In vita ho avuto il privilegio di conoscere molte persone, al di qua e al di là
dell’Oceano. Alcune nobili e straordinarie altre solo famose. Fra quelle nobili
e straordinarie c’è senz’altro Franca Rame, con la quale ho avuto il privilegio
di collaborare per oltre quindici anni a partire dal 1980. Nel corso del tempo
ho avuto modo di vedere da vicino come le opere del premio Nobel Dario Fo siano
state fortemente influenzate dalla sua sapienza attoriale. Oltre che dalla
sua capacità organizzativa e coraggio politico.
Franca è stata per Dario il ‘miglior fabbro’. Non solo per i monologhi femminili
ma per l’intero corpus della sua opera.
Era la prima a cui Dario leggeva i manoscritti, oppure la ‘fabula’ che,
successivamente, sarebbe diventata il copione di scena: un testo provvisorio,
non ancora pieno di cancellature e note a margine, che Franca aveva già vagliato
e commentato, magari in cucina. Non a caso nell’edizione stampata delle commedie
sta scritto ‘a cura di Franca Rame’. Non solo come riconoscimento editoriale, ma
come traccia di un’intensa collaborazione e sinergia maturata nel corso di
migliaia di recite realizzate in comune. Un’empatia esistenziale che, secondo
Franca, implica un perenne “scambio della propria esperienza personale, della
propria vita con quella degli altri. È sempre così se si crede in quello che si
fa, specie in teatro.”
Per realizzare quell’artificio insito nel mestiere dell’attrice Franca
utilizzava una vis comica ed intelligenza che si è
sviluppata progressivamente. A seconda dei fatti politici del giorno,
all’ideologia dominante sottoposta a critica severa, oppure con l’innesto a
margine della propria vita a partire dalla prima infanzia. Per esemplificare,
senza volermi inoltrare in un’analisi approfondita dell’argomento, cito
direttamente dal monologo Ritorno alla vita scritto durante la veglia per la
morte della madre Emilia, pubblicato su Teatri e sulla rivista
online “lamacchinasognante”.
> “È ora che Franca incominci a recitare, ormai è grande”. Avevo 3 anni. È mia
> madre che parla. Me la ricordo mentre mi insegnava la parte: “bocca a bocca”,
> così si diceva a casa mia, mot-a mot, parola per parola. Aveva deciso (era
> sempre lei che prendeva le decisioni importanti in famiglia) che avrei fatto
> un angiolino di supporto all’angelo vero, che veniva interpretato da mia
> sorella Pia in La passione del Signore atto V, Orto dei Getzemani. “Pentiti
> Giuda traditore che per trenta monete d’argento hai venduto il tuo Signore!
> Pentiti! Pentiti!” recitava Pia e io dovevo ripetere gridando subito dopo, la
> stessa battuta: “Pentiti! Pentiti! Giuda traditore che per trenta monete
> d’argento ha venduto il suo Signore!” Non era una gran parte, non ci devo aver
> messo molto ad impararla. “Ripeti!” e ancora e ancora “ripeti” dicevala mamma
> paziente mentre pelava le patate per il minestrone. “Ripeti!”
Sono parole e pensieri che ci prendono per mano e indicano l’origine della sua
esperienza attoriale. Tipica di una figlia d’arte, che negli anni a venire
dedica l’intera esistenza al palcoscenico. Un’arte che nasce principalmente
all’interno di una microsocietà aurorale e si sviluppa grazie al codice orale in
virtù di un nucleo famigliare dove l’arte e la vita coincidono. Una grammatica
di scena esistenziale ed immaginifica, eppure rigorosa, che riguarda ‘il farsi e
disfarsi del linguaggio, come direbbe Roman Jakobson. Che ha a che fare con
l’imprinting, l’unicità della lingua associata alle proprie emozioni, alla
cognizione del dolore e della gioia. Così apprendiamo che all’inizio e alla fine
di quella recita, l’angiolino Franca, ad appena tre anni, volente o nolente è
stato gettato nella mischia, incitato con grandi cenni ad entrare in un
carattere fondante la sua futura personalità di donna e attrice:
> Non so se la paura d’essere sgridata o il “senso del dovere” che maledizione
> da che sono nata è lì, a infastidirmi la coscienza, fatto si è che dopo un
> attimo di silenzio, raddrizzandomi la coroncina di lampadine che nel trambusto
> stava per cadermi, con voce chiara e mesta, quel tanto che serve dico
> “S’impicca! Non s’è pentito… Giuda traditore che per trenta monete d’argento
> ha venduto il suo Signore… Non s’è pentito!” e via che esco. Ce l’avevo fatta:
> l’avevo detta tutta! Non so se mi abbiano detto qualcosa… so solo che da
> allora in poi, “La passione del Signore” ha sempre avuto due angiolini, con il
> più piccolo che abbraccia Giuda a mostrare la grandezza di Dio. E tutti giù a
> piangere. Mia madre ha raccontato questa storia almeno mille volte, senza
> riuscire a nascondere orgoglio e un pizzico di meraviglia.
Spesso nei suoi monologhi Franca ha trattato “con voce chiara e mesta” oppure
comica e irata, il tema della madre con “quel tanto che serve”. Non a caso i
titoli più famosi, scritti a quattro mani con Dario, sono Medea, Maria alla
Croce, Mamma Togni, Michele lu lanzone, Il risveglio, Una madre, Lo stupro, Il
diario di Eva, Lisistrata romana, etc. Sono testi in cui l’archetipo della madre
trova una risonanza immediata, vitale e plausibile, sempre all’interno del
processo di trasformazione del mondo femminile. Punto di transito, luogo ideale
e reale, della presa di coscienza di una donna del XX secolo che ha fatto uso
del palcoscenico per darsi voce e coraggio.
Franca Rame e Walter Valeri
Un’altra dote di Franca, che non tutti conoscono, e di cui Dario ha
abbondantemente beneficiato, era quella di saper orchestrare dall’interno la
recita. Era come una sorta di regista al seguito. C’erano dei segnali precisi,
magistrali e indiscutibili, con cui Franca interveniva all’insaputa del
pubblico. Ad esempio: se Dario preso dalla foga si dilungava durante
l’introduzione allo spettacolo, lei lo correggeva, lo avvertiva con dei piccoli
colpi di tosse dalla quinta. Oppure, se un attore o un’attrice scendevano di
tono perdendo il contatto con il pubblico, lei lo segnalava con un gesto
discreto, con un colpo del piede sul palcoscenico; oppure servendosi di un
mezzo tono che, benché tagliente, non valicava il boccascena. Franca recitava e
ascoltava con distacco sé stessa e gli altri recitare. Come se fosse seduta fra
il pubblico. Per una sorta di automatismo innato, senza farsene vanto, aveva del
pubblico una percezione permanente ed esatta, quasi infallibile.
Durante le interviste o chiacchierate informali era solita schermirsi. Fare
ironia nei confronti di quelli che indossavano una faccia da attori o da
attrici. Ripeteva che quello del teatrante era un lavoro come un altro e andava
svolto nel migliore dei modi, con estrema modestia, serietà e semplicità. Non
c’era alcun medico che potesse prescrive ai pazienti l’obbligo di fare gli
attori, di guadagnarsi la vita in scena. Anche se, personalmente, penso che il
monologo autobiografico Lo stupro, abbia avuto per lei una funzione terapeutica.
Più volte ha avuto modo di dichiarare “Ciò che appartiene alla sfera ‘personale’
appartiene anche a quella ‘politica’, e viceversa”. Ed è questa radicale
compenetrazione fra il ‘personale’ e il ‘politico’ il nodo centrale del suo
teatro.
Era una persona a modo suo religiosa; un po’ marxista e un po’ francescana ‘sine
glossa’ come suol dirsi; a volte dolcissima e a volte inflessibile, benché
pronta a chiedere scusa nell’evidenza dell’errore. Il pubblico che la seguiva lo
intendeva bene, mentre numeroso l’ascoltava recitare o in camerino. Tutti
sapevano che i monologhi femminili di Tutta casa letto e chiesa erano un punto
di riferimento preciso. Un’autentica opposizione ad ogni sopruso, ad ogni atto
politico oppressivo nei confronti delle donne. Anche grazie a lei sappiamo che
esiste un discrimine ‘inoffuscabile’ tra la verità e la sua negazione. Non parlo
della menzogna che rende insensibili a tutto, perché tutto è già stato venduto e
comprato (compreso gli occhi delle vittime innocenti) ma di quella descritta da
Dostoevskij o Manzoni, che morde dentro. Con un sorriso malizioso ripeteva
spesso “Dio esiste, ed è comunista”. Anche per questo la verità chiede dei
sacrifici.
Una volta ho scritto: la verità in teatro, come per la religione, migra
indistruttibile. La luminosa interezza di Franca Rame è simile alle ali di una
farfalla che punge. Lo penso ancora. Fra i molti esempi di coerenza e dignità
politica, senza precedenti nella storia della nostra Repubblica, c’è quello
delle sue dimissioni dal Senato della Repubblica. Lo ha fatto in modo
trasparente. Senza grida o strepiti. Con una lettera pubblica irrevocabile ed
esemplare che andrebbe letta e commentata ancora oggi nelle scuole del nostro
paese. Cuori e menti ad educare, come ha scritto parlando d’altro Franco
Fortini, “la credibilità pretende autenticità. Nel nostro spazio di vita che è
dell’inautentico, ogni atto di fede, foss’anche il più superstizioso, rammenta
l’esigenza dell’autenticità.”
Forse anche per questo la stampa e i media, che sono soliti glorificare il nulla
l’hanno dimenticata. I capo redattori preferiscono mandare in macchina vecchie
baggianate tipo: Franca Rame insultava il Papa Benedetto XVI, semplicemente
perché, con tutto il rispetto dovuto, Franca ebbe modo di ricordare al mondo che
da un punto di vista strettamente fisiologico (e quindi psicologico) il Papa non
aveva l’utero. Quindi anche sua santità, avrebbe dovuto mettersi in ascolto, più
che dettare regole e imperativi intollerabili per il modo delle donne. Ora è il
tempo delle fakenews, delle tempeste mediatiche procurate ad arte, di un
pensiero che vorrebbe disintegrare l’intimo valore di ogni testimonianza e
speranza di liberazione come non fosse mai esistita. Eppure, la testimonianza di
Franca è stata quella di una donna veramente speciale.
Walter Valeri
Abano Terme 7/8/2025
*Dario Fo e Franca Rame leggono le lettere, Milano, 4 dicembre 1962 (Olycom)
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