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Dario Fo: un giullare contro la logica dell’ovvietà
Nel 2026 Dario Fo compie cent’anni ed è certamente un giullare indelebile. Non ha mai realizzato parodie banali, tanto per far ridere. Le sue non sono mai state smorfie fini a se stesse, volgari mimesi per una grassa risata – ma la prova evidente di micro episodi espressivi, costruiti per l’esplorazione e recupero della realtà nella sua forma più ampia. Come ha scritto Bernard Dort “Dario Fo ha tutto per essere un mimo prodigioso. Sa riunire in un gesto della mano, del braccio e del corpo, quei movimenti casuali ai quali non cessiamo di abbandonarci. Ma quello che appare sono le figure mutevoli, transitorie degli uomini immersi nella storia e nella lotta delle classi.”  Non importa se la realtà che affiora e dialoga con noi, grazie a queste immagini, viene colta nei suoi aspetti ridanciani, comici o tragici, oppure assorti e misteriosi. Quel suo fresco parlare senza parole s’appoggia nella comunicativa popolare per un contenuto morale, la rappresentazione di un urto necessario tra due mondi, tra due concezioni, come ha scritto Gramsci. Si dice del teatro comico come di una reinvenzione cosciente della vita, presentata in forma immaginativa: in modo da suscitare interesse e partecipazione. Al punto di credere che, al suo meglio, riesca ad esprimere i nostri stessi sentimenti; per condurci in un mosaico di creature che come noi soffrono, gioiscono, lottano per evadere da se stesse. Si ride di ciò che costituisce il contenuto dell’argomentazione quanto degli schemi argomentativi. Si ride di ciò che si può o non si può dire. Si ride grazie alle astuzie della scelta, delle variazioni, dell’interpretazione patteggiata. Si ride grazie a smorfie appropriate non stolte. La maschera, i gesti, le espressioni argute, provocatorie e grottesche dei personaggi di Fo sono ancora oggi i lampi del presente. Walter Valeri con Dario Fo e Franca Rame Per tutta la vita, come l’autore delle Ceneri di Gramsci, Dario Fo ha odiato e fustigato gli indifferenti. Ha creato maschere comiche irresistibili, vive e messe in situazione come strutture gestuali. Un insegnamento prodigioso per una comicità civile, scrupolosa e sapiente. Oppure roboante e fracassona, se necessario. Perché no? In teatro, come in tutte le arti, la pigrizia non può essere di casa: il corpo, la mano che non risponde è già passata al suicidio. Le sue pantomime e i monologhi sono come scintille nella memoria di coloro che le hanno viste dal vivo. Quelli che ne hanno gioito, grazie ai video possono ancora gioire di capolavori ineguagliabili quali La nascita del giullare, La resurrezione di Lazzaro, Le nozze di Cana, La fame dello zanni poi confluiti in Mistero Buffo; sino a Francesco Giullare di Dio: un unicum dove l’esperienza ed esistenza creatrice dello spettatore e dell’attore coincidono. Questo grazie a migliaia di giullarate, situazioni comiche ispirate a fonti che spaziano dal teatro greco a quello medievale, da quello rinascimentale a quello moderno, nate sotto l’urgenza e il segno della dismisura. Una dismisura, portata avanti oggi da Mario Pirovano, o pazientemente distesa per parlare di noi e dei cortili sotto casa. Così è stato sin dagli esordi con Il dito nell’occhio, poi negli anni a seguire con la complicità geniale di Franca Rame, per denudare il potere politico, la logica pretestuosa dell’ovvietà, l’ipocrisia di chi si nutre della nostra quotidiana pigrizia. Maschere esorbitanti, pungenti e indomabili. Utili nell’additare delle contro-maschere ostili, filtrate dall’ipocrisia, dall’imperdonabile stanchezza o arroganza di essere al mondo, di volerlo così com’è.  Dario Fo è stato un giullare shakespeariano, Franca una giullaressa alla corte di un’umanità priva di cuore, bisogna dirlo. Un’umanità colpevole di decine di migliaia di femminicidi, carneficine insensate, morti bianche sul lavoro, produttrice di sprechi e di fame, insensibile alle necessità di centinaia di milioni di poveri. Un’umanità riottosa e ostile nei confronti di centinaia di migliaia di migranti, sepolti nell’acqua, diseredati persino del diritto al dolore. Walter Valeri *Walter Valeri ha pubblicato, tra l’altro, “Il Dario furioso. Franca Rame e Dario Fo. Teatro, politica e cultura nell’Italia del Novecento”, Il Ponte Vecchio, 2020 L'articolo Dario Fo: un giullare contro la logica dell’ovvietà proviene da Pangea.
September 3, 2025 / Pangea
Franca Rame, il “miglior fabbro”. Ritratto di una donna speciale
In vita ho avuto il privilegio di conoscere molte persone, al di qua e al di là dell’Oceano. Alcune nobili e straordinarie altre solo famose. Fra quelle nobili e straordinarie c’è senz’altro Franca Rame, con la quale ho avuto il privilegio di collaborare per oltre quindici anni a partire dal 1980. Nel corso del tempo ho avuto modo di vedere da vicino come le opere del premio Nobel Dario Fo siano state fortemente influenzate dalla sua sapienza attoriale. Oltre che dalla sua capacità organizzativa e coraggio politico.  Franca è stata per Dario il ‘miglior fabbro’. Non solo per i monologhi femminili ma per l’intero corpus della sua opera.  Era la prima a cui Dario leggeva i manoscritti, oppure la ‘fabula’ che, successivamente, sarebbe diventata il copione di scena: un testo provvisorio, non ancora pieno di cancellature e note a margine, che Franca aveva già vagliato e commentato, magari in cucina. Non a caso nell’edizione stampata delle commedie sta scritto ‘a cura di Franca Rame’. Non solo come riconoscimento editoriale, ma come traccia di un’intensa collaborazione e sinergia maturata nel corso di migliaia di recite realizzate in comune. Un’empatia esistenziale che, secondo Franca, implica un perenne “scambio della propria esperienza personale, della propria vita con quella degli altri. È sempre così se si crede in quello che si fa, specie in teatro.”   Per realizzare quell’artificio insito nel mestiere dell’attrice Franca utilizzava una vis comica ed intelligenza che si è sviluppata  progressivamente. A seconda dei fatti politici del giorno, all’ideologia dominante sottoposta a critica severa, oppure con l’innesto a margine della propria vita a partire dalla prima infanzia. Per esemplificare, senza volermi inoltrare in un’analisi approfondita dell’argomento, cito direttamente dal monologo Ritorno alla vita scritto durante la veglia per la morte della madre Emilia, pubblicato su Teatri e sulla rivista online “lamacchinasognante”. > “È ora che Franca incominci a recitare, ormai è grande”. Avevo 3 anni. È mia > madre che parla. Me la ricordo mentre mi insegnava la parte: “bocca a bocca”, > così si diceva a casa mia, mot-a mot, parola per parola. Aveva deciso (era > sempre lei che prendeva le decisioni importanti in famiglia) che avrei fatto > un angiolino di supporto all’angelo vero, che veniva interpretato da mia > sorella Pia in La passione del Signore atto V, Orto dei Getzemani. “Pentiti > Giuda traditore che per trenta monete d’argento hai venduto il tuo Signore! > Pentiti! Pentiti!” recitava Pia e io dovevo ripetere gridando subito dopo, la > stessa battuta: “Pentiti! Pentiti! Giuda traditore che per trenta monete > d’argento ha venduto il suo Signore!” Non era una gran parte, non ci devo aver > messo molto ad impararla. “Ripeti!” e ancora e ancora “ripeti” dicevala mamma > paziente mentre pelava le patate per il minestrone. “Ripeti!” Sono parole e pensieri che ci prendono per mano e indicano l’origine della sua esperienza attoriale. Tipica di una figlia d’arte, che negli anni a venire dedica l’intera esistenza al palcoscenico. Un’arte che nasce principalmente all’interno di una microsocietà aurorale e si sviluppa grazie al codice orale in virtù di un nucleo famigliare dove l’arte e la vita coincidono. Una grammatica di scena esistenziale ed immaginifica, eppure rigorosa, che riguarda ‘il farsi e disfarsi del linguaggio, come direbbe Roman Jakobson. Che ha a che fare con l’imprinting, l’unicità della lingua associata alle proprie emozioni, alla cognizione del dolore e della gioia. Così apprendiamo che all’inizio e alla fine di quella recita, l’angiolino Franca, ad appena tre anni, volente o nolente è stato gettato nella mischia, incitato con grandi cenni ad entrare in un carattere fondante la sua futura personalità di donna e attrice: > Non so se la paura d’essere sgridata o il “senso del dovere” che maledizione > da che sono nata è lì, a infastidirmi la coscienza, fatto si è che dopo un > attimo di silenzio, raddrizzandomi la coroncina di lampadine che nel trambusto > stava per cadermi, con voce chiara e mesta, quel tanto che serve dico > “S’impicca! Non s’è pentito… Giuda traditore che per trenta monete d’argento > ha venduto il suo Signore… Non s’è pentito!” e via che esco. Ce l’avevo fatta: > l’avevo detta tutta! Non so se mi abbiano detto qualcosa… so solo che da > allora in poi, “La passione del Signore” ha sempre avuto due angiolini, con il > più piccolo che abbraccia Giuda a mostrare la grandezza di Dio. E tutti giù a > piangere. Mia madre ha raccontato questa storia almeno mille volte, senza > riuscire a nascondere orgoglio e un pizzico di meraviglia.  Spesso nei suoi monologhi Franca ha trattato “con voce chiara e mesta” oppure comica e irata, il tema della madre con “quel tanto che serve”. Non a caso i titoli più famosi, scritti a quattro mani con Dario, sono Medea, Maria alla Croce, Mamma Togni, Michele lu lanzone, Il risveglio, Una madre, Lo stupro, Il diario di Eva, Lisistrata romana, etc. Sono testi in cui l’archetipo della madre trova una risonanza immediata, vitale e plausibile, sempre all’interno del processo di trasformazione del mondo femminile. Punto di transito, luogo ideale e reale, della presa di coscienza di una donna del XX secolo che ha fatto uso del palcoscenico per darsi voce e coraggio.  Franca Rame e Walter Valeri Un’altra dote di Franca, che non tutti conoscono, e di cui Dario ha abbondantemente beneficiato, era quella di saper orchestrare dall’interno la recita. Era come una sorta di regista al seguito. C’erano dei segnali precisi, magistrali e indiscutibili, con cui Franca interveniva all’insaputa del pubblico. Ad esempio: se Dario preso dalla foga si dilungava durante l’introduzione allo spettacolo, lei lo correggeva, lo avvertiva con dei piccoli colpi di tosse dalla quinta. Oppure, se un attore o un’attrice scendevano di tono perdendo il contatto con il pubblico, lei lo segnalava con un gesto discreto, con un colpo del piede sul palcoscenico; oppure servendosi  di un mezzo tono che, benché tagliente,  non valicava il boccascena. Franca recitava e ascoltava con distacco sé stessa e gli altri recitare. Come se fosse seduta fra il pubblico. Per una sorta di automatismo innato, senza farsene vanto, aveva del pubblico una percezione permanente ed esatta, quasi infallibile.  Durante le interviste o chiacchierate informali era solita schermirsi. Fare ironia nei confronti di quelli che indossavano una faccia da attori o da attrici. Ripeteva che quello del teatrante era un lavoro come un altro e andava svolto nel migliore dei modi, con estrema modestia, serietà e semplicità. Non c’era alcun medico che potesse prescrive ai pazienti l’obbligo di fare gli attori, di guadagnarsi la vita in scena. Anche se, personalmente, penso che il monologo autobiografico Lo stupro, abbia avuto per lei una funzione terapeutica. Più volte ha avuto modo di dichiarare “Ciò che appartiene alla sfera ‘personale’ appartiene anche a quella ‘politica’, e viceversa”. Ed è questa radicale compenetrazione fra il ‘personale’ e il ‘politico’ il nodo centrale del suo teatro.   Era una persona a modo suo religiosa; un po’ marxista e un po’ francescana ‘sine glossa’ come suol dirsi; a volte dolcissima e a volte inflessibile, benché pronta a chiedere scusa nell’evidenza dell’errore. Il pubblico che la seguiva lo intendeva bene, mentre numeroso l’ascoltava recitare o in camerino. Tutti sapevano che i monologhi femminili di Tutta casa letto e chiesa erano un punto di riferimento preciso. Un’autentica opposizione ad ogni sopruso, ad ogni atto politico oppressivo nei confronti delle donne. Anche grazie a lei sappiamo che esiste un discrimine ‘inoffuscabile’ tra la verità e la sua negazione. Non parlo della menzogna che rende insensibili a tutto, perché tutto è già stato venduto e comprato (compreso gli occhi delle vittime innocenti) ma di quella descritta da Dostoevskij o Manzoni, che morde dentro. Con un sorriso malizioso ripeteva spesso “Dio esiste, ed è comunista”. Anche per questo la verità chiede dei sacrifici.  Una volta ho scritto: la verità in teatro, come per la religione, migra indistruttibile. La luminosa interezza di Franca Rame è simile alle ali di una farfalla che punge. Lo penso ancora. Fra i molti esempi di coerenza e dignità politica, senza precedenti nella storia della nostra Repubblica, c’è quello delle sue dimissioni dal Senato della Repubblica. Lo ha fatto in modo trasparente. Senza grida o strepiti. Con una lettera pubblica irrevocabile ed esemplare che andrebbe letta e commentata ancora oggi nelle scuole del nostro paese. Cuori e menti ad educare, come ha scritto parlando d’altro Franco Fortini, “la credibilità pretende autenticità. Nel nostro spazio di vita che è dell’inautentico, ogni atto di fede, foss’anche il più superstizioso, rammenta l’esigenza dell’autenticità.”  Forse anche per questo la stampa e i media, che sono soliti glorificare il nulla l’hanno dimenticata. I capo redattori preferiscono mandare in macchina vecchie baggianate tipo: Franca Rame insultava il Papa Benedetto XVI, semplicemente perché, con tutto il rispetto dovuto, Franca ebbe modo di ricordare al mondo che da un punto di vista strettamente fisiologico (e quindi psicologico) il Papa non aveva l’utero. Quindi anche sua santità, avrebbe dovuto mettersi in ascolto, più che dettare regole e imperativi intollerabili per il modo delle donne. Ora è il tempo delle fakenews, delle tempeste mediatiche procurate ad arte, di un pensiero che vorrebbe disintegrare l’intimo valore di ogni testimonianza e speranza di liberazione come non fosse mai esistita. Eppure, la testimonianza di Franca è stata quella di una donna veramente speciale.  Walter Valeri Abano Terme 7/8/2025 *Dario Fo e Franca Rame leggono le lettere, Milano, 4 dicembre 1962 (Olycom) L'articolo Franca Rame, il “miglior fabbro”. Ritratto di una donna speciale proviene da Pangea.
August 8, 2025 / Pangea
Elogio funebre per Stefano, un peccatore. Tuo, Walter Valeri
È morto Stefano Simoncelli. Lo so. Me lo hanno detto dei giornalisti stamattina, chiedendo di commentarla, ma la morte non sopporta commenti… e, per quanto mi riguarda, con dolore, posso solo dire che non ci sopportavamo da anni. Ci siamo evitati, maltrattati, cancellati per necessità reciproche, oppure orgogliosa indifferenza.  Era un bugiardo. Sin dove ha potuto ha mentito, tradito, contraffatto la verità, soprattutto in amore. Ha invidiato ed emulato, sino all’esaurimento nervoso, l’aura poetica di Ferruccio che, a sua volta, non lo sopportava più. Ferruccio, come un riccio solitario, preferiva autodistruggersi pieno d’aculei, squarci d’azzurro ultramarino, artifici alcolici, versi intessuti di metriche sospese e impossibili, tra l’inguaribile e l’immaginario. La vita di Stefano era quella tipica, riccioluta, di maniera, di chi indossa appena possibile, la faccia da poeta bene in vista, appartato, elegante, maglietta ben stirata, con coccodrillo e microfono in mano. In cambio di recensioni offriva soggiorni con vista sul canale. Oppure le comprava molto semplicemente, in cambio di qualche spiccio, cenetta in collina, arrangiata grazie all’eredità accumulata per vie seduttive. Era un ipocrita straordinario, anche quando mi chiamava ‘fratello’. Era affetto da ‘ipocrisia sincera’, oserei dire necessaria, infelicemente gioiosa, come lo sono tutti gli ossimori.  Certo, ora che mi manca veramente, meriterebbe meno stupidaggini, meno ignoranza, arroganza ben stipendiata, di quella che alberga in Casa Moretti; e, al fine, un po’ più di silenzio. Non era affatto laureato, scarso in grammatica, per niente anarchico, in pochi lo sanno. Né era quel grande poeta o tennista che avrebbe voluto. Era, questo sì, un uomo corrotto e indecente. Anche per questo, piangendo di cuore, stanotte gli auguro la prima notte di quiete, come a tutti i peccatori, che davvero lo meritano. Walter Valeri Abano Terme, 20/05/2025 *Walter Valeri, tra l’altro, ha fondato insieme a Stefano Simoncelli, Alessandro Casagrande e Ferruccio Benzoni, nel 1973, la rivista “Sul Porto”. In copertina: Stefano Simoncelli e Walter Valeri in un ritratto fotografico di Daniele Ferroni L'articolo Elogio funebre per Stefano, un peccatore. Tuo, Walter Valeri proviene da Pangea.
May 22, 2025 / Pangea