Secondo la celebre battuta di Orson Welles, gli svizzeri, instupiditi da “amore
fraterno, democrazia e pace”, non hanno prodotto altro che “l’orologio a cucù” –
e, al limite, il cioccolato. Al contrario, l’Italia, rotta da “omicidio e
strage”, ha creato “Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento”. Se il
film in cui Welles interpreta l’enigmatico Harry Lime, Il terzo uomo (1949),
merita ancora di essere visto, la sentenza va del tutto rivista. Terra –
probabilmente – di sanguinari dell’interiorità, la Svizzera ha dato i natali a
scrittori d’eccezione come Robert Walser e Friedrich Dürrenmatt; sono svizzeri
poeti di talento come Maurice Chappaz – per altro, dotatissimo prosatore –
e Philippe Jaccottet; da tempo, l’italosvizzero Piero Scanziani è stato
rivalutato come uno dei più audaci scrittori degli ultimi decenni: lo dimostra
la pubblicazione, in pompa, dei suoi libri per Utopia. Non è un caso che Borges
e Nabokov siano morti in Svizzera: il primo a Ginevra, dove ha vissuto gli anni
dell’adolescenza, l’altro a Montreaux, suo estremo, aristocratico rifugio. Non è
un caso che l’ungherese Ágota Kristóf abbia scelto il francese di Neuchâtel per
forgiare la propria folgorante opera.
Di questo vasto consesso, fa parte – pur con acerrima eccentricità – Hermann
Burger. Nato a Menziken, nel Canton Argovia, di lingua tedesca, nel luglio del
1942, Burger è stato paragonato – per il nero nitore di cui sono intrisi i suoi
libri – a Thomas Bernhard; i suoi libri – in Italia sono usciti: Servo
d’orchestra, per Marcos y Marcos, nel 1996, poi, per L’Orma, L’illettore nel
2017 e Il mago e la morte qualche mese fa – piacciono a tutti, a Peter
Sloterdijk e a Marcel Reich-Ranicki, tra gli altri. Giornalista, insegnante di
letteratura tedesca, Burger si è laureato sull’opera di Paul Celan e ha vinto
diversi premi, tra cui l’Ingeborg Bachmann Preis; ha rielaborato nei suoi lavori
testi e intuizioni di Dostoevskij, Kafka e Thomas Mann; suonava il jazz.
Il libro più folle di Hermann Burger s’intitola Tractatus logico-suicidalis (ora
tradotto da Anna Ruchat, che ha in custodia l’opera intera di Burger, per
Portatori d’Acqua): l’autore, un genio nel trasformismo letterario, inventa
dottrine macabre (la “suicidologia” e la “totologia, la filosofia della totale
predominanza della morte sulla vita”, ad esempio), ci rimpinza di aforismi
spesso di afrodisiaca potenza (come questo: “Per tutta la vita Robert Walser si
è così ‘abbattuto’, come si usa dire continuamente per annientato, che alla fine
era troppo piccolo persino per annientare sé stesso”). L’effetto, in sostanza, è
quello di un horror picture showpittato da Roland Topor, di una carnevalesca
visita al museo delle torture: al terrore segue il sorriso, molato da alta
malizia. Burger chiama a raccolta tutti i fedelissimi della ‘via negativa’ – da
Kafka a Trakl, da Cioran a Celan – ma su tutto aleggia un clima da ironia con la
cerbottana. Eppure, al cinico fa specchio il disperato, alla sprezzatura il
disprezzo di sé, alla torre d’avorio il cappio al collo.
I frammenti più belli sono dedicati a Harry Houdini, “il più grande
parasuicidario di tutti i tempi, l’uomo delle mille vite, il re delle manette…
il freak dello svincolamento”. In un aforisma, Burger immagina che se Kafka
avesse incontrato Houdini “molti dei suoi racconti sarebbero usciti in modo
diverso”. Ci sarebbe da scriverne un racconto. Houdini è la formula che
dissigilla i libri concentrazionari di Kafka; d’altronde, Houdini era “l’uomo
dalle estremità di serpente”, Kafka aveva il volto di un’angelica cornacchia:
una lotta da fine dei tempi li accomuna.
Hermann Burger sapeva che lo scrittore è un illusionista e che l’illusione
sfiora l’illuminazione quando l’illusionista rischia la vita per autenticare la
propria opera. Il Tractatus logico-suicidalis uscì nel 1988; con ferrea logica
suicidale Burger si uccise poco dopo, nel febbraio del 1989, presso il mastio di
Brunneg, con i farmaci. L’ultimo frammento del Tractatus, il numero 1046, recita
“Finis”; il 1044 “Muoio dunque sono”. A mia memoria, soltanto un altro
scrittore, Ryunosuke Akutagawa, fu altrettanto definitivo. Si uccise a Tokyo,
nel luglio del 1927, ingerendo una dose letale di Veronal, pochi giorni dopo
aver terminato l’ultimo racconto,Memorandum per un vecchio amico. “Nessun
aspirante suicida ha prima d’ora descritto fedelmente le proprie condizioni
psichiche”, attacca, con compassata violenza. Dopo aver catalogato diversi
metodi per uccidersi, Akutagawa scocca frasi come queste: “La natura mi appare
così splendida perché sono gli estremi sguardi che le rivolgo”. Il Memorandum di
Akutagawa, privo di ironia e di cupezza, sembra, per paradosso, un inno alla
vita.
Uno dei romanzi italiani più belli degli ultimi anni – forse per questo mai
apparso nelle cronache dei premi e sulle labbra dei cronisti culturali, avvezzi
al culto del noto –, Tutte le voci di questo aldilà, edito da Guaraldi nel
2015, scritto da Andrea Temporelli, comincia con un greve elenco di poeti morti
suicidi o finiti in follia, da Amelia Rosselli a Carlo Michelstaedter, da Cesare
Pavese ad Antonia Pozzi, da Sylvia Plath ad Antonin Artaud, “il suicidato dalla
società”. A che pro dunque “tante persone ancora oggi si dannano l’anima pur di
diventare poeti famosi, cioè squinternati-morti-di-fame”? La domanda tiene conto
del mistero dei misteri: chi scrive tenta, sempre, il verbo (Verbum/Logos) in
grado di vincere la morte – fino a morirne.
L’ultima sezione dell’ultimo libro (I bracciali dello scudo, Crocetti, 2025) del
più importante poeta italiano vivente, Alessandro Ceni, s’intitola Felo de se,
che significa: essere felloni a se stessi, cioè uccidersi. Il suicida, come si
sa, non godeva di degna sepoltura, né di aura di sacramento. Resta apolide tra i
morti, maldestro all’altro mondo.
Ogni scrittore degno di lettura ha per tema la morte e l’uscita da se stessi –
alcuni, come Burger, ne sono sopraffatti: per illuminare il lettore, si fanno
incendio.
*In copertina: Harry Houdini (1874-1926), occulto protagonista del libro di
Hermann Burger
L'articolo Farsi incendio, ovvero: scrivere è un confronto incessante con la
morte proviene da Pangea.