, esplosive sensibilità delle Avanguardie Storiche. Dalla multidisciplinarietà del Futurismo e del Suprematismo – nei suoni, nella danza, nell’impiego radente delle luci – alla dissacrazione sistematica del Dadaismo, dalle deformazioni grottesche del Surrealismo alla controcultura alternativa della Beat/Pop dei suoi anni. Wilson è stato un attento coagulatore di avanguardie, mixate sapientemente facendo attenzione allo spirito del tempo, combinate in modo che il risultato finale non fosse dirompente – come per loro natura – ma bensì permeato dalla distanza, da una lontananza spaesante, da una lentezza penetrante, quasi proveniente da altri mondi, là dov’è l’attenzione a dominare il fare dell’uomo. Un mondo contrastato, fragoroso e violento, nella riduzione pacificatoria del silenzio e della lentezza. Lentezza quasi cerimoniale che domina la scena nei suoi progetti teatrali, pressoché in assenza di testo, immersa in un silenzio diffuso, arricchita da un’illuminazione sapiente – si potrebbe dire “mentale” – evocando una sequenza di tempi vuoti, di attimi dilatati da riempire di gesti, di allusioni rallentate, di movimenti sapienti. Un teatro che vuol raccontare per sensazioni, pur senza dire, senza esporsi, quasi nell’ombra o – al contrario – percorrendo l’aura luminosa del suo contorno, così padroneggiando entrambe le zone estreme: Dove non potevo parlare, ho cominciato a costruire immagini. Il teatro di Wilson è ipnotico, senza regole prestabilite quasi fosse d’improvvisazione, ma in realtà messo in scena seguendo sensazioni rabdomantiche dominate dalla lentezza, dove ogni attimo, ogni piccola variazione appare intenzionale, ogni dettaglio si carica di significato, trasformando le difficoltà in risorsa scenica, in guizzo creativo spontaneo, generativo.  La vocazione per il teatro si manifesta negli anni Sessanta al Pratt Institute, dopo una formazione come architetto, retroterra che manterrà soprattutto nelle scenografie: “Non ho mai pensato all’allestimento teatrale come ad una decorazione, ma come a qualcosa di architettonico”; avvicinandosi allo stesso tempo al mondo della danza ispirato da Merce Cunningham, Marta Graham e George Balanchine. Ma Wilson coltiverà la sua specificità con l’impegno nel reintegro di ragazzi disabili, sensibile all’esperienza personale del recupero della sua balbuzie. Fonderà quindi la Byrd Hoffman School of Byrds, dedicata affettuosamente a Miss Hoffman, la danzatrice che aveva risolto il suo problema. Sarà questa peculiarità a procurare la svolta nella sua carriera nel 1970 con l’opera Deafman Glance, con Raymond come protagonista, ragazzo orfano e sordomuto che poi adotterà. Sette ore di silenzio osservando Raymond e le sue movenze minimali cariche di significato: opera muta in uno spazio rarefatto dominato dal silenzio e da un’architettura luminosa, dove ogni gesto diviene rituale, ogni dissolvenza significativa. Un quinquennio intensissimo che evolverà nell’opera Einstein on the beach con la collaborazione di Christopher Knowles – afflitto da rilevanti danni cerebrali – e con lo sperimentatore sonoro Philip Glass. È anche la stagione di The Life and Times of Joseph Stalin (1973) opera epica di dodici ore in sette atti che si dipana in sette giornate con il coinvolgimento di centinaia di artisti:  > “Avevo l’idea di fare un’opera teatrale che sarebbe stata messa in scena per > sette giorni, una specie di finestra sul mondo in cui eventi ordinari e > straordinari potessero essere visti insieme. Si poteva vedere alle 8 del > mattino, alle 3 del pomeriggio o a mezzanotte e l’opera sarebbe sempre stata > lì, un orologio di 24 ore composto da tempo naturale interrotto da tempo > soprannaturale”.  Faraonico e minimale. Ma Robert Bob Wilson è artista multidisciplinare e fin dal ’76 espone i suoi storyboard anche alla prestigiosa Paula Cooper Gallery, con una carriera che culminerà con l’attribuzione del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1993 grazie alla sua installazione Memory/Loss. Nel 1991, seguendo la sua indole generosa e altruista, fonderà il campus The Watermill Center, laboratorio creativo – ancora attivo – che raduna anche la sua sconfinata collezione di oggetti reperiti in tutto il mondo e le sue opere d’arte, con l’intento di formare nuovi talenti all’insegna della massima libertà espressiva, seppur con il rischio concreto di dare troppi spunti personali ottenendo alla fine giovani controfigure. Espone al Louvre anche il ritratto della cantante Lady Gaga, frutto di un lavoro durato tre giorni con sessioni di prova estenuanti anche di 15 ore, frequentando il versante artistico fino al 2023 con l’installazione al Museo LAC di Lugano trasformato in una foresta virtuale, anno in cui viene insignito del Praemium Imperiale per il teatro dalla Japan Art Association. È di pochi mesi fa la sua partecipazione al Salone del Mobile di Milano con l’installazione dedicata alla Pietà Rondanini di Michelangelo e la serata inaugurale alla Scala di Milano, tenuta dall’orchestra del Teatro. Quello di Wilson è un teatro senza paura, totalizzante, che può divenire esplicitamente elitario quando richiede il massimo sforzo allo spettatore impegnandolo per ore, se non per intere giornate. È anche il caso delle tre ore di rappresentazione di Odissey (2013), poema omerico divenuto fiaba recitato interamente in greco, simmetricamente incomprensibile ai più, ma immediatamente ricevibile se ci si pone in ascesi verso il globo di luce che attanaglia la scena fin dal primo minuto, trasformando una pièce teatrale nella possibilità di un’esperienza elettiva.  Attraversando la temperatura novecentesca dell’Occidente e delle sue avanguardie, nel teatro di Wilson è la lezione dell’Oriente – parco nelle parole ed estremo nel controllo – che si afferma nel movimento. Avanzare e retrocedere bilanciandosi con un procedere misurato, affondando il peso sulle leve, ascoltando senza sussulto il traslocare felpato della propria massa con mani, braccia, gambe, spalle, gomiti, piante dei piedi, bacino, controllati, mentre lo sguardo si direziona secondo intenzione e mai casualmente, con gli occhi puntati come il taglio di una lama, tracciando le geometrie della scena. In silenzio, dove il respiro detta la sequenza del battito cardiaco e non viceversa. È con questa attenzione al corpo (“Coltivare il proprio corpo come un orto”: Yukio Mishima) che la sua balbuzie, anziché limite, diverrà risorsa, che il disagio fisico dei suoi protagonisti consentirà l’apertura verso nuovi linguaggi, nuove sensibilità, ampliando le possibilità d’interpretazione. Bob Wilson alimenterà con intelligenza collaborazioni con i talenti più distintivi del suo tempo, arricchendosi dei loro contributi e considerando il suo teatro come un corpo vivo, pulsante e mai definitivo, modificandolo di continuo nel corso delle prove, per carpire le sensazioni scaturite in tempo reale dalle luci, dai corpi, dagli sguardi, dai respiri, come testimoniato dai suoi collaboratori. Il suo teatro ha quindi catalizzato in un nuovo universo multiforme le esperienze estreme dell’avanguardia, servendosi dei suoni disarmonici e metallici coniati dall’Arte dei Rumori del Futurismo di Russolo, del silenzio prolungato e allusivo di John Cage, con i suoi 4’e 33’’  (1952, Maverick Concert Hall di New York), delle illuminazioni sghembe e dei tagli di luce laterali dei Suprematisti, suggestioni innescate dall’irripetibile capolavoro del 1913 Il Trionfo sul Sole, andato in scena al teatro Luna Park di San Pietroburgo nel 1913, con prologo di Chlebnikov, “il poeta dei poeti”, libretto scritto in Zaum, linguaggio transmentale elaborato da Kručënych con pause dopo ogni sillaba, scene e costumi di Kazimir Malević asimmetrici e sghembi, luci di Majakovskij a taglio di lama e musiche rumoriste di Matjušin, completati da un coro inetto di sette persone assunto due giorni prima e da un piano scordato.  Dovendo riassumere oggi il lascito di Wilson, non credo che “rivoluzionario” sia il termine più corretto – come molti dei tributi in suo onore affermano oggi – semmai riferibile alle prime esperienze permeate della protesta anticonvenzionale del periodo Beat e Pop. Wilson è sicuramente un innovatore, un “combinatore” straordinario di quanto più alto possa essere espresso nelle varie discipline, riuscendo in questo modo ad essere realmente unico nei risultati raggiunti, frutto anche dell’altrettanto straordinario talento dei celebri partner che lo hanno affiancato nel corso della sua incredibile carriera. Non attribuendo al termine “combinatore”, alcuna accezione limitativa, nel tentativo di conferire alla sua ricerca artistica il termine più calzante, più significativo. Assistere ad uno spettacolo di Robert Wilson si può considerare un’esperienza immersiva, come capitatomi nel 2003 a Roma, nella Nuvola di Fuksas, dove Wilson dialogò con la musica totale di Arvo Pärt. Sodalizio nato nel 2009 – grazie all’evento voluto da papa Benedetto XVI riunendo duecentosessanta artisti da tutto il mondo nella Cappella Sistina – che farà scaturire Adam’s Passion, pièce dedicata al primo uomo, che vive per primo la tragedia della proliferazione dei popoli nelle differenze, anziché nelle radici comuni.Un’idea teologica di riunificazione delle anime profonde dei popoli, un’evocazione dell’opera d’arte come messaggio spirituale che prende corpo in un’atmosfera blu diffusa, avvolti nella Musica come Luce di Part che evoca una verità assoluta, inevitabile, votiva. Wilson diviene con le sue presenze eteree e silenziose, con gl’inconsueti oggetti sospesi della scenografia che evocano la precarietà della situazione umana, la parte complementare perfetta ad un suono celestiale, la pietra angolare che sostiene in silenzio l’arco del messaggio sonoro, partecipando attivamente ad una compenetrazione scenica minimale che rasenta la perfezione, semmai questa possa realizzarsi su questa Terra.  Talmente vasta e articolata la produzione di Robert Bob Wilson che sono di gran lunga più le opere non citate che quelle raccontate, anche se vale ricordare a chiusura la motivazione dell’attribuzione del premio Europa per il Teatro nel 1997: “Per la sua capacità di reinventare il teatro come arte globale”, cui mi preme aggiungere il non detto: Attento alle sensibilità più acute e dirompenti delle Avanguardie Storiche del Novecento. Pur pacificate. Roberto Floreani *Nel testo: immagini dalle creazioni di Bob Wilson; in copertina: photo Lucie Jansch L'articolo Bob Wilson, il pacificatore di Avanguardie proviene da Pangea.
August 6, 2025 / Pangea